La salute mentale dei migranti in restrizione di libertà

di Ezio Benelli e Nicoletta Nicastro 8 gennaio 2019

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Nei nostri Istituti penitenziari è presente un elevato numero di migranti e tale dato è purtroppo in costante crescita. Facendo riferimento alle statistiche del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP), in data 30 aprile 2018 erano presenti 58.285 detenuti, di cui 19.844 stranieri. Le maggiori presenze riguardano persone provenienti dal Marocco, Romania, Albania e Nigeria. Soltanto in Toscana sono presenti circa 3.300 detenuti, numero che evidenzia un importante sovraffollamento. In particolare, sempre per ciò che concerne la regione Toscana, nella casa circondariale di Grosseto è presente un sovraffollamento del 180 %; nella Casa di reclusione di San Gimignano il 155,3 %; infine presso Sollicciano a Firenze è del 141 %.

Gli Istituti penitenziari Toscani sono soprattutto maschili, solo 3 strutture su 18 ospitano reclusi di sesso femminile (Sollicciano, Pisa ed Empoli).

Effettuando un maggiore focus sugli aspetti socio-demografici possiamo evidenziare che la popolazione di riferimento è composta prevalentemente da uomini (N=2,973; 96 %). L’età media dei detenuti rispetto alla popolazione libera si aggira fra i 40,6 anni – 52,9 anni. I detenuti stranieri in Toscana sono pari al 48,4 % rispetto al totale della media nazionale del 34 %.  La suddivisione per Paese di provenienza non mostra, invece, particolari differenze.

Il livello culturale appare ancora molto basso con ben l’80% che non supera il diploma di scuola secondaria di I grado (49% registrato nella popolazione libera). Fra gli stranieri detenuti, il 40% ha conseguito soltanto la licenza elementare.

L’OMS promuove una lotta alle «disuguaglianze di salute» che risulta necessaria poiché la maggior parte dei detenuti provengono da contesti di forte svantaggio socio-economico. Sono cittadini i cui molteplici fattori, distali e prossimali, favoriscono l’insorgenza di gravi patologie croniche. Tutto questo rende particolarmente importanti gli interventi di prevenzione e di cura dei migranti.

Oltre agli aspetti suddetti, la tutela e la cura della loro salute rappresenta un criterio di civiltà che non solo protegge il singolo individuo ma l’intera società, nella quale essi rientreranno dopo l’allontanamento più o meno lungo in ragione del reato commesso.

Alla base dell’Ordinamento Penitenziario vige il principio di individualizzazione del trattamento con l’obiettivo di supportare e rieducare il detenuto attraverso non solo figure professionali esperte ma anche attraverso il mantenimento di elementi essenziali al benessere della persona quali la famiglia, l’istruzione, il lavoro, la professione del proprio culto, i rapporti con l’ambiente esterno ed attività ricreative sportive e culturali.

Sulla base di quanto appena detto, il Ministero della Giustizia e la Regione Toscana si impegnano nel porre iniziative che rendano concreto il principio della parità del trattamento penitenziario tra cittadini italiani e stranieri, nomadi ed apolidi, sia adulti che minorenni. Lo stesso Ordinamento Penitenziario all’art. 1 recita che il trattamento è improntato sul principio di uguaglianza e deve essere privo di discriminazioni e prevede inoltre che il trattamento sia attuato in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti.

Al fine di un efficace trattamento bisogna tenere conto del disagio e della sofferenza psichica che caratterizza la storia personale di ogni migrante. La separazione dagli affetti e dalle proprie origini, la partenza, il viaggio, l’arrivo e l’incognito, creano situazioni di ansia e producono la rottura di equilibri prestabiliti.

La migrazione rimane un enigma per i clinici perché non tutti i migranti attraversano le stesse esperienze, o si situano in contesti sociali simili. Essi non preparano il loro viaggio allo stesso modo e non sono mossi dalle stesse ragioni. È il processo migratorio stesso e i conseguenti aggiustamenti culturali e sociali ad avere un ruolo sulla salute mentale dell’individuo.

Il viaggio del migrante è qualcosa che viene preparato molto tempo prima. Inoltre il soggetto migrante è scelto dalla famiglia secondo qualità di forza e resistenza. Sarà dunque il più forte della famiglia a partire per il viaggio.

Le variabili psicologiche del migrante secondo il viaggio sono principalmente di tre tipi:

  • variabili di origine, di partenza (pre-migratorie) tra cui la personalità dell’individuo, la cultura di provenienza;
  • variabili di percorso, di tragitto (migratorie) tra cui la transizione fisica da un paese all’altro, l’attraversamento, lo stress;
  • variabili di conclusione, di integrazione (post-migratorie) variabili connesse con l’integrazione, la differenza culturale, la ricerca del lavoro.

La migrazione sottopone individui e gruppi ad una diminuzione dei sistemi di compensazione e di difesa. Essa agisce sulle strutture psichiche e poi su quelle identitarie, come un evento plasmante.

La fase del processo migratorio che ha un maggiore impatto sulla salute mentale del soggetto è proprio l’arrivo. Poiché, per quanto la partenza e il viaggio siano stati dolorosi, l’arrivo è nell’immaginario del migrante la salvezza, la ricompensa al sacrificio e al rischio affrontato. A causa di questo, il momento dell’arrivo delude il migrante, che verrà a trovarsi in una condizione di disadattamento, povertà e solitudine. Probabilmente è proprio in questa fase che si delineano le prime predisposizioni al reato.

L’impatto doloroso dell’arrivo si evince anche dai risultati ottenuti al test LimFs, un questionario utilizzato per valutare le esperienze traumatiche e le difficoltà di vita in contesti migratori suddivise in tre momenti: prima della partenza, durante il viaggio e all’arrivo in Italia. Ciò che emerge, è che l’arrivo in Italia sembra essere il momento più traumatico per loro.

Tutto questo, infatti, rappresenta un momento contraddittorio di sofferenza e di aspettative. L’emigrante si trova a dover ridefinire il proprio progetto di vita e molto spesso anche la propria identità. Inoltre, viene esposto al lutto della separazione dalle proprie origini, dai legami affettivi interiorizzati nella sua costruzione psico-affettiva, sofferenze queste che sono molto complesse da elaborare.

Un altro momento delicato da prendere in considerazione come abbiamo detto è la partenza, le condizioni nelle quali è avvenuta, i motivi che sottostanno a tale scelta e che condizionano tutta la traiettoria del migrante. Per traiettoria non si intende soltanto una condizione geografica ma anche mentale ed emotiva. Altrettanto rilevanti sono le aspettative e le condizioni dell’arrivo poiché soprattutto se deludenti o sofferte possono condizionare tutto il percorso futuro.

Una volta giunto l’immigrato si trova nello stesso tempo a dovere riorganizzare la sua vita e ricostruire il senso della sua esistenza.

Possiamo comprendere come essi si ritrovano così a vivere un enorme disagio che può manifestarsi attraverso varie forme di somatizzazione; la sofferenza dell’essere escluso, del sentirsi di troppo diventa talvolta insopportabile. Tahar Ben Jelloun nell’”Estreme solitudine” ha messo in risalto l’importanza del corpo nelle manifestazioni del disagio e nella percezione di sé in relazione con la società. Situazioni quali la solitudine, l’esclusione sociale, le condizioni lavorative pesanti, l’assenza di una rete familiare di supporto possono portare a un “vuoto affettivo” nell’immigrato che corre il rischio di divenire straniero a sé stesso. Il grande antropologo Ernesto De Martino, parlava di “crisi della presenza” per spiegare i processi di alienazione e di depersonalizzazione nelle situazioni di crisi psichica. Il non esserci nel mondo e col mondo, sono vissuti che possono rappresentare molti immigrati.

E’ evidente dunque come l’intervento sul disagio del migrante sia un processo particolarmente delicato. Inoltre, se come già detto il trattamento penitenziario si basa anche sul mantenimento dei rapporti familiari, lavorativi, scolastici, religiosi e sociali, è abbastanza evidente come tali elementi siano più complessi da restaurare nel migrante detenuto. Si corre così il rischio che la misura restrittiva perda il suo valore rieducativo e diventi un ulteriore esperienza di emarginazione, solitudine e sofferenza.

La maggioranza degli stranieri in detenzione ha una elevata fragilità sia dal punto di vista fisico che psichico, spesso sono malate a causa delle trascuratezze sanitarie e con rilevanti disagi psichici pertanto il carcere diventa così un luogo materiale di contenimento, così da rendere complessa la comprensione critica del reato commesso. Il migrante all’interno della comunità detentiva è di frequente oggetto di emarginazione e di inferiorità sociale.

Al momento dell’ingresso in regime di restrizione, così come i detenuti italiani, i migranti effettuano non senza difficoltà di genere linguistico, dei colloqui con lo Psichiatra, lo Psicologo ed altri esperti del Servizio Nuovi Giunti per rilevare i disagi della persona e individuare la presenza di un rischio autolesionistico e suicidario. I vissuti di emarginazione, solitudine e lontananza dagli affetti, sono elementi importanti da tenere in considerazione per il monitoraggio del rischio di suicidio.

Cosi come l’ingresso, anche il momento della scarcerazione è particolarmente critico, molto spesso con l’assenza di punti fermi e di supporto la persona straniera può facilmente tornare a delinquere.

Uno dei principali ostacoli è la lingua e che si manifesta sin dall’ingresso in Istituto. Le difficoltà linguistiche incidono notevolmente sul senso di emarginazione e isolamento rispetto agli operatori, agli altri detenuti, al personale di polizia penitenziaria e diventa più complesso osservare le regole di vita dell’istituto penitenziario, registrando così rapporti disciplinari in cui l’interessato non ne comprende a pieno il valore rieducativo. Un importante aiuto potrebbe essere rappresentato da corsi linguistici all’interno del penitenziario.

I colloqui in carcere rappresentano una ulteriore criticità, poiché la lontananza delle famiglie e le estreme difficoltà di collegarsi con loro anche attraverso vie postali e telefoniche risulta difficile in relazione alle distanze geografiche e comunque sono meno efficaci di un contatto diretto.

La religione, come detto pocanzi è uno degli elementi essenziali alla base del trattamento rieducativo penitenziario. I dati statistici sopra riportati evidenziano la prevalenza della componente di persone appartenenti alla religione islamica. A tale proposito, l’articolo 26 dell’ordinamento penitenziario, sancisce la libertà di professare la propria fede religiosa praticandone i riti con la possibilità di richiedere l’assistenza dei ministri del proprio culto. I Ministri del culto possono dunque accedere agli istituti anche senza particolari verifiche da parte della Direzione del carcere, contrariamente avviene per alcune religioni tra cui quella dell’Islam, le quali sono praticate da ministri di culto attraverso una disciplina più complessa.

Una tematica che richiede particolare attenzione professionale, soprattutto in termini preventivi, è quella dell’autolesionismo, di cui si è già accennato sopra. Essa costituisce spesso un mezzo per comunicare la propria sofferenza, la propria alienazione.

Alcuni esperti Psicologi, sostengono che la solitudine dello straniero in carcere è probabilmente causata dalla sua assenza di ruolo e di funzione. Inoltre, il migrante trovandosi in una terra differente dalle sue origini non riuscendo ha delle difficoltà nell’introiettare il disvalore e la necessità di rispetto delle regole proprio perché appartengono a un Paese a cui non appartiene.

Attraverso l’istruzione, la buona pratica religiosa, la formazione professionale e la possibilità di accedere al lavoro anche esterno si può favorire una risposta incisiva volta a promuovere un processo di integrazione che favorisca una conoscenza della nuova società a cui il migrante si trova ad appartenere.

Un ulteriore importante intervento è sicuramente di tipo preventivo che possiamo distinguere in prevenzione primaria, secondaria e terziaria. La prima è volta ad eliminare o comunque ridurre le condizioni criminogene presenti in un contesto fisico o sociale, quando ancora non si sono manifestati segnali di pericolo. La seconda è costituita da misure rivolte a gruppi a rischio di criminalità; la terza interviene quando l’azione criminale è stata già commessa, per prevenire ulteriori recidive. Analizzando la relazione tra stress post-immigrazione e salute mentale (Li S.S. et al, 2016) è stato confermato che i rifugiati dimostrano elevati tassi di PTSD e di altri disturbi psicologici. I risultati indicano fattori socioeconomici, sociali e interpersonali nonché relativi al processo di asilo e alla politica di immigrazione. Una ricerca (Guardia D., 2016) ha cercato di fornire l’incidenza di disturbi mentali nei migranti di prima, seconda e terza generazione ed ha confermato che la migrazione costituisce un elemento di rischio psicopatologico. Nella comunità sud-asiatica presente in Gran Bretagna, per esempio, è stato riscontrato un maggior tasso di incidenza di psicosi rispetto alla popolazione nativa; risultati simili sono stati rilevati nella minoranza etnica caraibico-africana.

I dati di tutte le ricerche esaminate confermano che i fattori di stress post-migratori o legati all’ambientamento e all’integrazione sono stati i principali correlati della salute mentale negli immigrati umanitari.

Diventa necessario quindi programmare interventi di prevenzione e di riduzione del danno (programmi di assistenza psicosociale e psicologica).

Risulta importante creare appartenenza. Attraverso l’istruzione, la buona pratica religiosa, la formazione professionale e la possibilità di accedere al lavoro anche esterno si può favorire una risposta incisiva volta a promuovere un processo di integrazione che favorisca una conoscenza della nuova società a cui il migrante si trova ad appartenere.

Per un intervento quanto più efficace a livello di prevenzione, sostegno, cura e riabilitazione del disagio psichico del migrante è importante impegnarsi professionalmente in una dimensione multidisciplinare che possa condurre al benessere del soggetto e del contesto sociale in cui è inserito.

In conclusione, è opportuno sottolineare che alla luce di tutti questi fattori di rischio e di fragilità che espongono maggiormente i migranti alla possibilità di sviluppare disturbi mentali è necessario realizzare percorsi strutturati che coinvolgono equipe multidisciplinari (etnopsichiatri ed etnopsicologi, medici, mediatori linguistico culturali) che possano affrontare un fenomeno tanto complesso quanto collettivo.

I beneficiari di questi interventi non possono essere solo i diretti interessati nella migrazione ma anche le generazioni successive poiché i fattori di rischio per il disagio psichico non si esauriscono alla prima generazione ma possono avere ripercussioni fino alla terza generazione.

 

Fonti bibliografiche e sitografia:

 

Abye Tasse… et al., Culture a confronto. La gestione della diversità. Roma, Fondazione Silvano Andolfi, 2000.

Alain Goussot, Disagio psichico e immigrazione.

Ambrosini Maurizio, La fatica di integrarsi. Immigrati e lavoro in Italia. Bologna, Il Mulino, 2001.

Cianconi P., Psicologia e Psicopatologia delle migrazioni, 2018.

Di Rosa G., Le solitudini in carcere. il detenuto malato e il detenuto straniero: dialogo a tre voci, 2018.

  1. Grinberg, R. Grinberg, Psicoanalisi della emigrazione e dell’esilio. Edizioni Franco Angeli collana Serie di psicologia, 1990.
  2. Lavanco, C. Novara, Psicologia della notizia: Migrando da sé stessi, 2005.

Tahar Ben Jelloun, L’estrema solitudine. Edizioni Bompiani, 1999.

www.consecutio.org/2016/10/presenza-e-crisi-della-presenza-tra-filosofia-e-psicologia/

https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_7_1.page?contentId=SCA144231&previsiousPage=mg_14_7

http://www.ristretti.it/areestudio/giuridici/op/opitaliano.htm

Roberto Carifi. Il sisma silenzioso del cuore

di Andrea Galgano 8 gennaio 2019

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Pubblicato sulla rivista Clandestino

La poesia di Roberto Carifi (1948) è segnata dal senso tragico del destino e impregnata da una sorta di umbratile e sognante polimorfia orfica[1]. Il segno dell’infanzia è abitato da una «vertigine vuota e distante», in cui l’illuminazione del mito annuncia ma non redime, dove la salvezza si nasconde nella scaturigine pietosa della mitezza e in cui il grido inane, la parola consumata, la cosmologia ombrata imprimono una scenografia «della ricezione pura del dono (della vita) perché lì si è ancora immersi nel segreto dell’apertura originaria» e dove accade

«la ferita di un peccato originario, di una colpa che viene dall’infanzia, come l’eredità di un gesto incosciente, come un evento caduto nel nostro pensiero prima che il linguaggio potesse nominarlo (ma in fondo, essendo l’uomo sempre incosciente rispetto a Dio, tutta la vita umana ai suoi occhi è un peccato originale). Il senso del tragico è propriamente il senso dell’ineluttabilità del destino, l’impossibilità cioè di uscire dalla condizione che ci è data […] L’ineluttabilità del destino, comunque, è paradossalmente la condizione perché accada l’evento salvifico, che è sempre in eccedenza rispetto alla nostra disperata speranza. Eppure, dentro questi saldi confini, il mito si insedia in un’icona condannandosi a un involontario e doloroso idillio».[2]

Nella antologia dell’opera in versi Amorosa sempre. Poesie (1980-2018)[3], appena edita da La Nave di Teseo, a cura di Alba Donati, Giulio Ferroni, nella prefazione, afferma che la poesia di Roberto Carifi si inscrive

«[…] sotto il segno dell’infanzia, percepita come scaturigine e motivazione originaria della parola, del suo cercarsi e pronunciarsi. Ma non si tratta della ricerca dei segni perduti del “vert paradis des amours enfantines”. […] L’infanzia evocata da Carifi non è un’infanzia del “prima”, ma un’infanzia del “dopo”: un “dopo” che si sostanzia dell’esperienza individuale dell’autore, della traccia di un’infanzia personale segnata da una guerra non vista, una guerra da poco conclusa, ma che vi ha pesato come un lascito di macerie, rovine, lacerazioni, negazioni; in una dolorosa persistenza a cui, nell’ambito più privato, si è accompagnato il precoce abbandono da parte del padre e un più stretto e intenso legame con la madre. Così questa poesia tende a rapportarsi ad un inizio in cui l’avvolgente protezione dell’universo materno, del mondo delle madri, si intreccia con la paura e l’angoscia dell’abbandono, del persistere delle rovine. Sul tempo del gioco e dei balocchi, sull’annuncio delle infinite possibilità che pure si disegnava nell’animo del bambino, proiettata verso l’incanto di un orizzonte “celeste”, gravavano l’eco della guerra recente e l’ansia del distacco e dell’addio; e nel desiderio poetico dell’adulto ne restano macerie, da cui sprigionano lampi di gioia e di paura, che fanno coesistere affermazione e negazione, un muoversi verso il cielo e un ricadere nella polvere della terra, una tensione verso la bellezza e una percezione del suo frantumarsi».[4]

Il mito fondante, dunque, che avverte l’eco della radicalità di Celan e dell’istanza simbolista tragica di Trakl[5] o Rilke, si attesta sull’emblema della lacerazione come scaraventata lotta e graffio, strappo e dramma della nascita, solitudine e calma sanguinante di azzurro: «A volte l’azzurro è una piaga / che rompe il quadrato / dove il mondo riposa ed ognuno / ha una gloria da condurre / nel seno della terra, una ferocia / orfana che chiama amore / e stringe chi lo separa / dalle stagioni, il buio».

A tal proposito, Valentina Giuliani:

«Nella poesia di Carifi, coesistono una concezione dell’angelo come spettacolo dell’altrove, epifania dell’oltre (ed in questo caso indubbia è la filiazione dall’angelo rilkiano) e quella dell’angelo contaminato che muore nell’abbraccio degli amanti, la cui ascendenza è piuttosto trakliana che rilkiana»[6].

E per dirla con Isabella Vincentini:

«I topoi della poesia di Carifi sono allo stesso tempo metafore letterarie e filosofiche: esilio, erranza, evento, destino, caduta, vuoto, cenere, rovine, disastro, debolezza, tracce, simulacri, distanza, infanzia e luogo, angelo e dimora, viandante e straniero, viaticità ed abitare. Sono metafore che si radicano al colloquio tra parola filosofica e parola poetica, all’Heidegger che legge Hölderlin, Rilke, Trakl e George, al Celan della “via creaturale” e dell’evento, allo Jabès dell’interrogazione e del silenzio, al Nietzsche che inaugura il pensiero del “sospetto”. Richiamano l’angelo caduto, della custodia o maledetto, l’angelo di Baudelaire, di Hölderlin o di Artaud, la casa e l’infanzia: Hölderlin, Novalis e Trakl; l’Empedocle sempre di Hölderlin: il pensatore e il cantore, la vicinanza tra pensiero e poesia. Le metafore di Carifi nascono da questa vicinanza e da Rilke a George, i poeti prediletti sono pensatori che parlano poeticamente e da Nietzsche a Heidegger, i filosofi sono quelli che parlano attraverso le immagini dei poeti».[7]

L’atto di resistenza del pensiero poetante fa avvertire il senso della soglia e del confine tra la materia vivente e ciò che vivente non è, racchiuso in una gioia povera che fronteggia la polvere e la crudezza e non vede la trasparenza del cielo, che tocca, poi, l’ordine e la sventura, l’obbedienza e i bordi della vertigine.

Il tempo di Carifi afferma i passi del fuoco, lo splendore furente dei percorsi leggeri e delle figurine increspate, della «barca prima del respiro», inginocchiata alle sillabe che «gelano al bacio della prima voce»:

«L’infanzia, ripostiglio di bambole dall’anima di piombo, scena di angeli e paure: tempo della gioia e della sventura, del pianto e delle madri, barlume di parole dettate da una voce che ordina. Tempo dell’obbedienza, di un rigore tragico e destinale, di corse eroiche e sanguinanti. Il mito, appunto, di un’infanzia custodita nel fondo del linguaggio come luogo primordiale della sua voce più dolorosa ed esatta: quella dei poeti, dei “più dicenti”, come li ha chiamati Heidegger».[8]

Il grembo racchiude la forza fecondata dell’esilio, la madre e il grembo e l’infanzia di ogni goccia che cade: «Quante volte, tra le pagine / una mano lanciata come un sasso / negli anni che sono gocce, / centimetri del tuo sangue / e la parola adolescente che consumi / come un cuore inzuppato… / finché un raggio ferisce tutto / anche gli attimi invincibili / e un angelo si solleva, / con esattezza, / trafigge la tua domanda / proprio lì, / nelle vocali».

La trasfigurazione del vissuto tenta legami impossibili tra corpo e paesaggio interiore, cosicchè la lingua, calma nel precipizio, resta nel ferro dei balocchi e nella perdita dura della vita-sorella (denso richiamo a Pasternak), come una parola oscura, in un deserto di luce o in una stagione prosciugata: «Alcuni, nell’amore, hanno parole soffocate / un gelo che disperde nei giardini / dove un angelo si inginocchia / e scavano nella tua voce / orme fecondate dalla stessa ira, / quando un grido infantile / ritorna nelle bambole / ognuno ha una sorte viicinissima al vuoto».

È, dunque, un’esistenza snidata, in cui la trama vivente sente la decisività del segno come tensione amorosa, del perdono come disposizione che si scioglie e lacerata soglia.

Giulio Ferroni afferma: «Parole rivolte verso nessuno, voci che si cancellano senza rimedio, cenere e sangue, cielo e gelo, lumi, lampade e fili di lana, vetri rotti e altri segni di lacerazione, in uno spazio linguistico che si sente come solcato da un’emergenza segreta, qualcosa che lo percorre e lo ara, come un campo […][9]».

L’abisso di Carifi[10], pur nella squarciata fenomenologia dell’istante, rivela non solo lo spazio intatto dell’infanzia, ma porge la sua domanda indimostrabile, la parola muta e trascinata dal freddo, il senso della fine come un transito sbriciolato o nascita pura, e la morte di qualunque angolo della vita che trema mostrando il suo argine sbattuto dal vento.

Esiste una cadenza della fine, della guerra, del limite ma non tanto il loro ineffabile contrario quanto piuttosto il canto, la voce che colloquia con il passato, il respiro e «la grazia / nei grammi di questo vetro rotto». È l’esilio delle periferie lunghe e dei vetri spalancati sulla polvere, quel contatto funambolico, caro a Cioran, tra la presenza, dichiarata a bassa voce, e il nulla. Non a caso una delle sezioni di Occidente (1990) è dedicata a Marina Cvaeteva, la poetessa del campo aperto alle bufere, che ha avvertito il dramma esiliato e la lontananza dell’amore della prossimità:

«A occidente affondano le navi. Quando? / È giusta la voce che racconta il nulla? / scintillano, a volte, ma non è sole / piuttosto un fuoco, un fuocherello acceso nella notte. Accade a occidente, soltanto a occidente / se danno l’ordine le mani / e comanda il gesto spaventoso. / È ora di scendere, degradare laggiù, / verso le nebbie, arrancare se occorre / come morti che cercano l’uscita: / questi sono gli ordini, poi basta. / È neve la donna che saluta i marinai, / si scioglierà dietro l’angolo, / si annullerà in segreto, / quando si accende la brace dei ricordi / a occidente è perduto chi salpa».

Nella raccolta Il figlio (1995), il «significato cristico», racchiuso nella raccolta, afferma, appieno, «[…] una franta ma irriducibile speranza fondata sulla scandalosa e denudante gratuità del dono e dell’amore[11]», e

«nella condizione filiale viene come a prolungarsi, inverarsi e trasformarsi l’essere “dopo” dell’infanzia, il suo proiettarsi in una vita adulta alimentata dal rapporto vivo con l’universo materno, con la sua durata. È una durata minacciata nel suo persistere, ma dal cui cuore ansioso scaturisce una più intensa apertura verso le presenze, gli oggetti e le forme del mondo[12]».

Attraverso l’attrito dialogico, Carifi avverte tutta la precarietà dei passaggi e dei transiti, gli allontanamenti e i non-respiri, il dolore muto dei rifugi: «Perché non durano le madri / e i figli sono un transito muto / ponti, contrade che hanno solo vento, / i figli durano fino alle madri / e poi trascorrono, si scolorisce in loro questa parola semplice, / la vita, nella penombra / dove saranno allontanati. / Perché si perde il viso delle madri, / il viso dura al cuore dei figli / dopo non batte, non respirano / hanno quell’invisibile nel cuore, / i figli».

Come l’emblema dello scialle materno, che avvolge il segno incavato nel nulla e la notte nel cuore, o l’uscio che è limen di due territori come greti. Nella preghiera elementare di Carifi, si scova tutto il dramma dell’essere, da un lato la frangibilità di figlio, dall’altra l’evocazione suprema del rapporto tra Cristo e Sua Madre.

Mauro Germani afferma:

«Occorre, però, precisare che si tratta essenzialmente di  un cristianesimo dell’abbandono,  in cui il Figlio sembra quasi  non avere un padre, in quanto viene definito anche l’Orfano, carico di dolore, portatore di una redenzione più misteriosa che certa. Egli è una figura priva di qualsiasi segno di potenza o di tri­onfo, che è chiamata dalla solitudine e dal dolore degli uomini e avanza nella notte e nel gelo del mondo; è domanda e ferita della carne, e consapevolezza della gratuità scandalosa dell’amore».[13]

L’anima orante, pur percependo sparite lontananze, vive l’attesa e la tensione, la doglianza e la penombra dell’argento che inargenta il viso, gli occhi che tremano, la benedizione e l’orfanità come inizio di poesia e, infine, l’esilio come nudità viandante: «Padre, padre / la colpa fiorisce dove secca il seme / tu sei quel male che ho visto nelle case / nella luce che separa il desco, / nella voce che non ama: / sia fatta la tua volontà / in questo esilio, / nell’ombra che sorveglio / e sangue sarà chiamato il frutto / grazie per la preghiera che mi acceca, / per le ginocchia devastate» (Padre Nostro).

Ma se la cifra poetica scopre abissi inusitati, la sua continuata sete d’amore ritrova la parola in una dimensione affettiva vera, che ha origine da una dimensione di bene e di opzione finale positiva:

«Esatta è la parola / che viene a noi dal bene, / che afferra come la mano del destino / e piega le ginocchia / e l’uno all’altra ci abbandona. / Se resta un’ombra, amore, / non sarà l’ombra del peccato / ma quella che protegge dalla luce estrema, / che custodisce lo sguardo di chi ama. / A volte il tuo viso muta, / un fragile tremore bacia le tue labbra: / soltanto il bene si mostra così, / nella minuscola piega della pelle, / nel battito sottile dello sguardo. / Il male non ha rossori, / nulla lo lascia impallidire / e si nasconde».

 Nell’oblio, nel tremore lacerato, nello sradicamento e nella disappartenenza, e nella parola accesa che, pur nel «rispecchiamento inadempiuto», nell’addio, nel sospiro innominabile, dice l’indicibile della luce estrema, la presenza arata delle cose vive, cosicchè la più logora delle parole

«è atto estremo, teso ai limiti dell’essere e del linguaggio, che prodigiosamente annuncia se stessa e la possibilità etico-estetica del dialogo, la paradossale efficienza del celaniano Atemkristall  : un flatus vocis fattosi cristallo per fragilità ma anche per purezza, nitore che garantisce un disarmato baluardo contro il nulla, proprio perché si fonda sul riconoscimento e l’apertura nei confronti di tutto ciò che è altro».[14]

L’immagine destinale dell’autunno contempla il pianto e la nostalgia di un dilagare perduto, laddove i segni del reale sono vissuti non solo in una dimensione memoriale, bensì anche prolungati nella loro ombra e sogno sparito.

«Le cose non dimenticano, / hanno troppa memoria. / Si rammenta di noi questa finestra / che un tempo, chiusa, proteggeva / i nostri corpi, lasciava passare / uno spiraglio che ti baciava il viso. / Chi sa se vedeva la minaccia, / chi sa se piange la finestra! / Ma noi duriamo, nelle cose. / E parlano, ragionano di noi, / specialmente se si accende un lume / e lo porta una mano misteriosa. / Chi sa se piangono le cose, / se questo freddo è la loro nostalgia. / Ricordi, stanza, come l’aspettavamo? / E tu, quaderno consumato, e voi, / finestra, porta, sedia con le sue forme, / terrazzo che mi somigli, cosí sospeso, / avete atteso invano il suo ritorno?»

La figura della madre, perduta nel 1997, diviene in Amore d’autunno (1998), la sua destinazione del sangue, ora scomparsa in una dimora inabitabile («Chi mai ti racconta di me, / chi mai ti rammenta il mio nome / nel regno dei non più nominati?»), «quando l’estate devastò il suo mare» e il suo scialle, contenuto nella luce notturna.

È una gioia spiata nelle ombre nude, il sorriso lasciato nell’azzurro degli alberi sottili, il messaggio scritto a singhiozzi con un cuore che saluta nella pena singolare ed universale, come avviene in La pietà e la memoria (2003): «La sentinella attende dove muore il giorno / quando ignota irrompe una natura ostile, / la specie oscura dove Dio si eclissa, / immobile custodisce un regno che vacilla / nella vertigine del lutto, / e nel suo sguardo la vecchia tessitrice / ricuce il tempo al vuoto».

Irene Battaglini afferma:

«Carifi scrive la battuta d’arresto del cuore di fronte alle cose come si offrono all’esperienza dei dettagli che può essere solo del poeta. In questo sisma che con un intaglio netto enuncia la bassa marea della rinuncia alla interezza della ragione, il cardiogramma dei versi di Carifi è una cesura delle parole a favore delle cose immaginarie in cui la fantasia è un metodo ordinato di amare dentro la vecchia promessa di una eterna rima che mai si presenta. Egli fa tornare a leggere la poesia con quella delicata intersezione dell’intarsio che è sempre timida nell’avvicinare al chiaro il più chiaro e allo scuro il meno scuro, per poi disegnare una bellezza che strizza l’occhio all’infinito e prende di mira l’Altro, cui si rivolge con determinata eleganza, nel suo limite umano che nel verso si innalza a domanda di domani, e così fai i conti, Carifi come il lettore, con l’estrema ratio della cosa da sola, quella che non ha altra risposta se non con il vissuto della parola piena».[15]

In Il gelo e la luce (2003), Carifi, come sostiene Nicola Vacca, tenta di strappare al messaggio divino una promessa di redenzione[16], e dove «Il gelo e la luce insieme  scandiscono il cammino  dell’esistenza: tra notti siderali, vertigini del Vuoto e stelle di terrea notte, che si affacciano alla finestra del silenzio, Carifi si avventura per cercare l’uomo nel sogno improvviso di ombre colme di luce[17]»: «Parlavo d’amore alla morte, / indossavo la notte, / un ciuffo di capelli intirizzito, / tenevo nel palmo della mano / l’occhio materno, / gelò in piena estate vestito di pietra / lo volle la notte, / la morte abitò come un’alba il suo giorno, / facevo battere un cuore / con le poche parole rimaste / e al nulla parlavo d’amore».

Il mondo di Tibet (2011), la compattezza del mondo, l’ascesa della trascendenza, il visibile che coincide con l’invisibile[18], conducono, come testimoniato dalla sua conversione al buddismo, «ad un affidamento al negativo che salta la contraddizione del nichilismo occidentale: ora la voce tende ad una cancellazione luminosa di sé, approda a una negazione dell’io e ad un movimento di identificazione con un nulla/nirvana[19]».

Il rovesciamento dell’io è qui conquista, grazia ed abbandono, esilio e benedetta vitalità che erompe dai margini, diventando oltre, metanoia: «Scopri dov’è il nulla, / dov’è la tua divisa e la tua neve / poi comincia a salire / sempre più su, fino all’aperto / e da lì senti l’ululato / che piange, che piange / ti sentirai trasformato / fino alle braccia spalancate», o ancora il rastremato istante che si porge in tutto il suo tragico volo d’infanzia: «Ora è l’attimo che attende, / è l’istante che prepara i tempi / a un altro istante dove si deve attendere l’infanzia, / quella bastarda che era là, tragico volo dei bambini, / poi arriva la giovinezza senza tragedia / solo una pelle che prepara l’ictus, / allora sarò fatto santo […]».

Nel dialogo evocativo di Madre (2014), la memoria frammentata della madre, gli oggetti franti, l’immagine della quotidiana disadorna[20] (il tavolo di noce, il cappellino rosso, i boschi di mirtilli, il gladiolo nella mano), attestano lo sforzo di un approdo assottigliato, di un pronunciamento insonne: «Amorosa sempre, con quel vestito rosa / e un ciuffo di gladioli nella mano / ora sono tanti anni che sei partita, spero / in un lampo di santità, dammi un segno / della tua compassione, della tua carità, / attendo con pazienza anch’io invecchio / un giorno sarò un altro e ci incontreremo / in ogni forma di vita, ti riconoscerò da quel / gladiolo nella mano».

Vi sono luoghi di Terra Pura con vesti chiare e trasparenti, Nirvana, Grande Nulla e spazi di aria, confusioni di tempo[21] che ricongiungono estremità come incidenti impalcabili e veli («Dieci anni fa stavo per morire. Poi fui trasportato / in uno spazio di recupero, sprofondato in una sedia a rotelle / e non parlavo più. La notte sentivo che mi parlavi, avresti / voluto piangere o forse era la madre di un bambino morto, / pregavo per te, pregavo per tutti, a volte ti vedevo soltanto io / passeggiare come un’ombra») che definiscono l’ultimo e insaziato riscatto.

[1] Pratesi D., La solitudine corale di Roberto Carifi, in «La Vita», 24, 19 giugno 2011.

[2] Temporelli A., Il pathos del sublime. La poesia di Roberto Carifi, (www.andreatemporelli.com/2017/02/20/poeti-contemporanei-roberto-carifi/), 20 febbraio 2017.

[3] Carifi R., Amorosa sempre. Poesie (1980-2018), a cura di Alba Donati, prefazione di Giulio Ferroni, La Nave di Teseo, Milano 2018.

[4] Ferroni G., Prefazione, in Carifi R., cit., pp.17-18.

[5] Galaverni R., L’infanzia non è un Eden. Anche il male comincia da lì, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 23 dicembre 2018.

[6] Giuliani V., L’eredità di Rilke nella poesia di Roberto Carifi, in «I Quaderni del Battello Ebbro», III, 5, 1990, p. 19.

[7] Vincentini I., Topografia di una metafora, in «I Quaderni del Battello Ebbro», III, 5, 1990, pp. 36-7.

[8] Carifi R., cit., pp.25-26.

[9] Ferroni G., cit., p.19.

[10] Cfr. Scorrano F. A., La conoscenza dell’altro. – L’uomo del pensiero: Roberto Carifi, Edizione Polistampa, Firenze 2006.

[11] Mussapi R., nota a Il Figlio, Jaca Book, Milano 1995.

[12] Ferroni G., cit., pp.19-20.

[13] Germani R., Roberto Carifi: la domanda e l’attesa, (https://poetarumsilva.com/2014/09/08/roberto-carifi-la-domanda-e-lattesa-di-mauro-germani/), 8.09.2014.

[14] Marchi M., L’angelo spoglio di Roberto Carifi, (https://www.quotidiano.net/blog/marchi/lamore-dautunno-di-roberto-carifi-83.34156), 16 dicembre 2015.

[15] Battaglini I., Lezioni alla Scuola di Psicoterapia Erich Fromm di Prato, a.a. 2018-2019.

[16] Cfr. Bartoli R., La tragica religiosità di Roberto Carifi, in «Poesia», 137, marzo 2000.

[17] Vacca N., Carifi e la filosofia di un poeta, (https://zonadidisagio.wordpress.com/2015/03/07/carifi-e-la-filosofia-di-un-poeta/), 7 marzo 2015.

[18] Cordelli F., Carifi oltre il tetto del pensiero, in “Corriere della Sera”, 30 maggio 2011.

[19] Ferroni G., cit., p.21.

[20] Cfr. Ramat S., Roberto Carifi nel nome della madre, in “Il Giornale”, 1 settembre 2007.

[21] Grattacaso G., Supplica alla madre, (www.succedeoggi.it/2014/04/supplica-alla-madre/).

Carifi R., Amorosa sempre. Poesie (1980-2018), a cura di Alba Donati, prefazione di Giulio Ferroni, La Nave di Teseo, Milano 2018, pp. 357, Euro 18.

Carifi R., Amorosa sempre. Poesie (1980-2018), a cura di Alba Donati, prefazione di Giulio Ferroni, La Nave di Teseo, Milano 2018.

Battaglini I., Lezioni alla Scuola di Psicoterapia Erich Fromm di Prato, a.a. 2018-2019.

Cordelli F., Carifi oltre il tetto del pensiero, in “Corriere della Sera”, 30 maggio 2011.

Galaverni R., L’infanzia non è un Eden. Anche il male comincia da lì, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 23 dicembre 2018.

Giuliani V., L’eredità di Rilke nella poesia di Roberto Carifi, in «I Quaderni del Battello Ebbro», III, 5, 1990.

Grattacaso G., Supplica alla madre, (www.succedeoggi.it/2014/04/supplica-alla-madre/).

Marchi M., L’angelo spoglio di Roberto Carifi, (https://www.quotidiano.net/blog/marchi/lamore-dautunno-di-roberto-carifi-83.34156), 16 dicembre 2015.da, Parma-Milano 1998);

Pratesi D., La solitudine corale di Roberto Carifi, in «La Vita», 24, 19 giugno 2011.

Scorrano F. A., La conoscenza dell’altro. – L’uomo del pensiero: Roberto Carifi, Edizione Polistampa, Firenze 2006.

Vacca N., Carifi e la filosofia di un poeta, (https://zonadidisagio.wordpress.com/2015/03/07/carifi-e-la-filosofia-di-un-poeta/), 7 marzo 2015.

Vincentini I., Topografia di una metafora, in «I Quaderni del Battello Ebbro», III, 5, 1990.