Hiroshige “il fluttuante” oscilla sull’onda di Hokusai nel tramonto immoto della natura

di Irene Battaglini

Scuderie del Quirinale. Roma, 27 maggio 2018

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Delle ali e un altro apparato per respirare che ci permettessero di attraversare l’immensità degli spazi, ci sarebbero inutili, perché se salissimo su Marte o Venere conservando gli stessi sensi, questi rivestirebbero dello stesso aspetto delle cose della Terra tutto quello che potremo vedere.

L’unico vero viaggio, l’unico bagno di giovinezza, sarebbe non andare verso nuovi paesaggi, ma avere altri cento occhi, vedere l’universo con gli occhi di un altro, di cento altri, vedere i cento universi che ciascuno vede, che ciascuno è.

Proust, La prigioniera

Il corollario al dilemma del prigioniero, detto di AIE (dai nomi dei tre docenti universitari che lo teorizzarono nel 1988 Astegy, Inglot e Elghi) prevede sempre che uno dei due tradisca l’altro.

La mostra dedicata a Utagawa Hiroshige (Edo, 1787-1858) si apre chiudendosi dietro le tende dai colori spenti e immobili che fanno da sostegno silenzioso al continuo avvicendarsi, in una tensione estrema, di figura e sfondo.  I primi grandi quadri rimandano, in un gioco obliquo e sinestesico tra tinta e spessore, a quella carta porosa e calda, acquattata sotto piccole pile di taccuini accanto agli inchiostri cromati del grande incisore giapponese, noto come tra i più grandi artisti del Mondo Fluttuante.

Dai kimono agli arazzi, dai più piccoli rettangolari e secchi a quelli maestosi e regali, tutti sono orditi torbidi, opachi e muti, e non hanno l’ironia leggendaria di Katsushika Hokusai (Edo, 1760-1849): alludono, senza dire, ad un mondo che non ha alcuna intenzionalità descrittiva, tranne quella di ritrarre se stesso, sottraendosi allo sguardo, che resta forcluso al desiderio (che necessita dell’oggetto “reale”) dello spettatore girovago perché privato della profondità apparente e ingannevole della prospettiva culturale occidentale, che è anche la prospettiva geometrica nella pittura più “realistica” sancita da Giotto e Lorenzetti, che le sottraggono la tensione intrinseca tra trascendenza e immanenza, ancora presente nell’arte astraente dei bizantini, degli antichi. Lo spettatore quindi è catturato all’interno di un discorso labirintico, tra occhio e spirito, tra volontà e rappresentazione, in senso stretto e in senso lato privo di punti di fuga, di quella struttura geometrica vorrebbe tendere a infinito attraverso la proiezione dell’occhio sugli oggetti, e dunque un mondo elusivo e piatto.

L’Ottocento pittorico giapponese non è senza profondità in termini di auto-denuncia, ma sta in una condizione di rinuncia (che incontriamo nella struttura dell’Iki[i]), una posizione di “castrazione” necessaria allo sviluppo di un pensiero simbolico che si astiene dalla cattura proiettiva, e si sommette in osservazione del mondo interiore lacerato dalla ferita del segno lasciato dal di-segno: uno sguardo in ascolto, latore di una quiete aperta, di una negative capability che non a caso Freud stigmatizzò riducendola alla celebre espressione di “attenzione fluttuante”.

Sono la neve, gli acquazzoni, i vapori lungo i canali e dietro i santuari a dire del cuore autentico di Hiroshige. I ciliegi, gli argini delle “Dieci vedute di Edo” (l’attuale Tokyo) dipinte da Hiroshige mentre il contemporaneo e più famoso Hokusai lavora alle “Trentasei vedute del monte Fuji” consacrano l’artista al teatro drammatico della “sospesa presenza”, quasi a voler trasporre il mondo ideale della porta senza porta nel mondo – ancora immobile nella sua identità stilistica – della natura giapponese dell’800.

Che si tratti di “osservazioni sparse sulla bellezza della natura”,[i] o di percorsi ideali e limpidi, animati da un Ki [ii]  disciplinato dalla struttura estetizzante dell’Iki – seduzione, energia spirituale, rinuncia – è il dilemma che abita entrambi i giapponesi, prigionieri di un gioco in cui ciascuno tende all’altro, simbolizzandolo in un pensiero che perpetua il gioco stesso in una geometria esponenziale.

I due protagonisti, Hiroshige e Hokusai, assomigliano ai due prigionieri costretti in due mondi che non comunicano direttamente, eppure ciascuno dei due si rapporta all’altro, in un rimando di specchi e di identificazioni, di colpi e contraccolpi di onde che si abbattono sui monti – come se un’onda potesse realmente tangere il monte, nel suo versante visibile, come se l’onda fosse la parola piena, la verità del dio rivelantesi, l’enigma per eccellenza, spiegando così come la Teoria dei Giochi dei due straordinari prigionieri (condannatisi al silenzio per non consegnare alla parola “data” il loro genio espressivo) puntasse ad un fine più alto, e per questo contemplasse il tradimento degli stilemi senza opporre l’argomento della fedeltà di laboratorio. Scrive Nicola Gardini:

Che enigma e verità si rispecchino a vicenda è già affermato in un celebre frammento di Eraclito: “Il signore che ha oracolo a Delfi non dice né nasconde ma rivela” (fr. 93). Lo stesso verbo [rivela], nella forma dell’infinito, è impiegato nell’Edipo re di Sofocle. […] Qui il verbo indica chiaramente la “rivelazione” di un certo sapere. Alla luce del testo sofocleo il termine “enigma” acquista in precisione: l’enigma è l’espressione linguistica di una verità terribile. Non a caso questa è pronunciata per conto del dio terribile per eccellenza: Apollo.[iii]

Le silografie policrome si nutrono di quel Blu d’Oltremare che impedisce allo spessore di fondersi con il respiro del cielo, come dovrebbe accadere solitamente agli acquerelli. “Il Pino della Luna” è una proboscide del monte tesa verso il cielo, quanto il fiume Tama è il solco che attraversa la terra inerte: i “Ciliegi in Fiore” diventano sontuosi ombrelli per timidi villeggianti – a cui fanno una vuota eco, tutta in Ombra grazie al controsole estremo della Francia neoimpressionista – i Bagnanti ad Asnières di Seurat.[iv]

E così come l’alba è a-prospettica almeno quanto il ponte di Azuma, così “Il giardino dei susini” è la metafora di un ramo che in primo piano diventa tutto: occhi-colore-orizzonte.

Hiroshige è l’incisore giapponese più influente dopo Hokusai, ma da questi si distingue per la ricerca di una recondita armonia tra finitezza del disegno e infinitudine dello sguardo, e di conseguenza è considerato meno dirompente e iconico, tuttavia capace di una astensione estesa, muta non per invidia del lemma, ma per aver scelto una via più di rinuncia che di seduzione all’interno dell’equilibrio perenne dell’Iki. Monet e Van Gogh ne trassero un dettato sintattico che fecondò di chiarezza interiore il loro occhio naturale.

Le “Cento vedute di luoghi celebri di Edo” descrivono, come un grande catalogo scomposto lungo il ciglio delle arterie, la mappa urbanistica di Edo, la città imperiale, avente per centro il Cigno-Pellicano e per confine la grata che si lega all’orizzonte con l’ultimo tempio di Ryogoku. “Kameido. Lo spazio antistante il santuario di Tenjin” (1856) è un chiaro esempio di sovvertimento dell’ordine interno al disegno. È il grande ponte a descrivere lo spazio (ma anche a raggiungere lo spettatore), anche se è eclissato parzialmente dalle propaggini floreali. Il santuario è un elemento dello sfondo, al pari di una capanna, una allegoria della poetica architettonica dell’umiltà delle cose grandi. Scrive il filosofo Suzuki (che lavorò con Erich Fromm a Psicoanalisi e Buddismo Zen):

Si può comprendere quanto i giapponesi amino la natura, a dispetto della loro recente adesione all’idea di una sua “conquista”, quando si tratta di costruire uno studio o una stanza per la meditazione in un bosco di montagna. […] Vista da lontano, questa capanna costituisce una posizione insignificante del paesaggio, ma al tempo stesso sembra farne parte. Per nulla appariscente, è come se appartenesse alla composizione generale del panorama. […] Una capanna costruita con questi criteri è parte integrante della natura e chi siede al suo interno è un oggetto naturale, come tutti gli altri: non è diverso in nulla dagli uccelli che cantano, dagli insetti che ronzano, dalle foglie che ondeggiano, dalle acque mormoranti, neppure dal monte Fuji, che si profila in lontananza dall’altra parte della baia. […] Un edificio grandioso è troppo appariscente per trovarsi in sintonia con gli elementi naturali circostanti. Certo, è possibile che in tal modo risponda a determinate esigenze pratiche, ma è del tutto privo di poesia.[v]

Ma andiamo rapidamente a ritroso, muoviamoci all’interno del percorso come si fa in un sogno, o lavorando con un sogno. All’inizio i disegni a pennino, come le parodie umoristiche delle ombre cinesi, le cronache, i tributi, i personaggi letterari e storici esprimono tutto il virtuosismo talentuoso di Hiroshige. I bellissimi trittici emanano la forza, la determinazione del segno e del cuore dell’artista che fu appassionato e polemico, e anche giovane e oppositivo.

Le verdi risaie, i suoni della pioggia, i tramonti in cui la rugiada cade con il peso solenne dell’uragano, cedono il passo allo slancio violento e sublime, virile e al tempo stesso divino, degli azzurri indomiti di un Giappone visionario, scontornati solo dal rosa e dal nero, dal senape e dall’arancio, che è tuttavia rosso emulsionato dal di dentro, come nelle “Cinquantatré stazioni di posta del Tokaido”. Scrive ancora Suzuki:

Il Giappone ha un territorio prevalentemente montuoso, sono poche le pianure e il Musashino dove sorge oggi la capitale del paese, è una delle più vaste. L’imperatore, che con ogni probabilità non aveva mai lasciato la sua Kyoto cinta da montagne, era curioso di sapere quanto fosse vasto il Musashino. Lo chiese quindi a Dokwan,[vi] che rispose con questi versi:

Non si vedono gocce di rugiada attorno alla mia capanna,

anche se un temporale estivo è appena passato

sulla pianura di Musashino.

Ben più vasta deve essere delle nubi gonfie di pioggia.[vii]

Ad un certo punto, come probabilmente fu per l’imperatore Gotsuchimikado, lo stupore e il desiderio si librano dallo sguardo dell’annoiato flâneur. L’esercizio calligrafico diventa bellezza senza respiro, in un “troppo” di conversione lungo la strada di Kiso.

Al solo sfiorare il mare di Satta, la schiuma di Hiroshige ingaggia un duello a scacchi con la “Grande onda di Kanagawa” firmata da Hokusai, e senza tema di incontrare lo sguardo tagliente del pittore maestro di ogni azzurro d’Oriente, ne diviene assiomatico controcanto, vi fluttua aderendovi, godendone della strabiliante forza paterna, della sua energia oceanica primigenia, trasformandosi in un Nettuno che abilmente ne domina l’oscillante negligenza. Maschile e femminile diventano qui principi non in opposizione ma in una straordinaria commistione tra dionisiaco e apollineo, vincendo con la significazione la sfida del dilemma del prigioniero. L’onda ambivalente di Hokusai si fa terrore oceanico vestito di bianco e di azzurro ed è una forza ctonia, un mare di roccia; il gesto di Hiroshige si fa flutto mercuriale e danza con Atena, signora della pioggia e dei fiumi, femminile mai lezioso ma saggio, di vita che si aggiorna nel fare, e che come Musashi mostra, senza sfoderarla, la katana del pensiero che si fa atto.

La natura acquatica di Hiroshige è fatta di peonie, gru, grandi pesci, che gareggiano con i draghi tra le nuvole tratte da un bianco – un frutto senza buccia – del gesto calligrafico che incide la carta e il bambù o la tavoletta di ciliegio, varcando infine la soglia scevra di porta, ma spesso sostando oziosamente tra figura e calligramma, come un ideogramma in controluce assomiglia a un’anima polivagale, una figuretta di carta velina, su cui solo l’artista può contrarre il limite definitorio con il suo virile accento. Lo spettatore, liberato dal suo disegno precursore prospettico, può fluttuare così dolcemente, ancorato all’abile remo di Hiroshige.

 

[i] Cfr.: A. Schopenhauer, Il mondo come volontà a rappresentazione, supplementi al Libro terzo: Il mondo come rappresentazione. Seconda considerazione: “L’idea platonica: l’oggetto dell’arte”, cap. 33.

[ii] Il concetto orientale di ki è di difficile definizione. In Giappone, tale termine è usato quotidianamente a partire dall’instaurarsi della cultura cinese. Il ki esprime il concetto delle energie fondamentali dell’universo, di cui fanno parte la natura e le funzioni della mente umana.

[iii] Nicola Gardini, Lacuna. Saggio sul non detto. Torino: Einaudi 2014, p. 135.

[iv] Une baignade à Asnières è un dipinto del pittore francese Georges Seurat, realizzato nel 1884 e conservato alla National Gallery di Londra.

[v] Daisetz T. Suzuki (1959), Lo zen e la cultura giapponese. Milano: Adelphi 2014, pp. 270-273.

[vi]  Cfr. Ota Dokwan, poeta-soldato, generale del XV secolo.

[vii] Daisetz T. Suzuki (1959), Lo zen e la cultura giapponese. Milano: Adelphi 2014, p. 273

[i] Nel Giappone del periodo Bunka-Bunsei (1804-1830), questa parola veniva usata per definire l’ineffabile fascino della geisha, il suo stile sprezzante ma accattivante, ammiccante ma riluttante, improntato a sensualità e rigore, inflessibilità ed eleganza. Cfr. Kuki Shuzo, La struttura dell’Iki. Milano: Adelphi 1992

Kathleen Jamie e il centro dello sguardo del mondo

di Andrea Galgano 14 maggio 2018

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La compagnia più bella (The Bonniest Companie)[1] di Kathleen Jamie (1962), che ha vinto il Saltire Society Book of the Year e il Poetry Book of the Year, ed è stato ora edito da Medusa, nella elegante traduzione di Giorgia Sensi, consegna l’energia ciclica e immutata del mondo, il viaggio dello spazio naturale[2], la sottigliezza dei confini, che diventano agoni temporali e spostamenti memoriali che incidono la densità infranta del presente come gemme ibride, attingendo anche dagli eventi scozzesi referendari del 2014, che si sono conclusi con la vittoria del “No”.

La poesia scorge, così, il confine liminale di lingua e affermazione. Nella sconfitta e nella terminalità rattrappita, il tempo della rinascita annulla ogni frantume, raccontando lo splendore numinoso della Scozia, il temporale come canto stregato, la ribellione dell’autunno e la madre persa negli occhiali:

«Dunque eccoci qua, / abbattuti e sfiniti, / ammantati di speranze in frantumi, / (un’onesta povertà). / Riposte le nostre bandiere, / le foglie secche di alberi striminziti / volano nelle piazze deserte, / e il vento / – foriero d’inverno – / / fruga fra le statue di granito / – e così via e eccetera. / Tutto ciò lo sappiamo. È martedì. Di nuovo in piedi. / Oggi si ricomincia» (23/9/2014).

Giorgia Sensi scrive:

«Il mondo naturale in The Bonniest Companie è, in genere, più familiare che in precedenti raccolte, meno selvaggio. Non ci sono balene e squali elefante ma cigni, un topo-ragno, aironi, falchi pescatori che lei stessa può osservare col binocolo dalla finestra della cucina, molti merli – il merlo della poesia “Merle” «è il centro dello sguardo del mondo», rondini e rondoni, e tanti altri (Jamie è un’esperta ornitologa). È significativa questa commistione di selvatico e domestico, di quotidiano, spesso presente all’interno di una stessa poesia. Per esempio in “The Heronry” la voce parlante, che in questo caso possiamo identificare con l’autrice stessa, in una giornata di febbraio decide di andare a vedere se gli aironi si sono già radunati nel solito posto non lontano da casa, prende la bicicletta e corre là, non prima, però di aver compiuto un gesto quotidiano e molto pratico, essere andata a comprare il giornale e il pane. […] Quello di Kathleen Jamie è un mondo naturale e in continuo movimento, ed è fonte di rinascita, di conoscenza».[3]

Unire la folgorazione naturale alla specifica dimensione quotidiana consente di precisare la luce di un cambiamento, il territorio identitario e il dramma di una demarcazione di corsa splendente e colpita. Vi è, in Kathleen Jamie, una sorta di fragilità spaesata, una vitalità mai ridotta che si dischiude («Su, facciamo sosta qui, riprendiamo fiato / e inaliamo il dolce profumo di quella ginestra / che è in fiore oggi / guardiamo laggiù in fondo per miglia, da ora / e fino a che non ritornerà la lince, e il lupo»):

«Portatemi al fiume, ma non subito, non con questa raffica gelida, che da est / con furia sale su dal mare / come un iroso pastore – / e quanto a voi oche, nate sull’Artico, che sembrate a vostro agio / nei nostri campi, / che bisogno c’è di tornare al nord al più presto – / neve sui monti, zolle arate e ghiacciate – / così da settimane, e ci basta / – ma quando verrà la mia ora, / lasciatemi andare come il toporagno / proprio qui sul sentiero: spinto dal vento su quel suo pelo da moscerino, / colto a metà pensiero, a metà corsa».

Il legame tra contemplazione e finitudine lambisce strappi di quotidianità e stupore: gli aironi sono pronti per radunarsi «negli allampanati salici dell’isola», in una scintillante promessa di bellezza eveniente.

Jamie esplora l’iniziazione del particolare a una esatta destinazione della realtà. Le cose nude si accompagnano alle radici, agli spostamenti, alle terre percorse come una vitale e feriale disposizione di immagine, che diventa parte nevralgica del Tutto, unione sacrale di “visibile invisibilità”:

«Quel merlo tra i rovi / sull’argine esterno / non sa di esser nato / non sa di esser gloria e parte / di questo mattino domenicale / in stile nord-atlantico. / Dal becco giallo il canto scende / alle prime celidonie dell’anno; / la gola pulsa. Con un artiglio giallo / gratta l’orecchio sinistro / Tra poco si dissolverà la nebbia / a rivelare il Rum Cuillin / coperto dalla neve di marzo, e le acque del Minch / ma per ora è il merlo / il centro dello sguardo» (Merlo)

Irene Battaglini afferma:

Kathleen Jamie è una poetessa che richiede una comprensione contro-intuitiva, un modo di essere “letta” che ella stessa pretende dal lettore insegnandogli a leggere tra i chiasmi dei livelli organizzativi del discorso. Il suo sguardo oscilla dalla terra al cielo con la rapidità di un falco, e con la voracità di sguardo di chi sa cogliere i colori netti della natura, le sue indicazioni chiare, i segni della magnificenza nelle cose piccole; e si muove trasversalmente, con moto ondulatorio, come un sisma d’acqua contro la corrente superficiale, nell’oceano delle grandi emozioni umane, quelle di appartenenza, di scelta, di nascita e morte. E sembra riuscirci con un ampio ricorso alla metafora paradossale, come un ampio ventaglio che si muove al ritmo di una musica silenziosa, come se le parole fossero i tasti di un pianoforte, e il pianoforte fosse il ventaglio che come un pentagramma antico cambia la sua chiave di lettura su basi nascoste, il cui mistero sta nel vero cuore della poetessa. Un cuore sconosciuto forse anche a se stessa, orientata a capire il mondo, ad averne una qualche ragione, abitata da un talento che si ritira nelle segrete stanze delle cose apparenti. [4]

La pulsionale bellezza della realtà scopre, nel dettaglio, la genesi della rappresentabilità, l’ombra infinitesima della lontananza e del moto delle cose. L’autrice insegue ogni germinazione nutrita, i passaggi ellittici senza grumi ma che però avvertono tutta l’imprevedibilità di una ricognizione che mischia finito e infinito:

«Una gran bella arrampicata, ora il giorno è quasi concluso / sulla collina di fronte al rifugio – / un ruscello asciutto, poi una nocca di basalto / come un trono, / se mai volessi far regina / tra felci tremolanti / qualche pecora al pascolo. / Già le Isole Occidentali / profilano rosa polverose all’orizzonte, / e come il prodigo al locale notturno, / il faro di Scalpay / continua a lampeggiare la sua firma / tre raggi bianchi ogni venti secondi» (Il faro).

L’attesa di una liberazione salvifica come nascita («Sto aspettando il sorgere della stella / – forse un pianeta / che ogni sera s’impiglia / tra i rami ancora spogli / del sicomoro / incorniciato dalla tua finestra più piccola / e là sembra palpitare e tremolare») tremola e accade, per lasciare alla parola un interstizio nel mondo: «Su, tentiamo la sorte qui con il mortale, / il banale e il mortale, / e passeggiamo tra le distese di armeria rosa / della scogliera, / le zaffate di guano di procellaria che ti prendono alla gola / e lasciamo che si apra uno spazio / tra parola e mondo / pizzicato dal vento, tremante» (La scogliera).

Sono ricordi di stupore inatteso e febbrile come fioriture («eppure esito, in attesa / che la mia anima pigna / sobbalzi al tocco del mondo»), svolte e ricordi che determinano l’esistente in una conclusa e radiosa domanda elementare di compimento: «Una notte, in braccio a mio padre / fui portata dalla nostra villetta di mattoni / a vedere le stelle sopra il bagliore delle acciaierie».

O ancora il nitore di una adesione che cerca il suo acquisto di voce alta e di ricordo intarsiato: «Sulla mia altalena rossa volai / in alto, fin dove consentivano / le catene di ferro, il cielo / verso cui mi lanciai non si degnò / di accogliermi; spiegai le ali, / stordita da quel blu, dalle nuvole ribelli – / torna, disse la Terra / ho la tua ombra».

E poi il tremore dei nidi che solcano timori di perdite e indugi come abbandoni: «[…] invece eccola! Apparsa come d’incanto / da pioggerella e foschia di marzo, gli artigli gialli / a uncino sull’orlo roccioso – / l’occhio che tutto abbraccia / mentre plana di nuovo / sui nostri tetti e il firth».

L’orizzonte di Kathleen Jamie ha una rigogliosa prospettiva di sguardo che si protende e prolunga nella soglia di ogni veglia stazionata – dalle foschie delle vallate alla piena delle stagioni o alle primavere arrampicate nella vecchiaia, come se il mondo dovesse sorvegliare la sua genesi, i silenzi e la lingua del cielo che sopravanza l’essere: «Da troppo tempo / non guardo il mare / per dieci interi minuti! / l’orizzonte che brilla come una chiave magica, / un nitrito di spuma ai piedi della scogliera, / e tutti i silenzi del cielo, i suoi dialetti… / Ecco ora arriva un turbine di vento / tutto vestito di grigio / e si precipita verso la terraferma – / uno sbaffo di arcobaleno / stretto come la borsa della spesa / nella mano destra».

La sua ornitologia diventa una descrizione epistemologica di volo e di attitudine alla cadenza, al colpo del respiro, alla decrittata spoliazione della realtà, per affermarla, avvertire ogni sporgenza o precipitazione, custodirne la potenza e attestarne la profonda freschezza delle linee vaste di marea:

«Una pergola sul mare, un capanno da giardino, / messo assieme con legni raccolti in spiaggia e arredato / di un divano sfondato / è qui che sono seduta, / e mi sforzo di coltivare la filosofia del prendere-o-lasciare / sulla linea di marea, felice di rimanere / finchè l’ultimo piccolo merlo / lascia il nido / incastrato nella rosa canina alla mia sinistra. / Di tanto in tanto padre merlo / saltella attraverso il comune quadrato erboso, / inclinando la testa. / Amico, è il mare che senti, vasto e giusto / oltre quelle dune, oltre la tua contezza di merlo, / ma io cosa so? Maggio è di nuovo disteso / per tutto l’emisfero settentrionale, e oggi / è il mio compleanno. Chicchi di grandine improvvisi / pungono questo asilo provvisorio. Non è ancora finita» (Pergola).

Lo splendore attonito si attesta davanti al mistero e al segreto del vivente, per essere parte non esclusa di un giacimento protratto di sé, in cui ogni particolare celebra l’apparizione stupefatta di ogni sconfitta della ripetibilità, attraverso la capacità di visione che illumina sugli ottenebramenti di – quasi nulla- che la vita tocca e conosce: «C’è mistero nel giardino dietro casa […] Della pioggerella / che fa luccicare il susino / l’ombra della catasta di legna, / il porta noccioline che vibra / quando un passero prende il volo – / e queste margherite / tutte accampate sull’erba / – le stesse della settimana scorsa, dell’anno scorso, stesse / ma non identiche / a quelle che osservavo da ragazza / innocenti e senza pretese / tutte ricevono la loro parte».

In Le cerve (The Hinds), che dà il titolo alla raccolta, allude alla vecchia ballata Tam Lin, dove il cavaliere viene salvato da un’intrepida e aristocratica fanciulla, Janet, rimasta incinta al loro primo incontro. La Regina delle Fate si lamenta con rabbia e afferma: «Si è portata via il più bel cavaliere di tutta la mia compagnia».

Il senso di stupore placato, libertà e abbandono (Le bacche), determinati da questi probabili cervi rossi,  eliminano ogni sentiero alienato, attraverso l’agilità vigile della loro energia. I balzi, i movimenti dello sguardo, le visibilità individuali («poi a turno saltare, / saltare il torrente scuro di torba / da poco rigonfio») che tracciano pienezza, l’antropomorfismo enfatico, la topografia mimetica, l’epica minima, che riporta alle illuminazioni percettive di Kavanagh[5], accordano suoni e rime, in un gesto fluido che non consente indugi e promettono inviti trascritti senza ritorno, oltre ogni argine.

Giorgia Sensi commenta: «In un sogno a occhi aperti, l’autrice incontra diciannove cerve, che con aria regale la fissano e in modo seducente la invitano ad andare con loro, sarà felice – sembrano dirle – a un costo, però, quello di non più ritornare[6]».

Nella fissazione, che sembra frenare ogni movimento, vi è un rallentamento che esclude ogni ritorno, portando energia flessibile, libertà, indipendenza, passo dell’anima nella voce profonda della notte e solstizi come passaggi di luce: «La luce del giorno è al massimo, e ha ancora da fare qui, / almeno così pensa – / ma i rondoni della città sono nascosti / sotto le gronde misteriose / ed è quasi mezzanotte. Poi è finita – / solstizio: una porzione di meno per noi, / una di meno lasciata nel vaso».

La dimensione memoriale è l’esito di una relazione con ciò che si è perduto, guardato con tenerezza modulata nella ricerca di incontro (come The Stair – La scala, dedicata alla nonna) e nella lingua scozzese che meglio affina la dimensione memorativa.

Esiste una dolce e fitta oscurità che lega ricordo e presente, come in The Girls (Le ragazze) in cui i richiami e le rievocazioni scheggiano l’estate nel crepuscolo imminente o nella drammatica Smarrita (The Missing) che riconduce l’allungamento ellittico delle strade a un’assunzione di responsabilità. Non sappiamo come finisce la sua storia e quella di Sandra McQueen, apprendiamo l’apparenza di una scomparsa, di un attimo vibrato e breve che segna e conclude.

Vi è, dunque, in Jamie una vivida sproporzione memoriale e un orlo frastagliato di realtà, che desume sì dalla rievocazione, ma lo riporta in una condizione di attualità emersa, come la penisola di Fianuis, nelle isole Ebridi:

«Bene, amico, eccoci qui di nuovo, / a goderci l’ultimo mezzo miglio fino all’orlo frastagliato della terra / per vedere cosa ci è stato imbandito qui, sparso sul manto erboso – / piume di gabbiano, conchiglie sbiancate, / un intero maschio di foca, essiccato, / esausto per la fregola / (bussiamo sulla testa di cuoio, ma non c’è nessuno in casa). / Cambiamento, cambiamento – gridano le sterne laggiù / sulle rocce verso il mare / nubi in fuga e bacio salato – / tutto il resto è temporaneo, / noi e tutte le nostre opere. / Ecco perché ci piace qui, credo. / Ascolta: una breve pausa, / le note di una pispola piccole come semi» (Fianuis).

Il tentativo di recupero assomiglia a una migrazione che decifra l’esistente in una raccolta condensazione di immagini, che descrivono il singolo gesto come un’approfondita bellezza di suono e visione. Come se la realtà, appunto, dovesse essere registrata, non tanto in una percezione realista quanto piuttosto in un’affermata meta, che ora ripropone Hölderlin, ora asserisce ogni segno possibile che resiste a ogni dileguo di sgomento e congedo. Per farsi intreccio, ascolto e luce sulle maglie («Sento ancora il prurito di quella maglia che portavo, / verde a puntini marrone fatta ai ferri, / assorta su quella spiaggia / a raccogliere una conchiglia dopo l’altra. / Dov’è finita / – la lampada, e tutto quel ricamo / che illuminava / senza sprecare luce?»):

«Ricordi quel cigno? Quello selvatico che trovammo / sul prato col collo inerte, la testa rivolta a nord come un segnale, / e tu ti chinasti ad aprirgli l’ala? / Io prestai scarsa attenzione / all’elenco che facesti delle sue parti: copritrici, ulna, primarie / non sopportavo quel posto, le burrasche e il ruggito del mare / ma quell’aria – quella era una dichiarazione! / Un’ala per il vento, una potenza del bagliore del quarzo! / Un varco radioso / che si poteva aprire e da cui fuggire… / Trascinammo il cigno a ridosso di una vecchia diga / lo coprimmo per bene, una pietra bianca, / poi ci arrampicammo su fuori dal vallone. Al crinale / di nuovo, fummo investiti da una bella raffica di vento, / procedemmo incespicando, mezzo euforici, mezzo sgomenti» (Migratorio I)

 

[1] Jamie K., La compagnia più bella, a cura di Giorgia Sensi, Medusa Edizioni, Milano 2018.

[2] Cfr. Power P., The Bonniest Companie by Kathleen Jamie, (https://www.thelondonmagazine.org/the-bonniest-companie-by-kathleen-jamie/), Dec 22, 2015.

[3] Sensi G., Introduzione, in Jamie K., La compagnia più bella, cit., pp. 10-11.

[4] Battaglini I., Lezioni alla Scuola di Psicoterapia Erich Fromm di Prato, a.a. 2017-2018.

[5] Rumens C., Poem of the week: The Hinds by Kathleen Jamie, (https://www.theguardian.com/books/booksblog/2015/oct/05/poem-of-the-week-the-hinds-by-kathleen-jamie), Oct 5, 2015.

[6] Sensi G. cit., p.11.

Jamie K., La compagnia più bella, a cura di Giorgia Sensi, Medusa Edizioni, Milano 2018, pp. 131, Euro 16.

Jamie K., La compagnia più bella, a cura di Giorgia Sensi, Medusa Edizioni, Milano 2018.

Battaglini I., Lezioni alla Scuola di Psicoterapia Erich Fromm di Prato, a.a. 2017-2018.

Power P., The Bonniest Companie by Kathleen Jamie, (https://www.thelondonmagazine.org/the-bonniest-companie-by-kathleen-jamie/), Dec 22, 2015.

Rumens C., Poem of the week: The Hinds by Kathleen Jamie, (https://www.theguardian.com/books/booksblog/2015/oct/05/poem-of-the-week-the-hinds-by-kathleen-jamie), Oct 5, 2015.

 

Rivoluzioni frommiane

di Guido Rutili 8 maggio 2018

PARTE PRIMA

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Erich Fromm evidenzia una dimensione dell’amore che fa riflettere:

la responsabilità, nel vero senso della parola, è un atto strettamente volontario; è la mia risposta al bisogno, espresso o inespresso, di un altro essere umano.

Essere “responsabile” significa essere pronti e capaci di “rispondere”. […] Come Caino, domandare: -Sono il custode di mio fratello?-. La persona che ama risponde. La vita di suo fratello non è solo affare di suo fratello, ma suo. Si sente responsabile dei suoi simili così come si sente responsabile di sé stesso[1]

Il miracolo che l’autore compie nell’Arte di amare non è solo quello di celebrare l’amore, non solo quello di elevarlo a insegnamento e contemplarne la composizione sminuzzandone il principio-guida in tanti sub-elementi costituenti; non si limita neanche ad effettuare una semplice riformulazione del concetto di “responsabilità”.

Egli opera sottilmente nell’inversione di polarità.

La responsabilità, da elemento occludente e passivo che era, diviene innesco attivo ed apre inediti scenari.

Da baluardo del Super-ego aggressivo e onnipresente, prende i connotati di costituente redentore dell’istanza castrante per antonomasia.

Eppure, dice Fromm, si tratta di punti di vista.

Siamo alle solite, si torna alla storia di Saturno e Urano.

Non ci fermiamo, però alla prima lettura del mito, nella quale l’immagine feroce è del Titano che evira il genitore.

Procediamo alla seconda, la terza, la quarta, fino a fare onore al bacino di ricchezza che solo certe scritture riescono a rappresentare: una sorgente perpetua e sacra, che non genera solo acqua ma ogni sorta di manna nutritiva.

Nell’altra lettura, Saturno lo libera di qualcosa; prima di tutto da un’aggressività tanto spiccata da indurlo a dare in pasto i propri figli e confinarli (in preda alla nevrosi di controllo) nel Tartaro viscerale della moglie.

L’atto del taglio non è solo menomazione del padre. È affrancamento, nella sterilità, da un altrettanto sterile complesso di dominio eterno.

Con l’evirazione, atto dinamico, ha fine anche l’obbligo di generare lignaggi, che quasi è un paradosso.

Fromm voleva che notassimo questo tipo di sfumatura.

Il sovvertimento del punto di vista, il vero “mezzo pieno” che costituisce il nucleo stesso del pensiero produttivo.

In un’ottica archetipica: – Liberate il Senex dalle proprie vesti di agente saccente e frustrante e godete della saggezza e del “senso del tempo” di cui è portatore, facendone motore attivo per una virtuosa capacità (quantomeno) di rendervi “opportuni” in ogni contesto-.

Nel prodigio della rivoluzione di vedute acquista significato anche il nome greco di Saturno, ovvero Crono, nella virtù di colui che “porta il tempo”.

La divinità che continuo a citare è quella che sovrintende, per diritto quesito, l’istanza Freudiana super-egoica; non possiamo pensare che nelle castrazioni continue che è chiamata ad effettuare eserciti solo un’azione negativa e mai una volta agisca a beneficio dei tanti tesori che si pone la missione proteggere.

Il Super-Io positivo-frommiano è la nuova frontiera della consapevolezza; l’esercizio e la rivoluzione di vedute possono renderlo attivo e, in senso lato, positivo.

Quando mai avevamo assistito ad una rivalutazione tanto feconda ed esplicita di un elemento in ombra come il “senso di responsabilità”?

Di quante cose ulteriori diverremmo capaci, nel momento in cui il Super-Io si mettesse a remare all’unisono con le altre istanze, raddoppiandone la spinta propulsiva?

Avremmo un Io capace di accogliere i suggerimenti dell’Es nella stessa modalità fluttuante ad acritica di cui sono fatte le libere associazioni.

Avremmo la disinibizione della saggezza, la sfacciataggine della cognizione, la fluidità della libertà in ogni campo dell’esistenza, la calma dello “stare nel tempo”.

In ogni sacca di vita quotidiana sapremmo, in poche parole, quale strada intraprendere, senza fretta né esitazione, forti del proprio solido e proattivo Super-Ego.

E l’azione non avrebbe fine nell’istanza, perché essa è dimora di una nostra vecchia ed illustre conoscenza.

Il padre.

Reale, interiore, vivo o defunto, presente o assente, idealizzato o svalutato e chi più ne ha più ne metta; l’oggetto padre, insomma.

Un altro importante elemento assolto, libero di vestire panni meno severi, nelle sue versioni intrapsichica e relazionale, felice della castrazione saturnina prosciogliente.

Proprio così: Fromm riesce a restituire energia propulsiva alla figura paterna, cosa che non aveva trovato (apparentemente) dipanamento nelle due o tre generazione che ormai ci separano da lui!

Il re e il maschile, un fondamentale costituente del nostro Io dicotomico ermafrodito, affrancato in un solo passaggio.

La ricetta frommiana ritrovata pare trovare i propri equilibri non tanto nell’ingrediente ma nel suo stato di “attivazione”.

Volendo rendere produttiva la responsabilità dovremo prima renderla attiva da passiva che era, motrice da subìta, eterodiretta da auto-imposta, mai più lasciata giacere nel bacino della stasi.

Se non ci fosse attivazione, non potrebbero essere gettate le basi per configurare un’arte.

Dell’ultimo termine, difatti, colpisce una definizione, semplicemente ricavabile dalla prima ricerca sul web: “qualsiasi forma di attività dell’uomo come riprova o esaltazione del suo talento inventivo e della sua capacità espressiva”.

Esprimersi è fornire alla domanda interna una risposta che può permettersi di essere dilagante nel mondo esterno.

L’arte di amare, in poche parole, è imparare a conferire all’ente interno, incorporeo e desiderante (totipotente, ancora latente) la fluidità materiale necessaria per espandersi a macchia d’olio.

Sui corpi, le cose, le istanze del mondo che prima di tale operazione sentiamo estraneo.

Allora amiamo per esprimerci, renderci progressivamente consapevoli, individuarci.

Amiamo per esistere.

Pensiamo che tutto questo sia rivoluzionario? Eppure la responsabilità non è che uno dei quattro principi che l’autore dell’Arte di amare riconfigura e ri-attiva, rendendoli colonne portanti dell’essere capace di “essere”.

Premura, responsabilità e comprensione sono strettamente legate tra loro. Sono un complesso di virtù che fanno parte di una personalità matura, di una persona che sviluppa proficuamente i suoi poteri, che sa quello che vuole, che ha abbandonato sogni narcisistici di onniscienza e onnipotenza, che ha acquisito l’umiltà fondata sulla forza intima che solo l’attività produttiva può dare[2]

 La premura è il secondo elemento.

Questa volta parla di madre eppure, al contempo, cessa di farlo, perché anche questo costituirebbe la prima lettura, quella più immediata e, di conseguenza, più banale.

L’amore è premura soprattutto nell’amore della madre per il bambino. Noi non avremmo nessuna prova di questo amore se la vedessimo trascurare il suo piccolo. […] Amore è interesse attivo per la vita e la crescita di ciò che amiamo. Là dove manca questo interesse, non esiste amore[3]

 Siamo ancora in presenza di qualcosa che fisiologicamente appare statico e per rendersi mobile presuppone “lavoro”.

Lavoro concepito come nella mente del matematico francese Gaspard Gustave de Coriolis: variazione di energia cinetica.

Lavoro rendicontato.

In altre parole: forza trasformativa.

Non possiamo pensare di imparare un’arte giacendo inerti sul divano o attendendo che la genetica evolva senza premesse darwiniane.

Come dire: è l’amore un’arte? Allora richiede sforzo e saggezza![4]

La premura, oltre che essere presente, rende il proprio palesamento quota costituente imprescindibile.

Non è strano, è semplicemente eterodiretto.

Come l’amore di Fromm; come l’arte di esprimerlo e, nel farlo, di provarlo.

Nel libro di Giona, che l’autore cita, perfino Dio decide di rimarcarlo: -Tu hai avuto pietà sotto la pianta per la cui crescita tu non hai lavorato. Essa è cresciuta in una notte, ed è morta in una notte!-[5]

Ed anche questo Dio è Super-ego, ancora una volta presente nella propria accezione positiva e proattiva: una sfaccettatura che comincia ad essere non più soltanto enfatizzata, ma divinizzata!

La madre, dicevo, scompare.

Scompare perché, una volta compiuto il prodigio della mobilitazione di principi inizialmente passivi, il maternage può lasciare posto ad altro.

Essi si compiono, quindi la madre, che esercita bene la premura, afferma sé stessa e completa l’oggetto delle proprie cure, poi lo affranca dalla propria presenza.

Due parole hanno reso liberi due genitori: responsabilità ha elaborato il padre e premura la madre.

Semplice. Come la scrittura dell’autore. Cristallino.

Ora che l’Io è ri-composto con due presenze di genere e pare completo, cos’altro potrebbe suggerire Fromm che non ha già detto?

Rispetto e conoscenza.

In buona parte “parenti”, l’uno della responsabilità, l’altra della premura.

Essere responsabili implica rispetto, premurosi conoscenza.

Però queste due nuove parole servono a tracciare qualcosa che non era emerso.

La distanza.

Essere premurosi ha una distanza non nota, ma esserlo conoscendo profondamente l’oggetto della propria premura rende inevitabilmente prossimi.

[…] per conoscere pienamente nell’atto d’amore, devo conoscere psicologicamente la persona amata  e me stesso, obiettivamente, devo vederla qual è in realtà, abbandonare le illusioni, il quadro contorto che ho di lei[6]

 Essere responsabili ha un raggio ampio ma esserlo rispettando l’oggetto verso il quale si è responsabili, porta vis à vis con l’altro.

Rispetto non è timore né terrore; esso denota, nel vero senso della parola (respicere = guardare), la capacità di vedere una persona com’è, di conoscerne la vera individualità[7]

 Le rivoluzioni Di Erich Fromm sono dinamicamente frontali, center to center.

Per questo convince, per questo innova.

 

[1] Erich Fromm, L’arte di amare, Mondadori editore, 1986 Milano

[2] ibidem

[3] ibidem

[4] Così ha inizio l’opera di Erich Fromm, L’arte di amare.

[5] Erich Fromm, L’arte di amare, Mondadori editore, 1986 Milano

[6] ibidem

[7] ibidem

PARTE SECONDA

21 maggio 2018

leggi in pdf  Rivoluzioni frommiane – Seconda Parte

La psicologia come scienza ha i suoi limiti, e come la conseguenza logica della teologia è il misticismo, così la conseguenza diretta della psicologia è l’amore[1]

L’amore è inizialmente trattato da Fromm come effetto di una solitudine esistenziale, che riesce a trasformarsi in atto compiuto soltanto attraverso l’unione universale.

L’universale appartiene a Dio, così come “quel” tipo di unione nucleare col creato e col trascendente. L’unione immanente la rispecchia da quaggiù (allo stesso modo in cui la generazione di un figlio rispecchia la creazione) attraverso la congiunzione tra maschile e femminile.

L’unione universale poggia sull’amore universale, quella umana sull’amore polare inteso come campo gravitazionale che spinge il principio femminile verso quello maschile; se in ambedue i casi l’amore è arte, si passa da “arte dell’Anima” (di subodorare l’eterno) a “arte della mente” (di riconoscere l’altro prossimo idoneo).

In ogni caso abbiamo redenzione: guarigione mistica da una parte, trattamento psicoterapeutico dall’altra.

Pace dell’anima o benessere psicofisico.

Ancora una volta semplice, ancora una volta sorprendente.

Fromm parla quando tace, nel riverbero delle parole appena pronunciate. Così facendo, definisce.

La conseguenza del logos del soffio vitale (psicologia, perché le parole pesano), o chiave di traduzione dalla lingua degli angeli a quella con cui noi non-divini possiamo comunicare, è l’attrazione polare.

Cos’ha da invidiare, tale speculazione umanistica, alla recente scoperta della parentela tra gravità e tempo, ultima frontiera della fisica quantistica, acme della ricerca dissecante-analitica, reiterata all’infinito da refusi nevrotico-mercuriali ormai connaturati nell’uomo moderno?

Amore: attrazione tra istanze.

Gravità: attrazione tra corpi.

Misticismo: attrazione verso Dio.

Tempo: attrazione tra eventi quantistici.

Assiomi equivalenti che si ripetono in diverse dimensioni?

Con la domanda ancora sospesa abbassiamoci di quota, torniamo nel solo dominio dell’uomo e parliamo di princìpi, di biologia e, al limite, di psicologia.

“[…]si leva un bisogno più immediato, più biologico: il desiderio di unione tra il polo maschile e quello femminile. Il concetto di questa polarizzazione è espresso in modo efficace nel mito che in origine l’uomo e la donna erano un unico essere, che furono tagliati a metà, e da allora ogni maschio è alla ricerca della parte femminile di sé stesso, in modo da potersi riunire con essa.

[…] La polarizzazione sessuale porta l’uomo a cercare l’unione in modo preciso: quello della fusione con l’altro sesso. La polarità tra maschio e femmina esiste anche “tra” ogni uomo ed ogni donna. Così come fisiologicamente l’uomo e la donna hanno in sé gli ormoni del sesso opposto, essi sono anche bisessuali in senso psicologico. Portano in sé stessi il principio del ricevere e del dare, della materia e dello spirito”[2]

Difficile scappare dalla riflessione, leggendo certi pensieri.

C’è un motivo.

Fromm è un cannocchiale.

Lo stesso con cui Galileo ebbe l’occasione e la fortuna di diventare eretico e lo stesso che permise a Copernico di ribaltare gli schemi antropocentrici, rendendoli “principio-centrici”.

Se osserviamo da fuori lo “strumento ottico” Fromm possiamo bearci della scorrevolezza della sua scrittura, della bellezza formale e del messaggio costante e fluido, ma guardandoci dentro, rischieremo di comprendere!

Dall’inizio: difficile pensare all’amore senza considerare l’attrazione di genere, perché si riforma il tao, prende anima la matrioska della vita in cui, alla Ficino, il piccolo è come il grande e il grande come il piccolo.

Tale dinamica di seduzione agganciamento e sintesi, avviene tra princìpi prima ancora che tra generi.

Ed ecco che prende corpo la psicologia; sebbene l’Arte di amare non abbia alcuna pretesa di essere uno strumento tra le mani del professionista psicologo, si innalza a trattato fondamentale per tale figura.

Dice in questi passaggi che l’ermafrodito psichico che abita il nucleo di ognuno rappresenta già il luogo di convivenza taoista e gravitazionale tra due energie di genere e che l’attrazione maschio-femmina “somatici” semplicemente lo ricorda, senza tuttavia rappresentare l’elemento causale.

Dice che l’accoppiamento sessuale e sessuato che reca la nuova vita biologica rispecchia la morula psichica che porta all’integrità dell’Io.

Dice che l’equilibrio tra maschile e femminile determina l’uomo più di quanto altri equilibri corollari possano fare, poiché il mysterium coniunctionis è tra re e regina, nord e sud, padre e madre, positivo e negativo, non tra altre polarità, ammesso che esistano.

Forgia l’uomo dall’Anima androgina, ricavandolo da una pietra che al suo interno già l’ospitava, come un novello Michelangelo, dimostrandoci che il maschio senza femmina e la femmina senza maschio non creano il campo e proprio per questo ogni essere, seppure caratterizzato più dall’uno che dall’altro, non può negare che l’altra parte lo costituisca.

Nella prassi terapeutica ritengo che questo sia un caposaldo.

Per ogni professionista: partire dal nucleo, dall’istanza più interna alla più esterna, dagli equilibri archetipici dell’Io, prima di curarsi di ciò che gli gravita attorno.

Difficilmente avremo la comparsa del disagio in una persona che ha ben presente l’istanza di padre e quella di madre nucleari; perché dunque curare i processi nevrotici ignorando che, alla loro base, qualcosa lavora seguendo asimmetrie non fisiologiche?

L’Io bisessuato. Fresco di conio frommiano: rivoluzione numero 2!

E se Fromm, anch’esso umano e dunque fallace, afferma che il padre della psicoanalisi sbagli (scrivendo: Egli [Freud, N.d.A.] espresse questa teoria nel volume “tre saggi sulla sessualità”, sostenendo che la libido ha una natura maschile, senza nemmeno considerare che ci sia una libido anche nella donna[3]), perdoneremo facilmente la svista: alla base sta la contestazione che gli fu contemporanea e che domina ogni altra epoca. In ogni momento storico, homo homini lupus, tendiamo inevitabilmente a disconfermare i giganti che ci portano sulle loro spalle!

Freud ed i suoi successori, tra cui l’autore di cui stiamo parlando, hanno linguaggi del tutto affini, consapevolmente o meno.

Esaminando le parole riportate in Fromm che cita Freud, la connotazione maschile della libido intende delinearne la fisionomia

Attiva e non passiva: maschile in questo senso.

Penetrante e non accogliente: maschile in questo senso.

Esplosiva e non implosiva: maschile in questo senso.

Dunque del tutto conforme agli assiomi dell’Arte di amare.

A questo va associato un corollario. Difficilmente, in psicologia, qualcuno ha aggiunto elementi sostanziali e veramente rilevanti al pensiero di Freud: questa frase divide chi lo ha letto da chi lo ha compreso.

Possiamo lasciare ai posteri l’onore di avere approfondito magistralmente la sua teoria.

Possiamo lasciare a tutti noi la capacità di decrittare e scompattare ciò che un uomo non poteva dire in una sola vita.

Fromm, certamente illustre tra i discenti, con l’Arte di amare accompagna il terapeuta, accompagna l’uomo, accompagna la sintesi nell’Io e porta giustizia all’essenza dell’amore.

[1] Erich Fromm, L’arte di amare, Mondadori editore, 1986 Milano

[2] Ibidem

[3] Ibidem