La terra promessa di Leif Enger

di Andrea Galgano             2 aprile 2014

letteratura americana La terra promessa di Leif Enger

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La narrativa di Leif Enger (1961), autore nativo del Minnesota (Osakis), dove vive con la moglie e due figli, è una filiazione di approdi, un’avventura che sollecita sponde come epica salvata.

Il suo primo libro La pace come un fiume (2001) è un dramma di respiro che ama le nascite e le tregue, la speranza di un tempo imprevisto di attesa che ama i confini per superarli, l’origine per vivere.

Il romanzo, ambientato agli inizi degli anni Sessanta, condensa il suo presente vivo e memoriale di nostalgie morbide, la cui stoffa sibila suono e fiato di occhi bambini: «Sin dal mio primo respiro in questo mondo tutto ciò che ho sempre voluto sono un paio di polmoni e l’aria per riempirli […]. Pensate al vostro primo respiro: un vento sconvolgente che con estrema facilità vi si infila giù per i polmoni, mentre voi siete ancora lì che vi rigirate nelle mani del medico. Che urlo avete fatto!».

Il respiro, che deve lottare per liberarsi dai suoi precipizi e aprirsi alle feritoie del vento insperato e sconvolgente, ha nel protagonista, l’undicenne Reuben Land, figlio di Helen e Jeremiah, la destinazione del sangue-fiato, che sin dalla nascita sembra non avere avvii, scaraventata nel mondo senza possibilità.

Se non fosse per suo padre, Jeremiah, che con il soffio indomito della sua preghiera nel vento, invoca inizi: «Reuben Land, in nome del Dio vivente ti sto dicendo di respirare».

Commenta padre Antonio Spadaro: «Non si fa fatica, leggendo le prime tre pagine del romanzo, a cogliere che il primo respiro in questo mondo (first breath in this world) è rinvio a quel «soffio» che aleggia sulle acque della terra informe e deserta di cui si parla nel libro della Genesi (1,1). Il respiro è passaggio dal caos dell’asfissia mortale all’ordine del mondo creato come buono, bello, vitale. Il passaggio qui è garantito da un «miracolo» compiuto dal padre del bambino».

Salvato sul bordo del precipizio, Reuben raccoglie il suo miracolo. Inizia ora l’avventura della famiglia Land, nei termini del mondo: «I miracoli veri danno fastidio alla gente, come quegli strani improvvisi malesseri sconosciuti alla letteratura medica. È vero: confutano ogni legge da cui noi bravi cittadini traiamo conforto. […] Io credo di essere stato salvato da quei dodici minuti senz’aria per diventare un testimone e, in quanto testimone, fatemi dire che un miracolo non è una cosa carina, è piuttosto un colpo di spada».

Ecco lo strappo al nulla in una provincia indenne, che non si allontana mai dal limite dei segni e delle ferite, come Jeremiah abbandonato dalla moglie, i figli Swede e Davy, il tentato stupro di Dolly, la giovane fidanzata di Davy, da parte di due ragazzi, Israel Finch e Tommy Basca, che minacciano vendetta. I due rapiranno la piccola Swede e copriranno di catrame la casa dei Land. Davy li sorprenderà in casa propria e, con feroce determinazione, porrà fine alla loro esistenza.

L’armonia che lotta con il caos, genuflessa ai limiti, apre il corso di esistenze nuove e fuggiasche. Davy viene processato e gli viene imputata la premeditazione, allora inizia il suo tripudio di esilio e ricerca: «Quando fu che Davy Land si rese conto che l’esilio è un paese dai confini mutevoli, difficile da abbandonare ma altrettanto da sopportare, non importa quanto siano larghe le tue spalle, o quanto indurito il tuo cuore?».

Lo spazio aperto delle terre del North Dakota è la frontiera delle badlands, il selvaggio confine dell’ombra e dell’assedio. La sua famiglia si mette alla sua ricerca, a bordo della Plymouth, per cercare di trovarlo prima della polizia. In una inesausta battuta d’aria e di inverni, l’irraggiungibilità esiliata di Davy non ha riparo, mentre la ricerca di Jeremiah non proclama inerzie, ma si compone di fede e preghiera, come la sua Bibbia sfuriata e sfogliata.

Scrive Antonio Spadaro: «Il tema classico della vita on the road – che qui viene rielaborato efficacemente con gli elementi del romanzo poliziesco e della saga familiare – dà vita a un’epica della vita ordinaria illuminata dalla fede, dalla speranza e dall’affetto profondo, al di là di ogni vano sentimentalismo. L’elemento «maledetto» e selvaggio delle storie on the road viene trasfigurato nello stupore del «miracolo» e della speranza contro ogni apparenza», proprio come dice Reuben, narratore di questo viaggio: «Tutto questo, lo capite, traeva ispirazione solo dalla pura fede. […] La fede ci aveva condotto a questo. La fede, secondo papà, ci aveva mandato la roulotte Airstream, e la fede avrebbe guidato il nostro viaggio».

Ma la paolina sostanza delle cose sperate e l’anticipazione delle cose che non si vedono non è una sospesa chiarità, bensì una robusta visione che permette di «vedere le cose, di toccarle, di attenderle» (Antonio Spadaro). Ed ecco che il viaggio inscena la trama vivente del sacrificio, della speranza, della salvezza promessa come una terra, gettata nel dolore e nella domanda, bisognosa e mendicante. È, in sostanza, un esodo di luce.

Il respiro di Reuben, che figura ritmi e viaggi, poggia la sua forza sulla pagina, raccoglie paesaggi e soste di incontri indicibili e viventi, come Roxanna Cowley che indica gli occhi e una meraviglia carnale. Reuben vedrà Davy che vive con il losco Jape Walzer e Sara, la sua donna schiava, ma questi gli impone di non far parola con nessuno. Un peso segreto tremendo che egli porterà con sé. Jeremiah e Roxanna sviluppano il loro cuore e Reuben vedrà «le loro mani toccarsi, non una stretta appassionata, ma uno scambio semplice ed eterno, antico come la Sacra Scrittura».

Le fughe di Davy portano mani fuggiasche e conclusioni estreme: porta con sé Sara nel suo paese d’origine e viene raggiunto da Jape che spara ferendo Jeremiah e colpendo mortalmente Reuben, ma «misteriosamente e miracolosamente avviene una sorta di scambio in un capitolo ambientato in una zona, un aldilà, tra la vita e la morte, dove Reuben gusta la beatitudine. Il ragazzo rinviene e Jeremiah muore, lasciando però al figlio, miracolosamente guarito dall’asma, un messaggio di fiducia e salvezza. Davy riprenderà la fuga. Swede diventerà scrittrice. Reuben sposerà Sara» (Antonio Spadaro).

In un’intervista rilasciata a T.Wiss, in Inside Borders dell’ottobre del 2001, il riconoscimento della sostanza del reale sostanzia la pagina e Leif Enger sostiene che: «Non so come sia possibile scrivere un libro senza che la tua fede appaia. […] La tua fede ha sempre a che fare, io penso, col modo in cui tu vedi il mondo, e dato che il mio modo di vedere le cose è quello cristiano, questo è il modo in cui il mio libro va letto. Detto questo però, il mio libro non è un tentativo di fare evangelizzazione. È realmente la storia di un ragazzo alle prese con la fede che gli è cresciuta dentro e che si gioca in termini di lealtà e sacrificio […]».

Ad Andrea Monda su “L’Osservatore Romano” del 15-16 giugno 2009, risponde che: «Una persona può discutere sul fatto che l’atto dello scrivere sia esso stesso un atto di fede – perché ognuno crede in qualcosa, si affida a un qualche vangelo, quello di Dio o il proprio – e la scrittura è un’espressione di quella fede, ma in fondo alla strada giace la teologia, che è un territorio che mi confonde. Per dirla più onestamente possibile, io scrivo perché amo il linguaggio e le storie e voglio vedere come le cose si sviluppano. Il mio primo obiettivo quando lavoro a un romanzo è scoprire cosa succederà e far girare la storia in un modo tale che il lettore possa salire a bordo, godersi il viaggio, e lasciarlo soddisfatto. Per quanto riguarda il fatto di eternare la bellezza, sicuramente un libro è un modo per provarci, ma ce ne sono migliaia altrettanto buoni o migliori, come allevare figli, costruire navi, riparare tetti, coltivare giardini. Io sto provando a fare qualsiasi lavoro che mi è a portata di mano, e lascio decidere a Dio cosa mantenere e cosa buttare via».

In Così giovane, bello e coraggioso siamo nel Minnesota del 1915. Lo scrittore Monte Becket che aveva scritto un romanzo nel Far West è in crisi creativa, e allora decide di risalire il fiume salendo su una barca a remi, guidata da Glendon Hale, un rapinatore di treni, fuggiasco e  ricercato dalla polizia e dal detective Charles Siringo, verso la California, dove questi deve arrivare prima di morire per chiedere perdono alla sua moglie da lui abbandonata. Tra i due nasce un’amicizia profonda che cambierà e renderà autentico il cuore inquieto di Monte, vero alter-ego dell’autore.

Paolo Pegoraro, in un articolo su «Famiglia Cristiana» del 2009 afferma: «Eppure, dietro l’apparenza del racconto volutamente spensierato e melodrammatico, Enger dice qualcosa di più. I suoi personaggi dovranno rinunciare a ciò che più vogliono per poterlo ritrovare, sia esso la libertà o il desiderio di scrivere. E viene da chiedersi se, dietro la storia di Monte Becket, non ci sia un risvolto autobiografico: anche Enger infatti è del Minnesota, sposato, autore di un solo bestseller uscito ben sette anni prima di questo nuovo romanzo. Avrà affrontato anche lui una crisi creativa? e come ne sarà uscito? Forse proprio come il suo personaggio, abbandonandosi senza troppe preoccupazioni alla prorompente e romantica avventura della vita. E in fondo non è questo che c’insegnano, i romanzi d’appendice? G.K. Chesterton li definiva «letteratura a sensazione», «un vangelo più schietto e valido di tutti gli iridescenti paradossi etici… semplice come il tuono del cielo ed il sangue degli uomini».

La frontiera, la terra, il destino, l’epica rappresentano la vita come tensione inesausta verso la pienezza, amore implorato e incendiato, vivezza di carne e radicalità, nulla è come prima, perchè «è strano, quando raggiungi la tua meta: pensavi di arrivare lì, fare quello che ti proponevi e andare via soddisfatto. Invece, quando ci sei, ti accorgi che c’è ancora altra strada da fare» e in cui il fiume rappresenta sempre «un luogo che ha a che fare con la trascendenza. Metti una canoa nell’acqua che fluisce e sei subito spinto rapidamente dalla corrente con nessun impegno da parte tua; diventi così una creatura differente, una creatura del fiume, capace di odorare strane cose, vedere creature viventi al di sotto del livello dell’acqua, sentire il gracidio di invisibili uccelli acquatici. Anche il tempo cambia sul fiume. Non c’è altra esperienza che così rapidamente rimuove la pressione dalle tue spalle, la vita sul fiume si percepisce come un dono forse più che in altre situazioni. Mark Twain ha scritto che “la vita è potentemente libera, tranquilla e comoda su una zattera” e aveva ragione».

 

Enger L., La pace come un fiume, Fazi, Roma 2009.

Id., Così giovane, bello coraggioso, Fazi, Roma 2009.    

Spadaro A., «La pace come un fiume». Un romanzo sulla famiglia, la fede e i miracoli, in «La Civiltà Cattolica», IV, 2002.

Wiss T., «A miracle of a novel», in «Inside Borders», october 2001.

Il posto di Jorie Graham

di Andrea Galgano             27 marzo 2014

recensioni Il posto di Jorie Graham

sul sito della poetessa nella Bibliografia ufficiale  http://www.joriegraham.com/bibliography

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Si chiama Il posto (Mondadori 2014), la nuova raccolta di Jorie Graham (1950), una delle più alte voci della poesia americana. Dopo la scelta antologica, edita qualche anno fa da Sossella, L’angelo custode della piccola utopia, ci giunge questo testo di scheggia e potenza, acutamente tradotto da Antonella Francini.

Premio Pulitzer nel 1996, dal 1997 al 2003 Chancellor of the Academy of American Poets e premio Nonino 2013, per aver «intarsiato i suoi versi sul mito, sulle dicotomie e polarità dell’esistere, scandagliando e sperimentando profondamente tutte le sensazioni della poesia […] dove la parola ritrova la sua eticità e spiritualità tendendo all’infinito», Jorie Graham è nata a New York nel 1950, ha vissuto fino ai diciotto anni a Roma (e il suo iter sembra attestarsi su Pavese. Montale e prima Petrarca) e ha studiato sociologia a Parigi, prima di terminare la sua formazione negli Stati Uniti, dove oggi insegna, ad Harvard, retorica e oratoria.

L’eidetica di Jorie Graham, quasi di neoavanguardia, «[…] ci fa entrare nella forza magmatica della poesia, la sua capacità di testimoniare l’umanità, di risvegliare la mente attraverso i sensi, le presenze vitali del mondo, una «fiumana di sangue» che procede attraverso un deserto. In una fusione coinvolgente di musicalità poematica e densità narrativa» (Bianca Garavelli, da “Avvenire”, 17 marzo 2014).

Ed ecco che i sintagmi intessuti nella pagina acquistano una scaturigine di terra e ferita, il conflitto (persino quello sociale) e la gioia, il crampo del cuore, il tocco, il registro e la trascrizione dell’atto del reale.

È l’inatteso, il blocco superno della realtà che reclama il suo posto, lo spazio di scoperta del mistero che incide l’inconoscibile, che si appropria dell’amore, del tempo presente dilatato e dell’immaginazione: «E vento accolto dal velo d’acqua. / Guarda: l’accoglienza ha una forma […] Ogni cosa nel sole / improvvisa a ritroso, / buttando giù frasi veloci e nervose […] ogni cosa nel sole che tenta d’incarnarsi attraverso qualcos’altro […] Certo il futuro / un tempo non era affatto là […] Parla della lunga catena a ritroso / all’inizio del “mondo” (come lo chiama) e poi, infine, al grande non / inizio. Sento il no iniziare. / Il seguito ronza leggero intorno a me, / cancella le mie impronte», […] Canta dice l’acqua che ripiomba su acqua più ferma – che scorre dove l’altra si rompe. Cantami / qualcosa (il suono del rompersi basso dell’onda) / (gli accordi dove laggiù deposita materia di vita / sulla rampa di spiaggia) (anche la molteplicità / di profondità e rivestimenti dove sorge la chiarezza come una moltitudine) / (mentre l’onda s’abbatte sul suo frangente) / (per squarciarsi all’unisono) (sul suo rifrangersi) – / canta qualcosa, e cantando dissenti».

La poesia di Jorie Graham  chiede un atto ineffabile, evita di dissotterrare la nostra messa in gioco, invita a rischiare la parola per recuperarla nei fondi, non concedendo distrazioni.

E la parola, scomposta, segmentata e frammentata richiede il suo posto, per inebriarsi di mistero, stare dietro la luce del giorno che «sussulta / dietro di noi / ed è un tesoro immenso per esempio oggi / un uomo a cavallo galoppava / leggero su Omaha / sopra la mia spalla sinistra / giungendo veloce ma / leggero e inaudito finchè non mi sono voltata / senza un motivo / come se ciò ch’è dietro di noi / avesse sussurrato / cosa posso fare per te oggi e io mi fossi appena / voltata a / rispondere e la risposta alla mia / risposta scaturisse dalla battigia nell’ultimo sole in cui lui /loro stavano entrando».  

Il respiro precede così l’incedere del verso e il battito, incalzante e vivido, implora la sua esplorazione, quasi che l’istante proclamasse la sua densità e l’immagine si imporporasse di suoni.

Claudio Magris, in un articolo sul “Corriere della Sera” del 20 gennaio 2013, dal titolo La poesia ricuce il mondo, scrive:

«La sua lirica cattura una totalità mossa, spezzata, mutevole, imprevedibile, multipla e simultanea, che il suo verso epicamente lungo e digressivo o concentrato ed essenziale come quello di un haiku coglie con bruciante verità. La sua totalità comprende l’individuo – i suoi sentimenti, passioni, smarrimenti – ma anche la specie e l’incertezza radicale del suo, del nostro futuro. La sua opera esprime una radicale verità della nostra condizione, la vigilia di un ignoto e sconvolgente cambiamento: la possibile – concretamente possibile – assenza di futuro, la morte della nostra specie o una trasformazione tale da renderla non più umana, da aprire l’era del non-umano. […] Il tempo geologico è tanto più grande di quello storico, ma forse il tempo non c’è, non esiste, perchè nel ticchettio dell’orologio non c’è niente, solo un secondo in cui non può esistere nulla e lo spazio fra un secondo e l’altro in cui egualmente non può accadere nulla, eppure la poesia va alla ricerca di questo tempo e di ciò che esso (forse) contiene; ascolta gli uomini, ma anche la foglia, lo scirocco, il cristallo come le vicende d’amore, gli eventi storici e quelli mai es empre esistiti del mito, «il bagliore che assomiglia allo svanire», perchè ogni Io ha dentro di sè il suo «animale morente». La sua Euridice, come quella che ho cercato di rappresentare anch’io, desidera sparire in quello sguardo di Orfeo che si volta».

Il posto, pertanto, è l’osservazione avventurosa del mondo, il gemito del creato, che, anche quando sembra superfluo, si intride di rivelazione, come scrive in Cagnes sur mer 1950: «Sono l’unica a ricordare / la voce di mie madre nell’ombra particolare / dell’arco romano ricolmo di cielo / che oscura le pietre sulla strada in discesa / da dove lei ora risale all’improvviso. / Come l’arco, la voce e l’ombra / violentemente afferrano il piccolo triangolo / della mia anima, un film muto dove note di piano / diventano un corpo impazzito / per le immagini squillanti dello spirito – patria abbandonata – miracolo da cui / si riemerge vivi. Così qui, io di nuovo / rileggo il libro del tempo,

il mio unico tempo, come se ci fosse un fatale errore la cui / natura non so rintracciare – o la forma –  o l’origine – / prendo la creatura e la riporto / sul posto dove io sono un minuscolo serbatoio di sangue, cinque chili d’ossa / e tendini e altre cose – già condannata a quest’unica anima – che dicono pesi meno d’una piuma, o tanto / quanto un centinaio di grammi quando cresce – come in un viaggio ripercorro / quelle arterie, il prezioso liquido, il campo di metodi, agonie, / stupori – che io non sprechi gli stupori – / che non uccida per errore fratello, sorella – mi siederò con audacia una volta ancora sul mio inizio […]».

L’espansione dell’opera di Jorie Graham si nutre di una vocalità cosmica e di uno spazio di macerie insalubri, di spaesamenti di mente e mondo, e costringe a non cambiare itinerario di affinamento, per osservare, intingere gli occhi nel tempo per «restituire alla mente, in modo nuovo per ogni generazione, la sua parola e le parole al loro mondo tramite un uso preciso. Ogni generazione di poeti ha questo dovere, e ogni volta deve svolgerlo ripartendo sostanzialmente da zero», per «riportare la parola umana nella cosa immortale; assicurare che il rapporto, anche se per un istante soltanto,  sia vitale e autentico Far sì che le parole siano canali fra mente e mondo. Renderle di nuovo pregnanti».

È la sua personale ricostruzione della parola segmentata nel mondo, il gesto sopravvivente nella strada al margine del campo, «per vedere / nella spumeggiante fine del giorno / il posto dove tutto davvero / risiede, desiderato o sopra- / valutato / dalla mente umana, che può / se lo vuole / portarlo alla luce / con l’immaginazione – non c’è invenzione – oppure c’è – finchè / esiste, la mente può / farlo – […] il mondo ha aperto la sua veste / e tu / eri libera di guardare / senza nessuna / frenesia, nessuna canzone, semplicemente così, polmoni sospesi, le / cesoie sospese / lì nella mano, / la siepe selvatica accanto a te, / e tu puoi – sì – sentirla scorrere / per le sue migliaia / di steli – e più vicino ora / anche lo stelo / esile e solo».

L’osmosi di corpo e mente, la sopravvivenza della parola alla storia e nella storia, l’immaginazione, che non tralascia nemmeno il fare politico, invita alla redenzione e la poesia diviene «un atto di profonda responsabilità spirituale … Io utilizzo la poesia per essere obbligata a rimanere nella storia». come disse a Firenze il 20 dicembre 2006 nel laboratorio della rivista “Semicerchio”, l’azzardo e lo scandaglio abissale delle sue pagine diventano espressione di concrezione di passato e  ferita, di persone e luoghi, in un fertile connubio di comunione.

Recuperare la parola alla sua sopravvivenza, come solcare le retine di una presenza di senso che essa contiene, senza la scheggia di vaniloqui possibili e di ovvietà spezzate, per cercare, infine, il disegno delle danze, la visione delle colline lontane, il trampolo dei sogni.

La scena diviene, pertanto, una gemma di macerie recuperate, di splendente vacuità sulle foschie e laddove la resistenza, la geniale trasposizione umana sono «ancora il segreto del terreno / arato di nostra creazione / respiro dopo respiro».

Scrive Antonella Francini: «Nell’intervista rilasciata a “The Paris Review”, Graham ricorda che Roma ha rappresentato per lei il tempo storico, uno spazio dominato da un «imponente senso della storia», dove la «percezione della dimensione temporale, della vita e delle azioni del passato»  la facevano sentire come un fantasma, «un’anima in pili nell’enorme massa di detriti umani». Al lato opposto della sua esperienza Graham mette il tempo “geologico” del Wyoming, le vaste distese di spazio dove si sentiva ugualmente un fantasma, dove «questioni di giustizia, cause ed effetti della storia svaniscono», dove la coscienza individuale non ha accesso e «qualsiasi assunto sull’importanza degli esseri umani su questo pianeta» deve necessariamente essere corretto. […] Il periodo intermedio della Francia e dell’esperienza politica ha rappresentato invece l’apertura alla realtà, ad «altre forme del presente definite pili dalle idee che dalle sensazioni, dall’immaginazione, dal mito, dalla storia». Queste tre dimensioni possono essere associate ai tre grandi blocchi tematici della poesia di Jorie Graham: il tempo geologico dell’Ovest americano fa da sfondo alla meditazione metafisica, quello romano al tema della storia (personale, collettiva e culturale) e quello francese alle questioni socio-politiche».

È nella dinamica dell’altro e dell’altrove, dalla esperienza e dall’avvenimento della poesia, che può essere rintracciabile la sua origine e l’affettività della sua conoscenza che implorano «la morbida deviazione mutata in bellezza».

Ancora una volta, la parola, come annota Antonella Francini è «scardinata da ogni vincolo sintattico, ma tuttavia risalta e risuona dalla posizione di isolamento in cui Graham la pone avvertendo il lettore postmoderno che, anche se erosa dagli attacchi teorici e dalla retorica, può sempre creare significato. Le parole, così messe sotto il riflettore, impongono ed esigono una ri-definizione, creano una vibrante tensione fra occhio e immagine grafica, rispuntano ossessivamente in una sorta di gioco del gatto e del topo con un poeta determinato a costruire una nuova colonia per il suo “sciame”, a sondare per loro tramite i misteri della vita umana. In quest’appassionata ricerca della minima essenza di lingua e materia, parola e silenzio devono in qualche modo coincidere […]».

La sua poesia proclama il risveglio di una conquista, non solo di forma o di distesa emersa, ma un posto umano che si impenna, si concede, offre il suo fianco vitale, per «Essere una persona / umana e poi donna. / Essere una che ha avuto / abbastanza. / Abbastanza sottosuolo. / Abbastanza giardino / col suo muro alto anche se non alto abbastanza con tutti / gli spioncini a meno che non fossero / soltanto cretti accidentali / da cui vedere / il mondo».

Poi il mondo, che corre famelico, che nasconde le mani. Resta in ascolto l’anima socchiusa, la nota lunga del tempo, come una creatura che abita le soglie e il dolore esaminato, la maestria delle forme umane. Dove un grido o forse, meglio, un canto tralasciano il loro sangue per darsi avvio e pronunciare tutto il loro magma di spaesate gemme.

 

3Dnn+9_2B_pic_9788804635796-il-posto_originalJORIE GRAHAM, Il posto

Mondadori, pp.240, euro 18    

 

  

Graham J., Il posto, Mondadori, Milano 2014.

Id., L’angelo custode della piccola utopia. Poesie scelte (1983-2005), Luca Sossella Editore, Milano 2008.

(a cura di) Graham J.- Lehman D., The Best American poetry 1990, Collier Books, New York 1990.  

Il condomino stalker rischia l’allontanamento dal condominio (II-III-IV parte)

di Emanuele Mascolo

26 marzo 2014

Commette stalking, sostanzialmente, il condomino che pone in essere reiteratamente, condotte  minacciose o moleste nei confronti di altri condomini.

Quando un Pubblico Ministero è investito di indagare su tali vicende può chiedere al Giudice Per le Indagini Preliminari, ( G.I.P.) l’applicazione della misura dell’allontanamento del soggetto, dal luogo in cui compie questi atti, al fine di evitarne la reiterazione.

Tale misura è il divieto di dimora, disposo dall’articolo 283 del codice di procedura penale, secondo cui: “ con il provvedimento che dispone il divieto di dimora, il giudice prescrive all’imputato di non dimorare in un determinato luogo e di non accedervi senza l’autorizzazione del giudice che procede.

Con il provvedimento che dispone l’obbligo di dimora, il giudice prescrive all’imputato di non allontanarsi, senza l’autorizzazione del giudice che procede, dal territorio del Comune di dimora abituale ovvero, al fine di assicurare un più efficace controllo o quando il comune di dimora abituale non è sede di ufficio di polizia, dal territorio di una frazione del predetto comune o dal territorio di un comune viciniore ovvero di una frazione di quest’ultimo.

Se per la personalità del soggetto o per le condizioni ambientali la permanenza in tali luoghi non garantisce adeguatamente le esigenze cautelari previste dall’art. 274, l’obbligo di dimora può essere disposto nel territorio di un altro comune o frazione di esso, preferibilmente nella provincia e comunque nell’ambito della regione ove ubicato il comune di abituale dimora.

Esaminiamo, nello specifico, l’Ordinanza del G.I.P.  di Padova del 15 febbraio 2013, numero 1222 che ha accertato come, appena un condomino prese possesso dell’immobile nel condominio in questione, gli altri condomini hanno esporto denunce per vari minacce ed insulti, fino al punto di dover  cambiare le abitudini all’interno delle proprie abitazioni, “alterandole”, costretti a cambiare i percorsi per rientrare nelle proprie abitazioni, “verificando ogni volta, prima di uscire di casa, che non fosse presente nelle parti comuni dell’edificio, anticipando l’orario in cui andavano a letto al fine di guadagnare ore di sonno, nel timore di essere svegliati dalle molestie[1], dovendo ricorrere a cure mediche ed alcuni condomini hanno palesato l’idea di vendere il proprio appartamento.

 

Si legge nella suddetta Ordinanza che, “le condotte persecutorie hanno assunto le caratteristiche di quelle astrattamente previste dall’art. 612 bis c.p. dopo una prima serie di condotte qualificabili come mere azioni di molestia o disturbo, integranti la contravvenzione di cui all’art. 660 c.p.

 

Il fatto che l’indagato abbia volontariamente proseguito nella propria sistematica azione di molestia e disturbo, nonostante le numerose lamentele dei condomini e nonostante l’arrivo in almeno due occasioni dei  Carabinieri, chiamati dai vicini di casa, in piena notte, perché estenuati dai disturbi e dalle molestie, dimostra che le condotte in questione costituiscono il frutto di un disegno complessivo perseguito  dall’indagato, volto ad impedire qualsiasi reazione e ad imporre il proprio “stile” di vita.

 

Per chi tenta di opporsi, infatti, scatta la reazione minacciosa, diretta a questo o quel condomino, a

volte a tutti indistintamente, comunque sempre con urla tali da farsi ben sentire da tutti: l’indagato

minaccia espressamente di morte i vicini di casa e prospetta loro che “li farà morire”, esternando, con assoluta sfrontatezza, il proprio programma criminoso, volto a intimidire e creare un clima di ansia e di  paura, all’interno dell’edificio, nelle persone che vi abitano.”[2]

 L’allontanamento del condomino stalker, si è reso necessario, secondo il G.I.P., “ per interrompere l’attività delittuosa che si protrae da mesi, nei confronti di tutti i condomini, senza che l’indagato abbia dato alcun segno di resipiscenza.

 Non emergono cause di non punibilità e non è possibile ipotizzare la concessione di benefici in caso di  condanna, trattandosi di trattasi di recidivo reiterato specifico, condannato per reati contro la persona, commessi anche mediante violenza, quali circonvenzione di persona incapace, minaccia, lesioni personali, resistenza.

 La misura richiesta dal P.M. è la meno afflittiva, tra quelle che possono scongiurare il concreto rischio di reiterazione di reati della stessa specie o di commissione di delitti anche più gravi.”[3]

 L’Ordinanza in oggetto ha disposto, il divieto per lo stalker  dai “ luoghi costituiti dalla abitazione e dai rispettivi luoghi di studio e/o lavoro,  con divieto assoluto di comunicazione, incontro e avvicinamento alle persone offese e ai  componenti dei rispettivi nuclei familiari, prescrivendogli di mantenere una distanza di almeno 500 metri dai luoghi frequentati dai denuncianti e vietando al predetto di comunicare con  qualsiasi mezzo, in particolare telefono, SMS o e-mail con le persone sopra indicate.”[4]

 


[1] Trib. Padova, Ordinanza G.I.P., 15 febbraio 2013, n. 1222.

[2]  Trib. Padova, cit.

[3]  Trib. Padova, cit.

[4] Trib. Padova, cit.

ATTI PERSECUTORI VERSO PIù CONDOMINI

11 aprile 2014

Si pensi al caso di colui che minacci d’abitudine qualsiasi persona attenda ogni mattino nei luogo solito un mezzo di trasporto per recarsi al lavoro.

La minaccia in tal caso assorbe bensì la molestia nei confronti della persona cui è rivolta, ma non la molestia arrecata alle altre persone presenti.

Perciò può essere decisivo ai fini dell’art. 612 bis, che in diversa occasione altra persona, già molestata, sia oggetto diretto di nuova molestia da parte dell’agente.

E’ dunque ineludibile l’implicazione che l’offesa arrecata ad una persona per la sua appartenenza ad un genere turbi per sè ogni altra che faccia parte dello stesso genere.

E se la condotta è reiterata indiscriminatamente contro talaltra, perchè vive nello stesso luogo privato, sì da esserne per questa ragione occasionale destinataria come la precedente persona minacciata o molestata, il fatto genera all’evidenza il turbamento di entrambe.”1

Èquanto ha stabilito la Corte di cassazione Penale, n. 20895/2011, ritenendo che, “proprio la relativa consapevolezza può accrescere il turbamento di coloro che si attendono da tele persona un ingiusto male.”2

Ritiene ancora la Corte di cassazione che, “la violenza privata anzitutto può essere commessa con atti per sè violenti ed è poi soprattutto finalizzata a costringere la persona offesa a fare, non fare, tollerare o omettere qualche cosa, cioè ad obbligarla ad uno specifico comportamento.

La previsione dell’art. 610 c.p. perciò non genera solo il turbamento emotivo occasionale dell’offeso per il riferimento ad un male futuro, ma esclude la sua stessa volontà in atto di determinarsi nella propria attività, d’onde il quid pluris di cui all’art. 610 c.p..”3

Reato abituale, venne “individuato nella ripetuta commissione di un determinato fatto, rettamente intesa quale « azione diretta sempre contro lo stesso bene giuridico e produttiva di un evento identico, sorretta, sotto il profilo psicologico, dalla medesima « direzione della volontà.”4

La Sentenza che stiamo commentando, al contrario di quanto stabilì per lo stesso caso la Corte di Appello di Torino, che ritenne di ” integrare il delitto di atti persecutori « le condotte dell’imputato offensive delle persone di sesso femminile abitanti nello stesso stabile », a prescindere dalla concreta reiterazione delle condotte in danno di ciascuna di esse.”

Infatti, per la Cassazione, “la natura di reato di sbarramento della disposizione di cui all’art. 660 c.p. consentirebbe d’intendere che la lettera “minaccia o molesta taluno” non implica che ogni atto costitutivo della condotta criminosa dell’articolo 612- bis debba avere ad oggetto la stessa persona.” Tale ragionamento a cui giunge la Corte, però, parrebbe trascurare alcuni importanti elementi della fattispecie, in particolare sul significato del termine « molestie », affatto differenti, per contenuto ed ambito applicativo, dall’omonima fattispecie di cui all’art. 660.

Parte della dottrina ritiene che  il delitto di atti persecutori integrerebbe un delitto abituale proprio, a forma libera, dotato di propria tipologia obiettiva, e non mera risultante di un procedimento di unificazione legale. Lo stesso evento di danno della modifica delle « abitudini » di vita dell’offeso, ancora, sembra plastica espressione della offesa tipica, frutto delle ripetute violazioni patite dalla vittima e, segnatamente, dello stato di persistente e grave timore/terrore ingenerato dallo stalker. È stato autorevolmente evidenziato, in tal senso, che « l’attacco ripetuto allo stesso interesse (da guardarsi in concreto), realizzato con persistente frequenza, genera una realtà autonoma e diversa rispetto alla lesione isolata e occasionale  che, se dal lato « denota la proclività dell’agente, sul piano oggettivo evidenzia la lesione di un interesse nuovo, che nel realizzarsi di quei fattori si enuclea e si concretizza.”5

 


1    Cass. Pen.,Sez. V, n. 20895 del 07.04.2011, in Diritto & Giustizia, 2011.

2    Cass. Pen.,  op.cit..

3    Cass. Pen.,  op.cit..

4    G. Cocco., Unità e pluralità di reati, in Cocco (a cura di), Manuale di diritto penale. Parte generale, I/2, Il reato, Padova, 2012, 53 e ss.

5    Tra gli altri – Bongiorno, intervento conclusivo sul d.d.l. C 1440; Petrone, Reato abituale, Padova, 1999.

Staking in condominio. L’inquilina non tollerava nessun rumore notturno tantomeno lo sciacquone del bagno azionato malamente. Ultima parte.   23 maggio 2014

Si può dire che è uno dei recenti casi di stalking quello che vi narriamo e che abbiamo trovato tramite ricerche su internet.

L’articolo pubblicato su Milano.repubblica.it[1] risale al 05 aprile 2014 e narra un fatto di cronaca avvenuto a Milano in un condominio e dal quale si apprende che una condomina è stata rinviata a giudizio per una serie di reati come “ ingiurie, minacce e perfino lesioni.

Il tutto “  perché la vicina intransigente, visto il perseverare del mancato rispetto dello sciacquone, sarebbe passata alle vie di fatto.”[2]

La condomina in questione infatti aveva attuato e pretendeva il rispetto di regole determinate in assoluta autonomia.

 


[1] http://milano.repubblica.it/cronaca/2014/04/06/news/insulti_telefonate_anonime_a_agguati_ai_vic

[2]  Op. cit.

Il minimale spasmo di Umberto Fiori

di Andrea Galgano             13 marzo 2014

recensioni Il minimale spasmo di Umberto Fiori

umberto fiori

La lingua poetica di Umberto Fiori (1949) afferma l’artiglio pieno dell’essere che incide il tempo, uno scarto o una frangia di verso che si appropriano del passaggio comune delle cose.

La descrizione dei paesaggi urbani, i protagonisti, spesso periferici, delle sue condensazioni di tempo sollecitano l’anima scorta e memorabile di uno sguardo e di una appropriazione che impara subito il tessuto dell’anima, il suo poema compatto, perché, come scrive Andrea Afribo, nella raccolta antologica, recentemente edita da Mondadori (Poesie 1986-2014) «c’è quasi sempre una storia nelle poesie di Fiori, munita di personaggi, di un minimo ma sufficiente ancoraggio spazio-temporale, e costantemente seriata in due momenti. Il primo, esplicitato oppure solo alluso o dato per scontato, descrive la routine di ogni giorno, rassicurante ma soporifera, protettiva ma devitalizzante. Il secondo sovverte il primo, e lo fa all’improvviso, trafiggendolo con un evento tanto banale e casuale quanto, negli effetti, eccezionale».

È la sopravvivenza di un miracolo che sporge la sua impronta, il tratto improvviso e tenace: «Ogni nome ha ragione, / ed ogni cosa sta / in pace / nel suo nome. / Soltanto il mio / suona come un allarme / nell’altra stanza, / come un rimprovero».

La permanenza della parola poetica esprime il suo fischio lontano, condensa l’essenziale allontanandosi dallo spumoso spazio della ridondanza, dove l’io tocca il suo risveglio: «In piena notte / sui viali scatta un allarme. / Si ferma, e poi ripete / due note acute, tremende, con la furia / di un bambino che gioca. / nei muri bui dei palazzi lì sopra / le finestre si aprono / si accendono. / Tranne la strada / in mezzo ai rami, vuota, / niente si vede. / Si tirano le tende / e si rimane intorno a questo urlo / come si sta in un campo intorno a un fuoco».

Lo scarto del silenzio e dell’allarme non distolgono il miracolo di ciò che accade, come se la poesia inseguisse non la sua sopravvivenza, ma il bagliore dell’avvenimento che condensa i suoi confini, apre spazi, favorisce le sue concessioni quotidiane: «Alte sopra la tangenziale, chiare / due case con in mezzo un capannone. /  È questa l’apparizione, / ma non c’è niente da annunciare. / Eppure solo a vederli / Là fermi, diritti davanti al sole, / i muri ti consolano / più di qualsiasi parola. / Cancellate, ringhiere, / scale, colonne, cornicioni: / ha l’aria, tutto, come se qualcuno / dovesse veramente rimanere».

È la testimonianza dell’io che si spinge fino al suo testimone segnico, dove il “voi”, il “tutti”, la “gente”, il “due” (nella sua prima raccolta Esempi (1992) abolisce, in forma inibitoria, la prima persona) caratterizzano il puntuale crocevia e il ventaglio dell’esistere, come avviene nella raccolta Voi (2009) dove egli sostiene che  «Le due persone in gioco nel libro non si equivalgono; non sono solo impari, sono incommensurabili: è di questo che Io si dispera. Voi è innocente per definizione: è una persona astratta, disincarnata, un generico Prossimo, a cui Io deve tutto e dal quale nulla può pretendere. A Voi spetta il primato morale. Un primato assoluto, indiscutibile. Io è la colpa incarnata, un “difetto” di Voi: solo Io è chiamato a rispondere di fronte a Dio (al Senso, all’Essere) di ciò che fa, addirittura di ciò che è, della sua stessa esistenza. Solo Io muore. Solo Io si perde, si salva. […] questa disparità viene presentata come l’assurdo, il mistero, il santo enigma di cui ogni singolo deve venire a capo» verso ciò che Fiori chiama la sua «parola normale», come afferma in un’altra intervista rilasciata a Fabio Giarretta.

La parola normale di Fiori, pertanto, è l’esito di una fedeltà dichiarata alle cose, che persino nella sua sovente impersonalità concentra le locazioni, le indeterminatezze e laddove il paesaggio urbano, ricolmo di piazze, angoli, anditi lievi, rivela l’illuminazione di uno scavo interiore che si riporta all’esterno, come misterioso segreto concreto di nudità che decide l’intero senso del mondo: «Ecco: le cose. / Dove tutto si perde e manca, / rimangono. Si lasciano / ascoltare e vedere. / Sono vere, le cose, e saranno vere: / per questa promessa anche ora, / nascoste nel loro buio, / anche in corsa, / ti sembrano care e buone».

Annota Andrea Afribo: «Non si cerchi poi di capire in quale città si svolgano i fatti. La ricorrente presenza di strade, viali, angoli di strada, tangenziali, semafori (e ancora sottopassaggi, tram, macchine, giardini, autosilo, piazzale, cantieri, scavi, asfalto) dice chiaramente che siamo dentro uno spazio cittadino o meglio metropolitano. Può essere Milano, ma può essere qualsiasi altra città».

L’evento che si svela coglie rimanenze lasciate come «Una fila di esempi, una serie / di facciate di case, rapide e serie», partecipa all’esperienza di una illuminazione allusa e integrante e che invita all’interpretazione, al passaggio netto, all’esclusione come gemma nativa di una perdita: «Le mie poesie sono nate dalla perdita di una biografia (delle sue nostalgie, dei suoi programmi, dei suoi rimorsi, delle sue promesse); sono nate non da me, dalla mia storia. Qualcosa mi impediva di mettere al centro dell’attenzione non solo la mia personale vicenda, ma qualsiasi elemento che rimandasse a uno svolgimento, a un divenire, a un prima e a un dopo intensi in senso forte. Se cerco l’origine del mio lavoro trovo questa esclusione».

Altrove Umberto Fiori, in un’intervista a cura di Maria Borio su Pordenonelegge.it, sulla mancanza, come cellula dello sguardo, afferma che: «L’occhio ha l’illusione di non far parte della scena che sta osservando: è immate­riale, invulnerabile, domina il mondo. In una poesia di Esempi, d’altra parte, si dice: “Più grande di tutto è lo sguardo / ma le case sono più grandi”. Lo sguardo, insomma, è radicato in un corpo, le cose guardate possono essere (in molti sensi) più grandi di quel corpo e dell’occhio che le osserva e crede di dominarle. Nella Bella vista il verbo “mancare” viene utilizzato in un senso un po’ diverso, come sinonimo di morire, non esserci più. lo chiedo alla “Bella vista” di insegnarmi ad accettare l’inaccettabile: il mutamento, la fine. Lei stessa, l’immensa Bellezza, la potentissima Natura, l’ “eternamente salva”, si è piegata al tempo, è scomparsa (o così sembra): l’uomo, invece, non capisce, non riesce ad accettare di “mancare”».

L’apologia delle sue storie intesse l’appartenenza dell’individuo alla comunità, come rapide di immagini che recano fasci inattesi, epifanie e apparenze di una quotidianità franta ma sempre ricca di exempla e di baluginii di tempo: «Chi potrà più trovarci, / chiedere conto, / domandare perché, / dove cosa? Noi siamo / tre piccioni che beccano / la pozza di gelato sul marciapiede. / Siamo il busto di bronzo, / la targa del furgone, l’altra bottiglia / che porta il cameriere. / Chi potrà dare / torto o ragione?».

Il prodigio del tempo possiede la scheggia di una lezione che sembra non riuscire a rivelarsi, nella potenza di una forza buia, ma che non smette di desiderare l’avvento, l’attesa di spasmo che contiene lo scavo dell’umanità in tutte le sue forme, come l’interno di casa in cui «mentre le stanze passano / e se ne vanno, viene / come una spinta dentro, / come un’invidia. / Ci si sente mancare, / in queste scene. Si è come tenuti fuori. / Ma in fondo poi / vedere come tutto / procede bene / anche senza di noi, / fa quasi ridere. / E si diventa liberi, leggeri: / non si è più lì, si ragiona / come già morti, come / mai nati.[…] / Eppure questo, / questo che tutti vedono / là, nei soggiorni / e nelle camere, non smette di mancare: / essere così chiari / senza saperlo, / stare soprappensiero / un attimo, nel pieno dell’attenzione».

La scrittura di Fiori si appropria, pertanto, di una scena, una scheggia di tempo infilata nel tempo, non si discosta mai da ciò che accade e implora chiaritudine «per spremere una lezione salutare da quei fatti quotidiani che sinteticamente racconta» (Andrea Afribo): «Quello che siamo qui / nell’ansia di questa luce / in questa data, / giorno per giorno va. È frecciame: / schegge, polvere, trucioli».

La sua poesia stuporosa insegue l’imprevisto e la restituzione, il cerchio di una pienezza che si vede e si invoca, la chiarità del limite, la figura forsennata che prepara inattese trasparenze.

«I momenti che preparano l’epifania», scrive Andrea Afribo, «che aprono una breccia liberatoria nel muro dell’abitudine, consistono tutti in zone di scivolamento minimo ma sufficiente, interne all’ogni giorno. Sono piccoli guasti, interruzioni del continuum, imprevisti banalissimi ma inderogabili e disarmanti. Soprattutto sono ingorghi del traffico, ritardi, incidenti con annesso capannello di curiosi, tamponamenti da constatazione amichevole, una lite, uno scontro involontario tra due passanti, il già visto scatto di un allarme, lo squillo di un telefono o di una sveglia nell’appartamento del vicino, eccetera. E poi tutto quanto può capitare in una discussione: perdere il filo del ragionamento, bloccarsi, un silenzio a sorpresa».

L’enunciazione è un longevo dialogo di vuoti in attesa, l’indefinito fronteggiato, la rissa dell’anonimo, ma tutto proteso al miracolo incombente, all’offerta estrema: «Sento le piante crescere, sento la terra / girare. Tutto mi sembra forte e chiaro, tutto / deve ancora succedere».

Nelle sue case, nei palazzi, negli spazi che abitano la gemma miracolosa che sorregge il mondo, la sospensione di Fiori è pronta a donare i suoi fatti, come chi è teso a invocare e gridare fatti e prove e «proprio allora, lontani come sono, / rivedono il miracolo: / che sia una la stanza, / che sia lo stesso / il tavolo dove battono».

 

UMBERTO FIORI

Poesie 1986-2014

Mondadori, pp. 272, Euro 20

 fiori

Fiori U., Poesie 1986-2014, Mondadori, Milano 2014.  

Id., Tutti di tutti, in «Il gallo silvestre», 11, 1999.

Il condominio: spazio idoneo per le condotte persecutorie. (I PARTE)

vicini_di_casadi Emanuele Mascolo

12 marzo 2014

 

Con la pubblicazione che segue facciamo chiarezza circa la possibilità e la realtà di condotte persecutorie all’interno del condominio. Stiamo parlando dello stalking condominiale.

Lo stalking condominiale è generato dai vari e facili litigi, contrasti e rancori che possono nascere all’interno del condominio. Il tutto può partire anche dal dissenso o un punto di vista diverso, di un condomino rispetto agli altri. Per cui ci si può sentire perseguitati.

Spesso in condominio capita di essere a mò di satira insultati o additati, attenti: può configurarsi lo stalking.

Tantissime sono le richieste di aiuto e di sfogo che possono leggersi solo sui social network.

L’articolo 612bis del codice penale così definisce gli atti persecutori: “salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita. La pena è aumentata se il fatto è commesso dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa ovvero se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici.
La pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso a danno di un minore, di una donna in stato di gravidanza o di una persona con disabilità di cui all’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, ovvero con armi o da persona travisata. Il delitto è punito a querela della persona offesa. Il termine per la proposizione della querela è di sei mesi. La remissione della querela può essere soltanto processuale. La querela è comunque irrevocabile se il fatto è stato commesso mediante minacce reiterate nei modi di cui all’articolo 612, secondo comma. Si procede tuttavia d’ufficio se il fatto è commesso nei confronti di un minore o di una persona con disabilità di cui all’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, nonché quando il fatto è connesso con altro delitto per il quale si deve procedere d’ufficio
.”

Nell’ambito del condominio si può trattare dunque, di ingiurie, ma anche di molestie causate dal lancio di cose pericolose, concretizzando così l’astrattezza del’articolo 674 del codice penale, secondo il quale, “ Chiunque getta o versa, in un luogo di pubblico transito o in un luogo privato ma di comune o di altrui uso, cose atte a offendere o imbrattare o molestare persone, ovvero, nei casi non consentiti dalla legge, provoca emissioni di gas, di vapori o di fumo, atti a cagionare tali effetti, è punito con l’arresto fino a un mese o con l’ammenda fino a euro 206.”

Sul punto la recente giurisprudenza di legittimità ha ampliato l’ambito del reato di gettito di cose pericolose. In particolare, la Corte di Cassazione, ha rigettato il ricorso, dando ragione Giudice di prime cure adito, che aveva dichiarato l’imputato  colpevole dei reato di cui agli artt. 81 cpv e 674 cod. pen. per avere arrecato molestie,” in quanto, “ aveva gettato nel piano rifiuti, quali cenere e cicche di sigarette, nonché detersivi corrosivi, quale candeggina, e la ha condannata alla pena di euro Euro 120,00 di ammenda.” [1]

 

 



[1] Cassazione penale , sez. III, sentenza 11.04.2013 n° 16459.

La memento mori di Andy Warhol

di Irene Battaglini

L’Immaginale

articolo in pdf La memento mori di Andy Warhol

 

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andywarhol-self-portrait-1986

Andy Warhol – autoritratto (1963-64)
 

The integrated internal combined object learns from experience in advance of the self and is almost certainly the fountainhead of creative thought and imagination.  (Donald Meltzer, The Claustrum, 1992)

Odio e amore sono  differenti aspetti della stessa costellazione emozionale e necessitano di esser esperiti simultaneamente perché siano costruttivi. La chiave dello sviluppo è passione e turbolenza, su di una scala qualitativa, piuttosto che quantitativa – gli incrementi possono essere anche minuscoli. Mentre il concepire le relazioni intime sia nella vita che nell’arte come prive di conflitti, risulta ad un’indebolita, eccessivamente liberale, mentalità “soft umanista”(Meg Harris Williams, 1986)

Si è soliti pensare che la percezione del volto umano si modifichi per due ragioni, per lo più: per il trascorrere del tempo, invecchiando, e per il “passaggio” mimico delle espressioni, delle emozioni, dei pensieri, degli elementi paralinguistici della comunicazione. Naturalmente il volto può cambiare anche a causa di un trauma, o transitando dall’infanzia all’adolescenza, subendo variazioni antropometriche significative che possono influire sull’immagine di sé di chi ne è portatore, anche a livello dell’identità. Andy Warhol (Pittsburgh, 6 agosto 1928 – New York, 22 febbraio 1987) entra nel mito dell’iconografia con l’innesto di un nuovo livello di rappresentazione del volto: il cambiamento avviene a livello di organizzazione topologico-cromatica, attivando connessioni tra “aree” facciali che solitamente non vengono “prese insieme” per la qualità (i colori) dai centri del sistema nervoso dedicati al riconoscimento dei volti ma per i rapporti dimensionali. Egli stesso, in realtà, non fa che diventare il volto dell’arte contemporanea, sebbene egli stesso in continuo mutamento di immagine e di concettualizzazione del proprio lavoro.

Andy Warhol afferma l’esordio della grande arte contemporanea americana anche attraverso i suoi famosissimi ritratti, e con questi attua il grande cambiamento (a partire dagli anni ’60) anche al livello del genoma linguistico della stessa Pop Art. Se Andy Warhol nei ritratti sancisce una modalità completamente nuova di interpretare il volto umano, con un cambiamento radicale delle tracce neurali che vanno a “comporre” una identità attraverso la faccia, è vero anche che attraverso questo complesso meccanismo di ristrutturazione cognitiva, percettiva ed emozionale consacra l’immortalità di quei volti, di quegli esseri umani ritratti, transitando con un salto psicologico di proporzioni titaniche da una dimensione mondana ad una dimensione iperuranica con cui ci dice qualche cosa a proposito del rapporto con la morte e la caducità della vita umana. Dice Antonio Spadaro:

<<La morte del padre, quando Warhol era ancora molto giovane, lo aveva profondamente segnato. Ma consideriamo pure che egli si salvò da un tentativo di omicidio per mano della fanatica femminista radicale Valérie Solanas. Molti sono i segni di morte o decadenza che lo accompagnarono nella sua breve vita. […] Warhol esorcizza il timore della perdita e della dissoluzione ostentando la morte nella sua riproducibilità mediatica. C’è qualcosa di elusivo e di «scivoloso» nell’opera warholiana. È vero: Warhol ci ha ingannati, il suo è un camuffamento. Chi considera la sua opera come il trionfo delle merci, dei colori del consumo e del successo mondano, perde di vista il gusto amaro dell’effimero che appare evidente, in realtà, considerando le sue «icone» di Marylin Monroe (che era appena morta) o di Jacqueline Kennedy (ritratta dopo la morte del marito), Liz Taylor (malata di alcolismo), Elvis Presley, ma anche Lenin, che viene ritratto a morte e imbalsamatura avvenute. La felicità sembra essere il retro della tragedia>>.[1]

Andy Warhol si avvicina al ritratto con astuzia mercuriale, attraverso una potentissima opera di elusione delle regole pittoriche, tanto è vero che egli non è da tutti considerato un artista nell’accezione classica del termine ma più verosimilmente un fenomeno di tipo socioculturale e mediatico. C’è da dire che “artista” è una parola ambigua e spesso diventa il contenitore per le persone il cui contributo esce dalle cornici delle forme fino a quel momento conosciute. In ogni caso le sue opere sono un elemento centrale nelle dinamiche dell’arte contemporanea e direi della Storia dell’arte più in generale.

<<C’è un quadro di Klee, – dice Walter Benjamin nelle “Tesi sul concetto di storia” (1939-40, Sul concetto di storia, Einaudi, 1997), – che si chiama Angelus Novus. Vi è rappresentato un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui ha fisso lo sguardo. I suoi occhi sono spalancati, la bocca è aperta, e le ali sono dispiegate. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e riconnettere i frantumi. Ma dal paradiso soffia una bufera, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che l’angelo non può più chiuderle. Questa bufera lo spinge inevitabilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle, mentre cresce verso il cielo il cumulo delle macerie davanti a lui. Ciò che noi chiamiamo il progresso, è questa la bufera>>.[2]

Nella Storia dell’arte i ritratti di Andy Warhol sono una sequela di declinazioni fisiognomiche dell’Angelus Novus incarnatosi nei personaggi profetici ivi rappresentati. Quando muore Marilyn Monroe, nell’agosto del 1962, Warhol rende omaggio all’attrice con una serie di opere che partono da una fotografia diffusa dalla stampa di tutto il mondo del viso ormai mitico della star. Dal 1972 si dedica soprattutto al ritratto: personaggi famosi della moda e del jet set (Giorgio Armani, Carolina di Monaco…), politici (Mao Tze Tung…), attori (Liz Taylor…), cantanti (Mick Jagger…), artisti (Keith Haring, Basquiat…) e se stesso. Quei volti sono sembianze, “sembianti”, sembrano e non sono, potremmo dire, ma vogliono dire. Vogliono esporre un tentativo di rappresentare il passato di quelle vite in una prospettiva storiografica mercificatoria dell’identità. L’ottica di Warhol non ha alcun intento moralizzatore. Egli è scaltro, ineffabile, attento ai bisogni dei clienti, al pari di un ineguagliabile couturier. L’identità espressa nei ritratti è “passata”, la vita è “trascorsa”, sfiorando quel corpo eletto a simulacro e divenuto oggetto della compravendita dei diritti di servitù per il passaggio di accesi colori stesi “a zona”. Nulla vieta che il patchwork possa produrre coperte che scaldano, ma è complicato fare del patchwork qualche cosa di veramente nuovo, perché si tratta di pezzetti presi qua e là da cose conosciute e consumate. Diventa nuovo se genera un insieme diverso dalle parti di cui è composto, ma non soltanto perché è qualche cosa di più della somma delle parti. Voglio parlare dell’immagine che si costella a partire dal mosaico di elementi accostati che presi singolarmente non alludono al tutto, poiché quel tutto è qualche cosa di nuovo che non sarebbe esistito senza quel preciso modo di mettere insieme le parti e che non dipende tanto dalle parti quanto dall’equazione compositiva che sta nella mente del mosaicista. I colori usati da Warhol sono già conosciuti nel mondo della moda, i volti sono di vite consumate dalla fama, dalla vita, dal successo. Come ha potuto egli arrivare ad un volto completamente nuovo, ad esempio, di Marylin, senza svilirne l’eleganza e senza utilizzare elementi ulteriori? Probabilmente con la potenziale spinta necrofila di chi deve mantenere in vita ciò che vivo non è. Attraverso l’illusione del venditore. L’illusione tra l’immagine emergente e la sua verità sottostante (che afferisce alla memoria di quel volto nell’immaginario comune) genera uno iato di senso difficilmente catalogabile. Se la forma resta identica (il volto), se il nome resta invariato (ad esempio Marylin), perché immediatamente ricaviamo l’idea di qualche cosa di completamente diverso, che si proietta nel futuro alla stregua di una icona museale? In altre parole, perché una fotografia semplicissima del volto di Marylin all’improvviso dovrebbe assomigliare ad un vaso cretese elegantemente decorato, in cui il vaso perde la sua funzione di utensile per addivenire il palco della narrazione di una storia? E che storia racconta il ritratto di Marylin? Parla di lei o più verosimilmente parla di quello che lei NON è stata?, ovvero racconta quelle cose del suo volto di cui non ci eravamo accorti? La sua bellezza ubertosa viene stravolta a favore della possibilità di consumarla attraverso l’utilizzo del quadro sulla scorta dei bisogni dello spettatore. Esattamente come avrebbe fatto lo spettatore nelle sue fantasie private, ma tuttavia in questo caso alla piena luce, gettate in faccia, eliminando la componente di Ombra, l’elemento “segreto”. La privatezza della proiezione – una sorta di autonomia iconologica che ciascuno di noi coltiva nel proprio dominio psicologico – viene sostituita dalla valenza “sociografica” dell’idea di Marylin, che si fa oggetto seriale un po’ come un articolo di consumo, un barattolo della Campbell. Non a caso dagli anni ’60, Warhol trova altre fonti d’ispirazione, lontane dai prodotti dei negozi lussuosi e si rivolge agli articoli di consumo di massa americani venduti nei supermercati del Bronx e di Brooklyn. Il fenomeno di appiattimento che deriva dall’eliminazione della profondità volumetrica – o dalla rimozione dell’ombra in senso stretto, o dell’Ombra in termini archetipici – fa fuori in un solo colpo diversi secoli di dominazione della prospettiva di Brunelleschi e di conseguenza attiva l’associazione per cui ciò che è seriale è anche privo di futuro e di spessore, è privo di personalità ed è controdipendente, è un soldatino implotonato, un dispositivo sociale utile alla collettività. Tutto questo utilizzando i colori in semplici campiture piatte. Certo! Tuttavia non sono le campiture piatte di un allievo inesperto, ma le implosioni cromatiche di un genio creativo della moda e della comunicazione, che si fa in questo caso “artista del suo tempo”, inquieto anfitrione della sua Factory, un polo d’attrazione per la scena culturale newyorkese. Molti artisti si ritrovano in questo atelier ed è lì che nasce il gruppo rock Velvet Underground.  Con Roy Lichtenstein, Claes Oldenburg, Robert Rauschenberg e Jasper Johns, egli fonda incolpevolmente la discussa Pop Art americana. Il suo contributo è qualche cosa di assimilabile all’idea di “rumore” del filosofo austriaco Heinz von Foerster (1911-2002), da cui il paradossale “principio dell’ordine dal rumore”: in un sistema complesso, il rumore non è sempre fonte di disordine, ma può invece portare a una crescita di organizzazione. Perché non è tanto l’arte contemporanea ad essere “sconvolta” da questo “perturbante”, quanto il mondo dell’arte. Sostiene Philippe Daverio: «All’inizio degli anni Sessanta la Pop Art conquistò l’Europa e oggi non si può prescindere da questa corrente artistica per indagare l’arte dei nostri giorni, comprese le sperimentazioni delle giovani generazioni d’Italia». Il mondo dell’arte infatti, attraversa a partire dalla Pop Art – e non solo per mano della Pop Art, ma in risposta ad una tensione interna irrisolta –una dinamica regressiva che porta alla dissoluzione della materia nell’opera d’arte. Se Picasso in Europa compie la stessa operazione “ferendo” la figura, e chiudendo pressoché definitivamente il capitolo millenario del dominio della forma, Warhol non ferisce ma, si potrebbe dire ab-usa, usa illecitamente e smodatamente non tanto la forma quanto l’immagine che stabilisce una nominazione: il nostro volto è l’istanza primaria che si collega al nostro nome, ma anche la Brillo Box identifica un mondo, una categoria, e Warhol stravolge non il significato ma la rappresentabilità di quell’istanza. Sempre Spadaro:

<<Se guardiamo i quadri di Warhol avendo presenti le icone orientali verifichiamo che sono molti gli aspetti comuni. Il fondo oro delle icone si traduce nel fondo dal colore astratto, vivido e acceso, dei suoi ritratti. La staticità della rappresentazione orientale[3] è data dal senso di «fermo immagine» che si sperimenta guardando le sue opere, sia che rappresentino persone, sia che rappresentino oggetti. La decontestualizzazione è massima rispetto al contesto visivo e a quello storico. Così è anche evidente la mancanza di coinvolgimento emotivo. I contrasti sono accesi. Il confronto tra le icone e i quadri di Warhol può sembrare ardito, ma diventa piuttosto naturale se condotto avendo davanti agli occhi le immagini. I quadri di Warhol sono vere e proprie «icone pop», com’è stato detto. I suoi ritratti sono quelli dei «santi» pop. Accanto a queste figure però, è da notare che nella sua produzione è sempre ben presente il tema della morte e della caducità della vita. […] Non fu possibile per Warhol sottrarsi a una sorta di costante memento mori>>.[4]

Decontestualizzare equivale ad estirpare, sradicare, se in gioco è l’identità. Una componente aggressiva che mal si coniuga al tema della spiritualità (ripreso anche da Arthur C. Danto in Quotidianità e sacralità nell’arte di Andy Warhol)[5]  in cui dovrebbe essere sublimata, canalizzata. L’affettività ne risulta coartata, perversa, autodistruttiva. La grandezza di Warhol sta principalmente nell’aver trasformato il conflitto estetico di base in una appassionata contrapposizione tra notorietà e originalità, da una parte, e riproducibilità e serialità, dall’altra. Lo stesso Gianni Mercurio in una intervista a www.ilsussidiario.net:

<<Il rifiuto dell’unicità sembra in effetti una delle sue più «diaboliche» invenzioni, non so se consapevole o no, ma con Warhol l’inconsapevolezza è assai remota perché in lui di casuale c’è ben poco. Egli si appropria ed estremizza il famoso concetto di Walter Benjamin della riproducibilità. Benjamin era di matrice marxista e l’annullamento in lui dell’aura di unicità propria dell’opera d’arte in qualche modo era bilanciata in favore della popolarità dell’arte, che doveva raggiungere le classi meno abbienti. Warhol fa la stessa cosa ma al servizio, in qualche modo, del capitalismo. Spoglia della matrice marxista la molteplicità di Benjamin, e la riveste con un matrice di tipo capitalista>>.

Tuttavia la critica d’arte e le teorie formaliste sembrano non possedere gli strumenti diagnostici per comprendere il cambiamento avvenuto nell’arte contemporanea, per capire e spiegare quello che di nuovo si trova davanti, e per “leggere” opere come la Brillo Box o l’orinatoio “Readymade” di Marcel Duchamp. Liquidare il tutto con un editto, dichiarare che “non sono opere d’arte”, non spiega perché tra le due scatole di detersivo Brillo, quella di Warhol trovi posto nei musei, e quella “originale” (che è però “seriale”) trovi spazio sugli scaffali dei supermercati. Tiziana Andina, nella recensione di The Abuse of Beauty di Arthur Danto, sostiene che «in questa prospettiva, l’inafferrabilità della Pop Art è, in fondo, un problema eminentemente filosofico, anzi a ben guardare, metafisico».[6] In estrema sintesi Danto vorrebbe offrire

<<una teoria essenzialista. In che significa che se prescindiamo dal punto di partenza, che può sembrare quanto di più storicamente determinato si possa immaginare, Danto intende fornire una definizione universale dell’arte, vale a dire una definizione che non si veda costretta a mutare storicamente seguendo i mutamenti dei suoi oggetti. Per questo, la definizione che Danto ha in mente deve essere sufficientemente ampia e flessibile da poter includere anche le scatole Brillo e da poter giustificare l’inclusione o l’esclusione della bellezza dall’arte contemporanea>>.[7]

Infatti il problema è fondazionale, e il critico, a partire dal pretesto della Brillo Box, si trova incagliato in una palude di contraddizioni, che hanno per oggetto principale il tema della Bellezza e i suoi assunti. La riflessione di Danto non si esaurisce  all’interno di categorie filosofiche ma tiene conto degli aspetti storici e sociologici: «La tesi di Danto, estremamente coerente negli anni, è che il formalismo non colga nel segno nella misura in cui non tiene conto della dimensione storica delle opere. La Brillo Box non avrebbe potuto avere il valore e il significato che ha se, poniamo, Warhol avesse avuto la stessa identica idea nel 1864».[8] Ed è il sociologo Howard S. Becker – noto per la “teoria dell’etichettamento sociale” – a dare sostegno a questa lettura: nell’opera I mondi dell’arte (1982; Il Mulino, 2004), egli propugna una «sociologia del lavoro applicata all’attività artistica» al posto di una «sociologia dell’arte». L’approccio etnografico inaugura quindi il grande fiume delle teorie contestuali. Utilissime, e rischiose: ci allontaniamo dall’urgenza di Danto di trovare una definizione si flessibile, ma universale, senza tempo, di opera d’arte. Il problema quindi si pone come una costante che si sposta continuamente, aprendo ad uno scivolamento relativistico. Una zattera, il cui intreccio porta con sé il background socioculturale del naufrago-inventore, in cui la validazione del processo artistico è definita dalla tenuta di mare della zattera, la cui “bellezza” sarà il frutto dell’apprezzabilità pratica. In altre parole Warhol ridefinisce il “contenuto” dell’opera d’arte a partire da due elementi costitutivi: la “cassetta degli attrezzi” e l’accessibilità agli occhi del mondo.

Tuttavia, questo non è sufficiente a comprendere come, ad un certo punto, si sia dovuto cambiare il modello interpretativo per far fronte alla nuova realtà, connotata dalla destrutturazione della forma e dell’immagine, dalla smaterializzazione, e dall’inclusione delle tecniche più svariate e innovative, negli atelier e nelle scuole, in cui il gesto e l’azione sostituiscono la contemplazione, lo studio, il duro lavoro di bottega. A quale esigenza non tanto dell’artista ma dell’uomo, risponde questo fenomeno? Qual è quell’uomo che non ha più bisogno della forma classica, ma che sente come affine al suo gusto la forma destruente, l’immagine dissonante, l’installazione rarefatta, che si priva dei maestri (e quindi degli allievi) per far posto agli artigiani estetici? Perché la Pop Art non avrebbe una così grande rilevanza se non avesse sradicato la pittura dalla storia. E se non avesse inaugurato la trasformazione del Dna dell’arte il cui sviluppo è oggi ad un intricato crossing-over: un punto di non ritorno, una perdita della tradizione e della conoscenza che, con le nuove generazioni, non sarà possibile recuperare. Ma il nostro occhio deve essere addestrato al disincanto, poiché tutto è in perenne divenire, e nulla di ciò che osserviamo è privo di un suo precipuo inconscio.

La deriva narcisistica che sta alla base della dinamica dissociativa, che tende a separare l’oggetto dal soggetto, offre possibili sponde interpretative non solo di Andy Warhol ma di molta arte contemporanea. Partiamo dal «conflitto estetico» di Donald Meltzer: «Il conflitto estetico è quel conflitto suscitato dalla bellezza del mondo e dalla sua rappresentazione primaria»;[9] «… la madre bella che si offre agli organi sensitivi… (del bambino)… e il suo interno enigmatico che deve essere costruito attraverso l’immaginazione creativa»[10]. Si tratta di andare a comprendere l’impatto estetico che la “vista” della madre-arte ha sulla psicologia dei figli-artisti. Questa madre sembra come assente, sorda, cieca, taciturna, assorbita dalla sua necessità di generare e diffondersi, mentre all’uomo il grave peso di insegnare, imparare, insegnare, imparare. Migliorare, accendere, pregare, servire, trasferire conoscenza, incendiare città, costruire città, attraversare oceani, essere pronto a salpare ancora. È priva, questa madre-arte, di una “visione” longitudinale del destino dell’uomo-apprendista, tutta protesa com’è a estendersi, a ramificarsi, a decorare tutte le chiese, a ornare le case, a farsi storia, guerra, società, organizzazione, impresa. Il ripiegamento dell’uomo su se stesso, la sua solitudine, si riflettono sulla sua capacità simbolica. Meg Harris Williams:[11]

<<Usando una vecchia metafora (di Platone) spesso ripetuta dai poeti, Bion dice che la conoscenza è derivata per mezzo di LHK,[12] che costituisce “cibo per la mente”. Questo cibo prende la forma dei simboli, che incorporano la conoscenza nella personalità. In questo la teoria psicoanalitica è in linea con la poetica Romantica, rappresentata da Coleridge quando dice che «un’idea non può essere trasmessa se non da un simbolo» (Coleridge, 1816). Anche la Klein aveva riconosciuto che la formazione dei simboli era la base per tutte le attitudini (e come è risultato dal suo lavoro con i bambini, era ben consapevole che un simbolo non necessariamente è verbale, ma è un mezzo per l’espressione di una fantasia inconscia in ogni mezzo) – l’immaginazione, come i sogni, e così il teatro emozionale degli oggetti interni e di oggetti parziali. […] Don [Donald Meltzer] ha preferito non allontanarsi dai termini tradizionali kleiniani della madre interna e dell’oggetto combinato. I poeti inglesi, similmente, vedevano la loro musa come “mediatrice” tra la massima divinità e l’anima infantile che sta per ottenere una personale “identità” (Keats, 1819). […] Nella critica letteraria «l’ansia da influenza» (Bloom) si riferisce a quel tipo di competitività maschile provata nei confronti di un poeta precedente. In ogni caso, nello scrivere genuinamente e con ispirazione, questo è abbandonato a favore di una rispondenza tra oggetti interni (Williams). Invece di suscitare zoppicanti dubbi e sospetti, il predecessore raggiunge un livello più alto di astrazione – ciò che Bion chiama la «compagnia divina interna» e Meltzer «i santi e gli angeli della realtà psichica» (Meltzer 2005, 428). Tutto ciò non è compiacenza dell’idealizzazione; al contrario, provoca dedizione alla causa della promulgazione della bellezza di tali idee e del contributo al «frutto del mondo» (come dice Keats). Don ha descritto la propria ispirazione a Bion in Studi di metapsicologia allargata (Armando ed.). Qui egli riporta come abbia capito che la costellazione emozionale di L, H, K corrisponda all’impatto della bellezza della madre sul neonato, inizialmente ad un livello di oggetto parziale: «In principio era l’oggetto estetico e l’oggetto estetico era il seno e il seno era il mondo» (Meltzer 1986, 204)>>.

Andy Warhol è l’uomo che esprime appieno la contemporaneità dell’artista privato del conflitto estetico, si muove in una direzione apparentemente caotica. La bellezza della Grande Madre-Arte è estraniante, metamorfica, il suo seno è inafferrabile e forse troppo lontano: la vecchia Europa con le sue cattedrali è inaccessibile, soverchiante di bellezza nelle segrete e nelle catacombe, chiusa a difendersi dalle minacce della guerra. La società “occidentale” diventa la madre presente, che consente l’unica possibile simbolizzazione attraverso la distruzione della bellezza negata. La reciprocità di proiezione tra arte e oggetto dell’arte si costella come unica forma di identità, segnando il destino autoreferenziale e narcisistico dell’arte che seguirà negli anni successivi, in America come in Europa. Warhol sembra utilizzare quindi il potenziale emozionale negativo di dotazione, per neutralizzare l’impatto della bellezza sulla sua fragile e bizzarra struttura polimorfica. Il suo merito è quello di aver reso “accessibile”, come un oggetto sostitutivo, l’inafferrabile. Marylin, inafferrabile. Detersivi e scatole di minestra, scarpe e poltrone, residui di memoria di una madre-altrove.


[1] Antonio Spadaro S.I., Quale religiosità nell’arte di Andy Warhol?, La Civiltà Cattolica 2007 III 54-60 quaderno 3769 (7 luglio 2007)

[2] http://www.filosofico.net/benjamin.htm

[3] Spadaro qui si riferisce alla considerazione di Gianni Mercurio per cui «Si resta sconcertati dal fatto che pochi critici negli anni passati, ma soprattutto nel periodo in cui Warhol era vivo, abbiano notato l’evidente richiamo, anche stilistico della sua opera con le icone delle tradizioni tardo bizantina e russo ortodossa», in G. Mercurio, Andy Warhol ci ha ingannati, in Andy Warhol. Pentiti e non peccare più!, 2006, Skyra

[4] Antonio Spadaro S.I., Quale religiosità nell’arte di Andy Warhol?, La Civiltà Cattolica 2007 III 54-60 quaderno 3769 (7 luglio 2007)

[5] Quotidianità e sacralità nell’arte di Andy Warhol in Andy Warhol. Pentiti e non peccare più!, 2006, Skyra

[6] Tiziana Andina, Arthur Danto, The Abuse of Beauty, 2003, in “2R – Rivista di Recensioni Filosofiche”, vol. 6, 2007 www.swif.uniba.it/lei/2r

[7] ibidem

[8] ibidem

[9] p. 493, Sinceridad y otros trabajos, Spartia, Buones Aires, 1997

[10] Amore e timore della Bellezza, 1989, Borla (The apprehension of Beauty, 1988)

[11] Meg Harris Williams, (2005, 2011), Genesis of the ‘aesthetic conflict’, www.harris-meltzer-trust.org.uk/ papers;  traduzione a cura di Teresa Tona

[12] Meg Harris Williams si riferisce qui alla griglia dei “vertici” del potenziale emozionale positivo di Wilfred Bion, in contrapposizione alla “griglia negativa” di -L, -H, -K che corrispondono alla negazione dei fatti emozionali.

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Ringrazio il prof. Franco Bruschi per i contributi bibliografici offerti alla mia ricerca dalla sua libreria.

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Irene Battaglini “La memento mori di Andy Warhol”, 10 marzo 2014