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L’indocile energia di Kathleen Jamie

di Andrea Galgano 4 aprile 2017

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su Atelier Poesia 10 aprile 2017

sul sito di Ladolfi Editore 12 aprile 2017

kjamie-685x384Kathleen Jamie (1962) è una poetessa di incroci scrutati e sorpresi con grande forza poetica. Sono dispiegamenti simbolici, affermati attraverso una densità attonita e immersa che conduce nella visione interiore attraverso sporgenze, drammi, attraversamenti cangianti e vivi.

Nella vastità della sua opera, emerge La casa sull’albero[1], edito da Giuliano Ladolfi Editore, a cura di Giorgia Sensi, restituendoci un mondo attraversato da speciali contraddizioni e confini infiniti, e riuscendo a farci vivere il confronto tra culture con dolce spietatezza, e lo spostamento spasmodico di natura umana e natura sociale con acume e vitalità.

Giorgia Sensi nell’Introduzione scrive:

«Ciò che colpisce in tutta la poesia di Kathleen Jamie è l’immediatezza abbinata alla profondità di pensiero. La sua è una lingua molto lucida e scarna, priva di accademismi, che non ha bisogno di orpelli, solo apparentemente semplice, e i cui ritmi sono costruiti in modo da ottenere tutta la naturalezza della lingua parlata. È una lingua distillata, rarefatta, ricca di sorprendenti metafore, la cui musicalità viene esaltata dal ritmo e dagli accenti della parlata scozzese, in modo particolare quando è lei stessa a leggere la sua poesia».[2]

Poetessa, scrittrice, saggista (interessanti i suoi saggi Findings (2005) sulla fauna e flora scozzese, e Sightlines (2012) sulle Orcadi), nata nel Renfrewshire, Scozia, nel 1962, ha studiato filosofia all’università di Edimburgo. Ha pubblicato diverse raccolte di poesia: Black Spiders (1982); The Way We Live (1987); The Queen of Sheba (1994), Jizzen (1999), The Tree House (2004), The Overhaul (2012), The Bonniest Companie (2015), ricevendo diversi premi prestigiosi, quali un Somerset Maugham Award, un Forward Poetry Prize (Best Single Poem), un Paul Hamlyn Award e un Creative Scotland Award.  Per due volte ha vinto il Geoffrey Faber Memorial Prize.

Il suo volume di poesie scelte, Mr & Mrs Scotland Are Dead (2002), che raccoglie la maggior parte della poesia scritta dal 1980 al 1994, è stato finalista del Griffin Poetry Prize. Nel 2004 la sua raccolta The Tree House (2004) ha vinto il Forward Poetry Prize (Best Poetry Collection of the Year) e nel 2005 lo Scottish Arts Council Book of the Year Award. La sua raccolta, The Overhaul (2012) ha vinto il prestigioso Costa Award ed è stata finalista del TS Eliot Prize. Fellow della Royal Society of Literature e nel 2011 è diventata Professore  di Scrittura Creativa all’Università di Stirling.

Il rigetto di ogni occlusione tradizionale e sociale dell’anima scozzese, non è solo ribellione o movimento umano, è il rigoglio di un’appartenenza che deve rinnovarsi per restituirsi a se stessa. Una tradizione che non abbia rinnovamento è orpello museale, non si nutre, rimane impolverata nella stantia camera del tempo consumato, senza che l’anima si rigeneri.

Ecco l’arrivo del Perturbante, la Regina di Saba, che porta ribellione, scompaginando ogni grettezza sociale e pregiudizio, rivestendo di bellezza e identificazione, la preesistente tensione di un coro di donne. Ella compare tra la torba e la felce delle Pentland Hills, il muschio di Curriehill Road, «grida che il più saggio dei nostri uomini / la metta alla prova: / Battete la Scozia in cerca di un Salomone! / Come da copione: laggiù dal fondo della folla / qualcuno ringhia; / ma chi ti credi di essere? / e mille ragazze ridenti con lei / prendiamo fiato / e gridiamo / LA REGINA DI SABA!»:

«Scozia, ne hai invocato il nome / una volta di troppo / nei tuoi salotti presbiteriani. / Lei ha sentito, sì / fin nella pagana Arabia / il tuo volpigno latrato di povertà, ereditato / come il naso lungo, una vena di cocciutaggine, / un cane di ceramica che non t’è mai piaciuto / ma di cui non ti puoi disfare». (La regina di Saba).

Non è una questione di genere o di appartenenza regionalistica, il volto dell’uomo, che scrive poesia, è autenticamente liberato dalla scena che mette in gioco, dalla libertà che occupa la sua pagina, e dal conseguente rischio di un corpo a corpo senza fine, della sua domanda elementare, non dell’essere donna o scrivere letteratura al femminile:

«Vedi quelle file di punte di selce / nei nostri grandi musei archeologici / così sontuosi a Edimburgo – / Ti poni mai domande sulla nostra storia? […] Non sono punte di frecce quelle / ma esposizione di lingue di nonna, / le lingue tenaci di nonne / tutte morte e sepolte / tornate alla torba e ai ruscelli, / salvo per le loro lingue / brusche e taglienti, conservate / per generazioni nella terra / con amuleti malefici, conservate / tutte tranquille in vetrine nella penombra / dei nostri musei, e / non si tradiscono. Ma se tu osi / sognare e fantasticare / del cacciatore scomparso, del cervo saggio fuggito; / taci…e le sentirai, / perché non smettono mai di borbottare […]» (Punte di freccia).

La questione dell’identità si pone, nella poesia di Kathleen Jamie, come un sostrato primordiale e originario, proiettato nell’ultimità, scandito nella natura come sipario del mondo vivente, in cui gli occhi posano le loro scintille e tastano i segni di una genesi. Conoscere anche qui è nascere insieme oppure ri-nascere.

Ed è nel dettaglio del mondo nascente (animali, uccelli, fiori, alberi, paesaggio naturale scozzese), che la poesia accumula la sua linfa e il suo principio. È natura iscritta che «può essere quella sconfinata e selvaggia dei grandi paesaggi scozzesi, delle isole ormai disabitate e dei loro siti archeologici, delle colonie di sule, delle orche e della balene, come quella che lei stessa può osservare dalla finestra della sua cucina, binocolo sempre a portata di mano, ma in entrambi i casi la conversazione e l’interazione con il mondo naturale è sempre presente»[3].

È l’arcaica grafia dell’indicibile pedinamento del tempo antico, essere pietra cieca nel passato sparpagliato, dove il margine del volo si trascina attraverso il cielo. Un cielo immenso e custodito nel gemito del vento che sospinge un suono, forse umano, desolato. Un grido incessante, come in una penuria, nell’aria che si muove.

Si legge in Stormi di oche:

«Stormi di oche scrivono una parola / attraversando il cielo. Una parola / battuta come un gong / prima che io nascessi. / Il cielo si muove come bestiame, muggendo. / Sono vuota come pietra, come campi / arati ma non seminati, nuda / e cieca come una pietra. Cieca / alla parola, cieca a ogni suono tranne al richiamo delle oche. / Filo spinato avvolge, arcaica grafia, / un cancello. I barbigli / fanno segnali al vento come se / fosse sordo. La parola fischia / troppo forte per i miei sensi. Via. / Non come il passato sparpagliato / qui intorno. Né la morte improvvisa. / Non come un amante che impareremo/ a conoscere, per sempre connessi. / Il margine del volo si trascina attraverso il cielo. / Cosa scrivono gli uccelli sul crepuscolo? / Una parola mai detta né letta. / Gli stormi volgono verso casa, / sul gemito muto del vento, un suono / forse umano, desolato».

Kathleen Jamie compie, in Jizzen («il letto del parto», 1999), una rinnovata geografia interiore che conduce memorie incluse a compiersi nei richiami e nelle rievocazioni, a riportare alla luce la stupefatta e numinosa spazialità.

Qui il gesto poetico è un suono rammemorativo che rimanda al dettaglio per vibrare. La tonalità sensitiva e uditiva aiuta a comprendere un ricordo che si presenti fica in tutto il suo umbratile splendore rievocativo. Rievocare è richiamare ciò che primordialmente si riporta in superficie, per renderlo proprio, non perderlo, dissotterarlo come un particolare universale.

È la primitiva sospensione del tempo sulla Terra che, facendosi passaggio di sponde, riconvoca nostalgie di gioie e detriti, limiti e confini oltrepassati, per farsi poesia che crea, che rinviene le linee perdute, riconducendo, infine, il mondo «da un nido cinguettante / sospinto dalle canne» o «da una stupefatta barchetta di santi», sulla limata fosforescenza delle acque che brillano su dita, remi e sul dardo della prua:

«Ricordi come remavamo verso il cottage / nella baia disegnata a falce, / quella notte dopo che il pub / ci lasciò andare tra le sue porte girevoli / e spingemmo sulla ghiaia / finchè l’acqua umettò i fianchi / il loch sussurrasse la parola “barca”? / Non ricordo chi remava. Gli scherzi cessarono. / Il tonfo dei remi, lo scricchiolio e lo sciabordio / del loch si prolungarono nel cuore della notte. / In quella correte ebbi paura: / lo scialle freddo della brezza, / le colline gibbose; di ciò che l’acqua celava / tra tronchi e scafi nucleari a orologeria. […] Certo, fu avventato, un loch così grande, la marea, / ma siamo vivi – e abbiamo perfino fatto figli / con donne e uomini non ancora incontrati / quella notte che uscimmo, e reclamammo come nostri / il cielo e l’acqua salmastra, i colli feriti / che i mirtilli tempestavano di nero, / le nostre cavigliere luccicanti nell’acqua bassa / mentre issavamo i remi e saltavamo giù, / per tirare la barca in secco sulla spiaggia del cottage».

Il mondo partoriente, rinato o riscoperto, non è solo segnale della dimensione esterna, ma anche, come accade nella sua poesia, l’esito di una ecografia, che diviene ninnananna e poi preghiera ultima, affinchè il cuore del figlio appena nato possa sopravvivere al suo.

Tutta la scrittura di Kathleen Jamie sembra nascere da un tremore primordiale, in cui il sentimento singolo, e singolare, racchiude la universale potenza dell’esistente. È da questo stupore primigenio che tutto ha inizio, come il primo dettaglio che ripete i secoli-bardi, o le prime dolci e folli settimane di vita, arrese come un accenno di primavera che veleggia sull’ovest, prima di sollevare i panni: «un raro volo di cigni», «colli sui quali si rattrappisce la neve».

È una maternità di attesa che si scopre in una promessa veggente, come argento vivo sollevato «in una rete di suono, / poi per pietà, abbassato», come solstizio dei giorni che si aprono, disgelo di un mondo riconsegnato in una spirale bellissima, ricolma di benvenuto alle cose semplici e alle allineate stelle di Orione:

«[…] e benché comportasse un viaggio / sulla neve che scuriva, / le braccia occupate da te in una coperta, / dovetti camminare fino in cima al giardino, / per toccare in un complice omaggio tra uguali, i tronchi / a spirale dei nostri prugni, il muschio, / il posto del pettirosso sull’agrifoglio. / Con la schiena sul muro della ferrovia, / cercai di ricordare; / ma perfino le mie impronte si cancellavano / e le stelle nascenti di Orione / negavano ciò che sapevo: che mentre noi venivamo / lanciati su una lettiga tra le porte girevoli della sala parto, / loro erano là, allineate sul soffitto, / accese di ansia / per quella difficile cessione, / prima che fossimo due, dal mio uno».

Fino alla sperdutezza della rincorsa piangente dell’io narrante, che immagina di mettere in una cesta di giunchi intrecciati il suo dono (novello Mosè), lavorato dal Firth, scivolato lentamente in un fiume.

Questa maternità, allora, è l’accesa rifioritura del tempo perduto, o il suo tentativo almeno. Una poesia-donna che si scuote nella tranquillità, che afferma l’impavido spirito acre e dolce del rododendro, che nasconde l’intimo essere «nativo / come la lingua o la memoria umana / del nostro suolo leggermente acido».

La poesia di Kathleen Jamie segue questo sentiero di rinascita e di appartenenza con estrema trasparenza. Anche nei relitti, nei detriti temporali, si scorge una pienezza che è secolare, mai un vuoto, bensì una mancanza colmata di stupore, come l’acqua non toccata che risale dal pozzo: «Immagina le vele volare come cigni, / donne trasportate infranti / mentre i corni ululano, / e le spranghe delle porte sbattere / dentro questa cavità, dove un tordo fa il nido».

La rievocazione è un metodo di lontananze che si approssimano. È il lavoro delle donne che piegano e spiegano il lino o la pelle di una selkie rimboccata dietro una roccia, e la poesia deve rincorrere questa nascita continua e immortale: «[…] Piume di luce solare, riflesse dal coltello del burro / tremolano sul soffitto, / e un’ultima brusca torsione delle spalle / partorisce mia figlia, e a seguire / la placenta, come un pugno di alghe violacee».

Tale immortalità si esplica nelle addizioni suggestive di Spirea, in cui, la riapparizione dell’essere, dapprima seppellito in un salmo uggioso, si riapproprierà della vita con le gocce delle labbra e con i semi estivi: «Così la seppellirono, e si volsero verso casa,/ un salmo uggioso / li avvolgeva come nebbia, / non sapevano che il liquido / che gocciolava dalle sue labbra / si sarebbe fatto strada là sotto […]».

Giorgia Sensi, acutamente, commenta: «Secondo la tradizione poetica gaelica le poete venivano sepolte a faccia in giù, (sepoltura riservata anche alle streghe), evidentemente per tacitare e punire entrambe. Chi ha sepolto questa poeta, però, non ha tenuto conto del ciclo di rinascita che questo tipo di sepoltura determinerà: semi estivi restano impigliati nella sua treccia e questi l’aiutano a dissotterrarsi»[4].

Il suo territorio poetico (la sua “psicogeografia”) racchiude una fertile e feconda iterazione, che soggiace una domanda: come possono vivere gli esseri umani in un giusto rapporto con il mondo naturale e come possano appartenere a ciò che la realtà porge, cosicchè la vecchia idea dell’anima o il cuore, la mattina, possano volteggiare sul letto, simulando pietà, «prima di infilare / la tromba delle scale / e riversarsi fuori nella luce».

La trama del suo “cuore-makar” continua a vivere al di là del dolore, in una pienezza di mondo (popolato di alberi, fiori, squali, balene, pipistrelli), fosforescente e riscaldato, che rompe le superfici, rilascia mude:

«Dovessi capitare su quel colle / dove crescono le ciliege selvatiche / sarà meglio sia presto, o verranno / ad attaccar briga gli uccelli dagli occhi gialli, / rivendicando i frutti per se. / Selvatiche significa noccioli a malapena / rivestiti di polpa, ma è buffo detto da me. Una bocca / contiene una ciliegia, una ciliegia / un nocciolo, un nocciolo / il ramo in fiore / che devo trovare prima che il vento / sparpagli ogni traccia di fioritura, / e venga il frutto, e gli uccelli dagli occhi gialli» (Prima del vento).

Questa ricchezza, presente in modo compiuto in The Tree House (2004), è la prova di una esplorazione ferace e un respiro tratto da uno strappo di bagliori lontani. È la casa a custodire il rifugio-segreto dell’esistere[5], il pulsare di una nostalgia di assoluto, mentre noi rimaniamo aggrappati  al «nostro difficile / ancoraggio ctonio / in questa terra che le mele addolciscono, / senza le quali avremmo potuto vivere / il lungo riflusso della mezza età / soli in baracche e soffitte, / svegli nei sotterranei della mente / alla luce della luna», e portiamo i nostri insediamenti «legati stretti accanto al fiume / dove siamo meglio rappresentati / in giardini di romice / e di alchemilla, bici di bambini / abbandonate sull’erba; / dove abbiamo messo insieme / con assi e casse da imballaggio / una, chiamiamola, dimora […]».

Lo sguardo della poetessa si appropria di una traiettoria che non epura nulla e che si mette in ascolto delle cose, attraverso le cose, che accoglie in ogni circostanza minuta che divampa, stagliate nelle pieghe dei colli, nelle brume delle piogge, nel sapore del ferro del sangue, come un incontro segreto in una fresca imboccatura di grotta o come membra sollevate, prima del vento: «Sei stremato, ontano, / in questa età della pioggia? / Dai tuoi rami / pendono grumi di lichene / come polmoni di fata. Tutta la settimana, / turbini di vento, frammenti di nebbie: / ontano, che hai spiegato / di fronte ai ghiacciai in ritirata / prima una foglia poi un’altra, / non vuoi insegnarmi / un modo di vivere / su questa terra umida, ambigua?».

In The Overhaul (2012), Kathleen Jamie revisiona i suoi contorni sospesi, scandaglia le sue baie arcuate di attese e pazienze («è un gioco fatto di attesa, / e pazienza, pazienza»), di segreti, estuari e piccole valigie di tenebre, attraverso una lingua dicibile che vede e non pone mediazioni[6], riesplorando la luce e le brezze pazze, i lunghi tragitti e i rilasci delle maree, i tremori dello sguardo, l’intima natura dell’essere che si espone, il mondo visitato dalle creature («Un cielo striato di fuoco, / un firth addobbato d’oro, nuvole grigie si muovono come contadini / attirati da una profezia» oppure): «Che specie – / ancora a scandagliare / la stessa baia arcuata, tutti / a sperare nel meraviglioso, / tutti ad agognare una vita diversa» (La spiaggia).

O ancora seguendo la meraviglia dei falchi pescatori, rivissuti in sonetti brevi e interminabili, come il loro viaggio dal Senegal alle burrasche di nido, mentre «si rincorreranno lieti bisbigli oggi in città».

La frammentazione del reale rappresenta l’apice di uno spezzamento di schegge che distillano la ricomposizione di ciò che si ricrea. Il linguaggio permette una riconnessione sperduta ed ultima in una comunicazione che diventa relazione liminale.

Ne Le lune di Galileo, i satelliti di Giove ruotano attorno al pianeta, come i figli della poetessa le girano attorno, «mentre la Terra gira, crescono / dentro la loro vita, lasciandomi / poco tempo per osservare, occhio / all’oculare, / come si rivela una verità – / come le piccole lune scivolano / dal loro casuale allineamento, / ciascuna per descrivere di nuovo / intorno all’ospite comune / il proprio inalterabile corso», però nessuno strumento, nessuno splendente granello di voce che chiama dall’altra parte del mondo potrà rassicurare e in questa domanda, così irrinunciabile, poiché già il domani sta per arrivare, come un neonato insonne e una nuvola compare dal nulla.

Così come l’oblunga distesa di luna, con poche stelle, illumina un interno: i fili di perline, la scrivania, i libri, l’attesa di luce che si sposta su uno schizzo di fiore al muro o sul pavimento di pino. Il primo dettaglio come l’ultimo impossibile segno di bellezza estesa. Lo sguardo privilegiato è ravvivato da una relazione unica e irripetibile, dove il respiro si fa prossimo, la mancanza franta o disfatta, la primitiva sproporzione delle forme, vengono salvate dallo stupore infinitesimo che impregna, attraverso il potere della Natura e del suo Avvenimento:

«[…]- ma bacche rosse / di biancospino si tendevano verso di me, / e tra le foglie cadute / sbocciavano fiorellini bianchi / tardivi. Cercai / di chiamarti, o credo / di averlo fatto, ma il tuo nome / mi si appassì sulla lingua, / […] potrei scomparire per una vita,/ forse sette anni!- / e una joie de vivre così repentina / che quando un fosso mi si spalancò / davanti all’improvviso / lo saltai, leggera come una ragazzina- / sì, lo saltai di netto, / senza neppure pensarci su». (Incantesimo).

L’ultima raccolta, The Bonniest Companie[7] (2015), ha una infinita velocità di esecuzione percettiva che ricalca le forme materiche e stupite del reale: le sue dimore e i fogli di Machado nella brezza, il suo significato familiare e la mancanza di figure sbirciate in una affettività lontana, e, infine, l’ibridazione dei confini linguistici e territoriali (scogliere, valli, cime, spiagge), «sull’orlo frastagliato della terra», le nubi in fuga, il bacio salato di Fianuis, dove ascoltare «una breve quiete, / le note di una pispola piccole come semi».

La poesia di Kathleen si annuncia qui in tutta la sua gamma temporale e temporanea, ma in cui, spesso, l’immaginazione subisce scompensi e fratture, flussi e cicli, come il tempo del crepuscolo che si allontana, svanendo, aggrappandosi alle sue radici[8] (anche nelle scelte lessicali, vicine al passato), quando l’anima, immersa nella Storia, sobbalzerà al tocco del mondo:

«Una scarpinata di trecento metri, poi un cumulo di vecchie pietre- / un lavoro manuale, / e sempre lo stesso fiume, che scintillava / laggiù / quando i Romani vennero, videro, / e ben presto ci ripensarono. / Troppe montagne, troppe / tribù minacciose / le cui abitudini non ci garberebbero granché / (ma che forse riusciremmo a uguagliare) / troppo grigiore nordico, troppa neve in lontananza. / Su, facciamo una sosta qui, riprendiamo fiato / e inaliamo quel dolce profumo di ginestra / che è in fiore oggi / guardiamo laggiù in fondo per miglia, da ora / e fino a che non ritornerà la lince, e il lupo». (Glaciale).

[1] JAMIE K., La casa sull’albero, a cura di Giorgia Sensi, Giuliano Ladolfi Editore, Borgomanero (No) 2016.

[2] SENSI G., Introduzione, Jamie K., La casa sull’albero, p. 15.

[3] ID., cit., pp.8-9.

[4] ID., cit., p.11.

[5] CONNOLLY C., A writer’s life: Kathleen Jamie, (http://www.telegraph.co.uk/culture/3632092/A-writers-life-Kathleen-Jamie.html), November 21, 2004.

[6] KELLAWAY K., The Overhaul by Kathleen Jamie, review (https://www.theguardian.com/books/2013/jan/19/kathleen-jamie-the-overhaul-review), January 19, 2013.

[7] Il titolo rimanda agli ultimi versi della ballata tardo medievale del Cavaliere elfico Tam Lin, trascritta da Robert Burns nel 1792. Nella poesia Le cerve (The hinds), la poetessa, in una densa atmosfera di sonno e veglia, ricrea l’agile durezza di diciannove cervi, attraverso una predominanza acustica e una fluidità di movimento, che richiamano a una condizione (si pensi a Janet opposta alla Regina delle Fate nella ballata) simbolica moderna (con riferimento alla campagna per l’indipendenza della Scozia), compresa in una mimesi topografica e in una stratificata progressione temporale, affermate nella libertà finale. Per una interessante ricognizione del testo vedi: RUMENS C., Poem of the week: The hinds by Kathleen Jamie, “The Guardian”, (https://www.theguardian.com/books/booksblog/2015/oct/05/poem-of-the-week-the-hinds-by-kathleen-jamie), October 5, 2015.

[8] POWER P., The Bonniest Companie by Kathleen Jamie, “The London Magazine”, December 22, 2015.

9788866442769_0_0_298_80JAMIE K., La casa sull’albero, a cura di Giorgia Sensi, Giuliano Ladolfi Editore, Borgomanero (No) 2016, pp. 180, Euro 15.

 

JAMIE K., La casa sull’albero, a cura di Giorgia Sensi, Giuliano Ladolfi Editore, Borgomanero (No) 2016.

CONNOLLY C., A writer’s life: Kathleen Jamie, (http://www.telegraph.co.uk/culture/3632092/A-writers-life-Kathleen-Jamie.html), November 21, 2004.

KELLAWAY K., The Overhaul by Kathleen Jamie, review (https://www.theguardian.com/books/2013/jan/19/kathleen-jamie-the-overhaul-review), January 19, 2013.

POWER P., The Bonniest Companie by Kathleen Jamie, “The London Magazine”, December 22, 2015.

RUMENS C., Poem of the week: The hinds by Kathleen Jamie, “The Guardian”, (https://www.theguardian.com/books/booksblog/2015/oct/05/poem-of-the-week-the-hinds-by-kathleen-jamie), October 5, 2015.

SCOTT K., In the nature of things, “The Guardian”, June 18, 2005 (https://www.theguardian.com/books/2005/jun/18/featuresreviews.guardianreview15).

La Via Provinciale di Giampiero Neri

di Andrea Galgano 8 marzo 2017

leggi in pdf La via provinciale di Giampiero Neri

neri_giampieroIl nuovo lavoro di Giampiero Neri (1927), «un maestro in ombra», come recita il titolo di un acutissimo saggio di Alessandro Rivali[1] che recupera una felice espressione di Maurizio Cucchi, Via provinciale[2], edito da Garzanti, scompagina ogni marginalità della poesia. La sottigliezza, la nuda e scrupolosa sintassi, la fedeltà alle cose e l’abbaglio della memoria creano un universo segreto[3], composto di miniate che affermano nella sua poesia, come sostiene Giovanni Raboni, «un documentarismo materico-prezioso di origine probabilmente poundiana» e ancora un «sotterraneo recupero, fra ironia flaubertiana e malinconie realistico-crepuscolari, della conversazione e sottoconversazione quotidiana»[4].

L’enigma del reale si prefigura attraverso una creaturalità indecifrabile e protesa, in cui la laterale sfumatura del dettaglio diviene metafisica narrazione del tempo, avvenimento indicibile, purezza del gesto che non accondiscende, per tremare, come scrive Alessandro Rivali «di fronte al grande libro della Natura (il suo bestiario è sempre più ricco, incontriamo: uccelli, leopardi, cavalli, maiali, cavallette, aquile, oche, bisce, persino uno sfeco, «pericoloso insetto simile a una vespa») e di fronte ai Grandi scrittori del passato, magari esclusi del Canone, come Fenoglio, Grossman o persino come Collodi»[5]:

Che la seconda parte della vita sia occupata a contraddire la prima è di comune esperienza, per quanto spiacevole. Si salva poco di quello che avevamo pensato, forse niente. Cosa rimane allora del tempo passato? Si dice di un maestro zen che, prossimo a morire, aveva invitato i suoi discepoli nel suo giardino e rivolto a loro, sentendo gli uccelli cinguettare sui rami, aveva detto: “È tutto questo e niente altro”. (p.9).

Il detrito memoriale si configura, allora, come una subitanea successione di eventi, in cui non solo la rifinitura minuziosa diventa centro ma la scoperta del mondo svela il sentiero della sua composita fragilità al cosmo aperto dei vinti, agli sguardi nascosti e mai obnubilati, giungendo alla vigilanza di ogni cenno dell’esistenza:

Il negozio di drogheria occupava in parte il piano terra della grande casa, alla ― Clerici. Di solito al banco servivano due donne, entrambe Marie di nome, e diverse volte si univa a loro il giovane nipote, il mio amico Nene. Allora il banco si animava di giovinezza, di chiacchiere e anche di zelo.  Questo poteva mettere in sospetto e infatti le due Marie si erano insospettite. Il lavoro aumentava ma non il guadagno. Il Nene era svelto di mano con la cassa. Si raddoppiò la vigilanza arrivando persino a cospargere di farina bianca, ce n‘era tanta in drogheria, l‘accesso al ― tesoretto, dove si tenevano i soldi da versare in banca. Dalle impronte si poteva forse risalire al Nene, ma non aveva funzionato. Nelle sere d‘estate ci andavamo a sedere ai tavolini del Caffè Bosisio. Offriva lui, frappè alla vaniglia. (p.10).

La naturale disposizione del tempo lascia il senso dell’esistere e la materia vivente in una traccia mai trascolorata, laddove la limpidezza poetica impone il suo gesto-segugio, il rispecchiamento ironico, la sedimentata e tenace attenzione a ogni passo del sorriso, l’architettura di luoghi e immagini che ravvivano sospensioni e segnali, cifre umane che toccano l’arte e l’estasi: «Che uno scrittore cerchi di arrivare al centro dei suoi interessi come alle ragioni per cui scrive, è molto probabile, ma che ci arrivi è tutt’altra cosa. A impedirlo si frappongono diverse cause, quando ne basterebbe una soltanto. Se ci arriva, la sua scrittura ne trabocca, altrimenti ripiega su se stessa, su meno alti traguardi».

Guardare l’umano in tutti i suoi segnali e avvisaglie, significa riflettere il tempo, la commozione, l’incontro, la pietas (come quel bellissimo episodio (30) che racconta del bancario di fronte a due fratelli che richiedono un prestito eccessivo rispetto al possibile rimborso. Dinanzi alla perplessità dell’impiegato, uno dei due fratelli esclama: «Ma si fidi, Neri, si fidi. Se non si fida dei poveri, di chi vuole fidarsi?». Viene data loro fiducia e il rimborso sarà regolare).

Ed è in essi che scopriamo noi stessi. Nella sua solida saggezza, Neri dilata le impronte del reale in una connessione di voci e discorsi, creando, attraverso una intricata diluzione di radici, una vertigine di teatro che evoca e rievoca l’annunciazione del mondo e la sua funzione mnemonica che, prima di tutto, viene

intesa come luogo minerario da cui estrarre i materiali necessari, indispensabili forse, alla vita attiva quotidiana. Perché l’atto del vivere – sembra suggerire il poeta – è difficile, sempre, al di là delle circostanze e delle condizioni che ci sono date, e lo scavo continuo tra i ricordi, tra i frantumi variegati della memoria, è un’attività che ci permette di lenire i nostri tormenti e di addomesticare i fantasmi che li popolano. Diamanti o detriti, tutto ciò che viene dal fondo del passato è rilevante e non va trascurato (Antonio Riccardi, dalla bandella di copertina del libro).

Il metodo che costruisce il linguaggio è l’affermazione a ritroso di ciò che nella materia vivente risuona, attraverso l’orma corrosa, in cui la trasformazione consunta ma viva, e il reperto denotativo dell’essere, tralucono in una lingua-specchio, facendosi epifenomeno segreto e oscuro coagulo indicibile:

Le vecchie bottiglie di fernet, anni trenta, portavano sull’etichetta l’indirizzo della dita, via del Broletto, vicino alla chiesa di san Tomaso. Ma un’altra iscrizione attirava la curiosità dei più giovani, che l’andavano ripetendo a voce alta: “Combatte lo spleen, patema d’animo”. Erano gli anni della grande depressione, della crisi di Borsa, dei salti dalla finestra. (p.14).

È attraverso la densità esperienziale, la profonda lucidità, l’appartenenza all’umano e ai suoi movimenti, che i suoi “crinali-cammei” vivono la loro riattualizzazione. Ma non c’è una nostalgia edulcorata, poiché la vita stessa, in Neri, è riportata continuamente alla luce, al suo presente, all’assorbimento esistenziale e oracolare:

La coppia, marito e moglie anziani, abitava al secondo piano, l’ultimo della casa di via Mainoni. Lui faceva il sarto e la grande cucina, tutta la sua casa, era il suo atelier. Per qualche motivo ero il loro beniamino, anche se non ricordo che mi abbiano mai dato una caramella, ma non ne avevano. Giocavo col loro gatto o a dama, soprattutto mi piaceva la loro compagnia. Con grande anticipo mi avevano detto che sarei stato a pranzo da loro per qualcosa di speciale, che non si sapeva, anche i miei erano contenti. Lui faceva uso di pepe, che metteva dappertutto e io provavo forse per la prima volta. Sembrava una festa, il sarto e la moglie ridevano e avevano gli occhi lucidi. Non so come, ma quel giorno il gatto non si era visto, e non l’avrei più visto, neanche dopo (p.13).

Il livello più radicale del libro, e quindi il suo portato fertile, si rinviene nella fotografia della realtà che nasce ad ogni istante e in esso, trova la sua vera forza, senza egocentrismo, ma proteso all’intuizione primigenia dell’umano che fa spazio, all’altro, anche quando lontano o intravisto, «poiché la sorpresa dell’essere è sempre dietro l’angolo»[6].

È nell’allusione a una magmatica concrezione di luoghi, campiture e battute che il prelievo nel reale raggiunge la massima espansione narrativa e la poesia rappresenta l’esito di un indizio di ritmo e battito, poiché, come sostiene Cesare Cavalleri:

[…] in Neri è sempre la memoria a lavorare su frammenti di figure e sentimenti che non vengono “attualizzati”, bensì riportati in quanto mai dimenticati. […] È poesia per il ritmo, perché include un metronomo che impone un’esclusiva scansione del tempo. Si provi a leggere Neri ad alta voce: spontaneamente si è indotti a modulare un “andante” come leggendo una partitura musicale, e se si tenta di accelerare il ritmo ci si avvede immediatamente di steccare. Perché la poesia è appunto questo: un testo con pronuncia obbligata. I temi sono quelli ai quali Neri ci ha abituato: la casa di Erba, episodi minimali ma incancellati della guerra e del dopoguerra, personaggi stravaganti intravisti e scomparsi con il loro mistero. [7]

Se di lateralità si tratta, essa è profondo baricentro che torna nei suoi frammenti sotterranei e intermittenti, nei lacerti racchiusi, nella parola che per descrivere deve essere netta, essenziale, farsi persino beffe, ma diventare documento di ciò che non muore o si perde. Nella circostanza, egli rispolvera il linguaggio che incontra l’esattezza di una vita nascosta e sopravveniente, giocata nella luce, combinata nel sogno e nella remota partecipazione dell’essere:

A sopravvivere, della biblioteca di mio padre, erano stati pochi libri, la collana dei classici Utet, una vecchia edizione dei Promessi Sposi, il grande Atlante Geografico e pochi altri. Tra questi spiccava un libro di Cechov, Il monaco nero. Erano sopravvissuti alle vendite che avevamo fatto in tempi difficili e ai vari cambi di abitazione. I racconti di Cechov avevo provato qualche volta a leggerli, ma proprio Il monaco nero, che era il primo, andava per le lunghe e non riusciva a coinvolgermi. Il tema dominante sembrava il giardinaggio, con citazioni della «mela cotogna russa», della «coltura a rotazione» e altre, di carattere tecnico. Rimanevo perplesso e chiudevo il libro. Una notte che mi ero svegliato troppo presto, ritornai a prenderlo. Non so come, era comparso di nuovo sul tavolo, a portata di mano. L‘avevo aperto a caso e lo stavo leggendo, era un dialogo. Continuai fino alla fine del racconto. Rimasi sopra pensiero per un certo tempo, dopo (p.32).

Nelle immagini del mondo che fluttua, nel sipario trasparente, nella formazione di ciò che accade, caricata di vita e mistero, la fotografia di Neri risplende di silenzio e rievocazione.

In quella via accade il reale e la vita passa prima degli occhi. La singolarità dell’esistente, la Brianza (e poi Como e dintorni, nella tensione che sembra spingersi fino all’odiato-amato Gadda) fanno rialzare lo spiovente di una densità perduta e riconquistata, dove i personaggi, dal professor Fumagalli, al milanese, piccoletto «con l’aria schiacciata», «la bionda insegnante di latino, l’ostinata maestra di musica e lo stesso preside, che voleva andare con Don Zeno, nel paese di Nomadelfia», rappresentano, come già accaduto in Liceo (1982), figure che fermano le epoche:

Dalla Colma si scendeva per sentieri appena tracciati fra i cespugli. Si sentiva un brusio che diventava più forte, avvicinandoci al paese. La piazzetta era piena di gente che parlava, agitava il giornale, leggeva ad alta voce: «Dimissioni», «Il cavalier Benito Mussolini», «Il vecchio corruttore». Era il 25 luglio del ’43. Anche noi prendemmo il giornale. Sulla strada di ritorno il Nene, che era più giovane, mangiava il pane, Mauri taceva e il suo amico si era messo a gridare: «Io sono un panciafichista borghese», e lo ripeteva con aria di sfida.

La scena del passato sviluppa il tempo nuovo che concentra valorialità etica e metafisica, promana l’altrove esatto ed episodico, che non riesce ad essere mai margine nevralgico, bensì sostanza vivente di un movimento, di una possibilità, di una passeggiata di particolari:

Di tanti cavalli e cavalieri che hanno monumenti nelle nostre piazze, almeno uno si è salvato dalla retorica, quello del generale Missori. Non tanto per il generale, quanto per il cavallo. Il generale ha la sciabola spezzata, simbolo del valore sfortunato, ma guarda fieramente in avanti. Il cavallo ha la testa bassa e l’aria di cercare qualcosa, un ciuffo d’erba o un posto dove andare a riposare. Pur essendo una bella statua, anzi la più bella che si conosca fra quelle numerose del suo genere, è rimasta in ombra. Nemmeno il suo autore ha avuto una soste migliore, un Ripamonti, forse lo stesso della via omonima. Insomma un nome oscuro. Eppure c’è qualcosa di umano in quel cavallo, che non finisce di attirare chi lo guardi, anche solo di sfuggita, passando in tram da piazza Missori. (p.35)

E tutta la storia che si dipana conosce e condensa il materiale narrativo, incontrando l’orlo delle cose, il dolore sguarnito («Si riflette sulla sconfitta, non sulla vittoria. Si cercano i perché della sconfitta e si finisce per ritenerla inevitabile. Sulla vittoria invece si festeggia»), la docile torsione che si fa visita di pagine chiare.

Maurizio Cucchi scrive:

[…] è nella memoria, nei suoi depositi, e nelle loro possibilità di riaffiorare per lacerti improvvisi, enigmatici eppure evidenti, attraverso i quali il poeta realizza una sorta di ricostruzione di eventi effettuata per dettagli minuziosamente proposti. In essi si manifestano figure sorprendenti in quanto inattese (il dottor Livingstone, Corso Donati), nelle quali verosimilmente si incarnano le ossessioni di una vicenda che non viene mai svelata apertamente (forse in buona parte oscura per lo stesso autore), che si intuisce essere personale e storica al tempo stesso e che lavora sotterraneamente mandando in superficie ombre, fantasmi e situazioni che vengono a comporsi come in un ordito onirico.[8]

La concretezza aspettuale e oggettuale della sua poesia, che unisce mondo vegetale e animale, sfumatura umana e visione, diventa essenziale esposizione sospesa, attorniata dal mistero e dalla lotta all’oblio, alla guerra, al male:

Il male, dunque, che fa irruzione per lampi dolorosi nel presente, turbandolo e rivendicando il diritto all’esistenza (perché da esso nasce il bene) costituisce un mistero di cui non si può tacere, e di cui la poesia di Giampiero Neri contempla lucidamente la portata. Egli ne coglie il fascino e l’orrore ma senza compiacersene e contrapponendo ad esso la necessità di uno sguardo carico di misericordia. «[…]» ha dichiarato. Nella speranza che non sia vana viene offerta in dono, come un vuoto o una preghiera che ci interroga e ci suggerisce che il mondo ha un misterioso scopo, una misteriosa presenza.[9]

Ecco il pensiero 13:

Dal finestrino del treno, fermo alla Stazione, il ragazzo guardava sua madre che parlava con un uomo. Stavano davanti al cippo di marmo rosa, che ricordava i benemeriti della ferrovia. L’uomo era un giovane sulla trentina, coi capelli biondi, ricci, che il ragazzo conosceva di vista, senza saperne il nome. Sapeva invece dove abitava, vicino all’Asilo infantile. Quel giorno doveva accompagnare a Milano sua madre, che nel frattempo era risalita in treno e sedeva vicino a lui. «Sai» stava dicendo «gli ho chiesto perché non si sposava e mi ha risposto che bisogna perdere la testa.» Lui l’avrebbe persa poco dopo in Val Pellice, con una pallottola, durante la guerra civile.

Il testo è la scena del mondo, il messaggio raggiunge il limite e lo innalza, vivendo il ciglio della vita per farlo respirare, in modo luminoso (e numinoso), e l’informazione solleva la profondità della superficie, il suo velo, l’incisione minima della vita, lo sguardo umano, poi, carico di interesse e autentico, segue ciò che primariamente si annuncia, per divenire spazio rivelativo: «A giudicare dall’andatura sgraziata e malferma, non si darebbe molto credito all’oca e forse per questo ha il nome che porta. Ma in acqua, per via delle sue zampe palmate, fila con eleganza e in aria vola. Anche l’oca domestica, dai cortili, dalle aie, quando è il suo momenti prende il volo. Lei sa dove va. E noi?» (p.62).

Nei suoi emblemi, Neri, costituisce la sua sorgiva ed evenemenziale prospettiva che abita e visita i suoi paesaggi inospiti, attraverso la scoperta recitata di un avvenimento di memoria e ricordo, appariscenza rivelata e poi concepito anche di autori cari (i luoghi di Fenoglio e Grossman che «sembra mettere mano a cielo e terra», la storia immortale di Collodi, Dino Campana).

Ed è in questa vibrata e precisa trasposizione che egli viaggia a  piene mani nella realtà, in attesa di un lampo, di una sacra intrusione e di un enigma disvelato, fino alla precisione di ogni incastro che si porge, poiché la poesia, vox clamantis in deserto, «come il soffio del vento, va dove vuole e la si può trovare dove capita, anche in una stretta di mano, come è stato detto»:

Di tanti cavalli e cavalieri che hanno monumenti nelle nostre piazze, almeno uno si è salvato dalla retorica, quello del generale Missori. Non tanto per il generale, quanto per il cavallo. Il generale ha la sciabola spezzata, simbolo del valore sfortunato, ma guarda fieramente in avanti. Il cavallo ha la testa bassa e l’aria di cercare qualcosa, un ciuffo d’erba o un posto dove andare a riposare. Pur essendo una bella statua, anzi la più bella che si conosca fra quelle numerose del suo genere, è rimasta in ombra. Nemmeno il suo autore ha avuto una soste migliore, un Ripamonti, forse lo stesso della via omonima. Insomma un nome oscuro. Eppure c’è qualcosa di umano in quel cavallo, che non finisce di attirare chi lo guardi, anche solo di sfuggita, passando in tram da piazza Missori.

Il segno più vasto dell’essere è un particolare ornato che diviene fiato e colpo, e raccordo di gradazioni infinite che riafferrano l’io, sillabando la verità, per cui, la poesia, rende ancora più essenziali

il nitore e la chiarezza della pronuncia del quadro esterno, “reale” di riferimento. Quando poi questo quadro viene animato da movimenti e scatti quasi sempre impercettibili o apparentemente inessenziali della presenza umana o animale o naturale (fra storia, memoria, bilogia, logosfera e biosfera, onotogenesi e filogenesi), svela immediatamente la propria natura tragica.[10]

In un’intervista rilasciata a Pierangela Rossi, su “Avvenire”, il poeta, infatti, afferma: «La poesia come forma si caratterizza per una particolare martellatura della parola. Questo però lascia intatto il problema dell’arte. Questa martellatura non garantisce l’arte. L’arte è come lo Spirito Santo che ti trasforma e ti dà la felicità di vivere. Cosa rimane di tutte le lacrime poetiche sull’11 settembre? Rimane della brutta poesia. Lo Spirito Santo è la new entry di qualcos’altro»[11].

88116724499788811672449-6-300x453Neri G., Via provinciale, Garzanti, Milano 2017, pp. 81, Euro 16.

NERI G., Via provinciale, Garzanti, Milano 2017.

  • Poesie 1960-2005, introduzione di Maurizio Cucchi, Mondadori, Milano 2007.

BERTONI A., La poesia contemporanea, Il Mulino, Bologna 2012.

CAVALLERI C., La poesia? Si riconosce dalla pronuncia obbligata, in “Avvenire”, 13 giugno 2012.

  • Neri, il poeta che ha scritto in prosa, in “Avvenire”, 30 aprile 2008.

DI STEFANO P., Tengo i segreti, sono un cuoco geloso, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 29 gennaio 2017.

MOTTA E., La poesia e il mistero. Dodici dialoghi, illustrazioni di Luciano Ragozzino, La Vita Felice, Milano 2016.

RIVALI A., Giampiero Neri, un maestro in ombra, Jaca Book, Milano 2013.

ROSSI P., Neri «La poesia soffia dove vuole», in “Avvenire”, 6 ottobre 2016.

[1] RIVALI A., Giampiero Neri, un maestro in ombra, Jaca Book, Milano 2013.

[2] NERI G., Via provinciale, Garzanti, Milano 2017.

[3] DI STEFANO P., Tengo i segreti, sono un cuoco geloso, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 29 gennaio 2017.

[4] RABONI G., in Almanacco dello Specchio, n.1, a cura di Marco Forti e Giuseppe Pontiggia, Mondadori, Milano 1971.

[5] RIVALI A., Il tempo sospeso di Giampiero Neri (http://www.ilsussidiario.net/News/Cultura/2017/2/21/LETTURE-Il-tempo-sospeso-di-Giampiero-Neri/749575/), 21 febbraio 2017.

[6] ID., Giampiero Neri, la sorpresa dell’essere è sempre dietro l’angolo (http://www.ilsussidiario.net/News/Cultura/2016/7/23/LETTURE-Giampiero-Neri-la-sorpresa-dell-essere-e-sempre-dietro-l-angolo/716086/), 23 luglio 2016.

[7] CAVALLERI C., La poesia? Si riconosce dalla pronuncia obbligata, in “Avvenire”, 13 giugno 2012. Vedi anche Id., Neri, il poeta che ha scritto in prosa, in “Avvenire”, 30 aprile 2008.

[8] CUCCHI M., Memoria naturale, in NERI G., Poesie 1960-2005, Mondadori, Milano 2007, p.vii.

[9] MOTTA E., La poesia e il mistero. Dodici dialoghi, illustrazioni di Luciano Ragozzino, La Vita Felice, Milano 2016, p.85.

[10] BERTONI A., La poesia contemporanea, Il Mulino, Bologna 2012, pp. 153-154.

[11] ROSSI P., Neri «La poesia soffia dove vuole», in “Avvenire”, 6 ottobre 2016.

Diego Baldassarre, Sinopie smarrite, Falloppio (Como), LietoColle Editore, 2016

di Giuseppe Panella 22 febbraio  2017

leggi in pdf Sinopie

diego-baldassarre-sinopie-smarriteUna sinopia è, nel linguaggio tecnico dei percorsi storico-artistici, il disegno preparatorio di un affresco, la sua fase iniziale che però si perde e si annulla nell’opera finale al momento della realizzazione compiuta di essa. Senza di essa, tuttavia, e senza la traccia lasciata sull’intonaco preparato per la pittura, l’opera pittorica non avrebbe corso e forse non avrebbe neppure senso.

Le “sinopie segrete “ del titolo alludono evidentemente al segreto corso della poesia, alla traccia nascosta che collega parole e immagini nell’ordito dell’ispirazione lirica.

Allude, tuttavia, anche e soprattutto alla mano del poeta che traccia linee di passaggio che collegano i suoi sogni e le sue emozioni alle parole designate per definirle e poi comunicarle a chi è in grado di accettarle e assimilarle come tali. La “sinopia segreta” del titolo allude probabilmente a questa necessità di produrre parole e versi che passano attraverso situazioni, spesso minime o non necessariamente significative come accadimenti, ma capaci di segnare e produrre impercettibili graffi sulla superficie verbale della realtà.

«Il commerciante di sogni. Il mondo parla pagina dopo pagina. / Non chiedermi / il senso del discorso / non puoi capire le sfumature / della parola nella mente // A volte sogno oppure rido / se mi osservi sembro / un uomo assente solo / ma non scorgi il lampo / corroso dello sguardo // Una folla di persone passa / saluta e chiede / Poggio il libro sul bancone / sorrido gentile / e rispondo ai fantasmi di carta» (p. 56).

“Scorgere il lampo dello sguardo” e trasportarlo sulla pagina è il compito della poesia. “Parlare pagina dopo pagina” è l’attività del poeta che osserva e attende la visita della poesia, pratica che richiede tempo e gentilezza, pazienza e abbandono al sogno. “I fantasmi di carta” della scrittura attendono soltanto di essere evocati ma chi riesce a farlo ottiene il risultato di riuscire a vendere la sua capacità di sfogliare il mondo. Il poeta se ne sta seduto “sul far della sera” e attende un’illuminazione che gli permetta di dar senso a ciò che gli succede come spettatore dello squadernarsi infinito del mondo. Per Baldassarre, allora, scrivere poesia significa scandire il tempo dell’attesa delle parole che gli permettano di dire ciò che sta avvenendo nel mondo, ciò che vive all’esterno e che gli chiede di entrare nei suoi sogni e nelle sue emozioni, nelle sue illusioni e nella sua “mente”. Tutto quello che diventerà parole frasi o canto è già inscritto nella sua mente, come una traccia infinita di follia o una sfumatura incomprensibile del linguaggio comune.

Quindi il poeta non può fare altro che de-scrivere ciò che lo aspetta all’angolo della strada o all’apparire dei “fantasmi”. Il suo percorso è fatto di attese, di silenzi, di attenzioni, di rimossi, di lacrime ricacciate indietro a forza, di sospiri e di ritegni insensati. Sono tutte “sfumature” ma dicono molto di più di ciò apparentemente è chiaro e squadernato nella mente piuttosto che nella sottile membrana che avvolge l’anima e la rende sensibile al dolore del mondo e, nello stesso tempo, gli permette di apprezzarne la bellezza incontestabile e affannosa:

«La poesia. La poesia non è la frase spezzata / ma il vuoto prima / e dopo la parola // caduta» (p. 62).

Dove resta da interpretare quel termine finale, parola-chiave del discorso di Baldassarre: caduta sta per errore fine morte e dannazione oppure per il semplice avvitarsi spontaneo al suolo della “povera foglia frale” (di un’imitazione poetica di Leopardi da Antoine-Vincent Arnault, scelta dal poeta di Recanati come exemplum delle potenzialità della lingua italiana nell’ ambito del rinnovamento linguistico legato al Romanticismo)? Le parole della poesia, in buona sostanza, cadono nel vuoto e si fermano a terra come le foglie si staccano dagli alberi in autunno e si annullano nel magma indistinto della terra oppure cadono perché destinate all’errore all’oblio alla Caduta per superbia o velleità del poeta, una volontà non surrogata e sostenuta da un’autentica vocazione? La vocazione “bucolica” (in senso positivo) di Baldassarre potrebbe far pensare alla prima soluzione ma l’idea del silenzio come luogo in cui la poesia eviene è molto più convincente in quest’ottica. Non a caso in un suo testo molto suggestivo ed evocativo si legge con una certa nettezza:

«La soglia della memoria. E’ pericoloso sostare a lungo / sulla soglia della memoria. // Vattene vattene ora / Puoi ancora evitare di percorrere / corridoi impolverati inseguendo / immagini vere per i vivi // Devo decidere se murare la porta / o spingere l’uscio dei giorni // Entra apri le finestre / Se sui muri non ritrovi i quadri / di sicuro le impronte bianche / rispettano la loro disposizione // Il tempo spezza le ali all’anima / è ambra ciò che era resina» (p. 53).

La poesia di Baldassarre non è fatta di ricordi ma si concentra sul qui e ora (come testimoniano  molte altre poesie da Padri moderni a p. 55 a Impronte sulla neve a p. 91 e solo per fare due esempi a caso), è poesia dell’immediato e della sensazione, è fatta di “ragione e sentimento” e non soltanto di ricordi o nostalgia di un passato che non c’è mai stato o che è ormai irrimediabilmente trascorso.

I suoi versi sono densi e raggumati in un tentativo quasi disperato di dire tutto nel giro compresso di una frase, di un’immagine risolta, di un’aspirazione di vita, di un contatto diretto che sia capace di cogliere il senso di una vicenda esistenziale in atto o del trascorrere di una stagione avita e conosciuta. Il senso nascosto della vita viene colto così in un soffio epifanico di consonanza con gli eventi inverando quel desiderio che la poesia esprime di attraversare il mondo per poterne cogliere il nocciolo segreto (anche se alla fine anche il sogno di ritrovare la verità nascosta sotto le apparenze più colorate o devastate o ingenue del reale, i suoi “bagliori”, si rivela – come sempre – uno scacco: «Non somiglio più neanche a me stesso» (p. 115).

Al di sotto delle rappresentazioni della bellezza della Natura (le sue “sinopie” invisibili) e al sopra delle aspirazioni a una vita più autentica,  si leva l’oggetto oscuro e sempiterno della poesia –  la sua capacità di costruire un ponte con la realtà  e con la vita nel tentativo di farne un dono a coloro che ne colgono la necessità assoluta e imprescindibile.

L’Italia di Charles Wright

di Andrea Galgano 11 febbraio 2017

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charles-wrightNon una parola s’è mai dissolta in gloria, non una.
Continuiamo a mandarle in alto, comunque,
così come il sole piove giù.

Charles Wright

La antologia di Charles Wright (1935), Poeta laureato e unanimemente considerato uno dei più grandi poeti americani, Italia, edita da Donzelli, a cura di Moira Egan e Damiano Abeni, non è un intervallo solo rammemorativo. Non vi è decorazione o celebrazione inusitate, bensì piuttosto il richiamo a una profonda passione epica, all’incisione salutare della fisicità dei luoghi, alla loro umbratile consistenza che diviene intreccio che rivela ciò che è nascosto, attraverso il legame incarnato e la profondità contemplativa.

È un’attitudine meditativa e spirituale a raccordare la vertigine e la struttura del verso, in cui la vertebra prospettica non è l’occasione ma il tempio dello sguardo, il respiro che affiora dalla percezione e dal fiato. Possedere questa vista significa, in definitiva, corrodere ogni forma pittoresca, affermando la bellezza del movimento e dei segni cronologici, pedinando l’inquieto permeare dello strazio arrestato, fissandone, infine, i contorni nel gesto che diventa ferita e tenerezza.

Essi nascono sin da quando nel 1959 egli, soldato americano, di stanza a Verona (nella patria di Catullo dove «i fiori schiusi scorrono / verso ponente nel vento che soffia verso ponente») o quando si troverà a Sirmione, sfiorata in un bellissimo notturno: «Le erbacce si sono infoltite nei frutteti e le foglie pendono inascoltate sotto le arcate […] Accordi sparuti da un liuto spettrale, è vero, scendono talora sulle ali dello stesso vento alpino che come un pastore continua a guidare le piccole onde sulla sponda […]»), tocca lo spazio fondativo della poesia e la lingua che ristruttura il mondo, leggendo una raccolta di Ezra Pound, «padre dal sangue freddo della luce».

Venezia è smarginata e intrisa di splendore, in cui la luce segreta della laguna si veste di respiri posati sulle palpebre all’infinito: «Questa è la strada dove abita Pound, / un vicolo cieco / di anfratti catarrosi e pietra sbrecciata, / al cui imbocco le acque / si adunano, i gabbiani stridono; / qui dentro – muto, immoto – egli aspetta, / cernendo gli affretti freddi del sangue» (Omaggio a Ezra Pound).

Attraverso lo studio e l’epifanico magistero di Dante («Dante ti fa pensare seriamente alla vita. Ti costringe a volere una tua vita, a impiegarla nel modo migliore. La sua poesia è un grande modello platonico di vita e arte»), la traduzione di Eugenio Montale e l’«angelo lirico» Dino Campana («la tua bocca è la porta azzurra da cui passo, / la lampada accesa, la tavola apparecchiata»), egli ricompone la lettura fonematica e conclusiva dell’Italia, che nelle note dei notturni, riporta il buio delle scaglie e dell’avviluppo abissale della luce persa e leggera: «Firenze. Un vortice, una bocca, / vertiginoso alveare… / Notturno / Firenze, gola verticillata, / un sibilo d’ali che si chiudono / il fiume tortuoso in fiamme, / acqua come scaglie nella vampa del fuoco…».

O ancora la trasparenza monastica di San Miniato, dove i bordi acquei «lappano l’orlo della notte», apre la chiglia nera in cui «i nostri corpi bruciano come lampioni, / le ossa sonagli in mano alla morte sotto il fuoco lunare».

Una lettura interiore che esplora la sua geografia visionaria, attraverso la distanza generativa della fisica di un mondo che si porge e si sporge nei sospiri della trascendenza, «dentro la stessa pelle della lingua», come «una necessità interiore» e una «haeccitas», nei flussi di voce, nelle preghiere-fulgori e nei salmi di luce, fino al cielo delle ali bagnate come fenditure:

«E quando, quella sera, una pioggia esagerata per la stagione (grandine che risuona dilacerante sui limoni) picchiò sul movimento lento della baia, in agosto, infestando la tenebra con un querulo biancore, egli si ritirò nella stanza del seminterrato sotto la casa, a studiare i diversi aspetti dell’acqua, le navi in improvviso contrappunto sulle scale ascendenti del mare, e ad aspettare l’irruzione, al di là delle colline infeconde del suo cervello, dei soldati di bronzo, il lievito del lampo dei loro coltelli». (Temporale).

Caterina Ricciardi afferma:

«I sacred places italiani, i sacred landscapes della sua America dei caribù, dell’Appalachia e del Blue Ridge, visibile dalla collina del Monticello di Jefferson a Charlottesville, sono la haeccitas che respira nello «stile» di Wright, anche nel rovescio genialmente sovversivo della voce orfica i Campana. Ma tutto avviluppato nella lingua, e dentro la sua (di Wright) «pelle», tutto interiorizzato verso l’espressione devozionale tesa alla trascendenza, all’oltre dell’hic et nunc, perché i monumenti dell’ «intelletto che non invecchia», quelli dell’arte (e della natura, se nessuno la distuba) sono eterni».

Il ricordo, per Wright, è la distillata e calibrata radiazione che illumina ciò che c’è. La frammentazione apparente gli serve per affrescare la pagina, alzare le immagini dove cade la luce, e dove l’ora orfica, che sbanda sull’acqua, si ritrae distendendosi.

Scrive Roberto Galaverni:

«Si tratta di un poeta mai acquiescente, ma mosso invece da inquietudini radicali, di natura esistenziale e insieme metafisica, che fa reagire volta a volta con l’occasione particolare. Wright è a caccia del proprio destino, niente di meno. Attraverso un intreccio di piani sequenza e di continui dislivelli temporali («ricordo», dice tante volte), in cui accanto alle percezioni dirette tanto spazio hanno la riflessione e il giudizio, si rivolge ai luoghi come a una costellazione da interrogare in vista di un orientamento, di una consistenza, più generalmente della propria identità personale».

Sono le vene familiari che esplorano la compagine sapienziale del suo gesto, l’indirizzo confessato delle penombre (Ricordando San Zeno), il sigillo orfano oltre il guanto della finestra, quando i propri accordi spezzati, in uno sfilato noumeno di striature d’aria, avranno il sostegno del sole e della tregua sdraiata dell’indicibile.

La lunga nota è la sua trafittura musicale, l’istantanea tradotta di un rapporto ricolmo che forgia gratitudine e chiede l’oscillazione dell’ immaginazione e della misura, rilasciando poi tracce, ricordi, significati di onde e buio purpureo e inscritto, boccioli di luna allontanati e luci diverse nell’intarsio del cielo.

Moira Egan e Damiano Abeni, nella Postfazione, si soffermano sul legame dei testi con i luoghi, sia come lascito e sia come concrezione trascendente, finendo per  includere il bordo dell’infinito, la sua maestà e la sua suggestione che spreme ogni chiarore e punto di fuga: «Wright ricerca costantemente la trascendenza nel quotidiano, e sa trovare il sublime negli angoli più bui e nascosti del nostro mondo, rendendolo in una musica che- senza farcelo pesare – spesso parla di se stessa e del modo in cui viene costruita» (p. 345).

È la Venezia che si stende come seta «sull’orlo del mare e del cielo notturno, / albescente alla luna», la Milano, nitida e asciutta del ’59, dove i viali finiscono in lotti non edificati o Roma, smalto ocra al tramonto su via Giulia, come quando «ricade la luce dalle finestre affacciate a oriente sulle sedie di vimini»:

«A Garda, su Punta San Vigilio, il lago / a primavera è come il mare, / vento che smuove le foglie d’ulivo come sciamo di pescetti di palude sotto i vigneti, / flusso e riflusso del tramonto oltre Sirmione, / voce piatta delle acque / Che ri-raccontano la propria storia, ininterrottamente, come per scaricarsi / di una colpa non dimenticata, / e non alleviata / sotto la consolatrice mano del buio, / le nubi su Bardolino che dragano il cielo in cerca dei corpi / morti di chi si rifiuta di risorgere, / con le vestaglie arancione e i corsetti fiammeggianti che rotolano lungo le colline, / vento notturno ormai tra gli ulivi, / nessun suono se non vento dal nulla / sotto le stanche stelle italiane…».

Il suo nodo dispiega la figura con una densità indomita, unisce tutto gli elementi della realtà, fornendo una visione elencata e potente di ultimità («E le iridescenti bluse di luce che indossano gli alberi. / E i cerchi-sutra degli aironi guardabuoi che ruotano via oltre i piovaschi. / E le marimba chiodate dell’alba che scuotono i loro amuleti… / Presto sarà ora della lunga passeggiata sotto terra verso il mare»).

O questo ritratto prezioso e tragico che affiora, indissolubilmente, come un oggetto d’arte:

«I fiori d’arancio hanno lasciato cadere le loro trame / sul pavimento di pietra del cuore / più di una volta / tra le stelle di ieri sera e le stelle di ieri sera. / E I Preludi hanno lasciato i loro anelli / sul gesso bianco delle pareti. / E l’armonica ha suonato e suonato. / E adesso, sotto gli alberi da frutto, / gli ulivi argento e poi non argento, il vento / dentro loro e poi no, il vecchio / seduto nel sole calante, / del tutto rilassato su una sedia nel sole che cala, foglie smosse dal vento. /  Il mondo non è niente per lui. / E la musica non è niente per lui, né il sole di mezzogiorno. / Solo il vento importa. / Solo il vento quando si muove nel lucore di latta delle foglie. / E i fiori d’arancio, / sparsi come poesie sulle pietre levigate» (Paesaggio con figura seduta e ulivi).

I colpi di attenzione di Wright sono, invece, autoritratti tra i nomi diretti: «Madonna dell’Ortolo. San Giorgio, arco e pietra. / Le pendici collinari alte sul Piave. / Luoghi e cose che mi hanno colpito, Walt, / In Italia. A piedi, Gran Catalogatore, vent’anni e passa fa. / San Zeno e il Caffè Dante. Il sedile di Catullo. […] Sulla tomba di John Keats / scende la sera invernale, dall’abito senza stelle e bordato di ghiaccio, / puri respiri di coloro che risorgono dai morti. / Dino Campana, Arthur Rimbaud. / Hart Crane e Emily Dickinson. Lo Château Nero», o lagune in cui, nell’immagine dantesca, il sigillo delle labbra dilavate incontra l’acqua limpida, brillando nelle stelle fisse come una fiamma astrale, o come la lingua perduta del ricordo di Hart Crane diviene la matita di pioggia e l’orologio che si ripiega nel petto.

Questa forza attesta il rinvenimento dello «spiritus loci abitante lo spazio italiano e, più tardi, dei paesaggi delle sue origini, stabilendo una continuità di sguardo fra mondi diversi, cosa che non fa di lui un semplice poeta “del viaggio” e della notazione diaristica ma una mente inseguita da una quête metafisica, anche quando si ferma a osservare «insetti luminosi» o a commentare un dipinto» (Caterina Ricciardi).

Come se ci fosse una fine indecifrabile al linguaggio che conosce la meraviglia stupita dell’altezza immobile e della dura eternità:

«Parlo della quiete, il riserbo / di un centrotavola di porcellana, un vaso lacrimale, una brocca. / Parlo dello spazio, che ha una sola faccia, / inesaudita, lasciata a essiccare. / Parlo della tempera, della forma, del vuoto / a cui questi oggetti stanno di sentinella, e da cui scaturiscono. / Parlo del peccato, goccia rossa, goccia bianca, / della sua deformazione e curvatura, che è azzurra. / Parlo di bottiglie, di rovina, / e di quello che usiamo per illuminare la tenebra, e del perché …» (Morandi).

O ancora: «Ora senza stelle, senza Madonne, Morandi / pare arcanamente confortato dall’assenza di conforto, / una cosa giusta al posto giusto, / paesaggio sussunto, linguaggio sussunto, l’ombra di Dio / liquida e indiscernibile» (Giorgio Morandi e il blues del parlare dell’eternità).

Scrive Irene Battaglini:

«La poetica di Morandi si inscrive nella lirica di Wright alla stregua di una “esperienza non formulata”[1], il cui senso si traduce alla coscienza non soltanto interpretandolo come la negazione di un’ Ombra pantoclastica, ma anche come un ground zero in cui gli oggetti verticalizzati sono posti in assetto orizzontale – in una tela, come al suo interno a costituirla come scena interiore del Sé e non come scena di natura morta, quindi non su una tela come un qualsiasi dipinto – si frappongono come scudo alla confusione di un mondo arcaico e inesplorabile, nel rispetto dei tempi di quegli oggetti, gravidi di nostalgia e struggimento, oggetti che vanno a costituire l’orizzonte di una cultura greca, dotata di forma con infinite qualità tonali, contro cui la confusione si frange inesorabilmente incontrando il limite di un logos che non si esperisce mai a sufficienza.

I vasi e le bottiglie dalla composta postura ieratica, si fanno simbolo di una pulsione di morte naturale, una poetica dell’ovvietà contro l’angoscia, come principio di sospensione di ogni stimolo negativo: e perciò la natura morta si traduce still life, poiché la pulsione di morte naturale in Morandi altro non è che l’opaco fondo biancastro delle ampie campiture di appoggio, che è più luttuoso e controsole di un pozzo atro, ma che per la sua stessa caratteristica si rifà ad un modello generale della mente umana in cui il lutto è un processo che attacca il fondo della psiche ma che sempre si situa dentro la vita. Il simbolico di Morandi non vive per se stesso, ma per qualcos’altro, e trova non solo eco ma anche segno ad esempio in Wright, poiché è il segno di quella fusione di orizzonti di cui parla Donnel Stern, tra ieri e oggi, tra memoria e inganno».

La ricerca di Wright è una voce lavoratissima e senza disfacimenti. Affronta il segreto della realtà risuonando di dolcezza struggente e di visione. Per cui anche la cesellatura fonetica, l’aria ironica, il dolore disperso come carta bruciata, le parole «su quella croce in cemento», la memoria compìta che raddoppia la dislocazione dei luoghi, non spezzano né disperdono la gioia tenuta.

Mantova, sperduta di nuvole e parole smemorate e intagliate, «Metà del cielo colmo di pioggia, metà no / canne spinte dall’acqua a restare immobili, / il fiume che scende in piena ma senza tracimare, / tutto capovolto, / il cielo a riposo sotto i piedi. / Parole, ma chi si ricorda? / Che parole sanno il cielo, le nuvole? / Sulla parete della residenza estiva, / dove lo lasciò Giulio Romano, / il leone beve sulla sponda del fiume, e gli alberi accudiscono», i giorni italiani nei grembi dell’Adriatico, le infinite gallerie, le incisioni di Vicenza e il Palladio acuiscono un processo di gloria memoriale, dove le impronte delle forme vivono di associazioni mentali splendenti che eccedono ogni natura temporale. Tutto si muta in questa giacenza di illuminazione irradiante. In Wright, la rievocazione è un incombenza composita, una soglia che affranca le miglia della sua inner vision «che raduna la luce come fa il vetro», facendole ricomparire e ritrarsi nel loro isolato raccoglimento, attraverso «l’oscura allegoria dell’anima / nella luce bianca dell’eternità»:

«Certe sere, quando le stelle emettono i loro segnali in codice come bande rivali, / e la nebbia scende a distendersi cauta come una sposa novella / sui gradoni degli alberi / che salgono dal mare / e il lampione che attrae zanzare comincia a rapprendersi / come una crosta sulla foglia di palma e sul falso pepe, / e il profumo delle giunchiglie / aleggia come un giardino di giugno / sul tavolo in cucina, / Scuderi chiama ad alta voce il mio nome / mentre salgo i sei piani verso la sua stanza / e mi ripresento sulla soglia, / elettrico e redivivo nel mondo della luce […]» (Giorni Italiani).

È la parola dipinta (si pensi ai grumi di tempera e ai cambiamenti cromatici di Roma, vissuta in una veste celeste) sui vortici di acqua di Pavese («I tuoi occhi saranno parole vane, un silenzio / che vedrai nel chinarti verso lo specchio / ogni giorno, / l’unico sguardo che ha per chiunque») o le riscritture di Leopardi, vissute e amate nei suoi interminati spazi che risuonano come vento («l’oceano senza orizzonte che manda segnali, / comincio a esumare dal marmo / interminati spazi, oltre, / silenzi così immensi da risuonare come vento») nei nascondimenti di mezzogiorno («Lo so che sei lassù, nascosto dietro la luce del mezzogiorno / e il cristallo dello spazio.»), nei passi delle stelle voltate alla luna, con la sua vita unita allo sguardo del cielo («Mezzogiorno, e tu sei di nuovo lì sull’altra faccia del cielo. / Due aquiloni hanno fatto il nido nella gonna secca / della palma / e graffiano la loro voce come unghie / sulle finestre dell’aria»):

«Se sei diventato un’idea eterna / che rifiuta ogni investitura nei nostri stracci rosa, / saggio al di là di corpo e forma, / o se dispensi altrove l’ostia di un diverso sole / in uno degli altri eteri, / da quaggiù / dove i nostri anni hanno fauci onnivore,  / ascolta ciò che dicono queste parole di uno che ti ricorda […] Non volevo dire altro. / Pensami di tanto in tanto, come io penso a te / quando la luna è una zecca dorata nel cielo estivo / gonfia di luce: / tu sei parte delle mie parti del discorso. / Pensami di tanto in tanto. Io penserò a te».

Annota Gianni Montieri:

«Questa è la grande capacità di Wright nel suo racconto di mezzo secolo d’Italia, di mostrare e lasciare campo alla nostra immaginazione, di accendere i ricordi e di destare curiosità. Wright è poeta che conosce a fondo il nostro paese per averci vissuto, averci soggiornato a più riprese. Lo conosce perché lo ama e, questo è evidente, lo ha amato da subito. Qui non leggiamo solo del paesaggio, delle colline, dei laghi o delle città. I versi di Wright ci portano da Verona a Mantova, da Milano all’Umbria, da Venezia a Positano, eppure non si limitano, naturalmente, a descrivere un luogo, ma dicono che il luogo è di chi lo sa guardare, il luogo è fatto delle opere d’arte che ospita, il luogo è la gente che passeggia e lavora, il luogo sono gli inverni e le estati, sono i profumi che avvertiamo fortissimi. I luoghi di Wright sono ponti di dialogo con i pittori e i poeti che lo hanno preceduto. I luoghi sono Pound, sono Leopardi, sono Morandi, sono Oscar Wilde, sono Dino Campana, sono Cesare Pavese. I luoghi di Wright siamo noi, ed è stupendo che ce li mostri come se fosse la prima volta uno che chiameremmo, sbagliando: straniero».

La nominanza esuberante come inconoscibile supplica e la sceneggiatura dell’impossibile trama che legano i luoghi alla smisurata esistenza e, allo stesso tempo, alla loro calibratura immaginifica. Le parole vivono la loro scena, anche quando sono disfatte o sperdute, e celebrano, indomite, la vocazione della realtà a farsi confine dell’essere e vita insorta, come accade in un testo sul suo pellegrinaggio ad Arquà, sospesa dimora di Petrarca: «Passo fantasma di stanza in stanza e cerco in ogni modo / di riamalgamare tutto ciò che continua a mancare, / di ricomporre ancora / gli arazzi e i focolari invernali, / le lunghe passeggiate e la solitudine / prima che i danni della storia e una fama malintesa / scompaginino tutto tranne il mero nome e uno schema di rime».

Questa insurrezione mobilita gli interstizi del dicibile come un gesto di attesa ascoltata e concentrata, dove la luce porge il suo diario, filtrando ciò che l’io genera, «come incastonato per caso nel ricordo, / incandescente e tenuto stretto».

L’ascolto e la fuga nella radice della rosa, in una limpidità di gioia, rivendicano un’ampiezza nuda che riportano la nascita delle cose all’indecifrato segreto dell’esistere e al gremito gemito del linguaggio, per risplendere e non abbagliare, poiché «tutto arriva fermarsi»:

«Dal mio balcone, l’azzurro intenso del sotto-cielo, / zaffireo e anodino, / fa da fondale alla corona della Madonna. / Più tardi, un lembo arcuato di nube, / come la scia di un jet o la coda di una cometa, vi volteggia più sopra, / anello medievale di Paradiso. / Oggi è di nuovo lo stesso azzurro, azzurro di redenzione / sul quale, tra i filari di vite, / il verde abbraccia forte la terra. / Non ancora, pare dire, oh, non ancora».

In un luminoso diario della notte, Wright ripone la sua ricerca assoluta come profondità affamata e nomade: «La notte assoluta si ritrae. / Brezze dure gelano sotto le mie palpebre. / La luna, corno di mica stampigliato, / risponde per me nelle arterie delle querce. / Desidero ardentemente acqua limpida, il silenzio / del rischio e dello splendore profondo, / la quiete dentro la solitudine. / Voglio la sua goccia sul labbro, la sua fredda impresa» (Diario della notte II).

Il forte e lucente abbraccio alla vita presente, che si sporge dai dettagli, è l’incommensurabile ampiezza di un abisso chiaro, dove persino l’oscurità è visibile, catturata dall’alone di ogni cosa dorata che lambisce il “tempio”, per dare significazione al reale (non solo le grandi città ma anche l’indocile provincia), per infrangere le cose e accoglierle, persino nei negativi di attrito, diventando stupore di vertigine: «Là fuori non c’è altro che luce, / disse l’artista mancato / con ragione, come al solito, a metà: / c’è anche un nonnulla di buio, lo sanno tutti, su entrambi i lati di entrambi gli orizzonti, / prescritto e in dipingibile, / che ci tocca i polpastrelli, in qualsiasi direzione decidiamo di saltare» (Vite degli artisti).

Le parole della poesia inseguono il dialogo inesauribile che scopre i netti recessi, i nessi, le scoperchiate miniature della realtà, non per possederle ma per perpetuare il senso di una leggera  gratuità che trasfigura la molteplicità in nitore e nostalgia azzima, bisogno ultimo e alternativa vitale disegnata dalle stelle.

L’aggregazione delle immagini si espongono nei ritmi che tratteggiano l’ombra disvelata e i lunghi fili del visibile nell’invisibile, ordinati in una sorta bellezza difficile:

«Ascolta, la memoria ha il cuore duro e la testa tenera. / Qualsiasi luce l’occhio veda, il cuore ripete buio, buio, buio. / Nulla è mai perso, dissi una volta. / Non era vero, / lo so adesso, con il passato che è un nascondiglio / oltre ogni possibilità di ricordo e recupero, a dispetto del nostro / desiderio e della nostra diligenza. / Quello che è andato è andato, / e si posa come gusci di riccio di mare sotto la palpebra della memoria, / giù nella tenebra dove non si muove nulla, / nulla tranne il cuore / quel pesce senza occhi, portato da correnti lente, invisibili / sotto un gioco della campana di isole azzurre dove, in superficie, / un giovanotto dallo spirito intatto riunisce alcuni amici / su un frangiflutti al sole / Poi uno di loro tira fuori una macchina fotografica».

Scrivono Moira Egan e Damiano Abeni nella Postfazione:

«Il filosofo-poeta degli Appalachi ha passato una vita a tradurre i segni del tempo e della natura in parole: parlando di noi stessi descrive la sensazione del caldo del sole sulla pelle, gli interminati viaggi delle nubi, la musica dell’acqua, le masse imponenti dei monti in poesie disegnate con la grazia di un calligrafo orientale, venate di metafore fini e sorprendenti. Al cuore delle sue poesie, spesso interpretabili come discorsi sull’ars poetica, c’è il tentativo di governare il linguaggio come mezzo per poter governare la vita, perpetuare il ricordo, sopportare la nostalgia, sempre nella speranza di trovare parole che non siano effimere» (p. 343).

La lingua, che definisce l’umano, non ha solo l’urgenza di dire ma spinge alla contemplazione e alla sacertà di ciò che si annuncia, che occorre conoscere e poi raschiare e cancellare, per raggiungere la nitidezza oggettuale, il carattere della sua floridezza, del suo raggio di fiamma e, infine, del suo tessuto cicatriziale. La grazia oscura del mondo, allora, è il territorio su cui lasciare il segno, per diventare mattino.

 

[1] “Oggi siamo particolarmente interessati all’emergere del senso di un’esperienza che prima non aveva significato, e sempre meno interessati a quella che Bollas ha efficacemente definito «la decodificazione psicoanalitica ufficiale» “ (Donnel Stern, in: Hoffman I. ,1998, p. 48).

6aefdee8c121fc9ec95d3c4ab9d0194a_w600_h_mw_mh_cs_cx_cyWRIGHT C., Italia, a cura di Moira Egan e Damiano Abeni, Donzelli, Roma 2016, pp. 160, Euro 18,50.

WRIGHT C., Italia, a cura di Moira Egan e Damiano Abeni, Donzelli, Roma 2016.

Italia sua, in “La Voce di Romagna”, 18 gennaio 2017.

BATTAGLINI I., Commentari e Lezioni di Psicologia dell’Arte, Scuola di Psicoterapia Erich Fromm, Prato 2017.

BRULLO D., L’avventura di Charles Wright l’ex soldato americano che rubò la poesia a Pound, in “Libero”, 31 gennaio 2017.

GALAVERNI R., C’è un americano in Italia ma, attenti, non è un turista, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 15 gennaio 2017.

GALGANO A., Il viaggio inciso di Charles Wright, (http://www.polimniaprofessioni.com/rivista/il-viaggio-inciso-di-charles-wright/), 4 gennaio 2014.

Hoffman I. (1998), Rituale e spontaneità in psicoanalisi, Atrolabio, Roma 2000.

McCLATCHY J. D., Charles Wright, The Art of Poetry, no. 41, Winter 1989.

MONTIERI G., Una frase lunga un libro #87: Charles Wright, Italia (https://poetarumsilva.com/2017/01/25/wright-italia/), 25 gennaio 2017.

RICCIARDI C., Wright. Luoghi e cose che mi hanno colpito in Italia, in “Alias – Il Manifesto”, 5 febbraio 2017.

STERN D. B., L’esperienza non formulate. Dalla dissociazione all’immaginazione in psicoanalisi, Edizioni Del Cerro, Pisa 2007.

La tempesta di Zbigniew Herbert

di Andrea Galgano 26 gennaio 2017

leggi in pdf La tempesta di Zbigniew Herbert

herbertLa pubblicazione, presso Adelphi, degli ultimi versi di Zbigniew Herbert (1924-1998), L’epilogo della tempesta, in un volume che raccoglie i testi poetici scritti tra il 1990 e il 1998, anno di morte dell’autore, con l’aggiunta di testi sparsi scritti tra il 1950 e gli ultimi anni, rende ragione a questo autore, attraverso «una poesia definita classica e intellettuale, ma permeata di quel romanticismo polacco che imponeva un modello di scrittore impegnato nella storia, poeta dell’oscura sofferenza esistenziale e bardo dell’opposizione nella Polonia di Solidarnosc […]» (Francesca Fornari, Postfazione, p. 173).

La poesia di Herbert non sa indugiare. Quando compone l’elegia del mondo, si serve della realtà per sfogliarla, provocarne la fibra, divulgando la sua pagina senza mediazioni e spingendo la speculazione filosofica alla catabasi stoica, permeata dal passaggio «dall’oggettivazione figurativa e culturale, dall’impersonalità e dal distacco delle schermature allegoriche, che costituiscono il tratto qualificante della sua fisionomia espressiva, a una pronuncia più personale e dolente, più esposta e coinvolta in prima persona» (Roberto Galaverni), e, infine, solcata dal transito solare:

«Chi sarei diventato se non avessi incontrato Te – Henryk Maestro mio / A cui per la prima volta mi rivolgo per nome / Con la riverenza il rispetto che si devono – alle Grandi Ombre / Sarei stato fino alla fine della mia vita un ragazzo buffo / Sempre alla ricerca / Affannato taciturno che si vergogna di esistere / Un ragazzo che non sa / Vivevamo in tempi che erano davvero il racconto di un idiota / Pieno di frastuono e delitti / La Tua severa mitezza la forza delicata / Mi insegnavano a stare nel mondo come pietra pensante / Paziente indifferente e sensibile al contempo» (A Henryk Elzenberg nel centenario della Sua nascita).

L’inclinazione della poetica herbertiana raccoglie la profondità della pietas, esponendola alla mitologia, allo scarto e all’avamposto di una umanità senza cesure, come dirà in un’intervista nel 1991: «Scrivevo poesie serie, tragiche, e adesso scrivo sul mio corpo, sulla malattia, sulla perdita del pudore»), che sperimenta la fine e il limite, il chiaroscuro-fervore dell’attuale, della testimonianza attonita e, infine, del tempio sacro del vivente che lotta ai margini attraverso le ombre chiare e le schiere inermi.

Afferma Valeria Rossella:

«[…] Herbert declina in una lingua scabra e precisa da tragedia antica, con allegorica figuratività, le sue parabole intrise di rigoroso ethos. Mai si abbandona al catastrofismo, al soggettivismo solipsistico, in questo incarnando la figura del poeta-testimone, tipica della poesia polacca, caratterizzata secondo Miłosz da un «costante connubio con la storia»: una poesia non ombelicale, lontana dal narcisismo e dal nichilismo di tanta lirica novecentesca. Fra i sontuosi visionari arazzi di Miłosz e il microcosmo metafisico della Szymborska, questo poeta che Adam Michnik ha definito un «guardiano delle tombe» per la sua profonda pietas stoica, ci parla di chi finì nella macina della storia come “I lupi” (i partigiani dell’Armja Krajowa) e di chiunque si oppone ostinatamente alla sua legge brutale e distratta. Questa pietas è la sua cifra, espressa tramite exempla, “parabole” come le definì acutamente Brodskij, tratte spesso dall’antichità greco-romana da cui era affascinato […]».

Elegia per l’addio, la settima raccolta di Herbert, uscita nel 1990, già presente in Rapporto dalla città assediata, antologia pubblicata da Adelphi nel 1993, a cura di Pietro Marchesani, rappresenta l’esito di una incendiata sovrapposizione di natura e storia, regno vegetale, umano e animale, attraverso una impronta che dispiega metafore di violenza nascosta e pervasiva, segnate da una ferita urgente e unite da folli cause perse.

Lo sguardo sull’uomo dimidiato e percosso (La famiglia Nepenthes) penetra nelle fibre scure del male radicato nelle fessure, laddove l’assenza di innocenza («e noi viviamo in armonia con la nepente / tra campi di concentramento e di sterminio poco ci importa / di sapere che nel mondo vegetale l’innocenza – è assente») banchetta alle irresistibili spire dei nettari vischiosi, come «polizia segreta di una certa superpotenza».

Il prugnolo, nonostante «le peggiori previsioni degli indovini del clima», fiorisce a dispetto del «gelo polare conficcato fino in fondo all’aria», esponendo la sua sopravvivenza e il suo concerto solista alle bufere accecanti e alle note sparpagliate, a «questo cespuglio ai bordi delle strade» che «spezza / la congiura dei prudenti», diventando franto dispendio di giovinezze perdute, «come gli insorti che malgrado gli orologi della storia / malgrado le peggiori previsioni / malgrado tutto iniziano».

La colpa e il perdono toccano assottigliano il giudizio della coscienza, quando «il proiettile che ho sparato / da un piccolo calibro / nonostante le leggi di gravitazione / ha fatto il giro del globo / e mi ha colpito alle spalle / come volesse dirmi / che niente a nessuno / sarà perdonato» o si è tentato di cancellare dalla memoria «con l’acqua della pietà / la fuliggine il sangue le offese» perché «la nobile bellezza / il fascino dell’esistenza / e forse persino il bene / dimorassero in me».

Non è un mondo perduto bensì un aguzzato recupero di ciò che è, innocentemente, perduto: ombre sporche, venti senza alberi e senza nuvole, luna conficcata nel cielo, poiché il poeta è, come scrive ancora Roberto Galaverni: «un uomo lasciato improvvisamente scoperto dal ritiro della spessa coltre della Storia, e, dall’altra parte, dal possibile tradimento della vita. Tutto il suo mondo, il suo stesso sistema poetico, solo poco tempo prima assolutamente convinto e agguerrito, sembrano a questo punto ritorcersi contro di lui».

Al suo alter ego, il Signor Cogito, lascia la sua disillusione amara e radiosa, il suo eroismo e la sua casa oscura e incerta, il numero delle figure che se ne vanno, l’agenda corrosa e nebulosa del proprio esistere, fino alla trasformazione artistica della sofferenza e della memoria concava, come un sigillo, poiché «per Zbigniew Herbert, le regole del mondo erano chiare, stare dalla parte dei deboli, ambire a un posto nella schiera dei grandi spiriti, stare dalla parte degli oppressi» (Jaroslaw Mikolajewski).

Come ad Hermes, invece, il rammarico del passo danzante della sua preghiera inesauribile o il colore della terra del commiato:

«[…] tutto si dispiega in fasce orizzontali – un fiume pigro / l’altra riva scoscesa che ripida digrada verso il basso / rivela infine quel che si doveva confessare / argilla sabbia rocce di calcare strati di terra nera / e il bosco gracile ora un bosco che piange / sono felice ovvero libero da illusioni / il sole appare poco ma in compenso offre / spettacoli di splendidi tramonti quasi alla Nerone / sono calmo dobbiamo prendere commiato / i nostri corpi hanno assunto il colore della terra».

La disposizione di Herbert, quindi, pur abitando e patendo la schiera nefasta delle ombre novecentesche e la pura cognizione della sofferenza, non genera mai «l’abdicazione» della dignità (Jaroslaw Mikolajewsky), vivendo il ciglio e il dolore dell’orizzonte ultimo, sperperando i sigilli increspati di ciò che ascende e della domanda intagliata nel sangue, aggrappato al sapore dell’ostia e del lenzuolo bianco, alla parola nuda che tace ed affiora («a lungo si dovrà lavorare / per riportarle fuori / si dovrà accelerare / il ritmo del cuore / o rallentarlo / e forse ancora una volta / qualcuno le scriverà su un muro / nelle catacombe della notte / sul vetro latteo dei mattini»), preparando il rilascio di ogni possibilità detenuta, come accade a Barabba, terrorista, vasaio, mulattiere, usuraio, proprietario di navi o spia al soldo dei romani, che «pulisce le mani macchiate di delitto / nell’argilla della creazione»: «Lui Imperatore delle proprie mani e della testa / Lui Governatore del proprio respiro», mentre «il Nazareno / è rimasto solo / senza alternativa / con il ripido / sentiero / di sangue».

Antonella Anedda, infatti, sostiene:

«È vero, questo tardo Herbert che scrive sul ciglio della morte dice più spesso «io» rispetto al passato, ma lo fa mantenendo una distanza di sicurezza; scrivendo poesie che reggono, dalla struttura perfetta, dove ogni aggettivo è calibrato e ogni dettaglio ha un senso. Nessun ammiccamento al lettore, nessuna civetteria o lusinga. Non solo chi scrive, ma anche chi legge deve assumersi le proprie responsabilità. La reticenza – quella che ha dato vita alle tante poesie sul Signor Cogito, ironica considerazione anti-cartesiana – resiste intatta in una confidenza non ostentata ma piena di pudore, anche nell’osservazione del proprio corpo invecchiato, malato: strumento di conoscenza, che ritrova – attraverso la memoria del professore di medicina legale, chino sul torace dei suicidi – la pietà di Antigone».

Rovigo (1992) rappresenta, per Herbert, lo strato di un passaggio e di una iniziazione, in cui la prospettica sospensione tra passato e presente si accompagna alla crocifissione del luogo e dello spazio, e dove non esiste sacrificio vano. La grande cultura italiana è il segno del suo sguardo, attraverso di essa, anche ciò che è minimale, diventa centro, perché

«in Herbert è il dato concreto, il dettaglio il punto di partenza per una riflessione che però va sempre verso una generalizzazione che valga per tutti. […] Nell’opera poetica di Herbert i grandi temi tralucono dalle piccole cose, da dettagli apparentemente inessenziali. Il fuoco della lente di ingrandimento è sempre sui particolari, sui dettagli delle situazioni rappresentate; ogni esistenza è singolare, precaria, drammatica e irripetibile» (Giorgio Linguaglossa).

Scrive Josif Brodskij:

«Herbert è un poeta molto italiano, poiché la sua estetica risente moltissimo dell’arte italiana, della pittura in particolare […]. La figura del Rinascimento che viene in mente quando si legge Herbert è, senza dubbio, Piero della Francesca, perché le poesie di Herbert si interessano, per così dire, più della geometria del fondale del dramma che dei suoi personaggi centrali. Sì, geometria è la parola giusta: più che a qualsiasi altra cosa le sue poesie assomigliano a teoremi o, se vuoi, a parabole: per via della loro reticenza e del loro rigore» (Lettera al lettore italiano, Rapporto della città assediata, p.17).

L’orlo della confessione intima, la pietas irrinunciabile come avvertimento dell’umano, l’incanto della parola avversa alla refrattarietà del tempo e la demarcazione trascritta e inesausta della domanda a Dio (sconosciuto),  diventano «un sudario di terra calato con premura / sugli occhi». È il pudore, rarefatto di azzurro, della sua humanitas.

Sulla classicità oraziana di Herbert, Francesca Fornari, così scrive:

«Le figure mitologiche e i personaggi della storia classica sono apparizioni via via più sporadiche nei testi di Herbert, che nel raccontare il duello tra Achille e Pentesilea coglie l’eroe in un momento di pietà e commozione davanti alla bellezza dell’amazzone uccisa (Achille e Pentesilea). Il Dioniso di Herbert è incarnazione del motivo del viaggio, naviga verso l’ignoto in una spedizione senza meta che è anche il viaggio della vita stessa, dove l’unica certezza è la consapevolezza della nostra ignoranza (Opera a figure nere di Eksekia). Nell’ultima fase della sua scrittura Herbert compone testamenti spirituali, affida al lettore le confessioni intime di un io che abita «sull’orlo del nulla»: finito il tempo dell’emergenza storica, per la prima volta infrange la propria regola poetica dell’oggettività, che imponeva il riserbo nell’esprimere emozioni, e dice semplicemente: «la mia anima è triste»» (p.174).

Il fondale di Herbert, allora, non è un epicedio dell’umano bensì la resistenza di ciò che è umano contro la depressione, la malattia, il limite, l’amarezza, la decadenza di ciò che ci circonda. È l’arte che è specchio «che passeggia per la strada maestra», riflettendo «i miraggi / l’aurora boreale / l’estasi dei posseduti / i banchetti degli dèi / gli abissi / lotta anche con la storia / con alterni successi / tenta di addomesticarla / di darle un senso umano».

Persistono le rovine ma sono punto focale di ciò che, a dispetto di tutto, resiste all’assedio del tempo, non soltanto come tregua ma come resurrezione scandita. In questa forza risiede il suo canto strenuo, la sua parola non sbiadita e il suo tentativo di ripristino della realtà «collosa» che unisce tragedia, sacrificio e riscatto di incontri sicuri («Solo i bottoni inflessibili / sono scampati alla morte testimoni del crimine / salgono dalle profondità in superficie / unico monumento sulla loro tomba / sono testimoni che Dio farà la conta / e avrà pietà di loro / ma come potranno risorgere col corpo / se sono parte collosa della terra») (I bottoni, dedicata a suo zio Edward Herbert, ucciso dai Russi a Katyn): «Con la legge dei lupi hanno vissuto / per questo la storia ne ha taciuto / di loro nella neve molle è rimasta / urina giallastra e quell’orma di lupo / più rapida di uno sparo a tradimento nella schiena / li colpì al cuore la disperata sete di vendetta / mangiavano miseria bevevano acquavite / cercavano così di resistere alla sorte» (I lupi).

Il suo passaggio affronta nubi, quelle di Ferrara, ad esempio, vissute attraverso il precipuo scorrimento di natura e creazione dipinta (il Ghirlandaio), che «scorrono / molto lentamente / sono quasi immobili» e rivelano il destino mancato di chi non ha potuto scegliere «niente nella vita / secondo il mio volere» e che ha sempre cercato, non trovandolo, il rifugio nella storia o la sua sosta. Perché è in loro la destinazione umana, le estensioni di tempo, di dimenticanza e di durata, la persistenza paziente e l’osservazione sofferta, le palingenetiche ginocchia dell’infanzia (quelle della nonna che gli faranno scoprire «la ruvida / superficie e il fondo / della parola»), la precisione del male.

La prospettiva che spinge verso l’infinitesimale presenza delle cose trova in Rovigo, il paesaggio grigio e la città di pietra e carne, e come afferma Francesco M. Cataluccio, essa diviene «per lui il simbolo della normalità e delle occasioni perdute, di qualcosa che non riusciamo, forse non vogliamo del tutto, afferrare: una città di passaggio, come la nostra vita»:

«STAZIONE DI ROVIGO. Associazioni incerte. Un dramma di Goethe / o qualcosa di Byron. Sono passato per Rovigo / n volte e per l’ennesima volta ho compreso / che nella mia geografia intima è un luogo / particolare anche se non cede di sicuro il passo /
a Firenze. Non vi ho mai messo piede / e Rovigo si avvicinava o fuggiva all’indietro / Vivevo allora d’amore per l’Altichiero / dell’Oratorio di San Giorgio a Padova e per Ferrara / che amavo poiché ricordava la / saccheggiata città dei miei padri. Vivevo sospeso / tra il passato e l’attimo presente / crocifisso più volte dal luogo e dal tempo / E tuttavia felice fermamente fiducioso / che il sacrificio non sarebbe stato vano / Rovigo non si distingueva per niente di particolare era / un capolavoro di mediocrità strade diritte  brutte case / solo prima o dopo la città (in base alla direzione del treno) / dalla pianura si alzava all’improvviso una montagna / – tagliata da una cava rossa simile a un prosciutto festivo ricoperto di un cavolo crespo / e oltre a ciò niente che divertisse intristisse attirasse lo sguardo / Eppure era un città in carne e pietra – come altre / una città dove qualcuno ieri qualcuno è morto qualcuno è impazzito / qualcuno per tutta la notte ha tossito disperatamente / IN COMPAGNIA DI QUALI CAMPANE APPARI ROVIGO / Ridotta a una stazione a una stazione una virgola una lettera cancellata / niente soltanto una stazione – arrivipartenze / e perché penso a te Rovigo Rovigo».

È ne L’epilogo della tempesta, che il suo accertamento del dolore impalato si fa più denso e infittito: «ogni palmo di terra è stato scavato e devastato / dall’attacco precedente spianato del tutto e allora perché / questa furia del dolore se questo è un segnale / e il dolore è un segnale inviato allo stato maggiore».

Il suo breviario è preghiera («Signore, / Ti rendo grazie per tutta questa cianfrusaglia della vita, in cui annego senza scampo da tempi immemorabili, mortalmente assorto nella continua ricerca di minuzie»), linea del respiro, «sospesa come i ponti, come l’arcobaleno, come l’alfa e l’omega dell’oceano», accordo lacerato e confessione di falde («Signore, / so che i miei giorni sono contati / ne rimangono pochi / bastano perché io possa raccogliere la sabbia / con cui mi copriranno il viso / non farò più in tempo / a riparare alle offese / né a chiedere perdono a tutti / coloro a cui ho fatto del male / per questo la mia anima è triste»).

L’intimità dell’io espone così le sue ultime battute nude: «perché / la mia vita / non è stata come i cerchi sull’acqua / un inizio che cresce / risvegliato dentro profondità infinite / si dispone in anelli falde gradini / per spirare sereno davanti / alle tue imperscrutabili ginocchia»).

Il dolore del corpo e il terrore notturno, gli oggetti silenti e appartati nella loro concretezza, ontologicamente descritti in tutta la miniata sofferenza quotidiana («Signore, Ti rendo grazie per le siringhe con l’ago spesso o fine come un capello, per le bende, per ogni tipo di cerotto, per l’umile impacco, grazie per la flebo, i sali minerali, le cannule, e soprattutto per le pasticche di sonnifero dai melodiosi nomi di ninfe romane, / che sono buone perché chiamano, ricordano, sostituiscono la morte»), la lingua non arresa di sogni e fiori salpati e distratti compongono la trasparenza dell’ultima parola («la mia vita / dovrebbe descrivere un cerchio / chiudersi come una sonata ben scritta / e adesso vedo chiaramente / un istante prima della coda / gli accordi lacerati / parole e colori assortiti male / strepito dissonanze / le lingue del caos») e la compassione verso un’attesa «scevra da qualunque ansia thanatofobica o anche thanatofilica, vissuta con l’animo sereno di chi vede la nave ormai prossima al porto e riflette su ciò che è stato, con tono pacato, ma non per questo privo di tragicità» (Andrea Ceccherelli).

Ancora una volta al Signor Cogito, egli consegna la sua privata allerta, l’ironia e le mani impazienti, il transito alla sua cara Leopoli «città che non esiste su alcuna mappa / del mondo», dove «c’è un pane che può nutrire / tutta la vita nero come la fede di rivedere / la pietra il pane l’acqua il permanere delle torri all’alba», l’appartenenza al tempo e allo spazio, l’impossibilità, la fedeltà iscritta e l’attesa, la memoria sopravvivente all’oblio, l’infinità e la coscienza, il corpo inappellabile, e la sua anima, nell’esilità del respiro doppio, così portata in spalla, sarà pronta al volo nella piena luce del giorno: «Dove passerai l’eternità? / Non lo so. Forse tra la sabbia delle nebulose» (Conversazione).

32fe833dce51df0052fea6b452e01645_w600_h_mw_mh_cs_cx_cyHERBERT Z., L’epilogo della tempesta. Poesie 1990-1998 e altri versi inediti, a cura di Francesca Fornari, Adelphi, Milano 2016, pp. 180, Euro 20.

HERBERT Z., L’epilogo della tempesta. Poesie 1990-1998 e altri versi inediti, a cura di Francesca Fornari, Adelphi, Milano 2016.

  • A poet Who Misses Censors, in «Newsweek», 1991.
  • Rapporto dalla città assediata, a cura di Pietro Marchesani, Adelphi, Milano 1993.
  • Rovigo, a cura di Andrea Ceccherelli e Alessandro Niero, Il Ponte del Sale, Rovigo 2008.

ANEDDA A., Zbigniew Herbert, la pianura fredda tra le parole (https://www.alfabeta2.it/2016/11/20/zbigniew-herbert/), «Alfabeta2», 20 novembre 2016.

CATALUCCIO F.M., L’epilogo italiano di Herbert, in “Il Domenicale- Il sole 24ore”, 30 ottobre 2016.

CECCHERELLI A., Zbigniew Herbert, il morso del tempo sul corpo del dolore, in “Il Manifesto”, 4 settembre 2016.

CUCCHI M., Novecento in versi. Il secolo d’oro della Polonia, in “Avvenire”, 29 dicembre 2016.

GALAVERNI R., Il nemico non c’è più, il vate si congeda, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 25 settembre 2016.

LINGUAGLOSSA G., “Rovigo”. Una poesia di Zbigniew Herbert Traduzione di Andrea Ceccherelli e Alessandro Niero. Commento di Giorgio Linguaglossa, (http://www.giorgiolinguaglossa.com/index.php/giorgio-linguaglossa-critica28).

ROSSELLA V., recensione di HERBERT Z., L’epilogo della tempesta. Poesie 1990-1998 e altri versi inediti, a cura di Francesca Fornari, Adelphi, Milano 2016, in «Poesia», dicembre 2016.

 

I cieli celesti di Claudio Damiani

di Andrea Galgano 2 gennaio 2017

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presente nella Bibliografia critica su www.claudiodamiani.it

claudio-damianiLa nuova silloge di Claudio Damiani (1957), uno dei maggiori poeti italiani, Cieli celesti, edita da Fazi, è una popolata emersione di dettagli e incontri, visualità splendente e cromature di fondi.

Ma se l’eco dell’antica tradizione poetica, che si prolunga fino ad Orazio, passando per Leopardi, Pascoli e Caproni, non ama rinserrarsi in una racchiusa condensazione di voce, la poesia di Damiani è una domanda di incontro. Domanda tersa e piovuta come l’ambientazione azzurra, che pur prendendo l’accento dalla coltre intensa di Beppe Salvia, trasla il suo apice attraverso una profonda creaturalità e una estremità limpida che rafforzano la sua scaturigine nella pacatezza e nella origine.

La domanda elementare di Damiani, allora, si fonde in tutta la sua peculiare destinazione nella contemplazione del cielo vivo, nel segreto riflesso del tempo e nelle trame del vivente che lanciano il loro indefesso dialogo con il reale e la sua impossibile smarginatura:

«Riverso sul lettino in terrazzo / guardo il cielo azzurro, / azzurro di un azzurro fitto, / pieno, come più mani di azzurro. / Come siete lontani stelle e pianeti / dell’universo, quando potremo mai incontrarci, / come, creature vive e intelligenti, uomini / come noi, sparsi come siamo tutti / in uno spazio tanto grande? / Così adesso restiamo noi qui, pensando di essere soli / perché anche il tempo è tanto lungo, come lo spazio. / Vi pensiamo però, esserci cari, e ci sarà un tempo / in cui ci incontreremo».

Roberto Galaverni afferma:

«Damiani s’interroga sulle ragioni del suo idillio appena increspato da qualche nube e ombra lieve. Il che significa che sta riflettendo anche sulla necessità stessa della sua poesia o anche, almeno agli occhi di un critico di poca fede, sulla sua plausibilità. Il registro espressivo e i referenti in ogni caso restano sostanzialmente gli stessi elementi basici e situazioni elementari per un lessico altrettanto basico ed elementare. Ecco allora: creatura, vita, cuore, terra, aria, cielo, azzurro, prato, sole, luna, stelle, universo, amore, e poi gli animali, le rondini, i passerotti, il gatto. Damiani prova a rendere ragione della realtà di quello a cui sempre ha guardato: la nuda e semplice presenza della vita al di sotto o, che è lo stesso, al di là della storia, delle faccende quotidiane, dell’impegno per dirottare su chissà quali strade il nostro destino».

Lo sguardo, che celebra e contempla, congiunge e domanda, destina e si immerge, diventa l’orma basilare di un approdo di chiarità (il monte Soratte, ad esempio, fissato in tutta la sua cosmica apparizione di millenni e limiti umani come cicatrici) e di un respiro che ha bisogno del prosimetro della realtà per intensificare la lingua e il suo cuore luminoso: «L’aria tenera della tua bocca / la respiro a pieni polmoni, / ti respiro dentro nel corpo / fin dentro l’anima, cielo».

O ancora come un ascolto o un amore, la nitida limpidezza diviene presenza, natura pensante e universo, in cui la giuntura umana che è chiamata a scoprire la vita e la vivezza, l’esistenza e il suo germoglio, la sua angolazione e il suo mistero, persino la sua ironia:

«Stamattina il cielo era azzurro, con nuvole / ora è completamente grigio, coperto. / Il cielo coperto è meno bello / non tanto perché è buio / e dà una sensazione di freddo / ma perché copre, appunto, il cielo. / La sensazione è quella di una cappa, di un muro / che ti separa dal cielo. / Se solo pensassimo, se riflettessimo un attimo / che oltre quella cappa, oltre quel muro / il cielo azzurro risplende / con tutte le stelle e lo spazio / forse saremmo meno / meteoropatici».

Il mistero dell’esistente, quindi, è grazia di danza improvvisa. Il tocco delle cose, come la fisica di Luzi, restituisce il dono epifanico atteso, in cui la conversazione è il profumo del verso, la corsa del tempo, il mondo che si sporge. La dettagliata cifra dell’essere è sempre nominazione:

«C’era un prato verde verde / con cielo azzurro e sole, / aria fredda e erba verde e grassa, / primi di aprile, mattina, / vento di tramontana /  e un pastore con dietro / tutte le pecore, ferme / per attraversare. Passo con la macchina / e dietro di me attraversano le pecore. / Quando ritorno, dopo dieci minuti, / le pecore stavano riattraversando. / E tu, luna, stavi guardando, / tu che ti muovi con passo lento di danza, / grande sfera aerea innamorata della terra, / te che pure, un giorno, nascesti / partorita dalle stelle, / forse una costola della terra, / forse nascesti dall’unione / di tanti piccoli corpi, / crescesti come una bambina e diventasti / questa ballerina meravigliosa che si muove con grazia / ammirata da tutti, che balla tutta la notte».

Il territorio poetico di Damiani (e il suo paesaggio appenninico), non è una frazione idillica e nascosta, lambisce la realtà non solo con l’immediata riflessione luminosa ma è attraverso l’ apertura e l’incontro che l’inatteso avviene: «Sai quegli scienziati caparbi / che ripetono all’infinito l’esperimento / con una pazienza disumana? / E proprio quando stavano per desistere, / proprio quando stavano, sfiduciati, per lasciare perdere / quella pietra si illuminò di luce azzurra».

Solo così il dipinto del mondo si innerva nel processo segreto di epistemologia e stupore: «Sono in terrazzo, sdraiato / vedo il cielo azzurro, / a un tratto vedo alcune rondini, / sono arrivate, è primavera».

Lo stupore è la sua forma di conoscenza che si increspa e si concede in ogni invocazione e proposta che richiama il piccolo spazio di una porzione di sole o di una tenerezza d’aria che consegna baci celesti da prendere e voci lontane: «Prendo il sole come un albero / nel mio piccolo spazio, il mio terrazzo, / prendo la mia porzione di sole / piccola ma per me enorme, / non comparabile con nessuna cosa, / e col sole prendo quest’aria tenera / la respiro tutta / e non ne lascio niente. / Prendo i tuoi baci, cielo / e non ne rifiuto nessuno. / E le chiacchiere degli uccelli / mi sono care, e le voci, / lontane, degli umani».

O ancora, attraverso una vigile attesa che ricostituisce la genesi di ogni tempo da rincorrere come un respiro che, come in ogni densità d’istante, bacia l’aria: «Questo cielo, come sarebbe difficile / spennellarlo, voglio dire dipingerlo, / sarebbe un’opera difficilissima / e invece ecco, apri la finestra / e te lo ritrovi qui, bell’e fatto. / […] Ma tu tesoro mio puoi non credere in quello che vuoi / ma un universo e miliardi di anni / ti sembra poco?».

La poesia di Damiani  si nutre dell’accortezza generativa delle cose che si apre all’infinito, alla limpidezza, al «gorgogliare sommesso / dell’acqua». Sono le stesse cose a parlare a rivelarsi in un momento di naturalezza imprevedibile e generosa, che pur perdendosi, dà vita in una gioia fresca:

«Caro Sole, tu ogni giorno / non so quante tonnellate di materia perdi / e anch’io, ogni giorno, perdo qualcosa, / ogni giorno perdiamo un giorno / ma quando sarà finito il tuo tempo / si potrà dire di te: è stata una stella generosa, / per tutto il tempo ha illuminato e scaldato / i corpi intorno, senza fermarsi mai / dando tutto il possibile di sé, / sempre al massimo delle sue possibilità, / tutto quello che poteva fare l’ha fatto / e tutti sempre l’hanno ringraziato / e l’hanno adorato, l’hanno benedetto / e nella sua lunga vita lui ha sempre gioito / della riconoscenza di tutti».

Le sue epifanie, i suoi balzi avvolti e i suoi avamposti soli dove «il sole ci bacia e la brezza / ci vellica le guance, / il vento muove le nostre pagine / e i nostri giorni volano», le ombre celate e ritrovate che vivono nelle uniche sproporzioni («è notte, vedo il cielo nero / senza stelle, e così nero lo sento / e così grande, così grande / e penso a quando era piccolo / che avrei potuto tenerlo / in una mano, / e quasi mi viene da piangere / a pensare che poi sarebbe diventato così grande / e con tante terre e tanti soli / e infiniti animali e infiniti uomini / di infinite razze, che dopo tanto errare / si sarebbero sempre più avvicinati, / si sarebbero alla fine ritrovati»), e i suoi crinali splendenti e intensi («[…] ma ora, senti come è tenera l’aria / tiepida e fresca del cielo notturno / e viene un odore di fiori di acacia / e di biancospino. / E senti il cuore mio come batte / e senti il tuo, e c’è qualcuno / che chiede di entrare, anzi è entrato / e cammina dopo di noi»), i cambi d’aria e lo scioglimento degli elementi (aria, luce, acqua), nelle infinite variazioni della vita degli alberi, procedono in una metafisica dichiarativa e ragionativa che gemma nei semi sul tracciato.

Con l’infinitamente piccolo e le grandezze, egli evoca e rievoca la sua appartenenza («[…] siamo un numero molto grande / che può far paura, nel nostro numero è Dio / in qualche modo, e un valore molto piccolo / è ciò che è nostro e solo nostro di individui, / il valore individuale potremmo dire / che, in quanto piccolo, è però un valore / che nullifica ogni nichilismo, / che dà a te, amore mio, e a me / un’unicità che ci fa divini»), ed è da essa che si esprime, appieno, la libertà e il suo legame con la comunità e con tutto ciò che c’è, come un tenue miracolo di unione prossima:

«Dolce cielo celeste / dipinto di azzurro tenero / e voi verdi monti e voi / valli e boschi, nuvole / che là, verso l’orizzonte / navigate lente, e tu sole vicino / al tramonto che spandi questa luce / d’oro nell’aria, e ogni cosa fai tiepida / del tuo calore, e tu aria che muovi / i miei capelli e spiri sulle mie / guance e le pagine volti dispettosa / del quaderno ove scrivo… / state insieme, vi date come la mano / contenti di essere uniti, / di essere l’uno all’altro / indispensabili, di essere insieme / questo miracolo che vedo».

Roberto Galaverni afferma: «Le questioni sono ancora una volta le più elementari, spesso riprese non a caso dalla filosofia presocratica: fissità e mutamento, il senso (detto come direzione) della natura, il rapporto tra il singolo e la comunità, tra la vita individuale e le ere, il retaggio antropologico e soprattutto il tempo, che costituisce il filo conduttore del libro».

La trincea del vivente, le pause degli istanti e i semi di luce, i mondi abitati e inabitati dalla vita, le lontananze dipinti e i cieli notturni aprono crepe nelle evidenze del tempo e della realtà, negli spari insonni, nelle armature a difesa della propria nudità fonda (come in Svegliarsi in una notte del 2012…), dove l’amore annulla ogni paura e smarrimento sgranato.

Damiani cesella le sue immagini senza lentezza ma quasi per deposito granulare. Da una singola immagine che sembra annullarsi, compare un ulteriore dettaglio o una nuova esistenza che porge il suo singolare sussulto di sacertà, di forma, di oblio e di luce.

Silvio Perrella scrive:

 «Damiani è un asincrono; non ama stare al passo con i tempi; o piuttosto cerca nei tempi il Tempo, quell’atomo di vita che collega gli uni agli altri. e non solo in orizzontale, ma anche in verticale. ed ecco che vien fuori una verticale come questa, dove si sale e si scende sulle scale del tempo, e lo si fa in un attimo di dormiveglia, pensando a quel che pensano tutti, ma pensandolo dentro l’unicità del nostro corpo singolare, e sentendo il risveglio degli altri, il loro stesso girarsi tra le lenzuola del cosmo».

Attraverso l’ode, il pensiero sorgivo, la tenerezza dell’essere, la speculazione filosofica e l’ironia, Damiani compone la sua trama e il suo segno, annotando le vibrazioni piccolissime e le concitazioni dei ronzii. È la sua obbedienza alla realtà a rendere ragione alla poesia, che si nutre di ciò che vive e muore, che insegue il tempo passato e presente ed accade in silenzio come una luce bianca. La caducità è uno splendore lucente e la coltre di ogni limite possibile ma immenso, allo stesso tempo, dove il nostro schianto lucente e assaporato si compie:

«Siamo caduchi, siamo quelli che cadono / sul campo di battaglia della vita. / Ci falcia il tempo, che ci insegue in ogni momento / dopo averci partorito, / ci tiene il fiato sul collo / e non ci lascia respirare. / Se ci fermiamo un momento / lui passa e noi lo stiamo a guardare / come dalla spalletta di un ponte / ma ci divora dentro. / Che cosa succederà domani / tu non lo puoi sapere /  per questo sei nelle sue mani / e non ti puoi liberare. / Siamo caduchi, siamo quelli che cadono, / cadiamo come le mosche, / quando nasciamo ce l’abbiamo scritto in fronte / che cadiamo, / ma non ce ne vergogniamo / anzi camminiamo a fronte alta / con la nostra morte nel cuore. / Non siamo soli, siamo tanti, / siamo un esercito immenso, / marciamo insieme, spinti dal tempo / con questa croce sul cuore. (Canzone dei caduchi)

La pienezza vivente è uno sguardo e una carezza d’amore, come nostalgia di realtà e mortalità, canto pazzo che non si ferma, relazione di nascita e morte insieme, e vita che vince la morte in una moderna Arcadia:

 «E questo canto, amore mio, di cicale / sotto il sole di luglio, in una campagna italiana / cielo azzurro e poche nuvole, piccole, / odore forte di rosmarino e ginestre / e questo canto pazzo che non si ferma / nel’aria bianca bruciata / e noi, io e te, sotto questi pini / alziamo i calici e brindiamo, silenziosi, / tu vestita come una dea, con lunghe ciocche annodate / e perle tra i capelli, / là sulla collina il nostro capanno di legno / e giù lo scoglio dove passo tutte le notti / a piangere guardando il mare».

Le nostre lontananze, la tiepida aria di giugno, solitaria e fresca, quasi come un fiore strappato, richiamano l’attraversamento del tempo e la sua unione di tutti i tempi nel tempo, in una serie di passi e punti di osservazione investigati:

«Ma adesso questo cielo e questo fresco sulla pelle / quest’aria pulita e queste poche nuvole / e questo chiacchiericcio di uccelli / e uccellini nei nidi, come un brusio, / in questo tardo pomeriggio di giugno / dove tutto sembra finito, e all’inizio, / e questo rumore di camion lontani / tra le voci degli uccelli, / rumori di un tempo che è questo tempo preciso / e tutti i tempi, insieme, / come se quest’aria tiepida, mite / li attraversasse tutti i tempi, li unisse».

Il transito dei nostri passaggi lascia la musica che resta come essenza vibrata e come intima e congiunta proprietà dell’essere. È il nostro andirivieni, la nostra prima linea, i rumori delle cose lontane, che recano in grembo il senso dell’ultimità conciliata di un mistero disciolto nel suo scorrimento azzurro e nella sua trasparenza:

«Lascia che sia, lascia che sia / non lo contrastare, / alla fine è questo cielo della sera / quello che resta, i rumori delle cose lontane / e questo colore pallido e luminoso insieme / acceso e bruno nello stesso tempo. / Alla fine quello che resta sono i rumori / delle cose lontane, che fanno i dolci, che passano, / alla fine quello che resta è il nostro passare, / essere passati e dover ancora passare, / questo rumore di fondo come il mormorio di un ruscello / o un chiacchiericcio sommesso, che ti concilia il sonno».

cieli-celesti-light-1-671x1024-671x1024Damiani C., Cieli celesti, Fazi, Roma 2016, pp. 164, Euro 18.

 Damiani C., Cieli celesti, Fazi, Roma 2016.

  • La difficile facilità. Appunti per un laboratorio di poesia, Lantana Editore, Roma 2016.

Galaverni R., Le buone cose di semplice gusto, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 20 novembre 2016.

Langone C., Nel tempo del Natale profanato leggo le ultime poesie di Claudio Damiani, in “Il Foglio”, 21 dicembre 2016.

Gnerre A., Il laboratorio difficile e facile di Damiani, (https://www.rivistaclandestino.com/il-laboratorio-difficile-e-facile-di-damiani-di-a-gnerre/), 4 dicembre 2016.

Lombardi L., Tempo, Spazio, Terra. Damiani contempla, in “Il Tempo”, 19 dicembre 2016.

Perrella S., Svegliarsi in una notte del 2012…, in “Il Mattino”, 9 novembre 2016.

Le sinopie smarrite di Diego Baldassarre

di Andrea Galgano 6 dicembre 2016

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diego-baldassarre-sinopie-smarriteLa nuova raccolta di Diego Baldassare (1969), poeta romano trapiantato sulle colline pistoiesi, Sinopie smarrite, edita da Lietocolle, restituisce non già un mondo sommerso bensì la linea rarefatta e smarrita di un preludio vivente, di un’anima non arresa (e perciò vincente) e, infine, di una intensa dirittura.

Egli stesso, infatti, ci orienta sul titolo: «La sinopia è il disegno preparatorio di un affresco, disegnato sull’intonaco: quando viene realizzato l’affresco questo disegno si perde, si smarrisce. Eppure senza quel disegno l’opera finale non potrebbe essere realizzata. Se l’opera finale è l’Uomo, le sue sinopie sono le emozioni e le esperienze che l’hanno condotto ad essere quello che è».

Il portato fisico dell’opera di Baldassarre, pertanto, si intreccia con il limite e con l’incompletezza umana ma, altresì, riesce a compiere una poesia visitata da una acuta percezione del mondo. La ricchezza di questa visione interiore, le sezioni illuminate, le stanze accertate da improvvise coloriture avvengono in una prospettiva di discesa salutare, in cui il rapporto mistico tra la natura e l’artista è pervasivo, invasivo e costitutivo.

L’elemento naturale mescola varchi e scorci in un taglio di visione e volo, profonda riflessione e appunti che documentano lo smalto del vivente, la sua prolusione e la sua demarcazione di interludi e impronte, come ripasso di progetti:

«È nell’interludio tra l’ultimo battito / del volo della falena / e il raggio dell’alba sul sangue gelato / della farfalla / che l’uomo abita il suo silenzio / Si esiste solo per l’attimo che mozza / il respiro / per lo specchio scuro dell’otturatore / che riflette la retina / Per il dito cacciatore dei propri sogni / Ansima la pupilla eccitata dalle ore / insonni / La smania dell’attesa si combatte / ripassando progetti / L’esatta inquadratura è predisposta / per l’impronta di colore per l’inganno di se stessi» (Lo scatto).

La poesia di Baldassarre è visitata e abitata da una vertigine rivelativa che introduce l’agone di un’attitudine che lotta per vivere e respirare, e che testimonia, nel grido e nella domanda dell’io che preda, le parole e le raduna sulle orme ungulate, sugli scavi, sulle tracce d’acqua e sugli smottamenti d’animo: «Sono io / predatore di parole / l’unico abitante dei fogli» o ancora «Imperterrito sterro seguendo il silenzio di orme ungulate / per non sembrare dissimile / dal lupo che segue la preda».

La parola, dunque, è la sua preda vigile che insegue la verità dell’esistere e del vivere, cribrata dalle radici («Seguimi fino all’antico mulino / devo mostrarti olivi secolari / hanno radici profonde / e una pazienza senza sconfitta») e fessurata attraverso la tensione dello sguardo, oltre le linee di ogni orizzonte possibile e ogni vibrazione nel silenzio sulla terra nuda «ferita abrasa / purulenta di fango / A picco sul silenzio»: «La forma di pietra / levigata / attira la carezza / della mano destra / Rimangono impresse / nella salsedine ciottolosa / incerte linee / della vita / tre salti sull’acqua / azzurro deserto / l’esistenza si sottende / tra spuma di mare / e pioggia imminente».

In questa linea adoperata dall’autore esiste una gradazione di silenzio e palpebre che disegna il suo arriccio sgualcito e vivido, che delinea il suo abbozzo, che concreta le immagini, le compone e le riempie in una vigilanza e veglie dipinte, e tracciandole e comprimendole nelle proprie maree interiori, le fa risplendere nell’ «anima arenata sulle parole», fino ai sospinti ricordi controvento:

«All’improvviso incespico nella / radice affiorante dei sensi / Ricordi controvento sospingono / pensieri dentro una radura / laddove calpestio di formiche / traccia sentieri ortogonali / La memoria atavica della stirpe / pulsa alle tempie: vibrano / i capelli al suono delle parole / Il sussulto del tempo incute / rispetto per segnali irrilevanti / non cado ma duole la caviglia / che sosteneva il passo dei versi» (Ricordi controvento).

L’immagine tremante diviene dispendio di vita e vocazione di palpebre, che sogna l’indicibile e l’inscrivibile tensione di una trafittura e di una rivelazione di bellezza, trascritta e riemersa, come foglia sugli occhi.

La trama della vita corrente insegue trasparenze assolute e umbratili, pedina l’eterno gioco delle stagioni, lasciando emersioni vive di impronte e tracce che colorano il magma vivente attraverso una sognata e ubicata antichità, come il vento di pioggia che sciaborda tra i rami e la forra che sussurra parole d’acqua:

«Sulle mie colline adottive / sciaborda vento di pioggia tra i rami / Non scorgo il pettirosso del mattino / La forra sussurra parole d’acqua / Non è possibile muoversi oltre / il profilo del bosco / Pigramente attendo che l’arcobaleno sorga / sulle mie colline adottive / L’occhio spazia su fusti di castagno / sulle spine di giovani robinie / Ma non vola l’aquilone dei sogni / Sciaborda vento di pioggia tra i rami / Sbandano i minuti affacciati / alla finestra nascosta dal tetto / solo la poiana si libra altera / Non scorgo il pettirosso del mattino / L’anziana vicina – mani antiche / d’olivo – spezza rami avvizziti / Sul confine dell’esistenza immobile / la forra sussurra parole d’acqua» (Mani antiche d’olivo).

La trasparenza della sua poesia frequenta sponde e barriere, l’ombra incastonata sul muro, la luna che sussurra versi taglienti, dove memorie antiche curano l’apice oscuro e luminoso dell’arte e la sua veglia essenziale.

L’essenzialità è qui vertiginosa. Non solo per la concrezione elementare di immagini ed elementi come volti e condizioni ma soprattutto per l’epifania del dicibile e la sua solvente trasformazione, la comprensione del mondo e la minuta sacrale di tutti i passaggi.

Come avviene nella sezione degli Haiku, dove il bilanciamento linguistico rinserra la politura della sua espressione. Gli haiku posseggono la vorticosa fragilità di ciò che è primario ma, allo stesso tempo, anche fusione con il reale, con tutte le sue ferite e il concepimento di una domanda di amore: «Onda fragile / su scogli interiori: / spuma di vita» o «Le mie donne / corrono con il vento: / madre e figlia», «Ho abbattuto / l’ippocastano stanco: / piango sul vuoto», «Passa il vento / nevicano petali / mentre cammino».

Nelle Diafonie poi, scrive l’Autore, «si raccoglie tutto ciò che crea un disturbo (positivo o negativo) nell’esistenza: la poesia ed il suo ineffabile spirito; il lavoro o la sua mancanza; le guerre e le sue vittime; i ricordi con la loro malinconia; i viaggi; le amicizie. La vita di ogni giorno sospesa al filo sottile delle esperienze e dell’esasperazione».

Il disegno così tracciato, coperto dall’intonaco poetico e restituito da una restaurata apertura percettiva, proclama brevi dilegui di respiro e nuovi dedali mentali, guerre e pleniluni di sogni che brillano «sulle tegole di carta velina», stazioni ripiegate e solitarie (Stazione ostiense), cesure dimenticate e erranti nella liturgia del vivere: «Circonfuso da pulviscolo di idee / errante a tastoni sul foglio / attendo paziente la fortunata / congiunzione neuronale di un verso / L’irreparabile cesura tra me / e il riflesso errante offerto agli altri / m’inghiotte e mi protegge».

La poesia diviene autentica quando comunica lo stupore e il taglio, collocando gli occhi nel dramma vivente senza censure e, infine, quando recupera ciò che la vita e la realtà rilasciano («Ogni giorno si cede / ai pavimenti al vento / alle lenzuola agli altri / brandelli di noi / Gocce di sudore capelli / frammenti di pelle / saliva sperma / Incuranti degli spiccioli / di vita caduti / nel tombino del tempo» (Vita in spiccioli), o nella pieve lucente, dove il silenzio dei secoli si dilata nelle parole, e le pagine sono incise come scalfitture: «Scarpe si trascinano calcando / pagine incise con lo scalpello / ognuno incede / evitando di leggere tra le scalfitture / l’esistenza calendarizzata / Il silenzio dei secoli dilata nelle parole / La voce dell’anziano poeta torna bambina / e ascolta la solitudine dei versi».

Gli incroci delle vite pendolari raccolti nei dettagli passano nella loro minima presenza, il volo-pensiero «smuove lo sfondo del paesaggio», come se il bozzolo di carta fosse anticipo esploso di volo, il telaio memoriale della polvere di fard come riflesso, lo zoo di cartone e la soglia della memoria che propone il suo bivio dove il tempo «spezza le ali all’anima» ed «è ambra ciò che era resina».

La poesia di Baldassarre non deposita i suoi detriti di viaggio sulla pagina, bensì anima l’accertamento di una presenza di cose e presenze, volti e affermazioni di carezze e di attese, poiché l’attesa «è donna silenzio vita» e ritrova «il vuoto prima / e dopo la parola / caduta».

Frequentare l’attesa significa tendere a un compimento impaziente, proteggere la sosta cara e il traffico dei ricordi affollati, i sogni che sporgono volando, il bagliore della fuga prima del sibilo che squarcia la notte, l’interno del condominio come filigrana onirica.

Ha scritto Giuseppe Panella:

«Come con la poesia, quindi, si è in presenza di una dimensione vitale che fa esistere chi la realizza concretamente in modo tale da assumersi la responsabilità di ciò che vede e di ciò che sente, di ciò che ama e di ciò che assorbe […] Il “telaio” che lavora all’interno dell’animo del poeta produce continuamente voci e suoni e significanti che bisognerà poi trasformare in senso e significato perché la poesia possa emergere e fiorire, luccicando nel primo sole dell’alba e riflettendo sul proprio volto il piacere di vivere».

I suoi retropassaggi, allora, diventano il soggetto di una sceneggiatura temporale proiettata in tutte le dimensioni del vivente e della bellezza che persiste in ogni ruga e in ogni faglia: dai brandelli penitenti di fioca luce diurna, alle soglie di casa «lì dove un segreto sogno / ti attende imprendibile / Non sei / glaciale riflesso del cielo / ma bianco grido di ricordi / che intacca nuvole spesse / che apre varchi e chiude porte», dalla nebbia arresa alle cattedrali di sabbia, dove ricostruire, a ritroso e nell’impossibilità, guglie sommerse, dalla parola scolpita nello sguardo, erosa di lacrime e striature, fino alle sfilacciature sulla sabbia d’acqua marina.

Tutto conclama alla pienezza non tanto (o meglio, non solo ed esclusivamente) concettuale quanto piuttosto vitale. La poesia si dice in un teatro di presenza e di pioggia, dove «l’acqua scava e ti scava / la mia calma è farina / il tuo silenzio lievito / col temporale saremo pane». La pienezza è frutto di una decisione per l’esistenza, tallonare il suo senso è un disegno di figlia:

«Mia figlia disegna pipistrelli colorati / per udire il mondo in altra dimensione / Si scatena in un tripudio di pennarelli / e sul foglio volteggia inseguendo fantasie / Anni di vita le insegneranno che volare / è cosa da poeti è vizio da sognatori / Ma qui stanotte / aleggiano sul foglio pipistrelli arcobaleno» (Pipistrelli arcobaleno).

Il tempo dell’amore diviene l’oblio dicibile, dove rimbalzano le ore e l’agguato della tenera docilità di ogni passaggio, che unisce amore e co-nascenza, rifugio e dono, come egli stesso scrive, «Tornare neonati / con il medesimo / limbico bisogno / di non sentirsi soli» (Nel seno):

«Le pupille di bambina non colgono le scorie crepuscolari / di un’epoca aggettata sul vuoto / Età troppo adulta / Ti nascondi dietro la porta impugnando / tutto il coraggio necessario alla finzione / e – simulando un agguato d’amore – / urli la vita a sorpresa dietro i passi / di genitori indaffarati dai pensieri / L’ingenua bellezza sorride stupita del suo successo / Un soprassalto di dolcezza ti osserva / con gratitudine».

Oppure il retrogusto di assenza ubriaca che rappresenta la quieta presenza e il segno nel destino e la precisa meta di un’attesa ricongiunta sui passi:

«L’ametista prigioniera dell’ombra lunare / meraviglia lo sguardo / riflesso nel mare del tuo sorriso / d’artista / È amaro il sapore color del rame / con cui disegni le parole sul foglio / Solo l’aroma dei baci / distrae il pensiero smarrito nell’arco / ocra disegnato da stelle cadenti / Non ha mai abbandonato i ricordi / che dal passato ti conducono a me / A noi / Probabilmente il vento dell’Appennino / ha mescolato le emozioni / con la sabbia sedimentata nella mente / Ha sapore di vino l’ubriaca tua assenza / e fragore d’acqua sugli scogli / la tua quieta presenza nel mio destino».

La sezione Esogenesi esprime una appartenenza più che una riappropriazione. Il solco degli autori incontrati permette riscritture insolite e percorsi sorgivi di tempo: Hofmo, Saba, Rosselli, Blok, Bukowski o Campana, per citarne alcuni, librano fonemi sospesi e incompresi che permettono di far luce sulla propria esperienza di poeta e di uomo, con gli occhi muti sul mondo, dove lo splendore «della parola impressa / cicatrizza / l’animo ferito dai giorni chiusi» e dove annaspare alla ricerca di unico battito di fulgore.

Baldassarre D., Sinopie smarrite, Lietocolle, Faloppio (Co) 2016, pp. 124, Euro 13.

 Baldassarre D., Sinopie smarrite, Lietocolle, Faloppio (Co) 2016.

Panella G., Malinconia autunnale. Diego Baldassarre, “L’acqua sogna trasparenze”, (https://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2014/06/05/i-libri-degli-altri-n-83-malinconia-autunnale-diego-baldassarre-lacqua-sogna-trasparenze/), 5 giugno 2014.

 

Davide Rondoni e lo stupore di tenebra

di Andrea Galgano 20 novembre 2016

leggi in pdf Davide Rondoni e lo stupore di tenebra

15146860_10211003661477458_50510230_oIl nuovo libro di Davide Rondoni (1964), La natura del bastardo, edito da Mondadori, scompone il frammento in chiarità sperata, mescola la luce buia in una traversata luminosa di «cuore sbranato e cuore niente» che raccoglie polvere e preghiera, domanda elementare e acqua, come ferita e incanto di viaggio sterminato e di fioritura aerea.

Lo sterminato viaggio cerca la profondità e l’esplosione deflagrata dell’essere in tutte le cose:

«rosa notturna che ho esplosa in testa / ferita dell’alba / cuore rovinosa festa / tremano le inferriate la cassetta di bottiglie i baci i mai / più / sterminato viaggio di cosa qui / passaggio dominatore / e tu / non sei più tu / uomo d’aeree fioriture / di rose / cerca la profondità, deflagrazione / dell’essere in tutte le cose».

In Rondoni convivono due anime: quella incontaminata affermazione della presenza dell’essere e la dismisura attonita dei dettagli di ombra e silenzio luminoso, come se ad accompagnare il tempo dell’io ci fossero due schegge di spavento e incanto, sospensione sbagliata e attraversamento d’infinito.

Scrive, infatti, Alessandro Zaccuri:

«Lo spavento e l’incanto rappresentano da sempre i poli più riconoscibili nella poesia di Davide Rondoni. Spavento come consapevolezza del rischio, però, non come rifiuto della realtà. E incanto come apertura alla vita, non come compiacimento di sé. […] In questo canzoniere recalcitrante – nel quale la ripresa a distanza di temi e lemmi ha la stessa funzione delle rime che si ritrovano ad emergere con quieta necessità – le cronache d’amore si mescolano di continuo con le vicende della contemporaneità, tra la provincia italiana e i sommovimenti laggiù in Siria o in qualche altra parte del mondo che d’ora in poi non sarà più lontana».

È l’esito di una chiamata delle cose, la sospensione dell’infinito come «una sbarra che ci traversa», l’imperversamento della Natura, il richiamo bisbigliato delle cose che mescola e imbastardisce, riflette il gemito della bellezza come un sigillo lavorato nelle oscillazioni dell’universo, nel vuoto e nella domanda ultima, aperta nella finitudine:

«Cane, o / bestia o infinito d’un infinito, cosa / sei un dio, un festone / dimenticato / appeso ai rami ai fari in discoteca / viso oscurato che pulsa / un niente / in questa notte l’universo / oscilla, in questa notte / l’universo esce a bere / cerca energia / in un altro big-bang, in un altro quartiere? / dopo festa / dopotutto ipermercato vuoto / come se avessero telefonato: ragazzi / l’alluvione, prendete / ogni cosa che potete – / o deserti scaffali della testa / vetro che perde / la scritta nel fiato / ti chiamano energia oscura del creato / mormorare di colpo: tutto amato tutto andato? –».

La natura bastarda ha la cifra dell’assoluto come segno, meta colta nel soffio del vivente e nella beatitudine estrema di ciò che compie, nell’aria persa dei «sedili di un’auto abbandonati sul pendio / schienale sudicio davanti al cielo, / la città strana scena, follie / e oblio / vedi l’alba? la notte come grande nave ci abbandona / ritira l’àncora di stelle, la sua catena / tra le costole mi suona…».

La poesia non celebra il reale, si intesse con la sua trama segreta e oscura e con la concrezione delle immagini, i lampi e i detriti, che sono nulla senza desiderio senza fine, senza il grido dell’alba, senza la luce folle della gloria: la prima occhiata aperta nell’aria allarmata, i ventagli infiniti e la resa delle stelle:

«Se non hai nella fessura da cui ti entra il porco mondo negli occhi almeno la piccola luce febbrile di un desiderio senza dine, e non guardi mai come grida l’alba anche su luride vetrate, non perdere tempo, non è questa roba intrattenimento – qui come in un sacco di poesie si dicono al vento cose dure e fantastiche, del tipo: / nessun albero / crea la luce folle della sua gloria, / dopo la notte di blu lampi e detriti / la prima occhiata aperta nell’aria allarmata / trova il perdono del rosa, i ventagli infiniti – / tira fuori una birra, il sorriso più antico che hai, ha forse fine il mistero del mondo? L’ultima stella a cosa si arrende quando l’alba dal giorno è divorata dolcemente? sei forse tu chi accende i primi neon nelle fabbriche gli occhi di tuo figlio, i fari dei treni sui binari ghiacciati? / nessun battito d’ala o di cuore / crea il luogo e il tempo / dove si arrischia e distende».

La fame dell’essenziale, la fame bastarda, il mormorare della natura e del destino è un’uscita verso il cielo tra le rovine di Roma e la linea A della metropolitana. L’amore, no, non è mai giusto, non penetra soltanto nelle fibre, compie uno scarto, una chiamata, una promessa che profuma di dismisure e verticale desiderio.

È viaggio, avventura, forza di abisso, non già per lo sconvolgimento quanto piuttosto per il suo sproposito di grido e fiamma che muove, perché fa nascere cose protese che non finiscono qui, come arde un velo oltre la giustizia e la giustezza:

«L’amore non è giusto / il ventaglio duro / splendido dei rami / si apre contro / il viola azzurro / mattini, sere / l’amore è un albero ma il fusto / s’inabissa, deve sparire / per nutrire / lo slanciato assenso che dà all’aria / e lei in un felice incendio lo incorona – / l’amore è un ragazzo che quando gli parli / fa un altro discorso / occhi lupo bianco, nubi / fa nascere cose che non finiscono qui / ma fuori dalla giustizia, in terra e in cielo / – e brucia sempre nell’aria il suo grido, / come arde un velo».

Il nascondimento, la sospensione delle cose, le esistenze delicate sono affermate dall’io che le guarda. La realtà (il suo sperdimento spaesato e la sua fioritura indocile) esprime la sua lontananza infinita di troni d’aria e inseguimenti.

Esiste una leggerezza indomita di tracce dimenticate e recuperate come collisioni dorate e immensità di universo. La muta sventura è un pianto salvato.

Il cuore decifra e insegue, nasconde le cicatrici dove «i mari invernali della mia mente cercano ancora / le tue dita d’aurora – anche dal vetro opaco / mi hai toccato le labbra – / ti cerco sempre nuova / vita, / impestato di te, gioia senza possibile cura».

Ma è ancora l’amore a opporsi alla fine, alla morte, al limite, a ciò che basta:

«bastami non bastarmi amore / fai giorno insinuando il tuo sguardo / sotto le palpebre / cucite / imbastardisci me / di te / nelle vie dove allunga le dita l’aurora, nei bar / dopo la chiusura / il tempo dell’ultimo attacco / sta venendo / in un’alba come sempre quando / la prima luce alla tenebra s’afferra / e da ogni parte si svuotano / parcheggi, muovono eserciti, stormi / s’alzano da terra e / iniziano a mormorare le maree — / toccami la mano, danzatore ferito / ritmo che mi batti / spezzato, infinito».

Il mormorare della realtà non è solo il dettaglio attraversato e trascritto che ricorre in tutte le sue sfumature, bensì è sospeso attraversamento (lei guarda la scrittura dei rampicanti), epifania guerriera e improvvisa come presentimento e sospiro sulle labbra.

Tutta la bellezza che compone il teatro della scena del mondo è fatto di segni e attraversamenti, stupori e transiti che incendiano l’orlo dei cieli e le luci notturne, grido delle stelle a miriadi e bagliori lontani, e ogni lemma dice ciò che accade, lo frastaglia, lo dispiega in tanti volti, varchi e passaggi che avvisano lo splendore:

«L’isola da lontano lanciava ancora bagliori, feriva / gli occhi, forse segnali millenari, sogni, / fiori bianchi a miriadi di notte sulle scogliere… / Palermo, sono dolci le sere / a camminare sperduti / dopo aver lavorato, sfiniti / e la mente non sa più che pensare / vuole solo sentire lui / il respiro del mare… / E tu che gesticoli al telefono e vai / ti discosti e mi lanci un’occhiata / ragazza maghrebina, / dolce, ferita, innamorata – / e mi ricorda ama, senza disperare / ama con dolore, / bastardo trovatore, ama / per non meno di questo avviso di splendore».

L’attraversamento del mondo strepita, allora, negli istanti, e nella strana gioia nel petto, come un appuntamento o una presenza, e persino la tentazione del vuoto. Ma nel termine più oscuro rifulge qualcosa di inaspettato che visita e promette.

L’unica forza smisurata è un gesto che riscopre il battito del mondo, nessun riparo nell’aria che risale. E poi ancora sconfinamenti, latrati perduti e l’ombra del grande strano splendore («Venne il bacio, uno solo e leggero sul fiume – / niente lo avrebbe motivato mai / nessun circuito o apprendimento neurale / solo quel grande strano splendore – / Poi tu o la tua ombra m’ha fissato serissima: / dimmi se lo sai, macchine non siamo, dimmi / non lo saremo mai, vero?»), in un Volto che si fa carne e ama da morire: «il Verbo, sorride, viene dal profondo / del cielo e della natura, stupisce i vivai di comete, le piogge bianche del sole / e si fa carne, ama da morire, ha un volto / un volto… imbastardisce pure lui…».

Nella poesia di Rondoni avviene sempre qualcosa di inatteso e di desiderato. L’amore delle mani giunte che ripercorre le linee fiato di Beatrice, il così sia senza fine e l’intuarsi come segno dell’impossibile. Farsi tu, essere tu come impazzito d’amore e la carezza dell’immiarsi, mondo risorto e suo segreto: «[…] – solo un impazzito / d’amore poteva senza potere più nulla, più nulla / inventare queste parole / Io mi intuo come tu ti immii / nella commedia umana e celeste / farla precipitare per le scale del suo dolore / qui tra i denti e i compostissimi furenti / baci, le tende rotte alle finestre / darti questa carezza è il segreto del mondo? / immiati, m’intuo e / spegni la luce che vediamo nella notte / sorgere la città».

La bellezza non è mai relegata in uno squarcio di affezione: è primaria, primordiale, solleva le trame del tempo, lo imbroglia, ne ferma il giogo. È il rifugio della casa sui crinali alla apertura degli occhi come un sussurro dinanzi alla tempesta, una domanda solo di amore alla musica sospesa del mondo: «L’alba sui crinali / dopo la pioggia / è indecisa / aperture del cielo / e tristezze dell’aria quasi color di perla – / un essere vola via dalla staccionata / percorro la strada deserta / odore fresco di gasolio e terra bagnata / da giorni / cerbiatti color cenere mi fissano dai campi / il verde nella foschia si prepara a splendere – / che occhi inquieti contemplare / per dire grazie serrando la giubba del vento / la musica ancora segreta del mondo».

In questo lunghissimo e profondo itinerario i figli rappresentano la domanda di un mosaico senza fine che chiede a Dio di tenerli: Clemente, il più piccolo «attaccato alle spalle» («non avrò ricchezze da lasciarti / ragazzino che porterai il mio nome e quello / di mio padre, ma quando / c’è una curva da fare e non sai / cosa ti può aspettare / prepara gli occhi, prepara il cuore»), Carlotta («Finché si gonfierà il sole, figlia mia, / il cielo riprenderà fiato / si gonfierà, sì, esploderà il sole / in un silenzio smisurato / l’attimo finale dell’universo guardato da niente, nessuno / o saremo tutti presenti – mi dirai: “babbo…” – / ci cercheremo la mano / tutti lì in un attimo felice, perso?»).

Oppure come il canto irrotto per la madre, stremato e immenso fondo:

«Quanto sono stato lontano da te / come se dovessi consumare con tutte le forze l’amore / che mi hai dato / e in tutti i viaggi / e baci e parole cercare stremato il fondo / di quel che mi hai donato / Non c’è posto del mondo, non c’è delirio / che non abbia il tuo sorriso, il tuo martirio, / ma non hai reso dominio la tua femminile vastità / Sei divenuta il silenzio alto della valle / mia madre, albero fiorito alle mie spalle».

La comunione delle parole è un profilo di grazia. Nella rastremata durezza veggente della guerra imminente, in un rosario-gesto impotente e glorioso, nel respiro farfalla tra le labbra che mette in fuga gli stormi della paura, il mare diventa impronta notturna di buio che consegna l’umano alla sua stupefatta mortalità, lungo la danza violenta delle stelle:

«Parla al buio il mare / riflessi d’oro, fanali sospesi / parla al buio il mare / parla al buio / riflessi / fanali, / l’oro dell’inverno, noi così stupidi / magnificamente mortali / all’uscita dall’hotel / l’ho sentito dalle rive gridare / cupa e azzurra forza, così solo / oltre la statale, sotto la non luna / le stelle rotte / le sue immense non parole / che sanno tutto, / come nasce l’onda / e si inabissa l’amore».

O come in una consegna gonfia della vastità, la vita si ascolta nel suo segreto esploso e ineffabile che rinasce inerme e senza ritorno:

«Non ridarmi più indietro / quel che mi hai rubato, la luce ultima, / la quiete, via / l’albero esploso della mente / non ridarmi più quel che mi hai / strappato / non ridarmi indietro niente, meglio / finire in te che morire me / in me solo / tieniti tutto, dimenticami – / perdimi / dentro di te, completamente».

La vera destinazione dell’umano si compie solo amando, è una fretta di assedio, è una lotta con l’indicibile nudo: uno strappo, un luogo fisico e ubriaco che non finisce mai, assetato di senso, ebbro di nodi, che si annida nelle nostre traversate, nella nostra esperienza, nel nostro giudizio come cammino di verità. Strappato in tutta la sua forza di abbandono, in tutto il suo fiato di movimento e danza, nella essenzialità tesa e astrale di un abisso che trema e ama «la prima eternità / chiamata lontananza» come vita salvata:

«Possiamo soltanto amare /  il resto non conta, non / funziona, / al mattino appaiono /  la tazza, il vecchio pino, le zolle umide, fumo / dell’alito mentre apri l’auto / nel gelo. Potevano non apparire, non arrivare / più qui, alla riva degli occhi. E l’estate / c’era, c’è, nella calda bruna memoria / dei rami tagliati, / i visi diventano ricordi / le voci gridate stracci silenziosi, i denti conoscono il sapore / del niente e l’oblio che ha portici / e portici infiniti. Possiamo soltanto amare / strappandoci felicemente figli dalla carne / parlando d’amore continuamente / ubriachi feriti, vili / ma con gli occhi lucenti come laser / di fiori splendidi e il canarino nel palmo della mano. / Mormorare come dare baci nell’aria. / Il rametto profumato non si raddrizza / con i colpi della nostra ira, lo sguardo /  di tuo figlio non perde il velo di tristezza / se glielo togli mille volte / dal viso…
Possiamo soltanto amare / fino all’ultimo nascosto spasmo /  che nessuno vede / e diviene quella specie di sorriso / che si ha nell’abbraccio finalmente / di morire come scendendo nell’acqua.
Le stelle a miriadi saranno testimoni, e i venti /  passati una volta accanto /  sulla gioia profonda delle ossa /  diranno: era fatto di allegria, amava, /  oppure diranno niente e poi niente / per sempre. Possiamo soltanto amare, / il resto è il teatro amaro dell’impotenza sotto il sole giaguaro».

Ogni lontananza, in Rondoni, è prossimità. La luminosità delle figure oblique si accompagna alle soglie del bello imperioso e indifeso del mondo, all’ultima parola che si consegna, all’ultimo respiro che recide il nome dal niente traversando le nascite.

Non c’è incertezza di altrove, esiste l’altrove richiamato e ferito ma rilucente in tutta la sua pienezza mai rassegnata, in tutta la sua nudità crepitante. I luoghi della poesia sono dettagli eterni di un dispendio perpetuo che schiude la verbalità ultima e oscura allo stupore “bandito” e all’amore. È il suo sì, l’estremo e stellare sigillo con le lacrime sulle ciglia: «l’ultima parola / baciando in bocca la tenebra sarà: / meraviglia».

14875085_10210821974415395_2051045130_nRondoni D., La natura del bastardo, Mondadori, Milano 2016, pp. 144, Euro 18.

 

 

Rondoni D., La natura del bastardo, Mondadori, Milano 2016.

Zaccuri A., Rondoni dà voce alla contaminazione che salva, “Avvenire”, 11 novembre 2016.

L’Aprile di Francesca Serragnoli

di Andrea Galgano 3 ottobre 2016

leggi in pdf  L’APRILE DI FRANCESCA SERRAGNOLI

sul sito di Lietocolle editore: Andrea Galgano su Francesca Serragnoli

1014458_10201533419246323_856356504_nLa nuova silloge di Francesca Serragnoli (1972), tra le più importanti poetesse italiane, Aprile di là, edita da Lietocolle, nella preziosa collana curata da Gian Mario Villalta, apre la conoscenza del tempo in una accensione vitale e scoperta. È incontro, tessuto, vita che scorre, dolore che apre le vene, grazia che incombe, terrena partecipazione alla realtà ma anche librata trascendenza di forma.

Nel ricordo di Marina Sangiorgi, ora in braccia più salde di quelle terrene e ricordata nell’eterna linea leopardiana («amava l’aria dolce, la vanità del volare / e nidi piccoli, letti lunghi stretti / Bisogna ridere al barelliere che ti porta in fondo? / salutare con la mano / guardate solo il volto / il mondo è un attimo»), la poesia si raffronta al dolore, della mancanza e del cielo-fiato quando fiorisce un tremito e avviene l’inizio di un ricamo infinito:

«Spegneva Dio con due dita / il lumicino brevissimo. / La morte diventava arietta, / corsa di fiato / alito di vento sul volto / immobile della statua / inclinata sul fondale / che sente le braccia sgretolarsi / il muschio in bocca / sul capo ammucchiarsi le foglie. / Ti rivedrò un giorno? / Ti poseranno vicino / ricorderai d’avermi conosciuto / sull’orlo dell’acqua / fiorisce un tremito / l’inizio di un ricamo infinito. / L’eterno dondolare delle madri / muove le onde».

Il suo gesto poetico possiede sempre una profonda imprendibilità, ma è l’abissale profondità di chi smuove il fondale e l’abisso per rinascere sempre ad ogni istante, per proclamare la ricerca di una vita nella vita, per lasciare al sangue il clamore di un’occhiata, «i grani sciolti di un amore» e «il bianco lino nel volto trasparente / commuoverà solo il vento».

È sempre una forza nuda la dolenza della nostra sacralità, l’altare di pietra fredda dove sanguinano le ginocchia e il dolore sgretola ogni risata in un pugno di terra: «Questo dolore sgretola / ogni risata in un pugno di terra / la neve diventa gelo, trasparenza odiosa / gli abbracci sembravano radici d’uva / cadono come fili legati a un tronco morto / e quel pianto che ci lega le mani / schiena contro schiena / non è un’aquila crudele / che ha nidificato nei nostri sguardi».

Anche nel barlume buio, nella sfioritura non frenata, negli «istanti pietrificati» che «hanno in cima corone di neve» e dove tutto sembra sventrato, arriva un varco, una crepa, un buco in cui risplende la felice tessitura dell’essere: «Dentro questo vietnam girato a spalla / lascio all’abatjour indicare / un fioco pallore di luna / attendere bambina piegata sul prato / i grilli uscire dal buco del cuore».

Le altissime manifestazioni della realtà (il sorriso che ti morde le gambe, il tempo che è un cane perfetto, la primavera tagliata da ottobre «come il contadino il fieno») toccano il tempo della ferita, colorata e fiorita come una partenza: «lì c’è tua madre le avrei detto / scuce e ricuce la tua partenza / come un ferita colorata / ha messo del late / dentro un vecchio bicchiere / appoggiato alla finestra / la vedi agitare le mani / come facesse trecce alla pioggia». È in essa, nel limite buio arroccato che attraversa gli scuri che avvampa l’ultimo frammento di luce ridestata: «Laggiù la ferita è un fiore / le pareti fra noi cadono come petali / distratti da una manata di vento / il volto di cartone si piega come un vecchio amore / e ricomincia a stringere con i pugni l’aria».

Il suo posto delle fragole non è solo la sospensione ma anche il «lasciarsi leccare / un attimo dal mondo», nel viaggio breve contro il cielo, nella tersità della risata dove vivere, fino alla precisione blu dello splendore, alla faglia fra la madre e il buio, quando il canto profumato dell’aria è stretta negli anni. Essi sono brevi distanze, murati vivi, rimangono attorno alla prima casa e non sanno separarsi, sdraiati nella brezza dove il dolore, antico e colato, rimane «con granelle di cibo» per essere «un asilo / l’altalena dove spingersi nell’aria del petto / era mio, svolazzava, faceva i segni del vento / mi passava fra le mani come un anello».

Non è solo la poesia degli attimi aperti, ricuciti, sfibrati o liberati dalla letizia di una dismisura dell’anima a condensare le sue linee, è l’ora che non pesa, l’ora felice dove i cieli sono bellissimi e l’appartenenza è al fuoco che non muore, unico e peculiare:

«Nei giorni c’erano cieli bellissimi / tutti col piede appoggiato al muretto / varcavano confini, volavano schiaffi / uno sputo alla pioggia / l’esser soli di baci ne riceve tanti / ci vuole quella stranezza che girava / fra i tavoli di una discoteca / quel venire dentro le maniche / che solo il freddo conosce il brivido / ci vuole un cielo solo tuo / un cielo peso sulla spalla / con i suoi cementi, le pozze piccole / quel tramonto di gamba / grossa che gira con la palla intorno al sole / ci vuole quel briciolo di fuoco tuo / che chiede solo di cadere / come una cantilena nell’oscurità / e le calze il vento le lascia / per qualche minuto / dondolare vuote».

Pertanto, il suo allarme originario è primordiale, riflette il declino e la letizia emergente delle immagini, come «una gioia che gioca l’asso / fra me e l’universo», la fronte sudata della terra o il cielo travolto dall’addio.

Forse declino meraviglioso, forse specchio argentato o forse ancora felicità limata nel petto che custodisce i semi dell’eterno («osservavo il blu / lasciavo morire il movimento / e quelle luci i bottoni / aperti nel petto oscuro / toccavo quei muri / come un volto d’uomo / dalla rapida luce che si sdraia / nella notte, adesso. / E nessuno spegnerà il declino meraviglioso»):

«Le tue notti sdraiate nei deserti / sono occhi grandi, neri, caldi / hai mani che cercano nel vento / il ventre di una donna, / con il dito sollevi l’aria / per vedere la fronte sudata della terra / capelli lunghi come la notte appena trascorsa / un soffio muove la barca / fra l’imbrunire e il volto d’acqua / l’avvenire dondola nel blu / vibra una figura che scende / laggiù e non si volta / nemmeno per morire. / Non sai più dove la notte / vende ai fari i suoi specchi argentati. / L’acqua riflette un cielo travolto dall’addio».

L’alfabeto di Francesca Serragnoli, allora, è un tempio che custodisce l’alacre bellezza delle notti in piena con le sue ore brevi e la sua mezzanotte oltre il tavolo, cadenza l’infuocato ritmo e il respiro che «è una bandiera / bianca davanti a Dio», il silenzio del voler essere felici, il mezzogiorno delle tapparelle mentre si spinge fino alla sera delle stelle che «a testa bassa fanno la maglia», intrecciando il vivere e il morire, e nell’onda d’acqua «il gioco delle tue labbra spostava / la luna e la polvere / chiamavano l’onda per nome / chiamavamo quell’acqua, quel foulard / volevamo toccare la domenica, quel costato / come ragni del Signore, iniziare lì».

Nulla rimane fuori da questa pienezza di finitudine protesa, nulla che dopo l’eterno sfogliare dei giorni non cerchi il ricordo custodito, gli addii pestati, gli specchi del mare oltre l’aria inginocchiata e fedele, e gli anelli rovesciati come fiato:

«Non riuscivo a dire nulla d’immortale / accarezzavo moltissimi dei tuoi nomi / ero quella sulla scala mobile / che incrociavi senza morire. / Non te lo so spiegare, dicevi / ma la rosa è meglio di te / è rossa, e quel rosso tu non ce l’hai. / Hai la fuga e il piede nella pietra / non hai nemmeno l’azzurro fra punta e punta. / È come se avessi gettato / gli anelli in mare, / rovesciato il fiato come cenere».

La vita che si svolge promana e promette il suo canto disteso di dettagli dove il cuore prende fuoco nel grido agli angeli, e l’amore è promesso e lasciato, incrociato e disegnato, felice nell’aria scelta dove l’anima scivola la notte, nei codici segreti delle vendemmie: «Hai il cuore cadente dal petto / non lo sai tenere, spinge / conosco il movimento / la confusione delle due / i pulsanti, i codici segreti / il tuo cuore ha risate e sassi / sputa, non è dipinto / l’aria dolce ti cerchia il viso / come un nastro. / Stacco cose dal tuo esistere / è una vendemmia, eppure / c’è un che di aspro, di sbiadito, di invenduto / la notte, furiosa statua / cerca con le braccia di afferrarlo».

Ci sono emblemi tersi e violentissimi che muovono le sue figure nell’aria selvaggia, il canto e la domanda al cielo che è punto di fuga e di conquista, senza travestimenti. Poesia nuda che chiede nudità alle cose, le mendica, le curva pronunciandole e, infine, fa fiorire le parole in segreto dove qualcosa rimane nella polvere e non muore mai, come un nido, un incontro o un ricovero di pronunciamenti per «sentire il sole sulla testa / un cavallo che pesta l’erba / dove i pensieri miei e suoi / si annusano come animali»:

«Percorre un ripido scendere / degli occhi nel basso lei / che ha avuto voli in giovinezza / stretti in mani morte / curva sui suoi anni avverte / nello stare insieme qui / gioielli d’harem e risale / vedo nell’asfalto riflessa / paura di gioire / ma l’ossatura precisa, cadente / non morirà in quei fanali / non finirà la vita / fiorisce in lei la parola dolce / mai pronunciata, di un possibile amore».

Altra vita nella vita, voglia di vivere come musica che divide in due la riga fra i capelli e porta via, fino allo splendido sacrificio di un frantumato amore di grano e impasto di luce e terra, corpi e aria, come lo sfarzo ripido dove scivolano baci e carezze e dove «il duro grigio occhio interrato / cerca nella radura in fondo una margherita / su di lei appoggia la testa / e sogna il fresco domani»: «Mi porti là dove non sono mai stata / i piedi piatti sopra il ruvido della luna / come vecchie parrucchiere alla ricerca / di teste dove mettere i canditi. / Oh gioia che rifai con me il giro intorno al vicolo / mi porti come un cane / lasciami diventare / quel frantumato amore del grano che si lascia morire».

E allora l’incerta gloria di un giorno d’aprile, nei testi nati fra il Policlinico Sant’Orsola Malpighi di Bologna e l’Ospedale di Imola, si avverte tutta la bellezza e la povertà lucente dell’essere vivi, tutto l’abbandono, la grazia dell’eternità figlia dei matti e il posto delle fragole.

Questi ritratti affermano, si posano nel mosaico senza fine di un tempo infinito, dilatato e sofferto, dove ogni crepa dell’essere, ogni limite sono occhiate splendenti al di là dell’orizzonte dell’esistenza delle parole necessarie: ­­­­«Gabriella! alza quel nero vivo uccello notturno / che raspa fra le mani strette, alzalo / che riposi fra le tempie della notte / mentre ti guardo con il volto di vetro soffiato / e le stesse vecchie dure lacrime / sono i miei occhi azzurri».

Come la povere frantumata del futuro immobile che «una donna col carrello tira via dagli angoli / pietra di pianeta, eternità morta / un buco nero sembra dal nero nuovo, / pestato con orme di ciabatta / dove la roccia è girata e rida al cielo / e il pianto ha mille piedi / che vanno e vengono dalla sua ombra», poi Rita appesa a un chiodo d’aria e i suoi occhi divorati dalla luce come una farfalla notturna, la siepe oltre il buio dell’Ingresso Nuove Patologie che attraversa l’immensità e tocca la fine, il tramonto ritornato in viso del reparto geriatria Lunardelli. Un accenno e un sigillo encore: «Ho incontrato due soldati al ventiquattro / quelli partiti per la guerra / i baffetti appena accennati / li ho visti ora che il confine è un altro / le bandiere sono alte immobili bellissime / discutevamo, ma uno è uno / uno è sempre lui, quello che era / non importano gli anni / e non hai il coraggio di dire / tu devi morire, manca poco / ti spareranno dalle piccole e frantumate isole / metteranno i sigilli, chiuderanno la porta / ricorderanno che avevi vissuto / non ce la fai a non guardare tutto come eterno».

Serragnoli F., Aprile di là, Lietocolle, Faloppio (Co) 2016, Euro 13.

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Serragnoli F., Aprile di là, Lietocolle, Faloppio (Co) 2016.

L’ultima riva di Michel Houellebecq

di Andrea Galgano 1 settembre 2016

leggi in pdf L’ULTIMA RIVA DI MICHEL HOUELLEBECQ (2)

HouellebecqIl territorio di Michel Houellbecq (1956) scopre l’intima e sorgiva coltre della sopravvivenza, dell’urlo lacerato e della sofferenza dispiegata.

La vita è rara. Tutte le poesie[1] (2016) edito da Bompiani, che raccoglie l’intero corpus poetico, staglia e inizia con un “metodo”, già caro a Orazio e Rainer Maria Rilke, immaginando, come avviene nella prima opera Restare vivi (1991), che

l’esperienza accumulata possa in qualche modo essere utile a un principiante, permettendogli di trovare la sua strada, mostrandogli gli errori più comuni e l’atteggiamento mentale necessario a migliorarci. Come i lettori dei romanzi e dei saggi di Houellebecq potranno facilmente immaginare, nel suo «metodo» c’è ben poco di incoraggiante, e spesso, leggendo queste pagine nitide e angoscianti, siamo costretti a domandarci se quelle che abbiamo di fronte sono davvero delle istruzioni poetiche rivolte a un ipotetico novizio, oppure il cupo bilancio di una battaglia personale contro il mondo e contro la vita, battaglia che ovviamente è persa ancora prima di iniziare[2].

La strada della poesia vive di questo territorio di sofferenza dispiegata, appunto, che riconosce l’interstizio umbratile del nulla nell’essere, la sua prominenza scura, la peculiare vibrazione del dolore cieco come un nodo che si estende fino all’assenza che si cerca per la memoria, «e consapevoli del fatto che ogni passo in direzione della verità è anche un ulteriore approfondirsi della distanza tra sé e gli altri, una conferma della propria solitudine[3]».

Restare vivi è condensare la sopravvivenza solitaria della scrittura, per lavorare sul grido articolato dell’incarico della poesia, e il poeta, come un sacro scarabeo,  entra nel suo teatro debordante e fallimentare, ma è un docile fallimento che non ha paura della felicità perché non esiste e che cerca, indissolubilmente, l’eternità:

Il mondo è una sofferenza dispiegata. Alla sua origine, c’è un nodo di sofferenza. Ogni esistenza è un’espansione e uno schiacciamento. Tutte le cose soffrono, finchè esistono. Il nulla vibra di dolore, fino a giungere all’essere: in un abietto parossismo. Gli esseri si diversificano e diventano più complessi, senza perdere nulla della loro natura originaria. A partire da un certo livello di coscienza, si produce l’urlo. Ne deriva la poesia. E anche il linguaggio articolato. (Dapprima, la sofferenza).

Con Il senso della lotta (1996), la percezione del reale di Houellebecq «lo conduce a una specie di darwinismo di secondo grado, nel quale l’ambiente naturale ha ceduto il passo a un reticolo di scambi sociali nel quale, paradossalmente, proprio chi è più consapevole è più incapace di adattamento[4]»: «Ci sono state notti in cui avevamo perso anche il senso della lotta / tremavamo di paura, soli nella pianura immensa, / Avevamo male alle braccia / Ci sono state notti incerte e molto dense».

Esiste sempre una sorta di stanca trasparenza pervasa dalla sofferenza, come se ci fosse un lividore che intesse la superficie invisibile che delimita l’aria, le parti separabili e separate del corpo, il pomeriggio abbozzato dal dolore, l’attesa dell’avvenire non ancora venuto:

Fuori fa molto caldo e il cielo è splendido, / La vita fa volteggiare i corpi giovanili / Che la natura chiama alle feste primaverili / Lei è solo, ossessionato dall’immagine del vuoto, / E sente pesare la sua carne solitaria / E non crede più alla vita sulla Terra / Il suo cuore stanco palpita con difficoltà / Per rimandare il sangue alle sue membra troppo pesanti, / Ha dimenticato come si fa l’amore, / La notte cade su di lei come una condanna a morte (Pomeriggio).

 

Ma la piaga di Houellebecq ha un contrabbando inquieto, l’incrocio senza amore corroso, l’immensità della notte che sfiora gli oggetti esitando, mentre a servizio del sangue si muove l’oscurità. Forse un ricordo di camera di giornate superflue, forse uno splendore azzurro che chiede dolcezza o fine, che sospende l’ultimo giorno precoce di un amore intero da vivere: «E per guardarci ore intere; / Tu spogliavi il tuo corpo davanti al lavabo / Il tuo viso si contraeva ma il tuo corpo restava bello / Mi dicevi: “Guardami. Sono intera, / Le mie braccia sono unite al mio busto, e la morte / Non colpirà i miei occhi come quelli di mio fratello, / Mi hai fatto scoprire tu il senso della preghiera, / Guardami, guarda, Posa i tuoi occhi sul mio corpo”» (Eccezione Rue d’Avron).

L’essenza della realtà e la sua similarità con l’essere lottano, impari, con l’alba livida delle ripetizioni identiche, con il futuro, divenuto anteriore, delle promesse, con la quotidianità divorata da un senso acre di ansia e precarietà che però cerca di trascendere nell’infinità preziosa e nel mistero, purtroppo irrisolto.

L’eternità inseguita allora è un urlo, un magma, un tono di attacco «che possa straziare il silenzio della notte», che possa spogliare  l’interludio di un breve silenzio dalla propria prigione, dalla propria inconsistenza, dal proprio sogno fragile e dall’ultima angolatura della scala, come la vita che si disegna sulle reti urbane o come la presenza nuda del mondo:

 

Muoiono talvolta d’un sol colpo, / Certe sere / C’erano abitudini che facevano la vita ed ecco che non / c’è più niente / Il cielo che sembrava sopportabile diventa d’un sol colpo / profondamente nero / Il dolore che sembrava accettabile diventa d’un sol colpo / lancinante / Non ci sono che oggetti, oggetti fra i quali si è se stessi / immobilizzati nell’attesa, / Cosa fra le cose, / Cosa più fragile delle cose / Gran povera cosa / Che aspetta sempre l’amore / L’amore, o la metamorfosi.

 

Ma la rincorsa dell’amore all’amore è un quasi-oblio vinto, un desiderio altro di vita, la fine prima dell’inizio, la sopravvivenza delle partenze, la divorato silenzio delle domande inconcluse come chiarore inevaso, il corpo dolente come testimonianza dei crepuscoli anneriti, la confusione della dolcezza lontana e l’anima che cerca il sole nel grigiore livido: «La sera si stabilizza e l’acqua è immobile; / Spirito di eternità, vieni a posarti sullo stagno. / Non ho più niente da perdere, sono solo e tuttavia / La fine del giorno mi ferisce di una ferita sottile».

Contiene una strana ferocia La ricerca della felicità. Ferocia che si dipana per tutta la durata di questo paesaggio interiore, attraverso il margine delle ragnatele urbane, dei luoghi svuotati di ipermercati e posteggi, dove le relazioni sembrano quasi una sorta di soglia di passaggio non riconciliata dove le particelle elementari sono lo sfondo di un’epica lacerata e confusa. Una domanda e una costatazione di amore tremende, una lontananza esclusa: «Perché non possiamo mai / mai / essere amati?».

È come scendere in un gorgo di catastrofe e caos, dove il remoto smarrimento dell’uomo, cavia e pedina, cerca la sua tessitura di speranza e sogno, di esistenza e lucidità di decifrazione.

Non esiste un punto di appoggio, nella notte lucida e attenta, l’orizzonte resta fluido negli orizzonti sgranati ma resta la dissolvenza del desiderio, stanato dall’oblio, irraggiungibile: «Mi disprezzavo tanto che volevo morire, / o vivere momenti forti ed eccezionali; / oggi mi sforzo di non soffrire troppo, / mi avvicino alla fine. Raggiungo il reale».

È la modulazione del tempo ispessito dal mancato contatto con la realtà interrotto, dal freddo di ciò che risulta estraneo, dal tempo ontologico in cui ritrovare la gioia, dalla linea retta delle tracce sicure di ciò che è raro:

I piccoli oggetti puliti / traducono uno stato di non essere. / In cucina, con il cuore stritolato, / aspetto che tu voglia ricomparire. / Compagna accovacciata nel letto, / più cattiva parte di me stesso / passiamo brutte notti, / mi fai paura. Eppure ti amo. / Un sabato pomeriggio, / solo nel rumore del boulevard. / Parlo da solo. Che cosa dico? / La vita è rara, la vita è rara.

 

Scrive Laura Fusco su “L’Indice”:

La realtà è la solita, “gabbia laboratorio”, e l’individuo, un po’ alla Truman Show, molto cavia e «pedina». Lo sfondo grosso modo quello di Le particelle elementari: metropoli globali, immense «ragnatele» e soprattutto quei luoghi non luoghi come ipermercati e posteggi, scenari di una socialità negata, in cui si consuma l’angoscia di riti collettivi svuotati. Insomma Houellebecq, la sua rivisitazione «epica» del reale, con angeli che volano nella stanza, microbi, metallo, edifici vuoti che rimandano l’eco dei passi, quella sorta di gigantismo, horror vacui e senso di disperante catastrofe che è il mondo. Anche se «non abbiate paura, il peggio è passato, siete già morti». Tutto in modo più “caotico” del solito, come in un “pastiche” postmoderno. O, se si pensa ai suoi ricoveri in clinica psichiatrica, in certi deliri o negli incubi, in cui è la tessitura da cui non si riesce a uscire la sostanza e il pauroso del sogno. Houellebecq è lucido e consapevole, «secondo i medici sono il colpevole»[5].

La studiosa, analizzando l’inseguimento di Houellebecq della matrice dettagliata del reale, continua ancora:

Più che il contenuto del pensiero, scomodo, provocatorio e senza freni, è il flusso la cifra, qui più che nei romanzi. Anche perché nel libro, diviso in sezioni, come critico, saggista e poeta l’autore riesce a scavare e tessere associazioni, scarti, accumuli ed escheriane variazioni sul tema, spostando piani e cambiando linguaggi e prospettiva. «Il luogo magico in cui la parola è canto non esiste» – come la felicità – «ma noi camminiamo verso di esso[6].

Il punto iniziale del suo frattale diviene, allora, una meta irriproducibile in questa vita, come il grido rapido e brevissimo della sofferenza, del dolore, del limite creaturale del corpo battuto e mescolato alla terra come bestia impura, dell’amore sospeso e spento, della malattia e della paura della morte: «Fra cinque ore al massimo il cielo sarà tutto buio; / aspetterò il mattino schiacciando mosche. / Le tenebre palpitano come piccole bocche; / poi torna il mattino, secco e bianco, senza speranza».

Il limite di Houellebecq è l’adesione a una territorialità franta, alla parola quasi bianca degli ospedali, come il gemito della prima sigaretta, come la fame, sempre la stessa, della fase estrema dell’io che

 

parla per e a nome dei poeti e dell’umanità, esorta con furia calma, in una sorta di allucinata ebbrezza, indica una via che è contraddizione, «aderite e tradite subito». L’autore è solo «di fronte all’ininterrotta presenza di sé»: «nulla interrompe mai il sogno solitario che mi fa da vita». E ripropone all’infinito i dettagli di quella realtà frattale e matrigna che è il filtro della mente, specchio che lo chiude in una “non libertà” di sperimentare. Lui capovolge: «il mondo è sofferenza perché libero[7].

 

Questa deriva di incontri e incroci, ore trascorse, insinuazioni bruciate nel silenzio delle cose, incrinature silenziose e profonde, latitudini ricercate, chiede il riposo delle erbe impassibili, del ricordo che nulla cancella, come un tentativo morente di resistere, di essere divenire e tempo presente alla ricerca di una felicità pura e di una via d’uscita dalla paura e dalla mancanza: «Le persone se ne vanno, le persone si lasciano / vogliono vivere un po’ troppo in fretta / mi sento vecchio, il mio corpo è pesante / non c’è altro che l’amore»

La Rinascita (1999) che si compie è un azzardo di ciglia. Come una luce liquida che cola, nonostante il cielo rischiari solo rovine e la pioggia batte forte mentre il sole attraversa le nuvole: «Adesso il  sole attraversa le nuvole, / la sua luce è violenta; / la sua luce è possente sulle nostre vite schiacciate; / è quasi mezzogiorno e il terrore s’insedia».

In questa perdita di cocci e partite perse, in questo disordine amaro e fiori sbocciati, esiste come una brezza inappagata, un limite mortale che interviene nell’universo duro delle realtà sconnesse e della realtà da riconoscere come la vita: «L’anno della parola divina / è ancora da reinventare; / sul mio materasso, rumino / realtà sconnesse».

È un paradiso perduto la rinascita di Houellebecq, giace nel fondo, sembra essere inseguita nel cuore battuto dei colpi oppressi, nella stanchezza della lotta, in quel che muore ma forse non si rassegna a farlo nella luce declina (Nizza) o nell’amore che non basta mai, scavato nella città: «Creatura dalle labbra accoglienti / seduta di fronte, in metrò, / non essere così indifferente: / di amore non se ne ha mai troppo».

Nel sesso indocile, nel cielo vuoto, nella stanchezza del corpo, nel mattino dei giorni che scompare e tutto sembra cancellarsi e coprirsi di sabbia, il tentativo umano è cercare un contatto con un sapore di vita che non si annulli nella catastrofe e nella deriva, che entri nelle vene allontanandosi da ogni bestialità e dalla vita senza scopo.

La sopravvivenza è il cuore affranto verso la rinascita scampata dall’universo a brandelli e sprofondato mentre il corpo freme e desidera carezze. Una mano posata sul cuore, un soffio che diventerà profumo.

Si avverte sempre una sorta di estranea contemplazione, un interludio nella calma tremenda dell’azzurro inevitabile della luce uniforme: «nel disgusto, nel tedio / nell’indifferente natura / metteremo le nostre pelli allo studio, / cercheremo il piacere puro / le nostre notti saranno interludi / nella calma tremenda dell’azzurro», poi «la notte ritorna, fine del sole / sulla pineta inevitabile / e i tuoi occhi sono sempre uguali, / la giornata e completa e stabile» e «In mezzo a questo panorama / di montagne di media altezza / riprendo a poco a poco coraggio, / accedo all’apertura del cuore / le mie mani non sono più impedite, / mi sento pronto per la felicità».

Dopo l’immenso successo di Sottomissione, il romanzo-sintomo e archetipico della traccia profetica e possibile della Francia e dell’intera Europa, dove, nel 2022, le elezioni presidenziali vengono vinte da un partito islamico e in cui, come scrive Luigi Grazioli, la tendenza

 

a proporre scenari futuri, non sempre cupi o ironici a dire il vero, è una diretta conseguenza dell’impianto fortemente sociologico della sua visione, oltre che della convinzione, encomiabile, che un libro o influisce sulla realtà, o non è niente» e in cui le profezie diventano «l’orizzonte naturale di queste premesse, la loro logica deriva, prima che un vizio del loro autore, che sarebbe in fondo innocuo come quello di chi si diletta a far previsioni su questo o quello. E del resto non vale per se stessa, ma è solo un modo, estremizzato, per leggere il presente, per portarne alla superficie con maggior efficacia i meccanismi e le deficienze. Se andiamo a cercare negli scrittori previsioni o, peggio, rassicurazioni, sia pure negative, siamo fritti. Anche quando a pretenderlo è lo scrittore stesso[8],

 

Configurazioni dell’ultima riva[9], edito da Bompiani, con l’acuta traduzione di Alba Donati e Fausta Garavini, rappresenta la distintiva e derivata protrusione di uno sguardo, solo leggermente scostato, dalla drastica apocalisse della grave disperazione e dove le cose partecipano alla loro aurea manifestazione, vibrano in una prominenza tracimata e lucente che ama i contraccolpi, le pause impossibili, le esigenze di vita sofferente contro il fiato del vuoto: «Così, generazioni sofferenti, / Comprese come pulci d’acqua / Tentano di restare indifferenti / Ai sensori della vita vacua / E tutte fanno fiasco, senza pianto, / Tutto ricoprirà la notte grama / E la spossatezza monogama / Di un corpo affondato nel fango».

È un libro in bilico ed appartato che sussurra la distesa grigia di una gioia che rischia l’invalidamento e la cancellazione ma che fotografa la densità dell’istante spianato[10] e fuori asse e che segna una precaria solidità: «Se muore il più puro / La gioia si invalida / Il petto è come svuotato, / E l’occhio conosce bene l’oscuro. / Basta qualche secondo / Per cancellare un mondo».

Il perimetro di Houellebecq è abitato dall’assenza ciclotimica[11] che chiude la vista delle prossimità («[…] Abitiamo l’assenza. / Poi la vista sparisce / Degli esseri più prossimi»), fino a non avere fondo, fino a ridursi a una demolizione di calma.

È la lotta continua e consolidata con l’ultimità, il compassionevole oblio che ha velato il mondo, come «L’elemento bizzarro / Disperso nell’acqua / Risveglia il ricordo, / Risale al cervello / Come un vino bulgaro» e tutto esita nel vuoto e, come spiega Fabrizio Sinisi, «Se ciò che domina la vita è un’assenza, se ogni fiducia è sparita, non è solo un problema ideale o culturale: viene meno la percezione stessa dell’essere».

L’ossessione che lavora segreta, «lieve come un sorriso lontano», in cui «Lo spazio fra due pelli / Quando si può accorciare / Apre mondi più belli / D’un grande scoppio ilàre», risolleva una domanda che è gloria e specimen moriendi di uno scandaglio che diviene l’annuncio di una manifestazione linguistica, come proclama Celan:

«La poesia, essendo non per nulla una manifestazione linguistica e quindi dialogica per natura, può essere un messaggio nella bottiglia, gettato a mare nella convinzione – certo non sempre sorretta da grande speranza -, che esso possa un qualche giorno e da qualche parte essere sospinto a una spiaggia, alla spiaggia del cuore, magari. Le poesie sono anche in questo senso in cammino: esse hanno una meta[12]».

La singolare domanda di Houellebecq si attesta in questo sottopasso di regni dissolti, dove la notte s’installa indifferente, attraverso l’irreparabilità di ciò che avviene nel deserto indolente:

 

Dove ritrovare il gioco innocente? / Dove e come? / Cosa bisogna vivere? / E perché dobbiamo scrivere / Libri nel deserto indolente? / Sotto la sabbia strisciano serpenti / (Hanno sempre il nord in testa) / Niente è riparabile dai viventi,. / niente dopo la morte sussiste. / Ogni inverno ha la propria esigenza / E ogni notte la propria redenzione / E ogni età del mondo, ogni età ha la sua / sofferenza / S’iscrive nella generazione.

 

Le sue assenze di durata limitata non consolano bensì occultano, soffocano, persino astraggono nel loro foglio inquieto e svuotato, finendo per imporre la loro vetrina solitaria e la loro inquietudine concretata nell’universo lirico, che solo puntualmente e irrimediabilmente, tenta conciliazioni e si fascia:

 

Ora soffro tutta la giornata, dolcemente, leggermente, ma con qualche punta orribile che si conficca nel cuore, imprevedibile e inevitabile, per un istante mi ritorco di sofferenza e poi battendo i denti ritorno al dolore normale. / La sensazione che mi si strappi un organo se smetto di scrivere. Meriterei il macello. / Vittoria! Piango come un bambino! Le lacrime scorrono! Scorrono!… / Ho provato verso le undici qualche minuto d’intesa con la natura. / occhiali neri in un ciuffo d’erba. / fasciato di bende, davanti a uno yogurt, in una centrale siderurgica.

Scrive Nicola Vacca:

Houellebecq poeta è diverso dall’Houellebecq romanziere. L’abbandono al verso lo rende meno isterico e inquieto. Qui viene fuori lo scrittore impolitico che si aggira tra le macerie della distesa grigia della terra e annota sul suo taccuino l’assenza che abita nella tragicità dell’essere. La sua poesia non rinuncia a un pensare per paradossi, dove una «calma demolita» gioca d’azzardo con un «cammino senza sapore e senza gioia. Per Houellebecq percepire la realtà significa vivere un momento forte, essere una definizione perfetta, qualcosa che oltrepassi la morte. Tra le righe dei suoi versi si può leggere la sfida a viso aperto di un uomo che ha orrore del vuoto che dilaga. Houllebecq afferma che il mondo lo sorprende ed è per questo che scrive poesie. Per lui la vita non ha nulla di enigmatico. Nonostante amiamo aggirarci nei paraggi del vuoto, il nostro disincanto universale lotta quotidianamente con il “naturalismo esistenziale” dell’amore che vive con tutta la sua fragilità nella gestualità dei corpi che si appartengono e si respingono. Houellebecq poeta cerca di dare un senso alla condanna. Paradossalmente attraversa un universo lirico in cui per un istante si intravede un futuro per la speranza ,anche se il nulla propone alla nostra inquietudine una pace relativa[13].

 

Esiste un punto sincopato ma splendente, dove sembra trasparire una possibilità impercettibile di riscatto: è l’esperienza amorosa, violenta e definitiva che disincanta e spezza questo magma spento e subìto, dapprima come esigenza di completezza, poi come manifestazione e «gioia di ritrovare qualcuno che si è già incontrato, che si è sempre incontrato, per sempre, in un’infinità d’incarnazioni anteriori. Se non ci si crede, è un mistero».

Perderlo significa perdersi, separarsi è annullare la propria smagliatura lucente, perché tutto ciò che non è affettivo diventa insignificante e allora esso serve «per legittimare una vita», come sostiene ancora Fabrizio Sinisi, nonostante la sua affermazione «necessita di una libertà che oggi sembra un peso troppo grave[14]».

Il narcisismo macerato e diviso di Houellebecq, nutrito da Baudelaire, Verlaine e Drieu La Rochelle, come afferma Camillo Langone[15], è pieno di fame, si porge al respiro vitale, rimanendo nella traccia di un’esistenza possibile, di un colpo di vento che venga a purificare lo spazio, sebbene conosca ciò che nella vita sempre declina, quando «tutte le strade portano a stanze chiuse», e quasi finendo per declamare il bordo infinito dell’essere, tenta una lotta disperata contro l’evidenza di diminuizione: «Non sapevo di avere nel petto / Questa orrenda ostinazione d’essere / Anche privato di ogni diletto, / Di ogni piacere, di ogni benessere, / Questa imbecille e sorda forza / Che vi spinge a proseguire / mentre ogni istante rafforza / L’evidenza di diminuire».

L’esigenza di felicità è un crampo che assomma il bisogno di «avere una fede, minuscola o sublime, / un insieme di gesti / Come una danza idiota, diciamo la moresca, / una danza modesta / Che si balla senza sforzo, minimo apprendistato / pochissima riflessione», per raggiungere «la felicità immobile e ciclica della ripetizione».

È un tempo decostruito e viaggiatore che invoca, a denti serrati, la lucidità di un tratto condiviso, di un corridoio che si agita e sente pena e tremor, avviluppato nella conca drammatica dell’umano:

 

Osservando tutti questi corridori, / fra cui certi social-democratici, / Sentivo pena e tremori: / è nel soffrire che schiattano. / Esaminando questo danese / Come Bjarne Riis noto al paese, / Non penso più affatto a me; / Il suo viso torturato diventa plissè / Come un viso d’essere umano / Che trova salvezza nella pena / Con i testicoli, con le mani, / Scriveva la storia umana / Senza bellezza vera, senza esultanza, / Con la coscienza di un dovere. / Tutto questo si agitava in me: / La coscienza, la pietà, la speranza.

 

Ha scritto Chiara Farangola che la Weltanschaung di Houellebecq si inscrive

 

nella linea di un pensiero tragico che esprime la crisi profonda nelle relazioni tra gli uomini e il mondo sociale e cosmico. Il «mondo senza qualità» dell’opera houellebecquiana è un mondo definitivamente abbandonato da Dio, nel quale Dio non è solamente morto, ma non è nemmeno mai esistito. L’uomo che Houellebecq descrive è lacerato tra l’aspirazione all’infinito e la realtà della morte, è l’uomo che avendo elaborato lo spazio della scienza razionale, ha rinunciato al concetto stesso di Dio e perciò a qualsiasi norma veramente etica. Il problema centrale della coscienza tragica in Houellebecq diventa allora sapere se in questo spazio razionale sia ancora possibile reintegrare un’etica, dei valori morali sovraindividuali e, se sarà possibile, pensare di nuovo in termini di «comunità» e di «universo». Questa tesi si propone proprio di mettere in rilievo l’importanza, nella visione del mondo veicolata dai romanzi di Michel Houellebecq, dei ressorts esistenziale e spirituale, rispetto a quello socio-teorico già analizzato in altri studi. Inoltre, vedremo come questa metafisica houellebecquiana si nutra nell’intuizione poetica di un immaginario materiale di acqua e di luce e di come questi momenti intuitivi costituiscano la vera voce dell’autore, quella più intima e sofferta che si strugge nell’assenza dell’Amore[16].

 

Il fondo della sua vibrazione è la «souffrance ordinaire», calcata nelle miserie quotidiane e nella separatezza dalle cose, densa nell’amarume ebbro di solitudini, come attesa di venti forti e inesorabili, nella vita sbattuta e alienata della mancanza d’amore, divenuta spietata e piena di «oggetti variabili / Di mediocre interesse, fuggevoli e instabili, / Una luce smorta scende dal cielo astratto. / è il lato B dell’esistenza, / Senza piacere e senza vera sofferenza / salvo quelle dovute all’usura, /  Ogni vita è una sepoltura / Ogni futuro è necrologico / Solo il passato ci strazia, / Il tempo del sogno e della grazia, / La vita non ha nulla di enigmatico».

La propria derelitta spersonalizzazione si affaccia sul mondo muto, sopravvivendo, senza conduzione al significato ultimo e profondo che radica l’esistere, si sporge persino nella provocazione sessuale e ribelle, mercificata e indotta, di uno struggimento di soglie inavvicinabili che interrompe le frasi di un paradiso perduto e immane.

È lotta narcisista e laterale, male di vivere che sussume lo scuro profilo della perdita, dell’abbandono, della dissacrazione di ogni promessa bandita e maledetta che, attraverso un processo di reificazione, scompone la scena del mondo, disciogliendo i suoi residui: «le strutture del piacere munite del proprio fusibile / Che è la paura. Dell’altro. E della sua innocenza. / Il sospetto al di là di un’immobile assenza, / Di qualche cosa infine che rassomigli a un senso / Oltre le nostre pelli. Fantasma di trascendenza».

L’apocalisse di Houellebecq rappresenta, dunque, il teatro di un destino scarnificato e catastrofico che ha dismesso la libertà, rendendosi emergenza sognata e distrutta di un mistero segreto, come egli stesso proclama in questa contraddittoria confessione a Stefano Montefiori, dal titolo Contro la responsabilità: «Della libertà l’uomo non ne può più, troppo faticosa. Ecco perché parlo di sottomissione. […] In fondo la religione per me non è la fraternità, ma la comunione con una potenza spirituale realmente esistente e attiva. Una potenza anche fisica. […] Il riconoscimento di una potenza, voglio dire, tale da rendere superflua l’esistenza stessa di una morale[17]».

Tutti i paraggi del vuoto, dissociati dalla vita, attendono una promessa d’amore, come speranza e desiderio inesorabile e schiuso, profezia tenera malgrado «il limite del mio reame» che va riempiendo il sollievo di una vita di breve durata e ineluttabile e di un amore di passaggio, sempre cercato e abolito, come testamento sparito e isolato: «In fondo l’ho sempre saputo / Avrei aspettato l’amore / E sarebbe arrivato / poco prima che morissi. / Ho sempre avuto speranza, / Non ho rinunciato / Molto prima della tua presenza, / Mi eri stata annunciata. / ecco, sarai tu / la mia presenza effettiva / sarò nella gioia / della tua pelle non fittizia / così dolce alle carezze, / Così leggera e fine / Entità non divina, / Animale di tenerezza».

La sua nuda disperazione e il peso di una nullità bruciata, pertanto, entrano nel bisogno chiuso dei giorni sperduti, nella vecchiaia, nel tremore dell’essere che non esita a sparire ma che lascia, solo ed esclusivamente, nell’amore e in mezzo al tempo, «la possibilità di un’isola».

E poi ancora si addentrano nel dono di una vita intera in tutto lo splendore delle carezze del sole, nel colore di miele di Joséphine, nel cielo in fondo agli occhi come lacrime che colano, nel risveglio spesso oscurato, assillato dall’eterno («Bisogna attraversare un universo lirico / Come attraversi un corpo che hai molto amato / Bisogna risvegliare le potenze oscurate / l’assillo dell’eterno, dubitoso e patetico») e nello sguardo che scava in fondo al vuoto il tremare di un desiderio confessato e ultimo, sussurrato quasi con vergogna, come la lettera a Bernard-Henry Lèvy: «Mi riesce penoso ammettere che ho provato sempre più spesso il desiderio di essere amato. Un minimo di riflessione mi convinceva naturalmente ogni volta dell’assurdità di tale sogno: la vita è limitata e il perdono impossibile. Ma la riflessione non poteva farci niente, il desiderio persisteva e devo confessare che persiste tuttora[18]».

In questa grazia immobile, «sensibilmente schiacciante, / Che risulta dal passaggio delle civiltà» e «non ha la morte come corollario», esiste e si percepisce l’unione paradossale di morte, amore, piacere che destano la consapevolezza della rovina separata, dell’universo carnale, della scrittura del corpo precario e in cardine instabile, arreso in una splendente limitatezza, fuso in un’opportunità amorosa che attraversa lo sfacelo e si rivela come irriducibile e sublime desiderio di eternità, e, infine, assorbito nella sua interrotta genesi sacrale, come scrivono, in un’interrogativa finale che ci tocca e ci impasta, Alba Donati e Fausta Garavini, nella nota di copertina al testo:

 

Sì, oltre le notti senza cielo, oltre le mattine in cui la speranza esita a raggiungere gli uomini, c’è un momento di possibile dolcezza, quando le pelli si toccano, si incontrano, in cui il mondo può addirittura risplendere. Così appena finito di leggere le quasi cento poesie di uno dei più grandi scrittori francesi “sopravviventi” ci toccherà rimanere indecisi: ci avrà contaminato quel suo senso di condanna, di maledizione e disincanto, oppure ci avrà fatto sentire tutta l’esitazione, la fragilità e la bellezza dell’amore, della compassione, dei corpi?[19].

 

Bibliografia

Houellebecq M., La vita è rara. Tutte le poesie, Bompiani, Milano 2016.

  • Configurazioni dell’ultima riva, traduzione di Alba Donati e Fausta Garavini, Bompiani, Milano 2015.

Id. – Lévy Bernard H., Nemici pubblici, Bompiani, Milano 2009.

Id., Contro la responsabilità. Conversazione con Stefano Montefiori, Libri del “Corriere della Sera”, 17 febbraio 2015.

Celan P., La verità della poesia. Il meridiano e altre prose, a cura di Giuseppe Bevilacqua, Einaudi, Torino 1993.

Farangola C., Il mondo senza qualità. L’universo romanzesco di Michel Houellebecq, tesi di laurea, Roma.

Fusco L., recensione a La ricerca della felicità, in «L’Indice».

Grazioli L., Houellebecq lercio misantropo (http://www.doppiozero.com/materiali/parole/houellebecq-lercio-misantropo).

Langone C., Quanto Baudelaire nelle nuove poesie di Michel Houellebecq, in “Il Foglio”, 18 novembre 2015.

Sinisi F., «Eppure confesso che persiste il desiderio di essere amato», in «Tracce – Litterae Comunionis», dicembre 2015, p.93.

Trevi E., Consigli disperati per rimanere vivi, in “Corriere della Sera”, 28 aprile 2016.

Vacca N., Michel Houellebecq. Configurazioni dell’ultima riva

(http://www.satisfiction.me/michel-houellebecq-configurazioni-dellultima-riva/).

 

 

 

 

 

[1] Houellebecq M., La vita è rara. Tutte le poesie, Bompiani, Milano 2016.

[2] Trevi E., Consigli disperati per rimanere vivi, in “Corriere della Sera”, 28 aprile 2016.

[3] Id., ivi.

[4] Id., ivi.

[5] Fusco L., recensione a La ricerca della felicità, in «L’Indice».

[6] Id. cit.

[7] Id., cit.

[8] Grazioli L., Houellebecq lercio misantropo (http://www.doppiozero.com/materiali/parole/houellebecq-lercio-misantropo).

[9] Houellebecq M., Configurazioni dell’ultima riva, traduzione di Alba Donati e Fausta Garavini, Bompiani, Milano 2015.

[10] Montefiori S., Le mie fotopoesie, in “Corriere della sera – La Lettura”,  12 giugno 2016.

[11] Id., Michel Houellebecq. Il mondo mi sorprende, perciò scrivo poesie: sull’amore, e sulle lavatrici, in “Correiere della Sera – La Lettura”, 25 ottobre 2015.

[12] Celan P., La verità della poesia. Il meridiano e altre prose, a cura di Giuseppe Bevilacqua, Einaudi, Torino 1993, pp. 35-36.

[13] Vacca N., Michel Houellebecq. Configurazioni dell’ultima riva

(http://www.satisfiction.me/michel-houellebecq-configurazioni-dellultima-riva/).

[14] Sinisi F., «Eppure confesso che persiste il desiderio di essere amato», in «Tracce – Litterae Comunionis», dicembre 2015, p.93.

[15] Langone C., Quanto Baudelaire nelle nuove poesie di Michel Houellebecq, in “Il Foglio”, 18 novembre 2015.

[16] Cfr. Farangola C., Il mondo senza qualità. L’universo romanzesco di Michel Houellebecq, tesi di laurea, Roma.

[17] Houellebecq M., Contro la responsabilità. Conversazione con Stefano Montefiori, Libri del “Corriere della Sera”, 17 febbraio 2015.

[18] Id. – Lévy Bernard H., Nemici pubblici, Bompiani, Milano 2009.

[19] Donati A. – Garavini F., Nota al testo in Houellebecq M., Configurazioni dell’ultima riva, Bompiani, Milano 2015.