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Il sangue amaro di Valerio Magrelli

di Andrea Galgano             23 aprile 2014

recensioni Il sangue amaro di Valerio Magrelli

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Il nuovo libro di Valerio Magrelli (1957), Il sangue amaro, edito da Einaudi, fodera la quotidianità in un paesaggio di voci dispiegate, dediche improvvise, riferimenti estesi ad amici e anime interlocutrici, ai vocativi allusi.

Il dialogo si frastaglia in un contatto che riflette e confessa, si allontana dalla figuralità di immagini e apre la sua scena alla simmetria degli specchi e dei suoni, ai chiasmi del timore e del tremore, della convivenza sociale e della lotta civile

In un articolo su «Il Sole24 ore» del 17 marzo 2014, Gabriele Pedullà scrive che: «Questo affollamento ha sicuramente a che fare con l’approfondirsi di una vena civile che nelle prime raccolte sarebbe stato difficile da prevedere. Quando è che l’io incontra il noi? Dietro l’omaggio o il saluto, di là dal vetro i nomi e i referenti particolari sembrano rimandare a una comunità perduta, o a una ipotetica comunità a venire. Nel presente, invece, c’è solo il vuoto. Curiosamente infatti, non appena entriamo nei testi, ci accorgiamo che, esclusa la famiglia, le poche entità collettive evocate si reggono tutte su una privazione originaria: i giovani senza lavoro, gli odiatori disperati che scrivono insulti nei bagni pubblici, gli uomini bruciati assieme nelle Torri Gemelle o, con un altro rogo, gli operai periti nell’incidente della Thyssen. All’impossibilità kantiana di attingere alla cosa in sé si aggiunge ora, dunque, una paralisi storica. Al punto che, nell’età della trasformazione della politica in scienza della governamentalità e della governance, le dediche si rivelano altrettanti tentativi di fare gruppo: se necessario oltre lo spazio e il tempo. Invocazioni di aiuto almeno quanto profferte di affetto ai vivi e ai morti».

L’io, pertanto, vive «l’aria del nostro tempo» (Gabriele Pedullà), come squarcio ferito di ansia, confine che «avvampa e non consuma», come un bisticcio con l’esterno che stritola, annienta, sbilancia la sua malinconia nei paradisi perduti della lettura «Trovarsi a fianco qualcuno assorto nella lettura, / mi porta a domandargli. Dove sei? / per questo cerco di cercarti dentro, / di raggiungerti dentro quel dentro / da cui mi sento irrimediabilmente escluso».

La sua esattezza di figura, se da un lato condensa il proprio residuo interiore, dall’altro esprime la vertigine franta delle cose, articolando la concreta condensazione vista in Ora serrata retinae (1980), attraverso la nominazione e la paura insozzata delle soglie: «Da una finestra aperta non entra soltanto la luce; / a volte può entrare dell’altro che non avresti voluto. / Lo schifo, lo schifo, lo schifo di un animale che vola / in mezzo alle cose di casa violando lo spazio privato, / quell’unico spazio che resta di qua dalla finestra» o ancora adempiere l’infernale ignoto di una tecnologia avara e della burocrazia che sembra lasciare un vuoto estinto: «Natale, credo, scada il bollino blu / del motorino, il canone URAR TV, / poi l’ICI e in più il secondo / acconto IRPEF – o era INRI? / La password, il codice utente, PIN e PUK / sono le nostre dolcissime metastasi. / ciò è bene, perché io amo i contributi, / l’anestesia, l’anagrafe telematica, / ma sento che qualcosa è andato perso / e insieme che il dolore mi è rimasto / mentre mi prende acuta nostalgia / per una forma di vita estinta: la mia».

Commenta Pedullà: «Generalizzando, si potrebbe dire che in questo nuovo Magrelli le parole ripetute alludono a una tragedia (o comunque a un trauma) che si ripresenta rigorosamente in forma di commedia. A essere amaro, in queste poesie, è infatti soprattutto il riso. Il quale non è mai stato così abbondante nelle opere precedenti di Magrelli, ma – contrariamente a quanto asserisce il noto proverbio – qui non “fa buon sangue”. Mai».

Sono oggetti violenti di mete ignote di cittadino, luce orfana di un movimento, come «un vento che soffia da dentro / per scuotere le foglie delle dita / e non si ferma più» e questo stormire di fronde porterà a una tramutazione «in betulla / o in un cipresso sul bordo del fiume, / con quel tremolare di luci / alzate dalla brezza. / mi farò soffio, mi farò soffiare, / panno lasciato al sole ad asciugare».

Il disfacimento disincantato del gesto poetico di Magrelli ha l’amarezza del riso e del sangue, l’esterno che penetra lo sporgersi verso l’abisso («Ecco perché vengo avanti piano piano, / come sull’orlo di un baratro. / Ecco perché mi protendo verso il vuoto / in fondo al quale posso a malapena intravederti»), il diario del tempo che squaderna le ferite e il disincanto escluso, come una smarrita enclave di parola silenziosa («Il vuoto del tuo corpo, / il suo silenzio, / dimostrano che il padrone non è in casa. / resta solo il cappello, posato sulla sedia / per occupare il posto dell’assente. / Quando leggi, vai via, e mi lasci solo») oppure il ritmo della vertigine dell’ansia che «è una domanda più totale, che include l’origine e la fine di ogni nostro «sistema fluviale», cioè di ogni nostra vita, che «nasce dal disgelo delle vette, dov’è il regno del cuore». Non solo una suggestiva immagine, in cui il nostro circuito cardiovascolare diventa una complessa rete fluviale vivente, ma il segno di una profonda richiesta di appartenenza», come scrive Bianca Garavelli su “Avvenire”.

L’estuario di Magrelli si attesta sul suo tempo elicoidale che vela il mondo e descrive la nascita, il suo affidamento, la sua parola segreta, come anello solstiziale: «Cinquanta volte giugno, / e sarei io, l’anello? / l’anello è lui, questo tempo elicoidale / che torna su se stesso / sempre uguale e uguale mai, / mio giugno, anello solstiziale / di sangue, di nozze di addio, / eterna vigilia di quella vacanza / che infine giungerà pura / nudissima luce definitiva, / mio sabato dell’anno, rompendo / finalmente l’anello sisifale».

È spesso il tempo dell’esclusione dal tempo («Riuscire a condividere quello spazio / da cui mi escludi, e che esiste soltanto / perché tu me ne escludi») a ridisegnare lo strappo sgualcito della separazione che genera nostalgia, che implora il corrimano del corpo, che invoca la bellezza dai regni interiori e «dei fondi incantanti del non-io».

Il suo calendario è un brusio che apre il ponte levatoio per varcare le stagioni e gemmare sugli affetti, promettere redenzione, toccando persino il rovinoso suburbano, come un occhio poetante «che intravede la vetta, la bellezza / come promessa di felicità», che soffre «il barbarico barbaglio» di luglio ma «resta il cielo a ricordarci un tempo / in cui la vita respirava piena. / Ma resta un cielo a ricordarci il tempo / in cui respirerà piena la vita».

I ritratti raccolti in questo testo si fondono e si raccolgono in un delta a distanza che mette a nudo, in cui personaggi come Carlo Betocchi, Leon Bloy, Pier Paolo Pasolini, Mircea Eliade, Gian Lorenzo Bernini, Ettore Petrolini, Totò rappresentano il sintagma fluviale di un ponte inesausto che si rivela, l’otobiografia che rumoreggia i passi della vita che attraversa «tutte le forme possibili di esperienza “fluviale”: un simil-Mekong italiano e Piazza Navona con la sua celeberrima fontana, l’autolavaggio e il gran Canyon, i ponti cittadini e la fonte Castalia che rende poeta colui che beve alla sorgente, la Neva ghiacciata e il rompersi di un tubo che porta alla luce il “sistema sanguigno” della casa» (Gabriele Pedullà).

I paesaggi laziali, l’immersione nella lettura con la donna amata irraggiungibile avvertono come una fragile impossibilità esclusa, il segno di un incontro e di una comunione mancata, uno stampo nell’ombra di se stessi: «Invisibile e invincibile / è lo stampo che porto dentro me, / stampo del mondo impresso a me nel mondo / e che mi fa essere al mondo / soltanto nella forma dello stampo. / Dov’è la libertà, se la malinconia / raccoglie le sue nuvole senza nessun perché? / sto qui e subisco il loro lento transito / solo aspettando / all’ombra di me stesso».

Spesso è il fuoco ad accompagnare il ritratto di queste danze amare, una città incendiata di un’ansietà che avvampa e non consuma, come una specie di falso fuoco che brucia e si lascia bruciare, in una sconfitta consustanziale, in un attimo sparuto.

Magrelli ci consegna una ferita esclusa ma non vinta, la precarietà prigioniera (««Non siamo a casa neanche a casa nostra, / anche la nostra casa è casa d’altri, / la casa di qualcuno arrivato da prima /  che adesso ci caccia. / Vengono a sciami / si riprendono casa, / la loro casa, / da cui ci scuotono via, / punendoci per la nostra presunzione: / essere stati tanto fiduciosi / da credere che il mondo si potesse abitare»»), le mattinate apocrife che gocciolano notte, il raspamento di qualcosa che si contrae per «ottenere che lentamente, esile, torni / il moribondo flusso di corrente / ed un nuovo splendore inondi i giorni. / Solo così rinasce quel potente / getto di sole che rimette in moto / ruota, ciclo, marea, nascita, photos».

Ma in quel punto raschiato, in quel segno di ferita rimane l’accorata preghiera clandestina, come una sorta domanda grande e spiata a Dio ultimo e reietto fra i reietti: «Dio delle baraccopoli, Gesù dei clandestini, / nato nella favela, ultimo fra i bambini, / creatura della notte, amato dai reietti, / scintilla nelle tenebre, abisso degli eletti. / Gesù di baraccopoli e Dio dei clandestini, / nell’ultima favela neonato fra i bambini, / amato dalla notte, creatura dei reietti, / abisso nelle tenebre, scintilla degli eletti. / Abisso e baraccopoli, scintilla e clandestini, / quanto amato in favela!, creatura dei bambini, / ultimo nella notte, neonato fra i reietti, / Gesù dentro le tenebre, Dio di tutti gli eletti».

978880621845GRA

Valerio Magrelli

Il sangue amaro       

Einaudi, pp. 149, 13 euro

 

 

Magrelli V., Il sangue amaro, Einaudi, Torino 2014  

 

Il limite terso di Mario Benedetti

di Andrea Galgano             9 aprile 2014

recensioni Il limite terso di Mario Benedetti

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L’ultima opera poetica di Mario Benedetti (1955), Tersa morte, edita da Mondadori, amplia e si appropria di una più chiara visuale memoriale.

La perdita, la mancanza, la morte della madre e del fratello, accresce non il congedo, ma la testimonianza di uno sdoppiamento, in cui l’esperienza estrema si raccoglie in una tessitura densa e netta che concede il senso profondo di una chiarificazione.

L’estremo possibile cerca la sua via dall’abisso, con l’aiuto di una parola scarna ed essenziale che vela e rivela il ritrovamento nascosto di un dolore che specchia la sua fragilità, il passo della luce, il silenzio franto.

Il ritorno alle cose care, già visto in Umana gloria (2004), laddove la rimemorazione dei luoghi e dei passaggi percepiscono la sintesi di stupefazione e nominazione, e in Pitture nere su carta (2008), in cui il gesto reliquiario sollecita paesaggi dilatati, attimi di quiete lenta e di sfarzo, terrore anomalo, sillabando lo stupore, qui racchiude una processione di tempo nel tempo, in una goccia minimale e singola.

La solitudine abbacinante inventa la sua testimonianza e, allo stesso tempo, la sua docile paralisi. Entrambe si affidano a un sosia che possa dettare, scrivere e raggiungere le infinite profondità: «Anni che non dovrebbero più, ore che non dovrebbero / prendermi i giorni, le settimane, i mesi, il tempo / portato addosso, il sosia a cui chiedo di aiutarmi. / Con la sedia di mio padre gioca la bambina che non conosco. / adesso è sua. Gioca con quelli che diventeranno i suoi ricordi. / Tutto è una distanza sola. Le fermate sono da rimettere a posto. / Sollevare dei pesi, deporli. Lo sguardo s’incuriosisce nella forma / di una porta marcita dove abita una signora anziana da sola. / Il sosia ascolta mia madre non morta, parla di mio fratello / o gli scrive. Pensa al protrarsi della vita che mi sopravvive» (Transizione, maggio 2010).

L’ultimità di Benedetti è una perentoria realtà di sopravvivenza e referenza, in cui la parola percepisce il peso dell’ombra delle cose e in quella stilla di dolore estremo conferma il suo pianto miracoloso e vivo: «La porcellana insaporita della cena, / la casa nuova con i contributi della legge / dopo il terremoto. Tutta una vita / per chi vi deve ricordare, per chi vi piange. / E piange la parola che riesce a dire».

Scrive Alessandro Zaccuri: «In Tersa morte, invece, prevale la sdrucitura, il dramma, e così l’intonazione scivola verso la prosa, che in più di un’occasione prevale. Questa volta è la regola ad avere la meglio: il lutto per la morte del fratello sta all’origine della scrittura e intanto la ostacola, impedisce alla forma di articolarsi. Non è, per quanto mi riguarda, un limite. Ho una simpatia istintiva per i libri in cui qualcosa è, o appare, fuori posto. Il magma di Moby Dick, per esempio, ma anche gli esametri sospesi dell’Eneide o Dostoevskij, che lavora di furia alla prima parte dei Fratelli Karamazov, il capolavoro destinato a rimanere incompiuto. E la Bibbia stessa, dove il sublime prevale sul bello. «Dai del tu ai morti, stai al posto di te, anche», scrive Benedetti.  Non  è musica, questa. Non è stile. Ma è la lingua madre del dolore, e chi l’ha parlata – fosse pure per una sola volta – ne riconosce l’esattezza, ne condivide la pena».

In un bellissimo articolo su «Nuovi Argomenti», Giorgio Meledandri afferma che «[…] Mario Benedetti rappresenta un’altra morte e scrive un grandioso ed intenso epitaffio in memoria delle parole. Tutta l’opera non fa che rimarcare l’impotenza espressiva del soggetto, l’indicibilità delle cose, l’esaurimento del linguaggio. […] Solo dentro questa cornice, nell’eco delle parole che muoiono, l’autore può mostrare altre esperienze di lutto. Tenta quindi di recuperare le immagini, i fotogrammi di chi non c’è più: una vera e propria evocazione di luoghi e di date nel corso della quale l’io lirico si diffrange in una molteplicità di soggetti, si mescola con i morti, si sovrappone agli oggetti fino a scomparire».

La diffrazione, il mescolamento, la sovrapposizione e infine la scomparsa sono lande che attestano l’indicibile di impronunciabili scomparse, come «Tra il ferro arrugginito dei vagoni di treni dismessi / la discarica delle parole di poesie che respingono. / Sguardi brevi, arrovellamenti, alberi a caso, afasie».

Le vite pronunciano una stasi scissa che si compenetra nel linguaggio, si appropria nelle parentesi care di ogni vita che sono «interezze create continuamente / per un dopo che non ci sarà più o è già stato».

Tali interezze proclamano la loro tersa continuità, le parole che «sono nelle storie che mi hai fatto vedere», sollecitano una testimonianza di tensione e domanda, per «Stare nelle ore / per altre ore, nei giorni che ci saranno», rievocano l’oscillazione di un martirio testimoniato, «Come testimoniare i morti, / vivere come lo fossimo, / morire come siamo. Per la vita / è la scoperta / della morte e della vita», e, infine, riportano, come sostiene Tommaso di Dio «alla “carne” che siamo, carne mortale».

La nudità lucente della vita che si rivela, il dolore del limite, della carne che percepisce il vuoto bagliore della mancanza reale e vivente, svelano il tempio di una figura che ha generato vita, nella quotidiana altezza del gesto: «Cosa devo guardare per sentire che non è così vero, / e riuscire a spostarti nelle faccende di casa, / a risospingerti lungo le strade. E tra le righe / vicine dei capelli guardo i sentieri del sottobosco / ingiallito. E riesco a vedere i vicoli di Napoli, / gli anni trenta, i gatti, le gonne lunghe di una ragazza. / e tu mi dici: tu lo sai che è vero, tu resta forte e sereno, / quanti giorni hai davanti! Io sono morta di lunedì, / tu sei arrivato a guardarmi, ero una cosa vestita / con l’abito blu che mi avevi regalato e tutto il ricamo / del foulard. Così tanto elegante, così tanto bello».

Il gesto-dimora offre il suo palcoscenico di durezza e dettaglio luminoso: la madre, alla quale appartiene solo lo sproposito e la dismisura, il tempo infinito che sembra concretarsi in uno spasmo di apparizioni e le coltri dense di ricordi frammentati: «Devo tenerlo per mano, / non vedo nessuno tenere per mano i bambini. / Vicino alla manica lunga del braccio /  i suoi occhi liberi, e tante madri, / tanti cuccioli di cagne e mucche insieme ai vitelli / che dormono come bambini».

La morte diviene l’ampio gesto della vita che si spegne e si afferma, in un doppio movimento che appare e scompare, si eclissa nei vertici fenomenici di freddi senza riparo: « Perfetta assenza. Non distrarti, non eludere /  la pura inconcepibile assenza, non distrarti». L’accortezza di non avere solo vent’anni è lo spazio vergine di una sopravvivenza decisa e assorta, che assolda doppi e sosia per comunicare uno spiraglio di consapevolezza e di voce non rabbiosa, ma accorata e descrittiva di una rarità spettrale che termina nell’ora assente: «È un’ora assente. Mi guardi. Si vive ancora, sì, si vive ancora. / Ma non c’è la mano da darti. Guardi gli occhi della malinconia».

«Per tutto il libro, Benedetti fa oscillare le proprie immagini in un verso anfibio, debolissimo, raramente inarcato, sempre sul punto di sconfinare in ritmi ipermetri e ipometri, prosastici; fra di essi, a tratti appaiono figure ritmiche incalzanti, che presto però si sfaldano in soluzioni neutrali, sottotono. Il verso rispecchia una ricerca formale inquieta e liberata da schemi di illusionismo metodico. Tutto trema: come i contorni delle bottiglie nei quadri di Giorgio Morandi, ogni cosa è lì, ben visibile, impressa; ma in una forma che non sa stare se non oscillando, crepata da appena percepibili anacoluti. C’è in questi nuovi versi di Benedetti – e segnatamente nelle ultime sezioni – una sobrietà formale che rasenta l’impressione di negligenza; essa enuclea uno stile “a dispetto” di ogni possibile orpello retorico. È come se ci ricordasse continuamente quanto il senso dell’esperienza e il contenuto sopravanzino ogni possibile stilistica; tanto che risulta particolarmente impossibile qui – o quanto meno totalmente inutile – quello che mai dovrebbe accadere di fronte ad un opera letteraria: godere della forma senza aver aderito al messaggio espresso dal libro, senza averlo fatto proprio». (Tommaso di Dio).

Un viaggio nella pena della morte, non dell’annichilimento. Benedetti si sporge nell’abisso dell’assenza della sua «impietrata lava», «il tempo venuto addosso come suo dovere. / I lutti delle case, del vivo chiamarci a colazione a cena. / la panca di un giardino, i tuoi pianti nella macchina a ore, / i torrenti e le pozze dove nuotare. Cosa ti diceva / è bello stare qui?, umiliata, pestata nella macchina a ore», «nell’ora dell’azzurro cupo», nei fotogrammi dei «gualciti / accappatoi rivoltati dal vento ieri notte »raccoglie i cari per aggrapparsi alla vita e, nel vuoto del sangue, delle «parole in fila» che «mostrano la pioggia sulla strada e nei campi. / Gli occhi che guardano scriverle non ci saranno. La strada / ha gli alberi lontani, l’erba è alzata  respirare, a respirare / come uno di noi. È giusto che io non veda questo mai più».

tersamorte1MARIO BENEDETTI, Tersa morte

Mondadori, pp.86, euro 16 

Benedetti M., Tersa morte, Mondadori, Milano 2013.

Id., Pitture nere su carta, Mondadori, Milano 2008.

Id., Umana gloria, Mondadori, Milano 2004.  

 

Il posto di Jorie Graham

di Andrea Galgano             27 marzo 2014

recensioni Il posto di Jorie Graham

sul sito della poetessa nella Bibliografia ufficiale  http://www.joriegraham.com/bibliography

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Si chiama Il posto (Mondadori 2014), la nuova raccolta di Jorie Graham (1950), una delle più alte voci della poesia americana. Dopo la scelta antologica, edita qualche anno fa da Sossella, L’angelo custode della piccola utopia, ci giunge questo testo di scheggia e potenza, acutamente tradotto da Antonella Francini.

Premio Pulitzer nel 1996, dal 1997 al 2003 Chancellor of the Academy of American Poets e premio Nonino 2013, per aver «intarsiato i suoi versi sul mito, sulle dicotomie e polarità dell’esistere, scandagliando e sperimentando profondamente tutte le sensazioni della poesia […] dove la parola ritrova la sua eticità e spiritualità tendendo all’infinito», Jorie Graham è nata a New York nel 1950, ha vissuto fino ai diciotto anni a Roma (e il suo iter sembra attestarsi su Pavese. Montale e prima Petrarca) e ha studiato sociologia a Parigi, prima di terminare la sua formazione negli Stati Uniti, dove oggi insegna, ad Harvard, retorica e oratoria.

L’eidetica di Jorie Graham, quasi di neoavanguardia, «[…] ci fa entrare nella forza magmatica della poesia, la sua capacità di testimoniare l’umanità, di risvegliare la mente attraverso i sensi, le presenze vitali del mondo, una «fiumana di sangue» che procede attraverso un deserto. In una fusione coinvolgente di musicalità poematica e densità narrativa» (Bianca Garavelli, da “Avvenire”, 17 marzo 2014).

Ed ecco che i sintagmi intessuti nella pagina acquistano una scaturigine di terra e ferita, il conflitto (persino quello sociale) e la gioia, il crampo del cuore, il tocco, il registro e la trascrizione dell’atto del reale.

È l’inatteso, il blocco superno della realtà che reclama il suo posto, lo spazio di scoperta del mistero che incide l’inconoscibile, che si appropria dell’amore, del tempo presente dilatato e dell’immaginazione: «E vento accolto dal velo d’acqua. / Guarda: l’accoglienza ha una forma […] Ogni cosa nel sole / improvvisa a ritroso, / buttando giù frasi veloci e nervose […] ogni cosa nel sole che tenta d’incarnarsi attraverso qualcos’altro […] Certo il futuro / un tempo non era affatto là […] Parla della lunga catena a ritroso / all’inizio del “mondo” (come lo chiama) e poi, infine, al grande non / inizio. Sento il no iniziare. / Il seguito ronza leggero intorno a me, / cancella le mie impronte», […] Canta dice l’acqua che ripiomba su acqua più ferma – che scorre dove l’altra si rompe. Cantami / qualcosa (il suono del rompersi basso dell’onda) / (gli accordi dove laggiù deposita materia di vita / sulla rampa di spiaggia) (anche la molteplicità / di profondità e rivestimenti dove sorge la chiarezza come una moltitudine) / (mentre l’onda s’abbatte sul suo frangente) / (per squarciarsi all’unisono) (sul suo rifrangersi) – / canta qualcosa, e cantando dissenti».

La poesia di Jorie Graham  chiede un atto ineffabile, evita di dissotterrare la nostra messa in gioco, invita a rischiare la parola per recuperarla nei fondi, non concedendo distrazioni.

E la parola, scomposta, segmentata e frammentata richiede il suo posto, per inebriarsi di mistero, stare dietro la luce del giorno che «sussulta / dietro di noi / ed è un tesoro immenso per esempio oggi / un uomo a cavallo galoppava / leggero su Omaha / sopra la mia spalla sinistra / giungendo veloce ma / leggero e inaudito finchè non mi sono voltata / senza un motivo / come se ciò ch’è dietro di noi / avesse sussurrato / cosa posso fare per te oggi e io mi fossi appena / voltata a / rispondere e la risposta alla mia / risposta scaturisse dalla battigia nell’ultimo sole in cui lui /loro stavano entrando».  

Il respiro precede così l’incedere del verso e il battito, incalzante e vivido, implora la sua esplorazione, quasi che l’istante proclamasse la sua densità e l’immagine si imporporasse di suoni.

Claudio Magris, in un articolo sul “Corriere della Sera” del 20 gennaio 2013, dal titolo La poesia ricuce il mondo, scrive:

«La sua lirica cattura una totalità mossa, spezzata, mutevole, imprevedibile, multipla e simultanea, che il suo verso epicamente lungo e digressivo o concentrato ed essenziale come quello di un haiku coglie con bruciante verità. La sua totalità comprende l’individuo – i suoi sentimenti, passioni, smarrimenti – ma anche la specie e l’incertezza radicale del suo, del nostro futuro. La sua opera esprime una radicale verità della nostra condizione, la vigilia di un ignoto e sconvolgente cambiamento: la possibile – concretamente possibile – assenza di futuro, la morte della nostra specie o una trasformazione tale da renderla non più umana, da aprire l’era del non-umano. […] Il tempo geologico è tanto più grande di quello storico, ma forse il tempo non c’è, non esiste, perchè nel ticchettio dell’orologio non c’è niente, solo un secondo in cui non può esistere nulla e lo spazio fra un secondo e l’altro in cui egualmente non può accadere nulla, eppure la poesia va alla ricerca di questo tempo e di ciò che esso (forse) contiene; ascolta gli uomini, ma anche la foglia, lo scirocco, il cristallo come le vicende d’amore, gli eventi storici e quelli mai es empre esistiti del mito, «il bagliore che assomiglia allo svanire», perchè ogni Io ha dentro di sè il suo «animale morente». La sua Euridice, come quella che ho cercato di rappresentare anch’io, desidera sparire in quello sguardo di Orfeo che si volta».

Il posto, pertanto, è l’osservazione avventurosa del mondo, il gemito del creato, che, anche quando sembra superfluo, si intride di rivelazione, come scrive in Cagnes sur mer 1950: «Sono l’unica a ricordare / la voce di mie madre nell’ombra particolare / dell’arco romano ricolmo di cielo / che oscura le pietre sulla strada in discesa / da dove lei ora risale all’improvviso. / Come l’arco, la voce e l’ombra / violentemente afferrano il piccolo triangolo / della mia anima, un film muto dove note di piano / diventano un corpo impazzito / per le immagini squillanti dello spirito – patria abbandonata – miracolo da cui / si riemerge vivi. Così qui, io di nuovo / rileggo il libro del tempo,

il mio unico tempo, come se ci fosse un fatale errore la cui / natura non so rintracciare – o la forma –  o l’origine – / prendo la creatura e la riporto / sul posto dove io sono un minuscolo serbatoio di sangue, cinque chili d’ossa / e tendini e altre cose – già condannata a quest’unica anima – che dicono pesi meno d’una piuma, o tanto / quanto un centinaio di grammi quando cresce – come in un viaggio ripercorro / quelle arterie, il prezioso liquido, il campo di metodi, agonie, / stupori – che io non sprechi gli stupori – / che non uccida per errore fratello, sorella – mi siederò con audacia una volta ancora sul mio inizio […]».

L’espansione dell’opera di Jorie Graham si nutre di una vocalità cosmica e di uno spazio di macerie insalubri, di spaesamenti di mente e mondo, e costringe a non cambiare itinerario di affinamento, per osservare, intingere gli occhi nel tempo per «restituire alla mente, in modo nuovo per ogni generazione, la sua parola e le parole al loro mondo tramite un uso preciso. Ogni generazione di poeti ha questo dovere, e ogni volta deve svolgerlo ripartendo sostanzialmente da zero», per «riportare la parola umana nella cosa immortale; assicurare che il rapporto, anche se per un istante soltanto,  sia vitale e autentico Far sì che le parole siano canali fra mente e mondo. Renderle di nuovo pregnanti».

È la sua personale ricostruzione della parola segmentata nel mondo, il gesto sopravvivente nella strada al margine del campo, «per vedere / nella spumeggiante fine del giorno / il posto dove tutto davvero / risiede, desiderato o sopra- / valutato / dalla mente umana, che può / se lo vuole / portarlo alla luce / con l’immaginazione – non c’è invenzione – oppure c’è – finchè / esiste, la mente può / farlo – […] il mondo ha aperto la sua veste / e tu / eri libera di guardare / senza nessuna / frenesia, nessuna canzone, semplicemente così, polmoni sospesi, le / cesoie sospese / lì nella mano, / la siepe selvatica accanto a te, / e tu puoi – sì – sentirla scorrere / per le sue migliaia / di steli – e più vicino ora / anche lo stelo / esile e solo».

L’osmosi di corpo e mente, la sopravvivenza della parola alla storia e nella storia, l’immaginazione, che non tralascia nemmeno il fare politico, invita alla redenzione e la poesia diviene «un atto di profonda responsabilità spirituale … Io utilizzo la poesia per essere obbligata a rimanere nella storia». come disse a Firenze il 20 dicembre 2006 nel laboratorio della rivista “Semicerchio”, l’azzardo e lo scandaglio abissale delle sue pagine diventano espressione di concrezione di passato e  ferita, di persone e luoghi, in un fertile connubio di comunione.

Recuperare la parola alla sua sopravvivenza, come solcare le retine di una presenza di senso che essa contiene, senza la scheggia di vaniloqui possibili e di ovvietà spezzate, per cercare, infine, il disegno delle danze, la visione delle colline lontane, il trampolo dei sogni.

La scena diviene, pertanto, una gemma di macerie recuperate, di splendente vacuità sulle foschie e laddove la resistenza, la geniale trasposizione umana sono «ancora il segreto del terreno / arato di nostra creazione / respiro dopo respiro».

Scrive Antonella Francini: «Nell’intervista rilasciata a “The Paris Review”, Graham ricorda che Roma ha rappresentato per lei il tempo storico, uno spazio dominato da un «imponente senso della storia», dove la «percezione della dimensione temporale, della vita e delle azioni del passato»  la facevano sentire come un fantasma, «un’anima in pili nell’enorme massa di detriti umani». Al lato opposto della sua esperienza Graham mette il tempo “geologico” del Wyoming, le vaste distese di spazio dove si sentiva ugualmente un fantasma, dove «questioni di giustizia, cause ed effetti della storia svaniscono», dove la coscienza individuale non ha accesso e «qualsiasi assunto sull’importanza degli esseri umani su questo pianeta» deve necessariamente essere corretto. […] Il periodo intermedio della Francia e dell’esperienza politica ha rappresentato invece l’apertura alla realtà, ad «altre forme del presente definite pili dalle idee che dalle sensazioni, dall’immaginazione, dal mito, dalla storia». Queste tre dimensioni possono essere associate ai tre grandi blocchi tematici della poesia di Jorie Graham: il tempo geologico dell’Ovest americano fa da sfondo alla meditazione metafisica, quello romano al tema della storia (personale, collettiva e culturale) e quello francese alle questioni socio-politiche».

È nella dinamica dell’altro e dell’altrove, dalla esperienza e dall’avvenimento della poesia, che può essere rintracciabile la sua origine e l’affettività della sua conoscenza che implorano «la morbida deviazione mutata in bellezza».

Ancora una volta, la parola, come annota Antonella Francini è «scardinata da ogni vincolo sintattico, ma tuttavia risalta e risuona dalla posizione di isolamento in cui Graham la pone avvertendo il lettore postmoderno che, anche se erosa dagli attacchi teorici e dalla retorica, può sempre creare significato. Le parole, così messe sotto il riflettore, impongono ed esigono una ri-definizione, creano una vibrante tensione fra occhio e immagine grafica, rispuntano ossessivamente in una sorta di gioco del gatto e del topo con un poeta determinato a costruire una nuova colonia per il suo “sciame”, a sondare per loro tramite i misteri della vita umana. In quest’appassionata ricerca della minima essenza di lingua e materia, parola e silenzio devono in qualche modo coincidere […]».

La sua poesia proclama il risveglio di una conquista, non solo di forma o di distesa emersa, ma un posto umano che si impenna, si concede, offre il suo fianco vitale, per «Essere una persona / umana e poi donna. / Essere una che ha avuto / abbastanza. / Abbastanza sottosuolo. / Abbastanza giardino / col suo muro alto anche se non alto abbastanza con tutti / gli spioncini a meno che non fossero / soltanto cretti accidentali / da cui vedere / il mondo».

Poi il mondo, che corre famelico, che nasconde le mani. Resta in ascolto l’anima socchiusa, la nota lunga del tempo, come una creatura che abita le soglie e il dolore esaminato, la maestria delle forme umane. Dove un grido o forse, meglio, un canto tralasciano il loro sangue per darsi avvio e pronunciare tutto il loro magma di spaesate gemme.

 

3Dnn+9_2B_pic_9788804635796-il-posto_originalJORIE GRAHAM, Il posto

Mondadori, pp.240, euro 18    

 

  

Graham J., Il posto, Mondadori, Milano 2014.

Id., L’angelo custode della piccola utopia. Poesie scelte (1983-2005), Luca Sossella Editore, Milano 2008.

(a cura di) Graham J.- Lehman D., The Best American poetry 1990, Collier Books, New York 1990.  

Il minimale spasmo di Umberto Fiori

di Andrea Galgano             13 marzo 2014

recensioni Il minimale spasmo di Umberto Fiori

umberto fiori

La lingua poetica di Umberto Fiori (1949) afferma l’artiglio pieno dell’essere che incide il tempo, uno scarto o una frangia di verso che si appropriano del passaggio comune delle cose.

La descrizione dei paesaggi urbani, i protagonisti, spesso periferici, delle sue condensazioni di tempo sollecitano l’anima scorta e memorabile di uno sguardo e di una appropriazione che impara subito il tessuto dell’anima, il suo poema compatto, perché, come scrive Andrea Afribo, nella raccolta antologica, recentemente edita da Mondadori (Poesie 1986-2014) «c’è quasi sempre una storia nelle poesie di Fiori, munita di personaggi, di un minimo ma sufficiente ancoraggio spazio-temporale, e costantemente seriata in due momenti. Il primo, esplicitato oppure solo alluso o dato per scontato, descrive la routine di ogni giorno, rassicurante ma soporifera, protettiva ma devitalizzante. Il secondo sovverte il primo, e lo fa all’improvviso, trafiggendolo con un evento tanto banale e casuale quanto, negli effetti, eccezionale».

È la sopravvivenza di un miracolo che sporge la sua impronta, il tratto improvviso e tenace: «Ogni nome ha ragione, / ed ogni cosa sta / in pace / nel suo nome. / Soltanto il mio / suona come un allarme / nell’altra stanza, / come un rimprovero».

La permanenza della parola poetica esprime il suo fischio lontano, condensa l’essenziale allontanandosi dallo spumoso spazio della ridondanza, dove l’io tocca il suo risveglio: «In piena notte / sui viali scatta un allarme. / Si ferma, e poi ripete / due note acute, tremende, con la furia / di un bambino che gioca. / nei muri bui dei palazzi lì sopra / le finestre si aprono / si accendono. / Tranne la strada / in mezzo ai rami, vuota, / niente si vede. / Si tirano le tende / e si rimane intorno a questo urlo / come si sta in un campo intorno a un fuoco».

Lo scarto del silenzio e dell’allarme non distolgono il miracolo di ciò che accade, come se la poesia inseguisse non la sua sopravvivenza, ma il bagliore dell’avvenimento che condensa i suoi confini, apre spazi, favorisce le sue concessioni quotidiane: «Alte sopra la tangenziale, chiare / due case con in mezzo un capannone. /  È questa l’apparizione, / ma non c’è niente da annunciare. / Eppure solo a vederli / Là fermi, diritti davanti al sole, / i muri ti consolano / più di qualsiasi parola. / Cancellate, ringhiere, / scale, colonne, cornicioni: / ha l’aria, tutto, come se qualcuno / dovesse veramente rimanere».

È la testimonianza dell’io che si spinge fino al suo testimone segnico, dove il “voi”, il “tutti”, la “gente”, il “due” (nella sua prima raccolta Esempi (1992) abolisce, in forma inibitoria, la prima persona) caratterizzano il puntuale crocevia e il ventaglio dell’esistere, come avviene nella raccolta Voi (2009) dove egli sostiene che  «Le due persone in gioco nel libro non si equivalgono; non sono solo impari, sono incommensurabili: è di questo che Io si dispera. Voi è innocente per definizione: è una persona astratta, disincarnata, un generico Prossimo, a cui Io deve tutto e dal quale nulla può pretendere. A Voi spetta il primato morale. Un primato assoluto, indiscutibile. Io è la colpa incarnata, un “difetto” di Voi: solo Io è chiamato a rispondere di fronte a Dio (al Senso, all’Essere) di ciò che fa, addirittura di ciò che è, della sua stessa esistenza. Solo Io muore. Solo Io si perde, si salva. […] questa disparità viene presentata come l’assurdo, il mistero, il santo enigma di cui ogni singolo deve venire a capo» verso ciò che Fiori chiama la sua «parola normale», come afferma in un’altra intervista rilasciata a Fabio Giarretta.

La parola normale di Fiori, pertanto, è l’esito di una fedeltà dichiarata alle cose, che persino nella sua sovente impersonalità concentra le locazioni, le indeterminatezze e laddove il paesaggio urbano, ricolmo di piazze, angoli, anditi lievi, rivela l’illuminazione di uno scavo interiore che si riporta all’esterno, come misterioso segreto concreto di nudità che decide l’intero senso del mondo: «Ecco: le cose. / Dove tutto si perde e manca, / rimangono. Si lasciano / ascoltare e vedere. / Sono vere, le cose, e saranno vere: / per questa promessa anche ora, / nascoste nel loro buio, / anche in corsa, / ti sembrano care e buone».

Annota Andrea Afribo: «Non si cerchi poi di capire in quale città si svolgano i fatti. La ricorrente presenza di strade, viali, angoli di strada, tangenziali, semafori (e ancora sottopassaggi, tram, macchine, giardini, autosilo, piazzale, cantieri, scavi, asfalto) dice chiaramente che siamo dentro uno spazio cittadino o meglio metropolitano. Può essere Milano, ma può essere qualsiasi altra città».

L’evento che si svela coglie rimanenze lasciate come «Una fila di esempi, una serie / di facciate di case, rapide e serie», partecipa all’esperienza di una illuminazione allusa e integrante e che invita all’interpretazione, al passaggio netto, all’esclusione come gemma nativa di una perdita: «Le mie poesie sono nate dalla perdita di una biografia (delle sue nostalgie, dei suoi programmi, dei suoi rimorsi, delle sue promesse); sono nate non da me, dalla mia storia. Qualcosa mi impediva di mettere al centro dell’attenzione non solo la mia personale vicenda, ma qualsiasi elemento che rimandasse a uno svolgimento, a un divenire, a un prima e a un dopo intensi in senso forte. Se cerco l’origine del mio lavoro trovo questa esclusione».

Altrove Umberto Fiori, in un’intervista a cura di Maria Borio su Pordenonelegge.it, sulla mancanza, come cellula dello sguardo, afferma che: «L’occhio ha l’illusione di non far parte della scena che sta osservando: è immate­riale, invulnerabile, domina il mondo. In una poesia di Esempi, d’altra parte, si dice: “Più grande di tutto è lo sguardo / ma le case sono più grandi”. Lo sguardo, insomma, è radicato in un corpo, le cose guardate possono essere (in molti sensi) più grandi di quel corpo e dell’occhio che le osserva e crede di dominarle. Nella Bella vista il verbo “mancare” viene utilizzato in un senso un po’ diverso, come sinonimo di morire, non esserci più. lo chiedo alla “Bella vista” di insegnarmi ad accettare l’inaccettabile: il mutamento, la fine. Lei stessa, l’immensa Bellezza, la potentissima Natura, l’ “eternamente salva”, si è piegata al tempo, è scomparsa (o così sembra): l’uomo, invece, non capisce, non riesce ad accettare di “mancare”».

L’apologia delle sue storie intesse l’appartenenza dell’individuo alla comunità, come rapide di immagini che recano fasci inattesi, epifanie e apparenze di una quotidianità franta ma sempre ricca di exempla e di baluginii di tempo: «Chi potrà più trovarci, / chiedere conto, / domandare perché, / dove cosa? Noi siamo / tre piccioni che beccano / la pozza di gelato sul marciapiede. / Siamo il busto di bronzo, / la targa del furgone, l’altra bottiglia / che porta il cameriere. / Chi potrà dare / torto o ragione?».

Il prodigio del tempo possiede la scheggia di una lezione che sembra non riuscire a rivelarsi, nella potenza di una forza buia, ma che non smette di desiderare l’avvento, l’attesa di spasmo che contiene lo scavo dell’umanità in tutte le sue forme, come l’interno di casa in cui «mentre le stanze passano / e se ne vanno, viene / come una spinta dentro, / come un’invidia. / Ci si sente mancare, / in queste scene. Si è come tenuti fuori. / Ma in fondo poi / vedere come tutto / procede bene / anche senza di noi, / fa quasi ridere. / E si diventa liberi, leggeri: / non si è più lì, si ragiona / come già morti, come / mai nati.[…] / Eppure questo, / questo che tutti vedono / là, nei soggiorni / e nelle camere, non smette di mancare: / essere così chiari / senza saperlo, / stare soprappensiero / un attimo, nel pieno dell’attenzione».

La scrittura di Fiori si appropria, pertanto, di una scena, una scheggia di tempo infilata nel tempo, non si discosta mai da ciò che accade e implora chiaritudine «per spremere una lezione salutare da quei fatti quotidiani che sinteticamente racconta» (Andrea Afribo): «Quello che siamo qui / nell’ansia di questa luce / in questa data, / giorno per giorno va. È frecciame: / schegge, polvere, trucioli».

La sua poesia stuporosa insegue l’imprevisto e la restituzione, il cerchio di una pienezza che si vede e si invoca, la chiarità del limite, la figura forsennata che prepara inattese trasparenze.

«I momenti che preparano l’epifania», scrive Andrea Afribo, «che aprono una breccia liberatoria nel muro dell’abitudine, consistono tutti in zone di scivolamento minimo ma sufficiente, interne all’ogni giorno. Sono piccoli guasti, interruzioni del continuum, imprevisti banalissimi ma inderogabili e disarmanti. Soprattutto sono ingorghi del traffico, ritardi, incidenti con annesso capannello di curiosi, tamponamenti da constatazione amichevole, una lite, uno scontro involontario tra due passanti, il già visto scatto di un allarme, lo squillo di un telefono o di una sveglia nell’appartamento del vicino, eccetera. E poi tutto quanto può capitare in una discussione: perdere il filo del ragionamento, bloccarsi, un silenzio a sorpresa».

L’enunciazione è un longevo dialogo di vuoti in attesa, l’indefinito fronteggiato, la rissa dell’anonimo, ma tutto proteso al miracolo incombente, all’offerta estrema: «Sento le piante crescere, sento la terra / girare. Tutto mi sembra forte e chiaro, tutto / deve ancora succedere».

Nelle sue case, nei palazzi, negli spazi che abitano la gemma miracolosa che sorregge il mondo, la sospensione di Fiori è pronta a donare i suoi fatti, come chi è teso a invocare e gridare fatti e prove e «proprio allora, lontani come sono, / rivedono il miracolo: / che sia una la stanza, / che sia lo stesso / il tavolo dove battono».

 

UMBERTO FIORI

Poesie 1986-2014

Mondadori, pp. 272, Euro 20

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Fiori U., Poesie 1986-2014, Mondadori, Milano 2014.  

Id., Tutti di tutti, in «Il gallo silvestre», 11, 1999.

La lancia di Frank O’Hara

di Andrea Galgano                                         16 gennaio 2014

poesia contemporanea La lancia di Frank O’Hara

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Frank O’Hara (1926-1966) ha scritto la sostanzialità della concretezza, l’emergenza sorgiva, la finitudine di una parola-scoppio come una nervosa grazia che irrompe scoperchiata.

Incontrato in un party nel Village, Marisa Bulgheroni così lo ricorda:

 

«[…] stava tra gli altri, pittori, poeti, musicisti, gente di teatro, i protagonisti della Scuola di New York, come un re in incognito, arrivato lì per caso, la polvere del viaggio sulla giacca stinta a righe bianche e celesti, gli occhi irrequieti azzurrovioletti, tagliati in una materia mobile come vento o come neve, intensamente presente benché forse sul punto di andarsene, un perfetto abitante della vorticosa Manhattan delle sue poesie. Già allora la sua grazia nervosa, la sua volontà di vivere e scrivere in un unico gesto, di rendere durevole il precario, di trasmettere alla parola l’istantanea del passo e del respiro avevano per i più giovani la forza di un contagio e la sua stessa vita, scoperchiata, giocata con grandiosità, «tenuta insieme precariamente nella mano veggente di altri», la sua omosessualità, la sua abissale trasparenza di uomo che si riconosce molteplice erano leggenda ancor prima che morisse, nel luglio ’66, in seguito a un incidente simile a uno spettacolare appuntamento. Il suo sand buggy – costruito per corse veloci sulla spiaggia – saltò in aria su una duna di Fire Island, la storica isola, piatta come una lingua di sabbia appena affiorante dall’oceano, dove Thoreau, nel 1850, andò a cercare i relitti del naufragio in cui era perita Margaret Fuller».

Ma se la poesia di O’Hara «non è fatta di strumenti / che funzionano a volte / poi ti lasciano / ridono di te vecchio / si ubriacano di te giovane / la poesia è parte di te», vero è quel che ha scritto Donald Allen, usando la parola record, come registrazione che rifiuta l’aspetto combinatorio del gesto poetico e si attesta alla diretta espressione dell’energia vitale.

È la registrazione dell’esperienza vitale soggiace ad ogni suggestione, movimento, denso incontro.

Nel suo manifesto, Personism, O’Hara giunge a far crollare ogni confine tra la vita e l’arte: «la poesia non è tra due pagine, ma tra due persone».

Questo incrocio di incontri è il nemico dell’astrazione e si incide in una magmatica apertura di suggestione ed emozione: «L’astrazione (in poesia, non in pittura) comporta la rimozione della persona del poeta. […]. Il Personismo, un movimento che ho fondato recentemente e che nessuno conosce, mi interessa molto perché è completamente opposto a questo tipo di rimozione astratta».

L’attestazione pittorico-musicale e la poesia come atto creativo nascono da una lotta furiosa che risale a Pollock, de Kooning fino al realismo immaginario, si richiama a Picasso e i suoi collages, risale ai simbolisti francesi, si appropria di Apollinaire e come scrive acutamente John Ashbery: «[…] parole e colori che potevano essere presi liberamente a prestito qua e là per costruire grandi strutture ariose, mai viste fino ad allora nella poesia americana e in genere in tutta la poesia, più simili alle circonvoluzioni erranti di una mente aperta fino al punto della distrazione. Ne scaturiva una libertà di espressione poetica che era davvero praticabile e che, insieme ad altri tentativi analoghi sul versante tecnico (Charles Olson) e psicologico (Allen Ginsberg), spianava la strada a tutta una generazione di poeti più giovani».

In un articolo apparso su «Poesia» del dicembre 1997, intitolato Frank O’Hara e la poesia dell’emergenza, Roberto Ferdani scrive che «La poesia, in O’Hara, accade, come accade la vita; nasce da (e richiede) un atteggiamento essenzialmente emozionale, destrutturato, immediato; è ciò che fluisce dall’essere quando la logica – luogo di separazione, di finitudine e di temporalità – si arresta e arrestandosi permette lo scorrere inarrestabile del movimento dell’essere fattosi parola. Per lui l’azione poetica non avviene attraverso un atto intellettuale bensì attraverso un’apertura emotiva. […] Frank O’Hara ha composto, attraverso il dire poetico, il suo “diario intimo”. […] Motore e forza unificante della poesia di O’Hara è dunque quell’io che si fa centro di irradiazione e luogo nel quale il fenomenico viene non solo percepito ma ricreato. Di più, l’io multiforme e onnivoro di O’Hara crea se stesso attraverso il contatto con il mondo; si fa cioè luogo di rifrazione del mondo; si dà, keatsianamente, forma».

Ed ecco che l’immersione nella città, con le sue creatività caotiche, impara a cacciare la preda invisibile del tempo, l’immagine che implora e sfugge, il cosmo che si trasforma e l’incontro che mette a nudo.

La poesia di O’Hara non ama l’intellettualismo cieco perché, in esso, non trova la linfa e la sorgente. Il  magma poetico ha bisogno di scivolare come aggredito, di amalgamare suggestioni, depositarsi nel fondo dell’essere.

Pur non trovando né stabilità né protezione, sperimenta la leggerezza di un’emergenza, come scrive ancora Marisa Bulgheroni: «La metropoli è per lui un cosmo compiuto, contenente quanto occorre per sentirsi vivi, il verde sufficiente, vette e gole montane e marine, luce e uomini in movimento: tocca al poeta riscoprirla come natura, vedere nella sua eterogeneità, nella sua discontinua corporeità, un modello di linguaggio alternativo rispetto a quello della tradizione letteraria. Da un lato l’io poetico si nega e si dissolve nel caos dell’esperienza urbana, produttrice di sempre nuovi automatismi fisici e mentali e quindi di inedite associazioni di immagini, di inattese identificazioni con gli oggetti che affollano simultaneamente il campo visivo; dall’altro si rappresenta come punto di riferimento, nucleo di energia psichica, protagonista e possente cronista della velocità di cui partecipa».

L’avvenimento della sua poesia si appropria di un linguaggio che si afferma nei ritmi biologici, come rapidità sollecita e cenno di vertigini e abbandoni. La sua geografia, che attraversa New York quasi sbandando, è la memoria del desiderio che si poggia, gocciolando, sulle cose.

Nessun oggetto finito né un confine accertato, ma una traccia in divenire rapida e riprodotta che si fa colloquio e riferimento, come scrive Nicola D’Ugo: «La poesia di Frank O’Hara costituisce un fenomeno raro e prezioso. Il suo modo di scrivere è colloquiale. La sua sapienza sta nel rendere tale colloquialità priva di scosse retoriche, con andanti minimali e accostamenti di immagini che anziché esaltare l’io poetante riducono qualsiasi argomento socialmente ammaliante ad una dimensione svuotata della sua appetibilità. L’io poetante non si fa voce privilegiata della società, ma uomo, e quest’uomo che ne vien fuori, con le sue debolezze e la sua minuta dignità, è ancora più amabile degli smaglianti contesti sociali cui ha un accesso privilegiato: siano essi di cultura elitaria o d’entourage economico. O’Hara accosta la cultura di massa alla tradizione ‘alta’, alla quale fa sparsi ma puntuali riferimenti, non tanto per sminuirla, ma per mettere in luce che tutta la sua cultura mitica la si ritrova più compiutamente nell’incontro con l’uomo comune e non per questo meno affascinante, come nella celeberrima Prendere una coca-cola con te»: «Non starò sempre a piagnucolare / né riderò tutto il tempo, / non mi piace un “motivo più dell’altro. / Avrei l’istantanea di pessimi film, / non solo di quelli barbosi, ma anche del genere / di prima classe delle megaproduzioni. Voglio esser / vivo quantomeno come il volgo. E se qualcuno / appassionato alla mia vita incasinata dice: “Non è roba / da Frank!”, tanto meglio! Io / non mi metto sempre abiti grigi e marroni, / o sbaglio? No. Per l’Opera indosso camicioni da lavoro, / spesso. Avere i piedi scalzi voglio, / voglio un viso ben rasato, e il mio cuore … / non puoi programmare il cuore, ma la sua parte migliore, la mia poesia, è allo scoperto».

La polisemia dei significati non si apparta con l’io, egli si gioca la vita e l’anima scrivendo, («Quanto è successo ed è qui, un / foglio sfregato contro il cuore / e troppo fresco ancora per la cornice»), spende il lauto pasto dell’esperienza, con la cromatura delle note e dei passaggi instaura rapporti duraturi ed estremi, dove la gioia e il dolore, il pranzo e lo sgomento, toccano gli anelli della vita con trasparenza, fruizione temporale, spazi bianchi di cosmo.

La germinazione dei luoghi non viene corretta da regole e imposizioni, bensì è l’incontro aperto e crudo a divenire istinto di vita che si apre («Sono una casa piena di finestre»), come un «luogo vuoto continuamente sostituito da segni, presenze, abitanti imprevedibili» (R.Ferdani).

Nei Lunch Poems (1964), il poeta della città si immerge in New York, con il suo tocco di attrazione e repulsione, e vive il suo slancio di nervi e sangue.

Il rapimento sensuale è un approdo di latitudini, perché «Mangiare e amare, andare a pranzo e andare a letto vivono in questa poesia come i termini della stessa equazione. Amare è sentire il richiamo del pranzo; pranzare è sentire il richiamo dell’amore» (Paolo Fabrizio Iacuzzi).

Il poeta lotta con le sue parole, l’io che mangia se stesso, si separa e si riunifica (Per il capodanno cinese), rumina il torpore della sua infanzia e adolescenza, immerge il suo atto creativo nel reale: «I Lunch poems non sono soltanto il diario dell’io, ma della memoria dei pasti nel corpo, come avviene nel Diario di Pontormo» (P.F. Iacuzzi).

L’attraversamento teatrale diviene epica del quotidiano, ritorno al punto primigenio dell’infanzia orfana e abbandonata (Allen Ginsberg dirà il suo canto a Frank: «Spero tu abbia saziato il tuo amore per l’infanzia / la tua fantasia per la pubertà / il tuo marinaio per punizione sulle ginocchia / la tua bocca per ciuccio»).

La lunga rapsodia della città è una natura che fa folla del suo io, sono le sue poesie-lance, e non solo poesie di pranzo, che egli scaglia nel languore e nel tremito dell’«umidità luminosa», del suono variegato, della luce dei grattacieli, della scomparsa del tempo nelle rifrazioni e movimenti, in una scrittura di terra dinamica e mordace.

La carne, il respiro di una città che vive, irrora l’io con le sue rapide impetuose e il profumo dolce e malinconico delle epifanie. «La New York di O’Hara partecipa all’infinito dinamismo della vita», scrive Roberto Ferdani, «che non è una qualità delle cose ma un flusso che le attraversa e le sospinge. New York è presa e trasformata così come la luce aggraziata è “sospinta” da un grattacielo all’altro. Questa città è una vasta mappa emozionale; è la geoscrittura di un io che scivola attraverso librerie, cinematografi, negozi ed emozioni private. Tutta la città e i suoi abitanti sono presi da un dinamismo straordinario che O’Hara rende attraverso quell’affabulazione che ha ereditato da Whitman».

Un io che non ha paura della cancellazione delicata nel desiderio, dell’incanto che nasconde dolore e perdita, come imprinting nervoso che avvolge impressioni e precisioni lievi, odori e sapori, come l’aspirazione della sua cucina.

Si consegna al poema che dipinge, all’apocalisse che si mette il vestito della festa e non teme, appunto, i vortici dei venti, la fusione delle lontananze e l’evento sensuale delle assenze rubate, degli amori buttati, delle fusioni dei turbini.

È jazz, pittura, sguardo di caffè, alito vitale, la sua cosmogonia che omaggia gli amici (Pollock, Billie Holiday) e consegna la sua realtà vitale delle sue metafore, l’impulso grafico della sintassi, la percezione che si fa carico dell’esistenza, non per annullarsi ma per dire “io” davanti alle estremità della vita, alle profondità del cibo, alle mancanze, come «un bacio. Sensuale, misterioso, allegro, divertente e alcolico. Molto alcolico» (Allen Ginsberg).

 

O’hara F., The Collected Poems of Frank O’Hara, a cura di Donald Allen, University of California Press, Berkeley-Los Angeles 1995.

Id., Lunch poems, Mondadori, Milano 1998.

Id., Jackson Pollock, Abscondita, Milano 2013.  

Bulgheroni M., Chiamatemi Ismaele, Il Saggiatore, Milano 2013.

D’Ugo N., La traduzione di poesia(http://poesia.blog.rainews.it/2011/02/22/la-traduzione-di-poesia-nicola-dugo/)

Ferguson R., In Memory of My Feelings: Frank O’Hara and American Art, University of California Press, Los Angeles 1999.

LeSueur J., Digressions on Some Poems by Frank O’Hara, Farrar, Straus and Giroux, New York 2003.

Shaw L., Frank O’Hara: The Poetics of Coterie, University of Iowa Press, Iowa City 2006.

Smith H., Hyperscapes in the Poetry of Frank O’Hara: Difference, Homosexuality, Topography, Liverpool University Press, Liverpool, 2000.

Le vele di Billy Collins

di Andrea Galgano                                         8 gennaio 2014

poesia contemporanea Le vele di Billy Collins

billy collins

La tensione poetica di Billy Collins (1941), poeta laureato del Congresso degli Stati Uniti nei primi anni 2000, si dispiega in una concretezza visiva che impone altezze d’anima, sollecita slanci e agilità, impone tensioni.

Quando scrisse che scrivere versi è fare «sci d’acqua / sulla superficie di una poesia», come afferma in Introduction to Poetry, egli si attesta sul bordo ruvido e sullo sfioramento agile delle pagine, ma la scrittura è anche «la cartolina illustrata, una poesia sulla vacanza, / che ci costringe a cantare le nostre canzoni in piccole stanze, / o a pesare i nostri sentimenti col bilancino. / Scriviamo sul retro di laghi o cascate, / e aggiungiamo al paesaggio una didascalia convenzionale» (American Sonnet).

Commenta padre Antonio Spadaro:

 «L’occasione per far poesia non è mai in sé elevata né epica. La poesia scaturisce dalla vita ordinaria, dal mondo dischiuso da un dettaglio accolto senza enfasi e retoriche. Qualunque cosa sia – scrive in American Poetrydeve avere / uno stomaco capace di digerire / gomma, carbone, uranio, lune, poesie. Vale per lui l’immagine del granello di sabbia nel quale è possibile, secondo il celebre verso di William Blake, vedere un intero mondo. Si scrive sul retro della realtà, come se si scrivesse su una cartolina. Questo è ciò che ci sembra più tipico della sua poesia: essa parte da un dato concreto, semplice, ordinario, spotless, cioè candido, senza macchia, per aprire questo dato alla ricchezza dell’immaginazione».

La tensione dello sguardo non si ammaina a favore di una semplicistica immersione conoscitiva, bensì sfuma e si bagna nell’ordinario, in cui veleggiare (sailing), come dinanzi a «vaso di peonie / e accanto un  binocolo nero e un fermaglio per i soldi / proprio il tipo di cose che oggi preferiamo, / oggetti che si dispongono quieti su un verso con lettere minuscole».

A vela in solitaria intorno alla stanza (2013) rappresenta il viaggio che diventa, come scrive Franco Nasi, «l’esplorazione di un mondo qualunque, fatto di cose senza importanza, durante il quale il protagonista, un professore universitario di Letteratura, bianco, anglosassone, di formazione cattolica, di origine irlandese, sornionamente seduto nella sua barca a vela, annota gli oggetti del suo soggiorno o trascrive i sogni a occhi aperti che gli capita di fare sfogliando un’enciclopedia. Un diario di bordo redatto in una casetta tranquilla di una periferia borghese, a un’ora di treno da New York».

Gli appunti di Collins, pertanto, inseguono la linea e lo slargo di una nominazione appuntita, in cui la prospettiva trasforma la coltre ordinaria degli oggetti, degli spunti, degli orli o degli angoli, sviluppando quello che lo stesso Nasi chiama acutamente «svolte inattese»: «Qui non ci sono abbazie né affreschi che si sbriciolano o cupole / famose, e non c’è bisogno di mandare a memoria una successione di re […] Quant’è più bello disporre dei semplici spazi di casa / che sentirsi schiacciato da un pilastro, un arco, una basilica».

Le sue vele scoperchiano un mondo improvviso, che solo apparentemente appare inanimato. Sembra quasi disarcionare l’inerzia, in un vivido paradosso, che se da un lato, richiama la porzione più viva delle cose, dall’altro ama la sfrontatezza delle azioni e delle vicissitudini, come il bonsai che visto da vicino sembra un enorme albero che permette di toccare l’orizzonte e scorgervi persino una balena, con accanto i fiammiferi-zattere («Guardalo dall’ingresso, / e il mondo si dilata e si gonfia. / Il bottone che gli sta accanto / è ora una ruota di perla, / i fiammiferi Minerva sono una zattera, / e la tazza del caffè una cisterna / che raccoglie la stessa pioggia / che bagna le sue piccole zolle di terra scura e muscosa. / […] Il modo in cui si piega verso l’entroterra, / m’invoglia a farmi strada / fino alla cima del suo fogliame spinoso, / a restare attaccato con tutta la forza / e guardare la furia della tempesta marina, / nella speranza che appaia una piccola balena»), oppure sognare di attraversare a piedi l’Atlantico e provare a immaginare come «debba sembrare tutto questo ai pesci là sotto: / il fondo dei miei piedi che appare, scompare», o ancora versarsi un bicchiere di vino al tramonto e accorgersi di non aver toccato mai la voce di anima viva, salvo poi ricordarsi di aver parlato con la tartaruga, incontrata durante una camminata o la sua cagna, alla quale aveva spiegato che non era ancora ora di cena.

In un articolo su “Avvenire” del 10 dicembre 2011, Roberto Mussapi scrive: «I suoi versi non manifestano alcuna pulsione conoscitiva, ascensionale, nessun senso della finitudine, da cui nasce la poesia. […] Per riempire i teatri e ricevere la corona d’alloro, come è riuscito lui, bisogna scrivere una poesia semplice e fruibile. Come? Abbandonando la grande linea del Novecento americano, Eliot, Pound, Hart Crane, Stevens. Cioè abbandonando monumenti di poesia che da americani sono diventati universali: la grande poesia moderna parla elio tese, poiché eliotianamente pratica il “correlativo oggettivo”: parlare di realtà immateriali e atemporali attraverso immagini concrete».

La dilatazione e il rigonfiamento del mondo spesso acquisiscono non solo humour intenso e geniale, ma anche la sovrapposizione di suoni, l’indizio surreale e lo scarto improvviso.

Ecco cosa racconta in Un altro motivo per cui non tengo una pistola in casa: «Il cane dei vicini non smette di abbaiare. / Abbaia sempre lo stesso alto, ritmico abbaio / che abbaia ogni volta che vanno fuori. / Si vede che lo accendono quando escono. / Il cane dei vicini non smette di abbaiare. / chiudo tutte le finestre di casa / e metto una sinfonia di Beethoven al massimo / ma lo sento ancora ovattato sotto la musica, / che abbaia e abbaia e abbaia, / e ora lo vedo seduto nell’orchestra / a testa alta e sicura come se Beethoven / avesse inserito una parte per cane che abbaia. / quando alla fine il disco finisce abbaia ancora, / seduto là, nella sezione degli oboe, abbaia, /  con gli occhi fissi sul direttore che lo / guida con la sua bacchetta /  mentre gli altri musicisti ascoltano in rispettoso / silenzio il famoso assolo per cane che abbia, / coda infinita e causa prima dell’affermarsi / di Beethoven come genio innovativo ».

L’acutezza di Collins ama questa sovrapposizione e dilatazione per scrivere la realtà, nell’arguzia di un wit fruibile intenso, che afferma e sollecita misura e discrezione. Se è vero, come egli sostiene, che «Il candore è nipote dell’ispirazione», il suo tratto è una spoliazione e una continua ripulitura: «[…] non esitare a prendere / per i campi e a sfregare il fondo / dei sassi o a spolverare sui rami più alti / della buia foresta i nidi pieni di uova. / Quando ritroverai la strada di casa / e riporrai spugne e spazzole sotto il lavello / vedrai la luce dell’alba / l’altare immacolato della tua scrivania, / una superficie pulita al centro di un mondo pulito» (Consiglio agli scrittori) o come avviene in Purezza: «Mi tolgo i vestiti e li lascio in un mucchio / come se fossi morto sciogliendomi e il mio lascito fosse solo / una camicia bianca, un paio di pantaloni, e una teiera di tè non più caldo. / Poi mi tolgo la pelle e l’appendo a una sedia. / La sfilo dalle ossa come fosse un vestito di seta. / Lo faccio perché quel che scrivo sia puro, / completamente sciacquato dal carnale, / incontaminato dalle preoccupazioni del corpo. / infine mi tolgo tutti gli organi e li dispongo / su un tavolino accanto alla finestra. / non voglio sentire i loro ritmi antichi / mentre cerco di battere a macchina il mio intimo battito».

La sua spoliazione, pertanto, è un nudo slittamento che insegna a percepire il fitto folto di vita e morte. Scrive Charles Simic: «A un poeta come Billy Collins una poesia offre l’opportunità di distanziarsi dalla “Poesia”. Il mai-visto-prima, il mai-sentito-prima è ciò a cui aspirano i poeti del suo tipo. Essi si affidano al loro senso del comico per difendersi da una retorica d’accatto. Per quel che li riguarda, è meglio sentirsi accusare di fare i buffoni o i matti che non avere la taccia di pappagalli e indossare il costume di una qualche antiquata moda letteraria».

Il vestito di Collins non è una «corda legata a una sedia», come certi critici o professori tentano di fare della poesia, per «torturarla finchè non confessi», colpirla con un tubo di gomma «per tirar fuori che cosa davvero vuol dire», anzi, come avviene in Balistica (2011), la sua tensione originaria mira alla linearità dei bersagli, alla primordialità dei passaggi e degli spazi nuovi, alla voce non sovra strutturata, come approdo, tregua e scandaglio di abisso.

Chiede ai lettori di unirsi a lui per iniziare una fitta sassaiola contro gli insegnanti che domandano cosa stesse cercando di dire il poeta (cita a tal proposito Thomas Hardy e Emily Dickinson imbrigliati nella loro incapacità di dire bene ciò che volessero dire), ma alla fine «noi nella classe di Inglese della terza ora della prof Parker / qui al liceo di Springfield ce la faremo».

La sua poesia mal sopporta questa imbrigliatura, l’interpretazione come sponda di senso. Il suo gesto poetico ama le ospitalità, i transiti aperti del mistero, l’accessibilità che introduce a inattesi spostamenti verso «reami di inscrutabilità, dove ci si può avvicinare alla verità solo con un gesto. Se ogni verso in una poesia fosse chiaro allo stesso modo, saremmo privati delle ambiguità e dei segreti di cui la poesia, da sempre, è stata il mezzo migliore di esplorazione; se ogni verso fosse illeggibile non avremmo terreno su cui stare in piedi, non avremmo un posto da cui guardare il grande enigma al centro delle nostre esistenze».

Ecco il fuoco di Billy Collins che porta in giro la sua voce nel mondo, allontanandola dalla vivisezione dell’anatomista. Il suo microcosmo compare per mettere in scena un proiettile che corre preciso, come quello che ha perforato un libro di un poeta non amato, facendo esplodere le pagine. La pallottola perfora ogni anfratto di carta delle poesie della sua infanzia, fino alla foto dell’autore «attraverso la barba, gli occhiali rotondi, / e quello speciale cappello da poeta che gli piace indossare».

Lo humour serve l’ordinario in una grande arguzia associativa, in cui i connubi della sua arte realizzano teatro e abisso, voce aperta e sintassi accesa, poesia di linee e quadro scrostato.

In una intervista rilasciata a Franco Nasi, al quale si deve il merito di aver fatto sfociare la sua poesia in Italia, Collins ricorda le sue influenze. Dal latino imparato senza particolare attenzione, quando serviva messa e poi risultato essere un’ arcana espressione sensoriale, alle rubriche di bridge delle riviste che hanno scoperchiato in lui un orizzonte e un linguaggio quasi esoterici, che riportano a Stevenson e al Settimo Sigillo di Bergman, persino in frasi come «Sud vince con l’asso del morto, prende l’asso di picche e taglia quadri», infine  ai cartoni animati di Warner Brothers.

La suggestione dell’abisso è la sua coperta apertura di una narrazione scomposta e poi continuamente ricomposta, come la morte di un suo vicino di casa con un figlio, che mescola indirizzi e numeri in una strana pioggia di maniche vuote, «Il peso dei miei abiti, non dei suoi / potrebbe essere appeso nell’oscurità di un armadio oggi».

La sua vocazione diviene segno e fenditura di una rivelazione che svolta nell’esistenza, come scelta dell’essere: «Se mai ci fosse un giorno di primavera così perfetto, / reso ancor più bello da una calda brezza intermittente, / da spingerti a spalancare / tutte le finestre di casa, / e ad aprire la porticina della gabbia del canarino, / anzi, a rimuoverla dallo stipite, / un giorno in cui i vialetti di freschi mattoni / e il giardino che scoppia di peonie / sembrassero incisi nella luce del sole / da farti venir voglia di prendere / un martello per il fermacarte di vetro / del tavolino del salotto / e liberare così gli abitanti / dal cottage coperto di neve / perché possano uscire / tenendosi per mano e ammirare / questa cupola più grande azzurra e bianca, / be’, oggi sarebbe proprio un giorno così» (Oggi).

  

Collins B., Balistica, Fazi, Roma 2011.  

Id.,  A vela in solitaria intorno alla mia stanza, Fazi, Roma 2013.

Antonelli S. (ed.), Ritratti americani. 15 scrittori raccontano gli Stati Uniti, Elleu Multimedia, Roma 2004.

Darlin R., Billy Collins: Sailing alone around the room: New and selected poems, «http://www.expansivepoetryonline.com/journal/rev112001b.html».

D’Orrico A., Billy Collins senza humour non c’è poesia, in “Corriere della Sera”, 25 settembre 2011.

Hilbert E., Wages of fame: The case of Billy Collins «http://www.cprw.com/Hilbert/collins2.htm».

Simic C.,  recensione a A vela in solitaria intorno alla stanza, trad. di P.F. Paolini. in «La rivista dei libri», 11, 2006.

Spadaro A., Nelle vene d’America, Jaca Book, Milano 2013.

La velatura di Vittorio Sereni

di Andrea Galgano                                         30 novembre 2013

poesia contemporanea La velatura di Vittorio Sereni

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«Sereni nasce come un ermetico sui generis, che corteggia il racconto esistenziale e non crede nel primato della letteratura sulla vita; è un evocatore di spiriti, ma tiene lontani gli spiritualisti e Freud; s’inventa uno stile magmatico, ma mai avanguardista o espressionista; è un poeta di oggetti concreti, ma al tempo stesso di trasalimenti e indefinibili umori; abbozza affreschi storici, ma malgré lui, perché la storia gli si impone coi contraccolpi che determina nella vita interiore: dà conto della crisi del soggetto, ma non rinuncia a dire «io», oscillando tra polo lirico e prosastico […]; infine, è a suo modo socialista: però si tratta di un socialismo privo delle coperture ideologiche marxiste, che fa tutt’uno con un illuminismo lombardo d’antan aggiornato dall’eclettica fenomenologia di Banfi» (Matteo Marchesini, da «Sereni,  mito esile e prezioso», “Il Sole 24ore”, 27 gennaio 2013).

La poesia e la moralità di Vittorio Sereni (1913-1983) risiedono nella purezza dell’intesa o in quello che Alfonso Berardinelli chiama «attesa ansiosa, nel suo essere sorpreso e strappato a se stesso dalle “visitazioni della poesia”».

Era poeta della guerra, Sereni. Una guerra strappata, vertiginosa e perduta. Ma anche poeta-funzionario editoriale. Egli stesso considerava, infatti, questa professione una espressione di concretezza e di rigore, un lavorìo che parte da lontano, investe l’esilità reticente e il pudore della sua pagina, con l’estremo riserbo di una conversazione che tende via via sempre più al monologo, alla trama della perdita e dell’assenza a bassa voce.

Se in molti videro, in lui,  l’uscita della poesia italiana dall’Ermetismo, egli rappresenta una sorta di enclave poetica, uno spazio vibratile e lirico che canta la terra d’Algeria o espone il suo canto al senso segreto del verso.

Scrive Roberto Mussapi: «La dimensione orizzontale di Sereni, così felice nel suo incanto addolorato per i paesaggi albari e serali, per gli istanti di passaggio che segnano la vita della comunità umana, non esclude una sua esplorazione verticale, in profondità. Semmai la prospettiva si sposta dall’uomo in toto, dalla realtà antropologica, all’uomo Sereni, al poeta che fa della propria cronaca doloroso e luminoso campo di esplorazione della vita. Il dominio del chiaroscuro, della tenuità, la mancanza di visionarietà, generano una poesia misteriosa proprio nella sua nitida leggibilità, tremante e nello stesso rivelante». 

La rivelazione, se da un lato conduce all’agglutinamento espressivo, dall’altro condensa la pagina in una registrazione e in una pressione d’attesa: «Programmare una poesia “figurativa”, narrativa, costruttiva, non significa nulla, specie se in opposizione di ipotesi letteraria a una poesia “astratta”, lirica, d’illuminazione. Significa qualcosa, nello sviluppo d’un lavoro, avvertire un bisogno di figure, di elementi narrativi, di strutture: ritagliarsi un milieu socialmente e storicamente, oltre che geograficamente e persino topograficamente, identificabile, in cui trasporre brani e stimoli di vita emotiva individuale, come su un banco di prova delle risorse segrete e ultime di questa, della loro reale vitalità, della loro effettiva capacità di presa. Produrre figure e narrare storie in poesia come esito di un processo di proliferazione interiore… Non abbiamo sempre pensato che ai vertici poesia e narrativa si toccano e che allora, e solo allora, non ha quasi più senso il tenerle distinte?».

La fame di realtà tocca il mondo nei sui punti e nei suoi slarghi, spesso umbratili ed fantasmatici, ma egli, come scrive Daniele Piccini su «Poesia» del settembre 2013, «rimase fedele a quel mondo, per molti aspetti: all’opposizione tra una solarità agognata e il senso di una limitazione oscura e angosciosa (insomma al «cortocircuito fra vitalità e morte costitutivo della poesia sereniana», come si esprime Mengaldo); alla presenza, soprattutto, di una “frontiera”, termine e tema massimamente polisemico».

La vita e la morte in limine, così come lo spazio di percussione tra sogno e veglia, come una peripezia del poeta nello spazio urbano, si appropriano di un punto in movimento che conosce l’esilità fissa della gioia e la dolorosa cronaca della morte, la nullificazione minacciosa e la magia fascinosa dei luoghi.

La partenza e l’arrivo identificano il suo tempo e la concreta esperienza poetica, ossia, come afferma Lanfranco Caretti, «il tempo della lampeggiante chiarezza entro l’aggrovigliato flusso dell’esistenza, nel tempo “presente”».

Il rapporto del tempo presente, pertanto, «porta costantemente in sé il proprio passato: non come ingombro o museo memoriale, bensì come attualità, o per dirla con lui stesso, come una somma di “sostanze, ossia di qualcosa di ben più fondo, ben più inamovibile e inalienabile dei ricordi».

La densità e la complessità del presente illumina porzioni di passato sempre in atto, slanci sperduti, fallite assenze, come «toppe d’inesistenza, calce o cenere / pronte a farsi movimento e luce».

L’esistenza, quindi, slancia la sua paratia in un recupero patrimoniale di esperienze e visioni che si sovrappongono, le sfumature riprendono il vertice dei suoni per dare vita a un gioco di specularità e iterazione, dissolvenza e ricorrenza.

Nell’esordio poetico Frontiera (1941), il caleidoscopio sereniano declina le sue pitture e i suoi idilli in un’ombra sfacelante (molto simili al Coleridge de La ballata del vecchio marinaio), dove il delineamento di figure incerte che si attardano e il viaggio acquoso (Luino e il suo paesaggio di confine-limbo) percorrono la sua linea d’ombra originaria, che transita solo per dissolversi e scomparire, per abbandonarsi nella luce e nello strazio di un congedo sfasato («La svelata bellezza dell’inverno»). Un tentativo di accordare immagini minacciose e silenti con il sotteso delle rotture e della fissità sfumata, in ciò che Silvio Ramat definisce come «passione trepida di romanzo»: «Un altro ponte / sotto il passo m’incurvi / ove a bandiera e culmini di case / è sospeso il tuo fiato, / città grave […] Maturità di foglie, arco di lago / altro evo mi spieghi lucente, / in una strada senza vento inoltri / la giovinezza che non trova scampo».

La donna-lago, che chiude l’opera, ammalia e nullifica, colloca l’immagine bianca e invernale del tempo in un rapimento inquietante e immobile, in cui la pienezza vivente si sorprende nell’abito mortale dell’inverno e della sua sospensione tacita: «S’imprimeva in me un senso di diffuso biancore, con riflessi metallici, ghiacciati, invernali, quasi avessi a che fare con una metafora dell’inverno; e già questo era fuorviante, quanto più una giustificazione e una caratterizzazione di ordine visivo mi offriva una scappatoia semplicemente sensoriale rispetto alla reale,e fin lì impenetrabile sostanza del testo».

La stessa atmosfera si riscontra in Diario d’Algeria (1947), dove il diarismo culmina nella dolorosa esperienza personale. Catturato a Trapani col suo reparto dagli Angloamericani nel 1943, venne trasferito nell’Africa del Nord nei campi di prigionia di Orano e Casablanca.

È l’esperienza-limite dei fantasmi della Storia, l’essere margine escluso di qualcosa che si svolge altrove, per essere «morto alla guerra e alla pace», sull’orlo indicibile del tempo, sul trabocco metafisico «tra due epoche morte / dentro di noi». Partecipe e inadatto: «Vado a dannarmi e insabbiarmi per anni» o ancora «Ora ogni fronda è muta / compatto il guscio d’oblio / perfetto il cerchio».

Afferma Daniele Piccini: «Sereni, al contrario di Luzi, è il poeta del cimento, della paziente e difficile conquista di un verso, di una scena, di una figura: non procede con la miracolosa facilità che possiamo riconoscere nel fiorentino e, in modo diverso, in Bertolucci, ma con studio, per filtraggi, per condensazioni».

La sua rarefazione è frutto di uno sforzo ed è sempre minacciata dalla paura del silenzio, dell’angoscia di non poter scrivere, da una permanente perplessità. Egli muove da questi limiti interiori, da questi assilli e trova il modo di superarli, anche attraverso una stratificazione di voci e di registri, di suggestioni e di spunti combinati in organismi complessi e sfuggenti».

La sostanziale purezza lirica che si unisce al suo precedente libro fa spazio all’isolamento e all’inazione, al trauma che scocca i suoi segni, alle ferite partecipate. L’essenziale raspamento, che quell’esperienza porta con se, determina un graduale passaggio viandante e poi prigioniero. Il vento, il sole, le nubi sono legati a una dura sostanza corporea, a una geografia incolore, a uno straziato ed esule cromatismo.

Il residuo della vitalità si richiama nei ricordi, quasi salvati, e allo stesso tempo sfumati, perché «la voce più chiara non è più / che un trepestio di pioggia sulle tende». La mancanza, il vuoto, l’isolamento giacciono nel fondo umano la loro immobilità larvale e purgatoriale, «Sereni», scrive Giulia Raboni, «costruisce nella prigionia un guscio protettivo che finisce per rinchiuderlo in una sorta di limbo, non troppo duro da sopportare ma insieme, anche per questo, tanto più colpevolizzante».

Lo scatto e l’affondo distinguono nuove sovrapposizioni, affermando l’esigenza di difendere i tratti degli istanti significativi, per «produrre figure e narrare storie in poesia come esito di un processo di proliferazione interiore». È l’esito di una pronuncia nascosta che cerca salvezze antiche, l’io che sceglie in modo privilegiato.  

La trasformazione e l’ampliamento del lessico di Saba e Montale, se da un lato impongono una modernità verso il basso, precipui a un territorio vastissimo, dall’altro contestualizza l’espressione in un movimento preciso e quotidiano, come testimonia Laura Barile nel suo saggio Amore e memoria, ripercorrendo ciò che lo stesso Sereni afferma: «Un istinto incorreggibile mi indusse a riprodurre momenti, a reimmettermi in situazioni trascorse al fine di dar loro seguito, sentirmi vivo […] Perché facilmente una forma di presunta fedeltà alla propria immaginazione si pietrifica nell’inerzia, in una stortura».

La fase di attraversamento nel tempo del dolore e della perdita diviene esperienza vissuta e coltre d’amore: «ama dunque il mio rammemorare / per quanto qui attorno s’impenna sfavilla e si sfa: / è tutto il possibile, è il mare».

La sovrapposizione di piani, pertanto, accende la sua umbratile luminosità, Ancora sulla strada di Zenna testimonia il riflesso di una esclusiva immanenza; Il muro persegue un dialogo notturno con il padre, mentre osserva una partita di calcio davanti al cimitero di Luino («Dice che è carità pelosa, di presagio / del mio prossimo ghiaccio, me lo dice come in gloria / rasserenandosi rasserenandomi / mentre riapro gli occhi e lui si ritira ridendo / – e ancora folleggiano quei ragazzi animosi contro bufera e notte- lo dice con polvere e foglie da tutto il muro / che una sera d’estate è una sera d’estate / e adesso avrà più senso / il canto degli ubriachi dalla parte di Creva»), La spiaggia condensa passaggi epifanici attraverso una conversazione al telefono.

La perlustrazione del vuoto esprime un movimento inconsolabile, il sigillo di qualcosa di inespresso e perduto: «e dopo / dentro una povere di archivi / nulla nessuno in nessun luogo mai», o ancora «E quante lagrime e seme vanamente sparso», «Ancora non lo sai / – sibila nel frastuono delle volte / la sibilla, quella / che sempre più ha voglia di morire – / non lo sospetti ancora / che di tutti i colori il più forte / il più indelebile / è il colore del vuoto?».

Eppure in Sereni permane, afferma Daniele Piccini «struggente e lucida, direi virile, la suggestione di una gioia che si oppone a quelle ombre e che ne è istantanea e non metafisica risposta. […] La compressione dolente, propriamente angosciosa del discorso di Sereni determina il liberarsi di forze in senso contrario, di fioriture fortunose, che non si attentano a rovesciare il discorso, a risolverlo, ma a tenerlo in una drammatica tensione, in una dinamica aperta a più significati, scaturiti dalla frizione e dalla clausura».

Negli Strumenti umani (1965), l’aggressione alla pienezza della prima persona sembra richiamarsi al silenzio, alla sovrapposizione dei gorghi di voce, all’eloquenza e alla moralità, attraverso «un tentativo», come afferma Franco Loi, «di sfuggire al Narciso, di cogliere, attraverso la poesia, “gli strumenti umani”, le “minime” verità della sua vita, “i minimi atti”, e nel tentare questo la moralità traspariva come specchio, rigoroso varco e “tornasole” per la sprezzata-amata, e tuttavia ovunque riemergente, compiacenza dell’Io».

L’estremo sforzo di riallacciarsi alla necessità delle fatiche, degli amori, della storia degli ignoti diventa il riflesso sulla propria condizione precaria e oscura, in quelle «toppe di inesistenza» che culminano come solitari emblemi e punti ciechi di assenza: «I morti non è quel che di giorno / in giorno va sprecato, ma quelle / toppe d’inesistenza, calce e cenere / pronte a farsi movimento e luce». L’immanenza trema di gioia, come sperpero di disseminata grazia: «con che fermezza che forza quelle mani / tendevano al sonno gli arbusti / strappati all’ultima riva».

Non esiste, in Sereni, un colore lugubre, né un soprassalto metafisico o una lamentazione, ma la materia del mondo è la sorvegliata misura della morte, che accetta la prigionia in un campo senza cromatismi: «L’anima, quella che diciamo anima e non è / che una fitta di rimorso, / lenta deplorazione sull’ombra dell’addio».

Gli asettici inferni delle fabbriche, l’essere visitatori del mondo, la mimesi del paesaggio toccano il buio della mente, il rumore che si somma per divenire straniero, per credere, come sostiene Mengaldo: «alla funzione rappresentativa anche per altri di una sua particolare esperienza, e della “morale” che ne scaturisce; e in questo senso crede ancora, problematicamente, alla poesia».

Il decorso biografico si appropria dei riflussi, della estrema esiguità di un mito esile: «Siamo passati come passano gli anni, / Altro di noi non c’è qui che lo specimen anzi l’imago / Ma ero / io il trapassante, ero io / perplesso non propriamente amaro».

L’agguato e l’insidia della realtà negativa abita la pagina, come comparsa di lacuna e referto estranei, ma non ammutina la serenità vitale della protezione dell’amicizia, dello scoscio sonoro e del lievito quotidiano, volti a eternare, cristallizzare e conferire la transizione vertiginosa e memorabile del passaggio multiforme dell’esistere: «Niente ha di spavento / la voce che chiama me / dalla strada sotto casa / in un’ora di notte: / è un breve risveglio di vento, una pioggia fuggiasca», oppure «Confabula di te  laggiù qualcuno: / l’ineluttabile a distesa / dei grilli e la stellata / prateria delle tenebre».

La rimarginazione tessuta fino all’osso di Stella variabile (1981) compone il suo referto in una spoliazione estrema: «non lo sospetti ancora / che di tutti i colori il più forte / il più indelebile (/ è il colore del vuoto?».

La trasparenza emorragica dei giorni impone il suo ritardo e il suo rimorso per una mancanza, un’omissione, un ricordo riportato in vita, come aria popolosa. Aveva ragione Fortini, quando scrisse che la poesia di Sereni si muoveva tra indugi elegiaci e scatti di impazienza, quasi a farsi permeare da una crucialità di palcoscenici di varia esistenza e di incertezza.

«Ma da queste situazioni spettrali, prive del risarcimento ideologico che hanno in Montale» sostiene Matteo Marchesini, «Sereni riesce a difendersi. Capita quando intravede un riflesso di quella pienezza vitale che è il suo vero mito. Questa pienezza si rivela nell’amore: ma soprattutto nell’amicizia, e nella grazia dell’efficienza fisica».

Dagli strumenti umani, attraversatori di vita, alla straziata prospettiva stellare, proiettata e dislocata in un ambito memoriale di sogni e trapassi, che trascolora di rinunce, commozioni e stravolgimenti, finisce per «Stringersi / a un fuoco di legna / al gusto morente del pane alla / trasparenza del vino / dove pensosamente si rinfocola / il giorno da poco andato giù / dalle rupi col grido dei pianori / nel vello dei dirupi nel velluto / delle false distanze fin che ci piglia il sonno?».

Il baleno che vive a ridosso della gioia è la stella variabile di un armistizio, verso una memoria che non sfama mai, come il nudo stupore, ricolmo di brivido, verso se stesso, che abbandona e si avvicina alla vita, si sporge dal sogno e dal paesaggio inafferrabile di quel «viandante stupefatto / avventurato nel tempo nebbioso».

 

Sereni v., Poesie e prose, Mondadori, Milano 2013.

Id., Materie prime, in «La Rotonda», Almanacci Luinese 1981, F. Nastro, Luino 1980.  

Aa.Vv., Per Vittorio Sereni. Convegno di poeti, Luino 25-26 maggio 1991, a cura di Dante Isella, All’insegna del Pesce d’oro, Milano 1992.

Agosti S., La poesia di Vittorio Sereni, Librex, Milano 1985.

Baffoni Licata M.L., La poesia di Vittorio Sereni, Longo, Ravenna 1986. 

Barile l., Amore e memoria. Il rammemorare e il mare di Sereni, «Autografo», vol.V, n.s., n.13, febbraio, 1988.

Ferretti C., Poeta e di poeti funzionario, Il Saggiatore, Milano 1999.

Luzi a., La poesia di Vittorio Sereni: se ne scrivono ancora, Stamperia dell’Arancio, Grottamare (AP) 1997.

Memmo F.P., Vittorio Sereni, Mursia 1973.

Mengaldo P.V., Per Vittorio Sereni, Aragno, Roma 2013.

Raimondi S., La “Frontiera” di Vittorio Sereni. Una vicenda poetica (1935-1941), Ed. Unicopli, Milano 2000.

Rondoni D., Sereni, il punto fermo o il punto morto?, in Non una vita soltanto. Scritti da un’esperienza di poesia, Marietti, Genova 1999.

Schuerch R., Vittorio Sereni e i messaggi sentimentali, Vallecchi, Firenze 1985.

 

 

 

Lo spasmo di Alexandr Blok

di Andrea Galgano                                         26 settembre 2013

Poesia Contemporanea

pdf Lo spasmo di  Alexandr Blok

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«Aleksàndr Aleksàandrovič Blok è la figura più cospicua di quella generazione di simbolisti russi che percepirono in modo spasmodico il rombo sotterraneo degli avvenimenti, la crisi della cultura borghese, l’approssimarsi della tempesta. Maturati sul limitare di due epoche, con tutta l’irrequietezza di chi vive sul limitare di due epoche, con tutta l’irrequietezza di chi vive su un’incerta striscia di confine, i giovani simbolisti respinsero il positivismo, le formule naturalistiche, i vezzi dei decadenti in nome di concezioni messianiche, di teorie religiose che appagassero la loro brama di grandi rivolgimenti» (Angelo M. Ripellino).

La poesia di Alexandr Blok (1880-1921) è uno spasmo sottile di confine, come un sisma che si impossessa dell’aura mistica e della profezia. La smania che condensa gli anni febbrili di San Pietroburgo attesta, sin da subito, la sua fascinazione, come avverrà ne i Ricordi di Alexandr Blok, scritti da Andrèj Bèlyj, altro grande emarginato della letteratura di quel tempo.

C’è una sorta di veggenza viandante e rivelatrice nella sua persona, un abbaglio di coltre che promana dalla sua vertigine, come annota Massimo Barili, in un articolo tratto dalla rivista «Il Club degli Autori» del febbraio 2012: «La stessa opera di Aleksandr Blok rappresenta, in fin dei conti, una sorta di diario lirico che diventa specchio fedele delle sue visioni, delle sofferte e tumultuose metamorfosi, dei suoi mutamenti esistenziali e del dramma interiore dopo l’accertamento del crollo della figura della mistica amante, della donna che poi aveva sposato, e della successiva presa d’atto dell’assenza della Bellissima Dama, che aveva ispirato le sue prime poesie, sostituendola con l’immagine terrena e tremendamente mondana della figura di una donna “sconosciuta”, che si aggira nei locali tra gli ubriachi, pronta a offrire anche lei una “rivelazione mistica-estatica” ma di tutt’altro genere. E, poi, nell’ultima stagione della sua vita, anche la figura della “sconosciuta” verrà sostituita con l’amore per la propria Terra, per la Madre Russia, che vivrà il periodo drammatico e sanguinoso della rivoluzione».

L’inizio patriarcale e sereno delle sue prime liriche, raccolte in Ante lucem (1898-1900), afferma la potenza dell’infanzia trascorsa a San Pietroburgo e tra i tigli e le iridi di Ŝachmatovo, dove l’inizio di quella visione nel cielo di geroglifici, intagliava brume, profilava scenari boreali, languiva nei paesaggi, come scrive Pasternak:

«[…] E quando in questo regno dell’artificiosità ormai solidamente affermata, ma di cui nessuno più si accorge, qualcuno apre la bocca non per inclinazione alle belle lettere, ma perché sa e vuole dire qualcosa, questo fatto produce l’impressione di un mutamento improvviso, come se i portoni si spalancassero di colpo e irrompesse il frastuono della vita che si svolge di fuori, come se non fosse un uomo a dar notizia di ciò che avviene nella città, ma la città stessa parlasse di sé per bocca di un uomo. Così, per Blok, tale fu la sua parola, solitaria, pura, come di fanciullo, tale la forza della sua creazione. Sembrava che la novità stessa, spontaneamente, da sé si fosse disposta sul foglio stampato, e che i versi non fossero stati scritti e composti da nessuno. Sembrava che la pagina non fosse rigata dai versi sul vento e sulle pozzanghere, sui fanali e sulle stelle, ma che fanali e pozzanghere fossero loro a increspare, come bava di vento, la superficie della rivista e solcarla di umide, possenti tracce».

La membrana dell’orizzonte impalpabile compone la distesa sonnolenta e fluttuante del paesaggio, un fruscio di fronde mitiche, una burla inseminata di terra: «Penso che, se la voce si tacesse, / mi sarebbe difficile il respiro, / e il cavallo, sbuffando, crollerebbe / sulla strada, e non potrei arrivare! / Pigre e pesanti nuotano le nuvole, / e la foresta languida mi attornia. / Il mio cammino è lungo, faticoso, / ma la canzone amica mi accompagna».

Le visioni cerulee condensano lo sguardo in una sorta di erotismo mistico, una speranza messianica che incontra l’Eterno femminino, in una gracile attesa di sogno veemente, in una vivezza di invocazione e richiamo.

La bianca foresta dei simboli è il bagliore dell’arte che «vede l’incendio rovinoso della vita», come un argonauta di chimere lontane e voce sparsa nel vento dell’inverno o nel crepuscolo delle primavere, nell’alba che «spilla come un rosso fantasma».

Il baluginio della Bellissima Dama che scintilla di rosse lampade diviene il soggetto di una litania densa e stratificata. Assomiglia alle nebbie fugaci e perenni di una ingemmata fiaba antica che indizia il suo avvento, scrive l’amore nei diari, fa esplodere le sue fiamme.

Scrive ancora Barile: «Blok si muove, all’inizio del suo cammino, come a ricercare l’estasi rivelatrice in un mondo irrisolto, in una vita che può essere oscura e pericolosa, in una dimensione nella quale immergersi e avvertire l’approssimarsi della tempesta. Nel flusso della realtà, cosparsa di mistero e tragicità, si può aprire una porta invisibile che conduce alla sostanza stessa dell’esistere, cercando di possederla attraverso una mistica visione, grazie ad un incanto metafisico. Il vortice dell’esistenza vede dissolvere la patina superficiale che vela ogni cosa e tutto ciò permette, come fosse iniziazione dei misteri, di penetrare nelle zone più segrete ed inconoscibili. L’illuminazione lirica, nella sua forma estatica, elimina la banalità della superficialità quotidiana e introduce alla radice dell’esistenza pura, come a vivere l’ebbrezza suprema».

L’ineffabile percezione dell’esperienza, la vaghezza e indefinitezza dei passaggi, trova in Blok, la fiamma dell’ornato indefinibile, del folclore, della linea che ripercorre le strade, i boschi, le chiese, i campi.

L’accenno preciso del colore, fa risultare, pertanto, «un universo largo e ipnotico, una creazione contrattile e senza contorni, che palpita in ogni sua fibra per la spasmodica attesa di impossibili eventi» (Angelo M. Ripellino).

L’anima atemporale di Ljuba-femminino è un vortice di austerità patriarcale, un nastro che compone l’universo e si fa incontro impenetrabile. Ma gli occhi randagi di Blok hanno già solcato lo sperdimento della città, gli umiliati e offesi che la abitano, la notte nei buchi e le tenebre di luce. La lacerazione e la frattura iniziano a propagare nell’anima.

Blok frequenta i salotti letterari, da quello di Zinaida Gippius fino a quello di Ivànov e Gorodeckij descrive il poeta prima della declamazione: «Nella sua lunga prefettizia, con la morbida cravatta annodata in maniera raffinatamente negligente, con l’aureola dei capelli oro cinerino, egli era romanticamente bello allora, nell’anno 1906-07. Si avvicinava lentamente al tavolino con le candele, sfiorava tutti con occhi di pietra ed egli stesso si faceva di pietra, finché il silenzio non diventava assoluto. E si metteva a recitare, tenendo la strofa tormentosamente bene e rallentando appena il tempo nelle rime. Egli incantava con la sua lettura e quando terminava la poesia, senza cambiare voce, improvvisamente, sembrava sempre che il godimento fosse terminato troppo presto e fosse necessario ascoltare ancora».

Il travaglio di un’epoca, l’illusoria liberazione nei fumi dell’alcool, sostengono lo spaesamento di una congiunzione di esilio.

La nuova figura femminile che compare all’orizzonte ha tratti netti ed è tempesta di giorni febbrili. Dal suo occhio, radicato e suburbano, Blok delinea nuovi contorni:

 «Si è dunque compiuto: il mio mondo magico è diventato l’arena delle mie azioni personali, il mio “teatro anatomico” o teatro dei burattini, dove io stesso svolgo un ruolo insieme alle mie mirabili marionette (ecce homo!). La spada d’oro si è spenta, i mondi color lilla mi hanno irrorato il cuore. Il mio cuore è un oceano, tutto in esso è ugualmente magico: non distinguo la vita, il sogno e la morte, questo mondo e gli altri mondi (attimo, fermati!). […] La vita è diventata arte, ho fatto gli esorcismi e dinnanzi a me è sorto infine ciò che io (personalmente) chiamo la “Sconosciuta”: una bellezza-marionetta, uno spettro azzurro, un prodigio terrestre. Questo è il coronamento dell’antitesi. E dura a lungo la leggiadra,  alata meraviglia dinnanzi alla mia creazione. I violini la glorificano nel loro linguaggio. La Sconosciuta. Non è affatto semplicemente una dama in una veste nera con piume di struzzo sul cappello. È una lega diabolica di molti mondi, principalmente azzurri e lilla. […] È una creazione dell’arte. Per me è un fatto compiuto. Sto dinnanzi alla creazione della mia arte e non so cosa fare. Detto diversamente, cosa fare con questi mondi, cosa fare della propria vita, che d’ora in poi è diventata arte, perché accanto a me vive la mia creazione – né viva, né mor-ta, uno spettro azzurro. Vedo chiaramente “il lampo fra le sopracciglia delle nubi” di Bacco (“Eros” di VjaC. Ivanov), chiaramente distinguo la madreperla delle ali (Vrubel’ — “Il demone”, “La principessa-cigno”) o sento il fruscio delle sete (“La sconosciuta”). Ma tutto è uno spettro».

È il solco inguainato di azzurro, una voragine di tempi lontani. Inizia persino a comparire l’’immagine paludosa, principio di colore viola, letargo di guerrieri e fiammelle palustri.

Il sogno-grido dell’azzurro è violino sbandato di una stella caduta. La Sconosciuta diviene il ponte di un abbaglio che inclina e oscilla.

Commenta Angelo M. Ripellino: «la Violetta Notturna è la Bellissima Dama, non più miraggio di teologali lontananze, ma fantasma ipnotico che germina dalle paludi; il giovane scaldo, irrigidito in una torpida adorazione, è un sosia, un riflesso del poeta ingolfato in un culto sterile e ozioso; e i guerrieri del seguito arieggiano agli “Argonauti”».

Il pianto e il grido addosso, cullati nel vento dell’alba, dei tripudi dell’esilio confuso e impalpabile, intuisce un doppio mondo che evoca e adombra specchiamenti e riflessi.

L’altrove lontano e negato risuona il suo fondo catturato. Da ora in poi la coltre cittadina di Blok è rappresentata dai postriboli, dalle bettole, dallo spolvero delle nebbie, dove le prostitute raccontano l’aura della loro parabola.

Pietroburgo è rossastra, striata di sangue e vermiglia: «La nostra realtà trascorre in un rosso chiarore. I giorni son sempre più rumorosi di gridi, di rosse bandiere sventolanti; a sera la città, assopitasi un attimo, è insanguinata dal crepuscolo. Di notte il rosso canta sugli abiti, sulle guance, sulle labbra delle donne da conio. Solo la pallida mattina scaccia l’ultima tinta dai volti emaciati» (Tempi calamitosi, 1906).

I rossi crepuscoli sfuggono nelle notti bianche, nelle raffiche inondate della Nevà, come atmosfera palustre, singhiozzo di alberi e goccia sui contorni.

Anche l’impegno nel teatro (La baracca dei saltimbanchi, I dodici) testimonia uno sguardo che accarezza i precipizi, nel racconto di un drappello di dodici guardie rosse che pattugliano la città, prima dell’arrivo di Cristo.

La durezza della rivoluzione raccoglie una voragine di giostre che sfarina voli,colora veleni e distrugge: «Striscia da me come serpe strisciante, / assordami nella sorda mezzanotte, / con le labbra languide tormentami, / soffocami con la treccia nera».

Scrive Ripellino: «L’umor nero di Blok non è una propensione letteraria, un abito esteriore, ma il basso continuo, la fosca filigrana della sua vita, giorni e notti, giorni e notti. Incalzato dall’ansia di ramingare, di perdersi negli angoli abietti e remoti della periferia cittadina, egli va alla ventura, girando per le squallide strade fiancheggiate da lerci abituri, alla luce di lampioni che vacillano nella nebbia».

La luce è raminga come lo spasmo. Una metafisica del non essere che racchiude un universo oscuro senza fanali, in cui lo sguardo scorre nel mondo terribile e randagio, come il vischio di una genesi rifiutata. Rende spazio al gioiello scuro di una creaturalità dolente, sconsolata e magmatica, in cui il singhiozzo del tempo si addensa, laddove il deserto rapina la sua figura malferma.

È nella linea malferma che egli scova il fondale dell’esistere, la caligine nel vuoto, il velo evaso della nebbia che termina nel tormento.

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Clemente Rebora. il grido e la tensione

Clemente Rebora. Il grido e la tensione

di Andrea Galgano                                         11 settembre 2013

Clemente Rebora. Il grido e la tensione

Poesia Contemporanea

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«Qualunque cosa tu dica o faccia / c’è un grido dentro: / non è per questo, non è per questo!».

In Clemente Rebora (1885–1957), non esiste evento o circostanza o scheggia di dettaglio, ricolmo di gioia o doloroso, che non sia assedio della realtà, che non sia soggetto a provocazione o destinazione ultima, dove la natura non prenda coscienza di sé. È, quindi, nell’uomo che si innerva la caducità, la contingenza delle cose, tra il tentativo di aggrapparsi al possesso precario, agli idoli, e l’esigenza di compimento che porta in grembo il suo grido, con una segreta domanda.

Tutta la scrittura nasce da questo avvertimento e da questa urgenza, come annota Emilio Cecchi: «far l’elogio di questa posizione spirituale autenticarlo col raffronto di tanta viltà e scioccheria nella nostra letteratura odierna, equivarrebbe a offendere lo scrittore».

«Rebora», aggiunge Elio Gioanola, «è colui che più di tutti ha trasfuso in poesia esistenzialità e moralità, disperazione e speranza, rifiuto dell’esistente e ansia di assoluto, fino a costruire il più autentico monumento di poetica espressionistica della nostra letteratura primonovecentesca».

La totale esattezza spericolata, unita a una dissonante, quasi sfrangiata, musicalità si impongono in una «fonte viva; qui c’è un’anima e un uomo», come scrisse Giovanni Boine.

Sergio Pautasso, analizzando il rapporto di Rebora con i contemporanei, afferma: «La presenza di Rebora nel Novecento risulta sconvolgente perché spariglia le carte degli ormai consolidati schemi della storiografia letteraria; non solo, ma con la sua poesia egli ha rimesso nematicamente e linguisticamente in discussione il rapporto con le poetiche novecentesche, dimostrando che con esse aveva poco a che fare perché, in effetti, mirava ad un diverso risultato. Di qui deriva, e si spiega, l’inadattabilità dei versi reboriani alle regole della lettura critica della poesia novecentesca. Il che non significa che la critica non si sia occupata di lui, anzi. Ma si vuole dire che la lettura reboriana è stata, diciamo, più difficoltosa, per reali ragioni oggettive».

Egli stesso, il 13 ottobre 1956, sostando, per così dire, sull’essenza del classico, annotò: « Ogni vero poeta (e pochissimi sono) […] ha in proprio il suo non comunicabile genio personale innestato nell’elemento unanime e perenne della cultura e della civiltà del suo tempo; per cui, questo elemento universale – e quanto più è purificato d’ogni ingombro contingente – lo fa diventare un classico».

Il racconto e la sorpresa della lievità degli istanti, quando corrono «per l’aria immagini di bene / con riso di speranza», si accompagna allo sgomento «del sogno disperso / dell’orgia senza piacere / dell’ebbra fantasia», all’incanto del pieno respiro, alle stelle-ragazze che danno «bàttiti di ciglia / divini».

Rebora canta lo spazio della «realtà segreta», la tensione sulla positività ultima della realtà, quando una illogica allegria investe un indizio di ringraziamento: «e quasi sento un caldo àlito umano / sul viso e dietro il collo un far di baci / e tra’capelli morbida la mano / d’amante donna in carezze fugaci» o inseguimento con balzo fulgido dietro all’ «amor che nel nostro cammino accende / l’inconsapevol brama triste o lieta», per godere delle cose così come sono: «quando si nutre il cuore / un nulla è riso pieno, / quando si accende il cuore / un nulla è ciel sereno: / quando s’eleva il cuore / all’amoroso dono, / non più s’inventan gli uomini, ma sono».

Annota Gianni Mussini: «In Rebora, anche nel primo Rebora, non esiste una vera “autonomia del significante”. Per lui la poesia è invece sempre eteronoma: non vale in sé, ma in quanto espressione di un altro e di un oltre. Cioè, di una verità che sempre la supera: una verità prima angosciosamente cercata e, quindi, forse altrettanto angosciosamente trovata. In fondo, la poesia reboriana non è che la trascrizione fedele di questa ricerca: essa rappresenta tutta un’esperienza, tutta una vita».

La poesia che non sovrascrive la vita, ma è più necessaria della vita stessa ha il gemito di un’urgenza, in cui il battito dell’ora e del tempo crescono, innestandosi nell’eterno: «Vorrei palesasse il mio cuore / Nel suo ritmo l’umano destino».

I Frammenti lirici del 1913, pubblicati dalla Libreria della Voce, sono «la grande avventura di un giovane che vuole misurarsi con il mondo delle idee, delle parole, dei suoni e tutto fondere a tentare una verità percepibile ma non sempre rivelabile» (Gianni Mussini).

Umberto Muratore annota che nella dedica del testo, egli «esprimeva il desiderio, definito poi meglio nei Canti anonimi, di non trovarsi a cantare il proprio io, bensì l’io comune, di farsi interprete delle ansie e delle aspirazioni comuni del tempo», nell’ «accettazione spontanea, mistica, del proprio dolore e della propria nullità, purchè da tale stato di svuotamento individuale nascano semi di vita per gli altri».

La frammentazione di un’epoca, la vicinanza (nel titolo), petrarchesca, propongono un bivio: distruggersi nello strazio della guerra (definita «tremendo festino di Moloc, stanza dell’ammazzatoio di Barbableu» dove tutto è «mari di fango e bora freddissima» ed egli si sente «fatto aguzzino carnefice»), nella sconfitta frustrata di un «forsennato voler che a libertà / si lancia e ricade […] e fatica e rimorso e vano intendere: / e rigirio sul luogo come cane» e nell’annientamento totale, oppure invocare una segreta domanda, rischiando l’immagine salvifica intravista e sfuggente: «il mio volto s’alza a chiedere / la verità alla vita, / che l’attimo contrasta / e il dolor solo accoglie», ma «il dolore non basta / e l’amore non viene».

«La poesia di Rebora», sostiene Elio Gioanola, «appare lacerata da un’inquietudine profonda, dal senso di un’inadeguatezza radicale rispetto al mondo com’è agli uomini come mostrano di vivere. Egli ha intuito la sproporzione tra il comune operare umano e l’ansia delle domande sul senso dell’essere e dell’esistere».

La sproporzione evolve la martellatura dell’istante in domanda di totalità, come egli stesso ricorderà nel Curriculum vitae: «Un lutto orlava ogni mio gioire: / l’infinito anelando, udivo intorno / nel traffico e nel chiasso, un dire furbo: / quando c’è la salute c’è tutto, / e intendevan le guance paffute, / nel girotondo di questo mondo».

Al cuore non basta l’effervescenza dello spirito, il lievito del buon senso. Tutto deve richiamare a una Salvezza ricercata e presente, a un Senso ultimo che passi dalla datità concreta e rechi in grembo una domanda elementare: «Tutto ascendeva, / congiunto, discosto, / i monti e la sera, / presenza del cuore nascosto, / lontananza del fior sullo stelo. / Al varco dell’ombra e del cielo / Scoprivo lo spazio alle cime, / che hanno confine/ ov’è l’inizio più vero» (Ca’ delle sorgenti).

Mancava questo al giovane Rebora, «ammiccando l’enigma del finito sgranavo gli occhi a ogni guizzo; fuori scapigliato come uno scugnizzo, dentro gemevo, senza Cristo».

Commenta Pautasso: «In lui agiva una tendenza alla religiosità, ma che non coincideva ancora con una scelta, benché inconsciamente la sua scelta egli l’avesse già fatta, almeno con la poesia».

L’oscillazione tra eterno e transitorio ama la piena dell’indicibile, nata dal dissidio interiore di una contraddizione non risolta che possa germinare di vividezza: «vorrei, maturar da radice / La mia linfa nel vivido tutto».

Scrive Gianfranco Lauretano: «La poesia di Rebora imita invece non tanto la vita materiale, ma il movimento interiore, l’anima che, comprendendo se stessa e il mondo, avanza sbattendo in contraddizioni, complessità, mistero».

L’infinita densità del tutto è l’incisione di una affinità che non conosce esclusione di dettaglio o innesti una grande aspirazione «mar che ti volgi è riva e chiami, / cuor che ti muovi ovunque è pena e l’ami».

La commistione dell’umana tensione con la percezione del limite, come se germogliasse dalla sconfitta un’attesa, forte più di ogni calcolo, impone una vigile veglia «solida e coerente» (Gianfranco Contini), come testimoniano i passaggi del Frammento V, che Luigi Giussani commenta così: «Quanto più mi sento nella morsa delle cose che mi impediscono di identificarmi coi sogni, coi desideri, tanto più vorrei che questa morsa che stringe mi facesse ardente nella dedizione della mia energia. Bellissimo paragone della barca a vela, del fermaglio e della scotta; quanto più si stringe tanto più il vento che vi soffia dentro fa volare la barca […] è talmente forte il senso della positività ultima del mistero che l’alienazione e il limite non diventano, o non restano, obiezione, ma diventano addirittura l’opposto, un urto che più spinge a dare. Si tratta di una lotta, di una partecipazione nella lotta dentro la storia, per il mondo concreto».

Questa drammatica dinamica agonistica trova la sua espressività in un componimento Il pioppo, scritta dal suo letto di dolore, dove visse la sua malattia e dove davanti alla finestra vide «il pioppo severo»: «Vibra nel vento con tutte le sue foglie / il pioppo severo; spasima l’aria in tutte le sue doglie / nell’ansia del pensiero: dal tronco in rami per fronde si esprime / tutte al ciel tese con raccolte cime: fermo rimane il tronco del mistero, e il tronco s’inabissa ov’è più vero».

Tutta la realtà proclama un oltre, lo afferma, e chiede all’uomo di tendere verso questa nuova incommensurabile scena, o meglio di attenderla nella sua domanda elementare. Egli fatto per il cielo, ma concatenato alla terra, come tanti suoi simili legati alla sua condizione, come scrive Roberto Filippetti: «Questa «domanda di vita» attraversa da un capo all’altro l’opera prima: frammenti gremiti di una domanda di totalità».

Nei Canti anonimi, secondo libro di Rebora, «si accentua la sua tendenza a scomparire come io per farsi voce, anonima appunto, di una situazione comune, quella della pena nella città moderna sempre più priva di umanità, e dell’ansia amorosa per qualcosa di diverso e più alto» (E.Gioanola). L’acme poetico di Rebora si respira nella vibrante Dall’immagine tesa, definita come una delle più alte espressioni poetiche e, allo stesso tempo, religiose del nostro tempo, di «un fatto che venga a dare un senso all’attesa e alla tensione», come commenta Romano Luperini.

L’angoscia della prima guerra mondiale è il senso del vuoto, di non scorgere e affermare nulla sotto di sé. Eugenio Borgna, all’incontro «Clemente Rebora: l’ardore il limite, l’eterno. La vita come tensione», organizzato dal Centro Culturale di Milano, ha analizzato e descritto questo sentimento in Rebora: «Il filo rosso di questa mia prima sequenza è dunque l’angoscia come esperienza umana  (sebbene possa essere anche un’esperienza psicotica, ma io ne parlo  come esperienza umana) che però è anche una esperienza creatrice […]. L’angoscia della morte diventa sul piano lirico angoscia creatrice. I Canti anonimi, pubblicati nel 1922 ma incominciati nel 1900, hanno come leit motiv il Mistero o l’attesa. In queste poesie si spegne la fiamma divorante dell’angoscia: la guerra è finita e Rebora entra in una vita normale, almeno apparentemente».

L’angoscia come portatrice di significati per creare, scrivere, raccontare la crudeltà e la durezza di quel «corpo in poltiglia / Con crespe di faccia, affiorante / Sul lezzo dell’aria sbranata».

Il senso del nulla non fa implodere la ricerca di un infinito che si presenta: redimere non è risarcire. La redenzione è il bacio che non lascia sole le labbra: «Eppure la cosa capita / non redime la cosa sofferta; / e la parola senza bacio / lascia più sole le labbra». Le parole senza presenza subiscono al condanna al vuoto, tremano come dallo sperpero di un bisogno, come da una culla. In quel bacio c’è tutta la dimensione del nostro essere.

La trepidazione dell’immagine è l’attesa di qualcosa che nell’«ombra accesa» ha imminenza di passaggio. Egli spia i suoni impercettibili di quel (sin estetico) «polline di suono» fra quattro mura dilatate di spasimo infinito, pur non aspettando immobile nessuno, ne avverte l’orlo della presenza. L’immagine tesa di Rebora è «la mia persona stessa assunta nell’espressione del mio viso proteso non solo verso un annunzio a lungo sospirato, ma forse (confusamente) verso il Dulcis Hospes animae». Ma quest’Ospite arriverà improvvisamente e imprevisto (immagine già presente in Peguy), sbocciando, portando il dono della  vittoria sulla morte. Sarà un bisbiglio come la certezza di una nuova positività (il poeta si convertirà nove anni dopo) e come egli stesso scrisse a Montale: «La voce di Dio è sottile, quasi inavvertibile, è appena un ronzio. Se ci si abitua, si riesce a sentirla dappertutto».

Il silenzio di oltre trent’anni dai Canti anonimi (1922) ai Canti dell’infermità (1955), raccoglie il seme della conversione, ma non è silenzio assoluto (se non di pubblicazione), bensì tremore e affermazione di Dio: «Se il sole splende fuor senza Te dentro, / tutto finisce, in cupa nebbia spento. / orrore disperato, Gesù mio, / trovarsi in fin d’aver cantato l’io!».

Afferma ancora Eugenio Borgna, soffermandosi sul silenzio di Rebora, molto simile all’angoscia paolina, o a quella di Teresa d’Avila, o del grido sulla croce che fa scoprire l’eterno: «L’angoscia creativa, l’angoscia umana che ritroviamo nelle poesie composte in quegli anni fatali quando non sarà più l’angoscia del campo di battaglia ma l’angoscia che la malattia fa riemergere, angoscia riscattata dalla speranza, diventa una nuova, rinnovata, misteriosa sorgente di creatività, e allora i Canti dell’infermità non si capirebbero fino in fondo se non le ricollegassimo anche al fatto che dopo venticinque anni di silenzio rinasce una esperienza creativa che sia per la concomitanza molto stretta con questa malattia devastante sia per i contenuti, seppur trasfigurati,rimanda ai componimenti nati nel periodo della guerra. Questo lungo silenzio […] permette di meglio comprendere le ultime poesie, insieme alla rinascita dell’angoscia, che pure è ormai segnata, incrinata dalla speranza».

La febbrile e micidiale fertilità degli ultimi anni, accompagnati dal cuore del pensiero rossiniano, destinano l’infermità al percorso del suo dettato esistenziale e del giovanile gemito ramingo senza Cristo, degli amori giovanili, della guerra, dell’abisso «preso dall’artiglio dell’io», del cielo dell’alba raccontato dal fievole belato della Grazia.

Bacerà la tenerezza di Dio, accadrà l’Avvenimento che consente di sfiorare e poi di toccare la dimora tenera del suo compimento di uomo, che attraverso la sofferenza partecipa alla redenzione di Cristo, centro del cosmo e della storia.

In un’umanità vissuta interamente, la realtà rivela il suo essere segno, «il grido diventa azione di fede-sveglia nel mondo, e da lì sorge la speranza», per sorprendere la possibilità, ultima e positiva, di una risposta, di un’azione di fede nel mondo e in cui le cose rappresentano il vertice di un rapporto in cui vivere e costruire:  «Nella sommersa pace il guardar mio / tenue senso di un crepolìo / D’aria che a galla su per l’acqua levi; / Cammino in nimbo, e rarefatto inclino / Sinuoso al fosforico sentiero: / Ciò che men dissi, tutto m’è vicino; / E per l’amante cuor nulla è mistero».

Clemente Rebora archivio Giovannetti/effigie 

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Rafael Alberti e l’immagine che freme

di Andrea Galgano                                         10 luglio 2013

Poesia Contemporanea

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Rafael Alberti

La poesia di Rafael Alberti (1902-1999) è una grazia colorata. Come l’Andalusia che ha dato origine al denso filtro onirico del suo spasmo, in linea con la tragica contadinità di Lorca, ma che ha sviluppato i prodromi di una allegria briosa, dinamica, in un clima che è «un disegno che iscrive le cose in una luce mattutina, una luce senza ombre né tramonti» (Vittorio Bodini).

Nel sacro fuoco della pittura Rafael Alberti ha albergato, ne ha penetrato l’essenziale e l’indefinibile, con la luce, ricolma di ardore, di quadro fervido, di nostalgia per la sua baia di Cadice, che nei suoi spostamenti, come accadde nel 1917 a Madrid, rimane fremente spazialità di infanzia originaria, e che si assesta in un decoroso spazio visivo, «per dipingere la poesia col pennello della pittura» (Alla pittura, 1945-1952).

In una intervista Marìa Asunciòn Mateo ricorderà che «a Rafael bastavano un pennarello, un quaderno e una camicia sgargiante per essere felice, seduto nel giardino a disegnare e scrivere poesie. Non chiedeva niente di più. Era questa la sua grandezza».

È nella traccia visiva, esiliata e primigenia, che riemerge il suo approdo, essenziale e parco di colori. Il suo cromatismo conosce il tempio della fedeltà, mai recisa, con l’assetto antico e acceso del mare meridionale, grembo di azzurri e bianchi, come le spume, le vele, le saline.

È il suo luogo che diventa sostanza di osservazione e abbandono, dalle «dune di sabbia calda», al «rubino che arde tra le mani» «nell’abbandono di un sogno».

È il volto di Alberti che rappresenta la sosta e i passaggi di stazioni invisibili. È l’invisibile, stregato nelle visioni, come scrive ancora Vittorio Bodini:

«Vi è fra il mondo interno e il mondo esterno di Alberti, fra la sua emozione soggettiva e la porzione di realtà oggettiva che investe, un grandissimo equilibrio affatto insolito nella poesia spagnola, che approda non al realismo ma a una realtà artistica, o a una immaginazione formale (come dice L.F. Vivanco) lievemente idealizzante, quanto basta per far parlare la critica di un Alberti italianizzante, di un italianismo che ha profonde radici in due avi, il nonno materno e il nonno paterno, entrambi toscani. Questo italianismo di Alberti è un filone non trascurabile, concordemente ammesso dalla sua critica, ma contrastato e sopraffatto da altri caratteri, come l’indole andalusa – allegria di vivere, scherzosità, grazia – e un’educazione letteraria esclusivamente ispanica».

Se il suo “ulissismo” da marinaio dell’Atlantico, fornisce il segno di una ricerca di spasmo, il forte miracolo della sua architettura visiva, fornisce l’impronta di una rara freschezza invasiva.

Marinaio a terra (Marinero en tierra 1924), che ottiene il Premio nazionale di letteratura, scolpisce il suo giovane autoritratto, impregnato della nostalgia del simbolo.

La realtà è simbolica perché unisce i vessilli e i rimpianti marini alla sua condizione di abitante della Sierra di Guadarrama, in un concerto di presenza-assenza che finisce per inventare le linee intermedie di sogno o di scalmana, per gridare il cielo della stanza della sua geografia ansiosa e rigogliosa, come la neve che pattina sulla luna: «è caduta la neve sulla luna. / Pattinano gli abeti sopra il gelo; / la tua sciarpa arricciata ascende il cielo / come un addio che il chiaro cielo stria. […] Un brinato silenzio ti corteggia, / si stesse nella luce dei fanali, / mentre tu incrini il candido cristallo. / Addio, pattinatrice! / Il sole albeggia / le gelate terrazze siderali, / dietro a te, Malva-luna, pattinando».

La danza astrale della donna «ardente-e fredda» che conduce nell’universo o l’inconducibile isola, segnano il cammino del mare, con «l’onda sempre si spegne sulla spiaggia», come lotta della vita nell’arena del tempo, come l’appartenenza alla sua origine marina o sottomarina, o l’immagine di un immaginario venditore subacqueo che grida e offre la sua mercanzia: «ah, come starei bene / in un orto del mare, / con te, ortolana mia! Su un carretto, tirato / da un salmone, che allegria / vendere sotto il mare salato, / amore, la tua mercanzia! / – Alghe, fresche di mare, / alghe, alghe».

Scrive Josè Bergamín su Marinero en tierra: «Quando diceva le sue canzonette, mettendosi la mano a bucina davanti alla bocca, come per bandirle, tutto s’empiva di allegria, dell’allegria del banditore mattutino: un’allegria fruttale, verde e fresca; allegria di mercati, di fiere, di vessilli; l’allegria di un cielo radioso in cui esplode un clarinetto stonato; l’allegria del suo volto giovanile e umano, che traboccava da tutto e tutto colmava nella sua follia…».

Ernesto Gimenez Caballero ha insistito sulla natura giullaresca di Alberti, in una prospettiva vigorosa e surreale che spodesta il vuoto, per insediarsi in un mare alto e naufrago, flessibile ed elegante:

«Il futurismo ti ha rifornito. Alberti, maglione bianco, pantaloni larghi, macchina da scrivere per i suoi versi, innamorato di Charlot; poesie assonanti e poliritmiche, entusiasmo per il non convenzionale: vagabondi, mascalzoni, toreri, sportivi, ricchi tenutari che ti portano in giro in macchina di tanto in tanto come facevano i cavalli dei magnati medievali con i giullari e i divi eletti. Di corte in corte, di dama in dama Alberti, sei un poeta cortese, cortigiano. Picaro. Dall’Andalusia hai tirato fuori lo scandinavismo, quello romantico di Bécquer e il lunatismo di Juan Ramón (non dimenticare che ti doleva il petto e che sul cuore ti sono cresciute violette). Ma hai anche ereditato uno splendido suddismo, non sempre valutato come merita. E la sensibilità per la norma, per la disciplina, per la raffinatezza dell’essenza poetica, sensibilità della migliore Andalusia» (p. 170).

In un articolo su «Vuelta», Octavio Paz evidenzia la potenza seduttiva e fascinosa del repertorio poetico di Rafael:

«Una delle mie prime letture è stato Alberti. Leggendo le sue poesie sono penetrato in un mondo in cui le cose vecchie e le realtà consumate, pur essendo le stesse, erano diverse. Avevano cambiato pelle e sembrava che fossero appena nate, animate da un entusiasmo contagioso. Lessi quelle poesie – anche le più tristi e misteriose – con gioia, come se stessi cavalcando un’onda verde e rosa sulla pianura del mare, popolata di tori, delfini, sirenette, tritoni e ragazze cadute dal cielo, intrepide nuotatrici di tutti i maridell’amore- per non parlare delle naiadi delle stratosfera, come Miss X, sotterrata dal vento dell’est. È stato un esercizio vitale: imparare a bere la luce di ogni giorno, pensare con la pelle, vedere con la punta delle dita».

L’inquadratura poetica e visiva di Alberti si insedia nell’eclettismo fecondo che lucida la tensione creativa in un tracciato di radice e verità che si fa inquieta quando ricorda e rammenda le linee del suo vertice emotivo. Il passato acquista la dinamica del recupero della materia vivente, in cui la luna, le pianure, le donne amate, i viaggi magici e i paesi di sabbia e deserto, sollecitano il remoto anelito di un infinito presente, come ricorda Ernesto Sábado:

«quante volte hai decantato la bellezza della tua terra gaditana, il tuo mare, il tuo cielo, i tuoi imponenti tori destinati a quel sacro sacrificio che viene dal profondo della storia mediterranea. E quanto abbiamo apprezzato quelle tue visioni, perché l’arte è a volte, la cosa più individuale e più universale che esista, perché il cuore dell’uomo, in qualsiasi parte del mondo e in qualsiasi epoca, è fatto delle stesse cose. E tu, così profondamente andaluso, hai destato ammirazione nei luoghi più remoti della terra ed hai incitato i popoli alla fratellanza così come solo l’arte può fare».

La ricerca della patria paradisiaca e infantile si accompagna, sin dall’inizio, alla discreta e fremente presenza femminile (La amante, 1956) che conferisce freschezza profonda alla minuta e umanissima realtà albertiana, popolare e dotta, come afferma José Hierro:

«quello che fa Alberti non è, alla maniera di Manuel Machado, imitare una voce popolare viva ma, interpretare una voce popolare che è stata e che non è più; condivide, probabilmente, il punto di vista di Juan Ramón Jiménez e viaggia verso il passato per impregnarsi dell’incanto della raffinatezza perdute. Le brevi poesie dei primi libri, Marinero en tierra e El alba del alhelí, sono strettamente collegate con le raccolte rinascimentali: espressioni, accenti, libertà metrica e a volte quella rottura finale che si fa beffa della rima perché riappare un verso quando non ce lo aspettavamo, un verso di cui avevamo dimenticato il suono finale che chiude la canzone a mo’ di ritornello. Come in questo passo del Cancionero de Barbieri che potrebbe benissimo appartenere a La amante del nostro Rafael Alberti: “No pueden dormir mis ojos, / no pueden dormir. / Y soñaba yo, mi madre, / dos horas antes del día / que me florecía la rosa: / el vino so el agua fría: / no pueden dormir”».

In L’alba della violacciocca (Alba del Alhelí, 1925-1926) e in Cal y canto (1926-1927), il romance fornisce ampiezza alla descrizione di una società rurale che è come se fratturasse la festosa ricchezza marina, per assegnare alla pagina il dramma e il mistero.

L’esperimento del futurismo, dell’ultraismo e del creazionismo, si impasta del recupero di Gòngora, per celebrare l’ambizione di un linguaggio ironico e complesso, che celebra, irrora, solleva il mondo a nuovi cieli e gioca con le penombre rapide:

«Biondi, lucidi seni di amaranta, / limati dalla lingua d’un levriero. / Portici di limoni, fuorviati / dal canale che monta alla tua gola. / Rosso un ponte di riccioli che avanza / fa ardere gli avorii tuoi ondulati. / curvo, morde e ferisce i denti esangui, / librandoti nel vento che ti innalza. / dorme la solitudine nel folto, / calza il piede di zeffiro e poi scende / dall’alto olmo al mar della pianura. / Ecco il suo buio corpo che s’accende / e, gladiatrice, come brace impura, 7 fra Amaranta e il suo amante si distende».

Annota José Bergamín:

«C’è castità nella poesia di Rafael Alberti – limpidezza, purezza – sicura, decisa, dura, duratura, severa: di calce e canto. I suoi angeli – o il suo angelo Andaluso (arcangelo tutelare) – gli costruirono quel muro così profondamente andaluso. Di Cal y canto, la poesia di Alberti si innalza e si afferma, verticale, tocca terra, guarda il mare tra due cieli. Rompe e definisce la luce stessa come il muro imbiancato di un compasso o di un cortile di una casa andalusa di tradizione romana. La Siviglia del Rinascimento, Santa Clara, San Lorenzo, non del quartiere ebreo o musulmano. Siviglia becqueriana».

Nel 1927 una crisi violentissima, poetica, amorosa, politica ed esistenziale invade i suoi angoli fioriti e luminosi, producendo un cambiamento repentino di tenebra folta, che diventa un crampo febbrile e rivoltato. Da questo sconvolgimento nasce, nel notturno delle stesure, Sobre los ángeles.

Commenta Vittorio Bodini:

«Gli angeli di Alberti non hanno nulla a che vedere coi begli angeli cristiani, corporei e decorativi: sono enigmatiche sostanze, per lo più periferiche, dell’anima, che trovano nel poeta una perfetta oggettivazione: staccate dalla matrice, esse vivono la loro sintetica esistenza nel modo più autonomo e indipendente. I gesti che compiono sono di una straordinaria nitidezza, senza una sbavatura, sicchè non ultimo fra i pregi di questo libro è il contrasto fra la natura larvale dei suoi soggetti e la pulitissima precisione delle azioni che compiono, e in cui danno a conoscere la loro acuta diversità».

L’allegoria delle figure sintetizza lo strato più oscuro della coscienza che si impone nella fantasmatica crisi interiore. Angeli sconosciuti, angeli dei numeri e senza fortuna, angeli dei colori muti e disillusi, del dolore rappreso e della rabbia, «stelle erranti come bambini che ignorano la matematica», accompagnano i segreti e i sogni più umani e affondano nel loro prato incollocabile ed acre: «Tu non sei sola, dice l’angelo d’amore e morte a Maddalena nell’Andrea Chenier, io raccolgo le tue lacrime, sto sul tuo cammino e ti sorreggo. Che importa se tutto intorno è fango e sangue? Io sono la vita, sono quello che fa della terra un cielo. Sono l’amore…».

Il successivo Sermones y moradas (1929-1930) si appropria dello strepito delle ombre esangui, per confluire nell’umanità in lotta contro il fascismo franchista, in una poesia rivoluzionaria e marxista (Con los zapatos puestos tengo que morir).

L’appartenenza politica e il matrimonio con María Teresa León (con i viaggi successivi, dopo aver ricevuto dalla Junta para la Ampliación de Estudios, una borsa di studio per l’analisi del movimento teatrale europeo) segnano un’ansia di cambiamento che dirompe sulla scena.

La sua poesia si pone al servizio della rivoluzione sociale, della resistenza e dell’esilio, lanciando la sfida non solo da un verso civile, ma dalla grande aspirazione umana che invoca la strada (El poeta en la calle 1931-1935), in una precisione esatta e lucente: «Non è più profondo il poeta rinchiuso nel suo buio sottosuolo. Il suo canto raggiunge il profondo allorché, aperto al vento, è ormai di tutti gli uomini».

La semplicità della voce popolare ed eroica scopre la dignità davanti al mistero della morte, alla dignità lucente che cavalca l’aria, all’irrompere dell’avvenimento umano come soglia e legame.

Durante la guerra civile, Rafael Alberti milita nelle file repubblicane e poi fugge in esilio, prima a Parigi, poi in Argentina e infine a Roma. Al dolore per i morti della guerra civile si unisce la lontananza dalla Spagna, dai luoghi della sua anima che «nessuno può risarcire»:

«Fra realtà e fantasia, fra realtà e sogno, fra verità storica e una poesia che chiamano impegnata o non impegnata, io ho cercato di spiegarlo in un libro che si intitola Fra il garofano e la spada. Io credo che un poeta non nasca per parlare della guerra o di politica o di tanti fatti orribili che ci circondano quando apriamo gli occhi al mattino. Allora il dramma è questo, mio e di tanti altri, noi viviamo fra il garofano e la spada, fra la spada e il muro… Viviamo incalzati da una orrida realtà che ogni mattino distrugge i pensieri belli e giocosi, ci spazza via dagli occhi le cose grandi che possiamo vedere, facendo di tutti noi tanti schiavi di situazioni così drammatiche e spaventose che bisogna essere fatti davvero di pietra per non parlarne, perché non si riflettano in quello che si fa… Perché a me piacerebbe parlare del mare che mi ha sempre dato tanta gioia, del mare limpido e puro, incontaminato, libero da navi da guerra, del cielo terso, con le stelle, senza voler sapere che viene attraversato da aerei che lanciano bombe e riempiono la terra di morti, l’aria di grida strazianti… Ci si sveglia al mattino pensando che il mondo è bello, un mondo in cui la gente è buona, i rapporti umani perfetti, e subito ti accorgi che tutto è diverso. Ma davanti alla guerra, un essere umano con un minimo di sensibilità, quale poeta soprattutto, può avere lo spirito, la coscienza di mettersi a parlare d’un uccellino che sta cantando su una rosa. Ecco l’origine di questa durezza che di quando in quando si fa sentire, di questa amarezza, di questi accenti talvolta pieni di coltelli. Sono un poeta che al mattino vorrebbe guardare il vecchio mare di Cadice, dipingere le barche che dipingevo quando ero bambino, i gabbiani, seppellire nella sabbia i testi di geometria, di storia, di latino e pescare: invece… non posso farlo… devo scrivere una poesia tremenda».

L’albero divelto, le cui foglie scoperte e nude gli impediscono di ricevere dalla terra il nutrimento vitale, dal suo golfo di ombre («Cerco di non trovare l’uscita, / di restare sprofondato / nel tuo definitivo, arenato, naufragato/ per sempre,/ Golfo d’ombre») promana il suo grido spezzato: «Certo il mio canto / può essere di qualsiasi luogo. / Ma queste radici spezzate, / ahimè, queste radici spezzate / a volte non me lo lasciano / esser del mondo, e neanche / di quella terra, soltanto di quella / piccolissima parte della Terra». Che è il suo tempio strenuo e felice che affluisce alla luce delle immagini e dei miti perduti, nell’approdo esiliato di una lontananza energica e dura, ma sfrondato di gracile grazia, come le sponde del Paranà (Ballate e canzoni del Paranà, 1953-1954), fresche e allegre nella loro dimensione fruttale, che riportano il baluginio delle terre agli occhi, in una luce irreale che sfronda l’infanzia: «Resta pur sempre la fortuna, il dono / infinito di poter tornare sui remoti / passi che demmo un dì in quei luoghi / che il nostro amore andò creando / come in un sogno» o ancora: «Il fiume appende alla cintura / una scimitarra blu di navi / E sopra, il cielo: un turbante / azzurro con uccelli bianchi».

I luoghi di esilio e esilianti, come Roma, ad esempio, (tornerà in patria solo nel 1977 e sarà anche eletto deputato), in cui diventerà parte del quartiere trasteverino, lamentandosi dei pericoli del traffico in Roma, pericolo per i viandanti (1968) («Lo si chieda al gatto / lo si chieda al cane / e alla scarpa rotta. / Al fanale perduto […]. / E all’ acqua corrente / che scrive il mio nome / sotto il ponte») e sperimenterà l’espressione “lirico grafica”, divengono tappe di un incendio esistenziale e vocalico che tenta di catturare la spazialità dell’essere, per divenire respiro, comporsi di respiro, farsi elegia di atlante perduto (come era già accaduto in Fra spada e garofano (1939-1940), Alta marea 1942-1944, Poesie da punta dell’Est (1945-1946), Ritorni della vita lontana (1948-1956)) e attesa consunta: «Non aveva la rosa compleanni o l’arcangelo. / Tutto, anteriormente al pianto e al belato. / Quando ancora la luce non sapeva/ se il mare nascerebbe maschio o femmina. / Quando il vento sognava chiome da pettinare / e garofani il fuoco e gote da infiammare / e l’acqua, delle labbra ferme a cui abbeverarsi. / tutto, anteriore al corpo, al nome e al tempo, / Allora, io ricordo che una volta nel cielo…».

Dopo ave ricevuto nel 1983 il premio Cervantes, e successivamente esser entrato nella Real Academia de Bellas Artes di San Fernando e in quella di Bellas Artes di Santa Cecilia perde la sua María Teresa León, nel 1988, vittima di una grave malattia.

Nelle liriche amorose Canzoni per Altair, la donna-stella illumina la vita e la via dell’uomo-poeta, «sei scesa, / stella rivelata dei miei occhi perduti, / e sei caduta su di me, fuoco d’amore / e nel mio sangue hai preso dimora fin da allora», come il confine e la visione che superano il tempo, coltre incantata e «energia astrale».

È interessante notare, come questa ultima finale produzione albertiana, si imponga in modo epifanico e frenetico, nell’attesa del giorno improvviso e nuovo e nel raggio sulla vita nuova poiché «sai bene che in me non muore la speranza, / che gli anni in me non sono foglie ma fiori, / che non sono mai passato, ma sempre futuro». Fino all’abbandono ultimo: «Entra tutta nel mio respiro e portami in volo nei tuoi cieli. Per sempre».

 

 

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