Archivi categoria: recensioni

La Via Provinciale di Giampiero Neri

di Andrea Galgano 8 marzo 2017

leggi in pdf La via provinciale di Giampiero Neri

neri_giampieroIl nuovo lavoro di Giampiero Neri (1927), «un maestro in ombra», come recita il titolo di un acutissimo saggio di Alessandro Rivali[1] che recupera una felice espressione di Maurizio Cucchi, Via provinciale[2], edito da Garzanti, scompagina ogni marginalità della poesia. La sottigliezza, la nuda e scrupolosa sintassi, la fedeltà alle cose e l’abbaglio della memoria creano un universo segreto[3], composto di miniate che affermano nella sua poesia, come sostiene Giovanni Raboni, «un documentarismo materico-prezioso di origine probabilmente poundiana» e ancora un «sotterraneo recupero, fra ironia flaubertiana e malinconie realistico-crepuscolari, della conversazione e sottoconversazione quotidiana»[4].

L’enigma del reale si prefigura attraverso una creaturalità indecifrabile e protesa, in cui la laterale sfumatura del dettaglio diviene metafisica narrazione del tempo, avvenimento indicibile, purezza del gesto che non accondiscende, per tremare, come scrive Alessandro Rivali «di fronte al grande libro della Natura (il suo bestiario è sempre più ricco, incontriamo: uccelli, leopardi, cavalli, maiali, cavallette, aquile, oche, bisce, persino uno sfeco, «pericoloso insetto simile a una vespa») e di fronte ai Grandi scrittori del passato, magari esclusi del Canone, come Fenoglio, Grossman o persino come Collodi»[5]:

Che la seconda parte della vita sia occupata a contraddire la prima è di comune esperienza, per quanto spiacevole. Si salva poco di quello che avevamo pensato, forse niente. Cosa rimane allora del tempo passato? Si dice di un maestro zen che, prossimo a morire, aveva invitato i suoi discepoli nel suo giardino e rivolto a loro, sentendo gli uccelli cinguettare sui rami, aveva detto: “È tutto questo e niente altro”. (p.9).

Il detrito memoriale si configura, allora, come una subitanea successione di eventi, in cui non solo la rifinitura minuziosa diventa centro ma la scoperta del mondo svela il sentiero della sua composita fragilità al cosmo aperto dei vinti, agli sguardi nascosti e mai obnubilati, giungendo alla vigilanza di ogni cenno dell’esistenza:

Il negozio di drogheria occupava in parte il piano terra della grande casa, alla ― Clerici. Di solito al banco servivano due donne, entrambe Marie di nome, e diverse volte si univa a loro il giovane nipote, il mio amico Nene. Allora il banco si animava di giovinezza, di chiacchiere e anche di zelo.  Questo poteva mettere in sospetto e infatti le due Marie si erano insospettite. Il lavoro aumentava ma non il guadagno. Il Nene era svelto di mano con la cassa. Si raddoppiò la vigilanza arrivando persino a cospargere di farina bianca, ce n‘era tanta in drogheria, l‘accesso al ― tesoretto, dove si tenevano i soldi da versare in banca. Dalle impronte si poteva forse risalire al Nene, ma non aveva funzionato. Nelle sere d‘estate ci andavamo a sedere ai tavolini del Caffè Bosisio. Offriva lui, frappè alla vaniglia. (p.10).

La naturale disposizione del tempo lascia il senso dell’esistere e la materia vivente in una traccia mai trascolorata, laddove la limpidezza poetica impone il suo gesto-segugio, il rispecchiamento ironico, la sedimentata e tenace attenzione a ogni passo del sorriso, l’architettura di luoghi e immagini che ravvivano sospensioni e segnali, cifre umane che toccano l’arte e l’estasi: «Che uno scrittore cerchi di arrivare al centro dei suoi interessi come alle ragioni per cui scrive, è molto probabile, ma che ci arrivi è tutt’altra cosa. A impedirlo si frappongono diverse cause, quando ne basterebbe una soltanto. Se ci arriva, la sua scrittura ne trabocca, altrimenti ripiega su se stessa, su meno alti traguardi».

Guardare l’umano in tutti i suoi segnali e avvisaglie, significa riflettere il tempo, la commozione, l’incontro, la pietas (come quel bellissimo episodio (30) che racconta del bancario di fronte a due fratelli che richiedono un prestito eccessivo rispetto al possibile rimborso. Dinanzi alla perplessità dell’impiegato, uno dei due fratelli esclama: «Ma si fidi, Neri, si fidi. Se non si fida dei poveri, di chi vuole fidarsi?». Viene data loro fiducia e il rimborso sarà regolare).

Ed è in essi che scopriamo noi stessi. Nella sua solida saggezza, Neri dilata le impronte del reale in una connessione di voci e discorsi, creando, attraverso una intricata diluzione di radici, una vertigine di teatro che evoca e rievoca l’annunciazione del mondo e la sua funzione mnemonica che, prima di tutto, viene

intesa come luogo minerario da cui estrarre i materiali necessari, indispensabili forse, alla vita attiva quotidiana. Perché l’atto del vivere – sembra suggerire il poeta – è difficile, sempre, al di là delle circostanze e delle condizioni che ci sono date, e lo scavo continuo tra i ricordi, tra i frantumi variegati della memoria, è un’attività che ci permette di lenire i nostri tormenti e di addomesticare i fantasmi che li popolano. Diamanti o detriti, tutto ciò che viene dal fondo del passato è rilevante e non va trascurato (Antonio Riccardi, dalla bandella di copertina del libro).

Il metodo che costruisce il linguaggio è l’affermazione a ritroso di ciò che nella materia vivente risuona, attraverso l’orma corrosa, in cui la trasformazione consunta ma viva, e il reperto denotativo dell’essere, tralucono in una lingua-specchio, facendosi epifenomeno segreto e oscuro coagulo indicibile:

Le vecchie bottiglie di fernet, anni trenta, portavano sull’etichetta l’indirizzo della dita, via del Broletto, vicino alla chiesa di san Tomaso. Ma un’altra iscrizione attirava la curiosità dei più giovani, che l’andavano ripetendo a voce alta: “Combatte lo spleen, patema d’animo”. Erano gli anni della grande depressione, della crisi di Borsa, dei salti dalla finestra. (p.14).

È attraverso la densità esperienziale, la profonda lucidità, l’appartenenza all’umano e ai suoi movimenti, che i suoi “crinali-cammei” vivono la loro riattualizzazione. Ma non c’è una nostalgia edulcorata, poiché la vita stessa, in Neri, è riportata continuamente alla luce, al suo presente, all’assorbimento esistenziale e oracolare:

La coppia, marito e moglie anziani, abitava al secondo piano, l’ultimo della casa di via Mainoni. Lui faceva il sarto e la grande cucina, tutta la sua casa, era il suo atelier. Per qualche motivo ero il loro beniamino, anche se non ricordo che mi abbiano mai dato una caramella, ma non ne avevano. Giocavo col loro gatto o a dama, soprattutto mi piaceva la loro compagnia. Con grande anticipo mi avevano detto che sarei stato a pranzo da loro per qualcosa di speciale, che non si sapeva, anche i miei erano contenti. Lui faceva uso di pepe, che metteva dappertutto e io provavo forse per la prima volta. Sembrava una festa, il sarto e la moglie ridevano e avevano gli occhi lucidi. Non so come, ma quel giorno il gatto non si era visto, e non l’avrei più visto, neanche dopo (p.13).

Il livello più radicale del libro, e quindi il suo portato fertile, si rinviene nella fotografia della realtà che nasce ad ogni istante e in esso, trova la sua vera forza, senza egocentrismo, ma proteso all’intuizione primigenia dell’umano che fa spazio, all’altro, anche quando lontano o intravisto, «poiché la sorpresa dell’essere è sempre dietro l’angolo»[6].

È nell’allusione a una magmatica concrezione di luoghi, campiture e battute che il prelievo nel reale raggiunge la massima espansione narrativa e la poesia rappresenta l’esito di un indizio di ritmo e battito, poiché, come sostiene Cesare Cavalleri:

[…] in Neri è sempre la memoria a lavorare su frammenti di figure e sentimenti che non vengono “attualizzati”, bensì riportati in quanto mai dimenticati. […] È poesia per il ritmo, perché include un metronomo che impone un’esclusiva scansione del tempo. Si provi a leggere Neri ad alta voce: spontaneamente si è indotti a modulare un “andante” come leggendo una partitura musicale, e se si tenta di accelerare il ritmo ci si avvede immediatamente di steccare. Perché la poesia è appunto questo: un testo con pronuncia obbligata. I temi sono quelli ai quali Neri ci ha abituato: la casa di Erba, episodi minimali ma incancellati della guerra e del dopoguerra, personaggi stravaganti intravisti e scomparsi con il loro mistero. [7]

Se di lateralità si tratta, essa è profondo baricentro che torna nei suoi frammenti sotterranei e intermittenti, nei lacerti racchiusi, nella parola che per descrivere deve essere netta, essenziale, farsi persino beffe, ma diventare documento di ciò che non muore o si perde. Nella circostanza, egli rispolvera il linguaggio che incontra l’esattezza di una vita nascosta e sopravveniente, giocata nella luce, combinata nel sogno e nella remota partecipazione dell’essere:

A sopravvivere, della biblioteca di mio padre, erano stati pochi libri, la collana dei classici Utet, una vecchia edizione dei Promessi Sposi, il grande Atlante Geografico e pochi altri. Tra questi spiccava un libro di Cechov, Il monaco nero. Erano sopravvissuti alle vendite che avevamo fatto in tempi difficili e ai vari cambi di abitazione. I racconti di Cechov avevo provato qualche volta a leggerli, ma proprio Il monaco nero, che era il primo, andava per le lunghe e non riusciva a coinvolgermi. Il tema dominante sembrava il giardinaggio, con citazioni della «mela cotogna russa», della «coltura a rotazione» e altre, di carattere tecnico. Rimanevo perplesso e chiudevo il libro. Una notte che mi ero svegliato troppo presto, ritornai a prenderlo. Non so come, era comparso di nuovo sul tavolo, a portata di mano. L‘avevo aperto a caso e lo stavo leggendo, era un dialogo. Continuai fino alla fine del racconto. Rimasi sopra pensiero per un certo tempo, dopo (p.32).

Nelle immagini del mondo che fluttua, nel sipario trasparente, nella formazione di ciò che accade, caricata di vita e mistero, la fotografia di Neri risplende di silenzio e rievocazione.

In quella via accade il reale e la vita passa prima degli occhi. La singolarità dell’esistente, la Brianza (e poi Como e dintorni, nella tensione che sembra spingersi fino all’odiato-amato Gadda) fanno rialzare lo spiovente di una densità perduta e riconquistata, dove i personaggi, dal professor Fumagalli, al milanese, piccoletto «con l’aria schiacciata», «la bionda insegnante di latino, l’ostinata maestra di musica e lo stesso preside, che voleva andare con Don Zeno, nel paese di Nomadelfia», rappresentano, come già accaduto in Liceo (1982), figure che fermano le epoche:

Dalla Colma si scendeva per sentieri appena tracciati fra i cespugli. Si sentiva un brusio che diventava più forte, avvicinandoci al paese. La piazzetta era piena di gente che parlava, agitava il giornale, leggeva ad alta voce: «Dimissioni», «Il cavalier Benito Mussolini», «Il vecchio corruttore». Era il 25 luglio del ’43. Anche noi prendemmo il giornale. Sulla strada di ritorno il Nene, che era più giovane, mangiava il pane, Mauri taceva e il suo amico si era messo a gridare: «Io sono un panciafichista borghese», e lo ripeteva con aria di sfida.

La scena del passato sviluppa il tempo nuovo che concentra valorialità etica e metafisica, promana l’altrove esatto ed episodico, che non riesce ad essere mai margine nevralgico, bensì sostanza vivente di un movimento, di una possibilità, di una passeggiata di particolari:

Di tanti cavalli e cavalieri che hanno monumenti nelle nostre piazze, almeno uno si è salvato dalla retorica, quello del generale Missori. Non tanto per il generale, quanto per il cavallo. Il generale ha la sciabola spezzata, simbolo del valore sfortunato, ma guarda fieramente in avanti. Il cavallo ha la testa bassa e l’aria di cercare qualcosa, un ciuffo d’erba o un posto dove andare a riposare. Pur essendo una bella statua, anzi la più bella che si conosca fra quelle numerose del suo genere, è rimasta in ombra. Nemmeno il suo autore ha avuto una soste migliore, un Ripamonti, forse lo stesso della via omonima. Insomma un nome oscuro. Eppure c’è qualcosa di umano in quel cavallo, che non finisce di attirare chi lo guardi, anche solo di sfuggita, passando in tram da piazza Missori. (p.35)

E tutta la storia che si dipana conosce e condensa il materiale narrativo, incontrando l’orlo delle cose, il dolore sguarnito («Si riflette sulla sconfitta, non sulla vittoria. Si cercano i perché della sconfitta e si finisce per ritenerla inevitabile. Sulla vittoria invece si festeggia»), la docile torsione che si fa visita di pagine chiare.

Maurizio Cucchi scrive:

[…] è nella memoria, nei suoi depositi, e nelle loro possibilità di riaffiorare per lacerti improvvisi, enigmatici eppure evidenti, attraverso i quali il poeta realizza una sorta di ricostruzione di eventi effettuata per dettagli minuziosamente proposti. In essi si manifestano figure sorprendenti in quanto inattese (il dottor Livingstone, Corso Donati), nelle quali verosimilmente si incarnano le ossessioni di una vicenda che non viene mai svelata apertamente (forse in buona parte oscura per lo stesso autore), che si intuisce essere personale e storica al tempo stesso e che lavora sotterraneamente mandando in superficie ombre, fantasmi e situazioni che vengono a comporsi come in un ordito onirico.[8]

La concretezza aspettuale e oggettuale della sua poesia, che unisce mondo vegetale e animale, sfumatura umana e visione, diventa essenziale esposizione sospesa, attorniata dal mistero e dalla lotta all’oblio, alla guerra, al male:

Il male, dunque, che fa irruzione per lampi dolorosi nel presente, turbandolo e rivendicando il diritto all’esistenza (perché da esso nasce il bene) costituisce un mistero di cui non si può tacere, e di cui la poesia di Giampiero Neri contempla lucidamente la portata. Egli ne coglie il fascino e l’orrore ma senza compiacersene e contrapponendo ad esso la necessità di uno sguardo carico di misericordia. «[…]» ha dichiarato. Nella speranza che non sia vana viene offerta in dono, come un vuoto o una preghiera che ci interroga e ci suggerisce che il mondo ha un misterioso scopo, una misteriosa presenza.[9]

Ecco il pensiero 13:

Dal finestrino del treno, fermo alla Stazione, il ragazzo guardava sua madre che parlava con un uomo. Stavano davanti al cippo di marmo rosa, che ricordava i benemeriti della ferrovia. L’uomo era un giovane sulla trentina, coi capelli biondi, ricci, che il ragazzo conosceva di vista, senza saperne il nome. Sapeva invece dove abitava, vicino all’Asilo infantile. Quel giorno doveva accompagnare a Milano sua madre, che nel frattempo era risalita in treno e sedeva vicino a lui. «Sai» stava dicendo «gli ho chiesto perché non si sposava e mi ha risposto che bisogna perdere la testa.» Lui l’avrebbe persa poco dopo in Val Pellice, con una pallottola, durante la guerra civile.

Il testo è la scena del mondo, il messaggio raggiunge il limite e lo innalza, vivendo il ciglio della vita per farlo respirare, in modo luminoso (e numinoso), e l’informazione solleva la profondità della superficie, il suo velo, l’incisione minima della vita, lo sguardo umano, poi, carico di interesse e autentico, segue ciò che primariamente si annuncia, per divenire spazio rivelativo: «A giudicare dall’andatura sgraziata e malferma, non si darebbe molto credito all’oca e forse per questo ha il nome che porta. Ma in acqua, per via delle sue zampe palmate, fila con eleganza e in aria vola. Anche l’oca domestica, dai cortili, dalle aie, quando è il suo momenti prende il volo. Lei sa dove va. E noi?» (p.62).

Nei suoi emblemi, Neri, costituisce la sua sorgiva ed evenemenziale prospettiva che abita e visita i suoi paesaggi inospiti, attraverso la scoperta recitata di un avvenimento di memoria e ricordo, appariscenza rivelata e poi concepito anche di autori cari (i luoghi di Fenoglio e Grossman che «sembra mettere mano a cielo e terra», la storia immortale di Collodi, Dino Campana).

Ed è in questa vibrata e precisa trasposizione che egli viaggia a  piene mani nella realtà, in attesa di un lampo, di una sacra intrusione e di un enigma disvelato, fino alla precisione di ogni incastro che si porge, poiché la poesia, vox clamantis in deserto, «come il soffio del vento, va dove vuole e la si può trovare dove capita, anche in una stretta di mano, come è stato detto»:

Di tanti cavalli e cavalieri che hanno monumenti nelle nostre piazze, almeno uno si è salvato dalla retorica, quello del generale Missori. Non tanto per il generale, quanto per il cavallo. Il generale ha la sciabola spezzata, simbolo del valore sfortunato, ma guarda fieramente in avanti. Il cavallo ha la testa bassa e l’aria di cercare qualcosa, un ciuffo d’erba o un posto dove andare a riposare. Pur essendo una bella statua, anzi la più bella che si conosca fra quelle numerose del suo genere, è rimasta in ombra. Nemmeno il suo autore ha avuto una soste migliore, un Ripamonti, forse lo stesso della via omonima. Insomma un nome oscuro. Eppure c’è qualcosa di umano in quel cavallo, che non finisce di attirare chi lo guardi, anche solo di sfuggita, passando in tram da piazza Missori.

Il segno più vasto dell’essere è un particolare ornato che diviene fiato e colpo, e raccordo di gradazioni infinite che riafferrano l’io, sillabando la verità, per cui, la poesia, rende ancora più essenziali

il nitore e la chiarezza della pronuncia del quadro esterno, “reale” di riferimento. Quando poi questo quadro viene animato da movimenti e scatti quasi sempre impercettibili o apparentemente inessenziali della presenza umana o animale o naturale (fra storia, memoria, bilogia, logosfera e biosfera, onotogenesi e filogenesi), svela immediatamente la propria natura tragica.[10]

In un’intervista rilasciata a Pierangela Rossi, su “Avvenire”, il poeta, infatti, afferma: «La poesia come forma si caratterizza per una particolare martellatura della parola. Questo però lascia intatto il problema dell’arte. Questa martellatura non garantisce l’arte. L’arte è come lo Spirito Santo che ti trasforma e ti dà la felicità di vivere. Cosa rimane di tutte le lacrime poetiche sull’11 settembre? Rimane della brutta poesia. Lo Spirito Santo è la new entry di qualcos’altro»[11].

88116724499788811672449-6-300x453Neri G., Via provinciale, Garzanti, Milano 2017, pp. 81, Euro 16.

NERI G., Via provinciale, Garzanti, Milano 2017.

  • Poesie 1960-2005, introduzione di Maurizio Cucchi, Mondadori, Milano 2007.

BERTONI A., La poesia contemporanea, Il Mulino, Bologna 2012.

CAVALLERI C., La poesia? Si riconosce dalla pronuncia obbligata, in “Avvenire”, 13 giugno 2012.

  • Neri, il poeta che ha scritto in prosa, in “Avvenire”, 30 aprile 2008.

DI STEFANO P., Tengo i segreti, sono un cuoco geloso, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 29 gennaio 2017.

MOTTA E., La poesia e il mistero. Dodici dialoghi, illustrazioni di Luciano Ragozzino, La Vita Felice, Milano 2016.

RIVALI A., Giampiero Neri, un maestro in ombra, Jaca Book, Milano 2013.

ROSSI P., Neri «La poesia soffia dove vuole», in “Avvenire”, 6 ottobre 2016.

[1] RIVALI A., Giampiero Neri, un maestro in ombra, Jaca Book, Milano 2013.

[2] NERI G., Via provinciale, Garzanti, Milano 2017.

[3] DI STEFANO P., Tengo i segreti, sono un cuoco geloso, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 29 gennaio 2017.

[4] RABONI G., in Almanacco dello Specchio, n.1, a cura di Marco Forti e Giuseppe Pontiggia, Mondadori, Milano 1971.

[5] RIVALI A., Il tempo sospeso di Giampiero Neri (http://www.ilsussidiario.net/News/Cultura/2017/2/21/LETTURE-Il-tempo-sospeso-di-Giampiero-Neri/749575/), 21 febbraio 2017.

[6] ID., Giampiero Neri, la sorpresa dell’essere è sempre dietro l’angolo (http://www.ilsussidiario.net/News/Cultura/2016/7/23/LETTURE-Giampiero-Neri-la-sorpresa-dell-essere-e-sempre-dietro-l-angolo/716086/), 23 luglio 2016.

[7] CAVALLERI C., La poesia? Si riconosce dalla pronuncia obbligata, in “Avvenire”, 13 giugno 2012. Vedi anche Id., Neri, il poeta che ha scritto in prosa, in “Avvenire”, 30 aprile 2008.

[8] CUCCHI M., Memoria naturale, in NERI G., Poesie 1960-2005, Mondadori, Milano 2007, p.vii.

[9] MOTTA E., La poesia e il mistero. Dodici dialoghi, illustrazioni di Luciano Ragozzino, La Vita Felice, Milano 2016, p.85.

[10] BERTONI A., La poesia contemporanea, Il Mulino, Bologna 2012, pp. 153-154.

[11] ROSSI P., Neri «La poesia soffia dove vuole», in “Avvenire”, 6 ottobre 2016.

Diego Baldassarre, Sinopie smarrite, Falloppio (Como), LietoColle Editore, 2016

di Giuseppe Panella 22 febbraio  2017

leggi in pdf Sinopie

diego-baldassarre-sinopie-smarriteUna sinopia è, nel linguaggio tecnico dei percorsi storico-artistici, il disegno preparatorio di un affresco, la sua fase iniziale che però si perde e si annulla nell’opera finale al momento della realizzazione compiuta di essa. Senza di essa, tuttavia, e senza la traccia lasciata sull’intonaco preparato per la pittura, l’opera pittorica non avrebbe corso e forse non avrebbe neppure senso.

Le “sinopie segrete “ del titolo alludono evidentemente al segreto corso della poesia, alla traccia nascosta che collega parole e immagini nell’ordito dell’ispirazione lirica.

Allude, tuttavia, anche e soprattutto alla mano del poeta che traccia linee di passaggio che collegano i suoi sogni e le sue emozioni alle parole designate per definirle e poi comunicarle a chi è in grado di accettarle e assimilarle come tali. La “sinopia segreta” del titolo allude probabilmente a questa necessità di produrre parole e versi che passano attraverso situazioni, spesso minime o non necessariamente significative come accadimenti, ma capaci di segnare e produrre impercettibili graffi sulla superficie verbale della realtà.

«Il commerciante di sogni. Il mondo parla pagina dopo pagina. / Non chiedermi / il senso del discorso / non puoi capire le sfumature / della parola nella mente // A volte sogno oppure rido / se mi osservi sembro / un uomo assente solo / ma non scorgi il lampo / corroso dello sguardo // Una folla di persone passa / saluta e chiede / Poggio il libro sul bancone / sorrido gentile / e rispondo ai fantasmi di carta» (p. 56).

“Scorgere il lampo dello sguardo” e trasportarlo sulla pagina è il compito della poesia. “Parlare pagina dopo pagina” è l’attività del poeta che osserva e attende la visita della poesia, pratica che richiede tempo e gentilezza, pazienza e abbandono al sogno. “I fantasmi di carta” della scrittura attendono soltanto di essere evocati ma chi riesce a farlo ottiene il risultato di riuscire a vendere la sua capacità di sfogliare il mondo. Il poeta se ne sta seduto “sul far della sera” e attende un’illuminazione che gli permetta di dar senso a ciò che gli succede come spettatore dello squadernarsi infinito del mondo. Per Baldassarre, allora, scrivere poesia significa scandire il tempo dell’attesa delle parole che gli permettano di dire ciò che sta avvenendo nel mondo, ciò che vive all’esterno e che gli chiede di entrare nei suoi sogni e nelle sue emozioni, nelle sue illusioni e nella sua “mente”. Tutto quello che diventerà parole frasi o canto è già inscritto nella sua mente, come una traccia infinita di follia o una sfumatura incomprensibile del linguaggio comune.

Quindi il poeta non può fare altro che de-scrivere ciò che lo aspetta all’angolo della strada o all’apparire dei “fantasmi”. Il suo percorso è fatto di attese, di silenzi, di attenzioni, di rimossi, di lacrime ricacciate indietro a forza, di sospiri e di ritegni insensati. Sono tutte “sfumature” ma dicono molto di più di ciò apparentemente è chiaro e squadernato nella mente piuttosto che nella sottile membrana che avvolge l’anima e la rende sensibile al dolore del mondo e, nello stesso tempo, gli permette di apprezzarne la bellezza incontestabile e affannosa:

«La poesia. La poesia non è la frase spezzata / ma il vuoto prima / e dopo la parola // caduta» (p. 62).

Dove resta da interpretare quel termine finale, parola-chiave del discorso di Baldassarre: caduta sta per errore fine morte e dannazione oppure per il semplice avvitarsi spontaneo al suolo della “povera foglia frale” (di un’imitazione poetica di Leopardi da Antoine-Vincent Arnault, scelta dal poeta di Recanati come exemplum delle potenzialità della lingua italiana nell’ ambito del rinnovamento linguistico legato al Romanticismo)? Le parole della poesia, in buona sostanza, cadono nel vuoto e si fermano a terra come le foglie si staccano dagli alberi in autunno e si annullano nel magma indistinto della terra oppure cadono perché destinate all’errore all’oblio alla Caduta per superbia o velleità del poeta, una volontà non surrogata e sostenuta da un’autentica vocazione? La vocazione “bucolica” (in senso positivo) di Baldassarre potrebbe far pensare alla prima soluzione ma l’idea del silenzio come luogo in cui la poesia eviene è molto più convincente in quest’ottica. Non a caso in un suo testo molto suggestivo ed evocativo si legge con una certa nettezza:

«La soglia della memoria. E’ pericoloso sostare a lungo / sulla soglia della memoria. // Vattene vattene ora / Puoi ancora evitare di percorrere / corridoi impolverati inseguendo / immagini vere per i vivi // Devo decidere se murare la porta / o spingere l’uscio dei giorni // Entra apri le finestre / Se sui muri non ritrovi i quadri / di sicuro le impronte bianche / rispettano la loro disposizione // Il tempo spezza le ali all’anima / è ambra ciò che era resina» (p. 53).

La poesia di Baldassarre non è fatta di ricordi ma si concentra sul qui e ora (come testimoniano  molte altre poesie da Padri moderni a p. 55 a Impronte sulla neve a p. 91 e solo per fare due esempi a caso), è poesia dell’immediato e della sensazione, è fatta di “ragione e sentimento” e non soltanto di ricordi o nostalgia di un passato che non c’è mai stato o che è ormai irrimediabilmente trascorso.

I suoi versi sono densi e raggumati in un tentativo quasi disperato di dire tutto nel giro compresso di una frase, di un’immagine risolta, di un’aspirazione di vita, di un contatto diretto che sia capace di cogliere il senso di una vicenda esistenziale in atto o del trascorrere di una stagione avita e conosciuta. Il senso nascosto della vita viene colto così in un soffio epifanico di consonanza con gli eventi inverando quel desiderio che la poesia esprime di attraversare il mondo per poterne cogliere il nocciolo segreto (anche se alla fine anche il sogno di ritrovare la verità nascosta sotto le apparenze più colorate o devastate o ingenue del reale, i suoi “bagliori”, si rivela – come sempre – uno scacco: «Non somiglio più neanche a me stesso» (p. 115).

Al di sotto delle rappresentazioni della bellezza della Natura (le sue “sinopie” invisibili) e al sopra delle aspirazioni a una vita più autentica,  si leva l’oggetto oscuro e sempiterno della poesia –  la sua capacità di costruire un ponte con la realtà  e con la vita nel tentativo di farne un dono a coloro che ne colgono la necessità assoluta e imprescindibile.

L’Italia di Charles Wright

di Andrea Galgano 11 febbraio 2017

leggi in pdf L’Italia di Charles Wright

charles-wrightNon una parola s’è mai dissolta in gloria, non una.
Continuiamo a mandarle in alto, comunque,
così come il sole piove giù.

Charles Wright

La antologia di Charles Wright (1935), Poeta laureato e unanimemente considerato uno dei più grandi poeti americani, Italia, edita da Donzelli, a cura di Moira Egan e Damiano Abeni, non è un intervallo solo rammemorativo. Non vi è decorazione o celebrazione inusitate, bensì piuttosto il richiamo a una profonda passione epica, all’incisione salutare della fisicità dei luoghi, alla loro umbratile consistenza che diviene intreccio che rivela ciò che è nascosto, attraverso il legame incarnato e la profondità contemplativa.

È un’attitudine meditativa e spirituale a raccordare la vertigine e la struttura del verso, in cui la vertebra prospettica non è l’occasione ma il tempio dello sguardo, il respiro che affiora dalla percezione e dal fiato. Possedere questa vista significa, in definitiva, corrodere ogni forma pittoresca, affermando la bellezza del movimento e dei segni cronologici, pedinando l’inquieto permeare dello strazio arrestato, fissandone, infine, i contorni nel gesto che diventa ferita e tenerezza.

Essi nascono sin da quando nel 1959 egli, soldato americano, di stanza a Verona (nella patria di Catullo dove «i fiori schiusi scorrono / verso ponente nel vento che soffia verso ponente») o quando si troverà a Sirmione, sfiorata in un bellissimo notturno: «Le erbacce si sono infoltite nei frutteti e le foglie pendono inascoltate sotto le arcate […] Accordi sparuti da un liuto spettrale, è vero, scendono talora sulle ali dello stesso vento alpino che come un pastore continua a guidare le piccole onde sulla sponda […]»), tocca lo spazio fondativo della poesia e la lingua che ristruttura il mondo, leggendo una raccolta di Ezra Pound, «padre dal sangue freddo della luce».

Venezia è smarginata e intrisa di splendore, in cui la luce segreta della laguna si veste di respiri posati sulle palpebre all’infinito: «Questa è la strada dove abita Pound, / un vicolo cieco / di anfratti catarrosi e pietra sbrecciata, / al cui imbocco le acque / si adunano, i gabbiani stridono; / qui dentro – muto, immoto – egli aspetta, / cernendo gli affretti freddi del sangue» (Omaggio a Ezra Pound).

Attraverso lo studio e l’epifanico magistero di Dante («Dante ti fa pensare seriamente alla vita. Ti costringe a volere una tua vita, a impiegarla nel modo migliore. La sua poesia è un grande modello platonico di vita e arte»), la traduzione di Eugenio Montale e l’«angelo lirico» Dino Campana («la tua bocca è la porta azzurra da cui passo, / la lampada accesa, la tavola apparecchiata»), egli ricompone la lettura fonematica e conclusiva dell’Italia, che nelle note dei notturni, riporta il buio delle scaglie e dell’avviluppo abissale della luce persa e leggera: «Firenze. Un vortice, una bocca, / vertiginoso alveare… / Notturno / Firenze, gola verticillata, / un sibilo d’ali che si chiudono / il fiume tortuoso in fiamme, / acqua come scaglie nella vampa del fuoco…».

O ancora la trasparenza monastica di San Miniato, dove i bordi acquei «lappano l’orlo della notte», apre la chiglia nera in cui «i nostri corpi bruciano come lampioni, / le ossa sonagli in mano alla morte sotto il fuoco lunare».

Una lettura interiore che esplora la sua geografia visionaria, attraverso la distanza generativa della fisica di un mondo che si porge e si sporge nei sospiri della trascendenza, «dentro la stessa pelle della lingua», come «una necessità interiore» e una «haeccitas», nei flussi di voce, nelle preghiere-fulgori e nei salmi di luce, fino al cielo delle ali bagnate come fenditure:

«E quando, quella sera, una pioggia esagerata per la stagione (grandine che risuona dilacerante sui limoni) picchiò sul movimento lento della baia, in agosto, infestando la tenebra con un querulo biancore, egli si ritirò nella stanza del seminterrato sotto la casa, a studiare i diversi aspetti dell’acqua, le navi in improvviso contrappunto sulle scale ascendenti del mare, e ad aspettare l’irruzione, al di là delle colline infeconde del suo cervello, dei soldati di bronzo, il lievito del lampo dei loro coltelli». (Temporale).

Caterina Ricciardi afferma:

«I sacred places italiani, i sacred landscapes della sua America dei caribù, dell’Appalachia e del Blue Ridge, visibile dalla collina del Monticello di Jefferson a Charlottesville, sono la haeccitas che respira nello «stile» di Wright, anche nel rovescio genialmente sovversivo della voce orfica i Campana. Ma tutto avviluppato nella lingua, e dentro la sua (di Wright) «pelle», tutto interiorizzato verso l’espressione devozionale tesa alla trascendenza, all’oltre dell’hic et nunc, perché i monumenti dell’ «intelletto che non invecchia», quelli dell’arte (e della natura, se nessuno la distuba) sono eterni».

Il ricordo, per Wright, è la distillata e calibrata radiazione che illumina ciò che c’è. La frammentazione apparente gli serve per affrescare la pagina, alzare le immagini dove cade la luce, e dove l’ora orfica, che sbanda sull’acqua, si ritrae distendendosi.

Scrive Roberto Galaverni:

«Si tratta di un poeta mai acquiescente, ma mosso invece da inquietudini radicali, di natura esistenziale e insieme metafisica, che fa reagire volta a volta con l’occasione particolare. Wright è a caccia del proprio destino, niente di meno. Attraverso un intreccio di piani sequenza e di continui dislivelli temporali («ricordo», dice tante volte), in cui accanto alle percezioni dirette tanto spazio hanno la riflessione e il giudizio, si rivolge ai luoghi come a una costellazione da interrogare in vista di un orientamento, di una consistenza, più generalmente della propria identità personale».

Sono le vene familiari che esplorano la compagine sapienziale del suo gesto, l’indirizzo confessato delle penombre (Ricordando San Zeno), il sigillo orfano oltre il guanto della finestra, quando i propri accordi spezzati, in uno sfilato noumeno di striature d’aria, avranno il sostegno del sole e della tregua sdraiata dell’indicibile.

La lunga nota è la sua trafittura musicale, l’istantanea tradotta di un rapporto ricolmo che forgia gratitudine e chiede l’oscillazione dell’ immaginazione e della misura, rilasciando poi tracce, ricordi, significati di onde e buio purpureo e inscritto, boccioli di luna allontanati e luci diverse nell’intarsio del cielo.

Moira Egan e Damiano Abeni, nella Postfazione, si soffermano sul legame dei testi con i luoghi, sia come lascito e sia come concrezione trascendente, finendo per  includere il bordo dell’infinito, la sua maestà e la sua suggestione che spreme ogni chiarore e punto di fuga: «Wright ricerca costantemente la trascendenza nel quotidiano, e sa trovare il sublime negli angoli più bui e nascosti del nostro mondo, rendendolo in una musica che- senza farcelo pesare – spesso parla di se stessa e del modo in cui viene costruita» (p. 345).

È la Venezia che si stende come seta «sull’orlo del mare e del cielo notturno, / albescente alla luna», la Milano, nitida e asciutta del ’59, dove i viali finiscono in lotti non edificati o Roma, smalto ocra al tramonto su via Giulia, come quando «ricade la luce dalle finestre affacciate a oriente sulle sedie di vimini»:

«A Garda, su Punta San Vigilio, il lago / a primavera è come il mare, / vento che smuove le foglie d’ulivo come sciamo di pescetti di palude sotto i vigneti, / flusso e riflusso del tramonto oltre Sirmione, / voce piatta delle acque / Che ri-raccontano la propria storia, ininterrottamente, come per scaricarsi / di una colpa non dimenticata, / e non alleviata / sotto la consolatrice mano del buio, / le nubi su Bardolino che dragano il cielo in cerca dei corpi / morti di chi si rifiuta di risorgere, / con le vestaglie arancione e i corsetti fiammeggianti che rotolano lungo le colline, / vento notturno ormai tra gli ulivi, / nessun suono se non vento dal nulla / sotto le stanche stelle italiane…».

Il suo nodo dispiega la figura con una densità indomita, unisce tutto gli elementi della realtà, fornendo una visione elencata e potente di ultimità («E le iridescenti bluse di luce che indossano gli alberi. / E i cerchi-sutra degli aironi guardabuoi che ruotano via oltre i piovaschi. / E le marimba chiodate dell’alba che scuotono i loro amuleti… / Presto sarà ora della lunga passeggiata sotto terra verso il mare»).

O questo ritratto prezioso e tragico che affiora, indissolubilmente, come un oggetto d’arte:

«I fiori d’arancio hanno lasciato cadere le loro trame / sul pavimento di pietra del cuore / più di una volta / tra le stelle di ieri sera e le stelle di ieri sera. / E I Preludi hanno lasciato i loro anelli / sul gesso bianco delle pareti. / E l’armonica ha suonato e suonato. / E adesso, sotto gli alberi da frutto, / gli ulivi argento e poi non argento, il vento / dentro loro e poi no, il vecchio / seduto nel sole calante, / del tutto rilassato su una sedia nel sole che cala, foglie smosse dal vento. /  Il mondo non è niente per lui. / E la musica non è niente per lui, né il sole di mezzogiorno. / Solo il vento importa. / Solo il vento quando si muove nel lucore di latta delle foglie. / E i fiori d’arancio, / sparsi come poesie sulle pietre levigate» (Paesaggio con figura seduta e ulivi).

I colpi di attenzione di Wright sono, invece, autoritratti tra i nomi diretti: «Madonna dell’Ortolo. San Giorgio, arco e pietra. / Le pendici collinari alte sul Piave. / Luoghi e cose che mi hanno colpito, Walt, / In Italia. A piedi, Gran Catalogatore, vent’anni e passa fa. / San Zeno e il Caffè Dante. Il sedile di Catullo. […] Sulla tomba di John Keats / scende la sera invernale, dall’abito senza stelle e bordato di ghiaccio, / puri respiri di coloro che risorgono dai morti. / Dino Campana, Arthur Rimbaud. / Hart Crane e Emily Dickinson. Lo Château Nero», o lagune in cui, nell’immagine dantesca, il sigillo delle labbra dilavate incontra l’acqua limpida, brillando nelle stelle fisse come una fiamma astrale, o come la lingua perduta del ricordo di Hart Crane diviene la matita di pioggia e l’orologio che si ripiega nel petto.

Questa forza attesta il rinvenimento dello «spiritus loci abitante lo spazio italiano e, più tardi, dei paesaggi delle sue origini, stabilendo una continuità di sguardo fra mondi diversi, cosa che non fa di lui un semplice poeta “del viaggio” e della notazione diaristica ma una mente inseguita da una quête metafisica, anche quando si ferma a osservare «insetti luminosi» o a commentare un dipinto» (Caterina Ricciardi).

Come se ci fosse una fine indecifrabile al linguaggio che conosce la meraviglia stupita dell’altezza immobile e della dura eternità:

«Parlo della quiete, il riserbo / di un centrotavola di porcellana, un vaso lacrimale, una brocca. / Parlo dello spazio, che ha una sola faccia, / inesaudita, lasciata a essiccare. / Parlo della tempera, della forma, del vuoto / a cui questi oggetti stanno di sentinella, e da cui scaturiscono. / Parlo del peccato, goccia rossa, goccia bianca, / della sua deformazione e curvatura, che è azzurra. / Parlo di bottiglie, di rovina, / e di quello che usiamo per illuminare la tenebra, e del perché …» (Morandi).

O ancora: «Ora senza stelle, senza Madonne, Morandi / pare arcanamente confortato dall’assenza di conforto, / una cosa giusta al posto giusto, / paesaggio sussunto, linguaggio sussunto, l’ombra di Dio / liquida e indiscernibile» (Giorgio Morandi e il blues del parlare dell’eternità).

Scrive Irene Battaglini:

«La poetica di Morandi si inscrive nella lirica di Wright alla stregua di una “esperienza non formulata”[1], il cui senso si traduce alla coscienza non soltanto interpretandolo come la negazione di un’ Ombra pantoclastica, ma anche come un ground zero in cui gli oggetti verticalizzati sono posti in assetto orizzontale – in una tela, come al suo interno a costituirla come scena interiore del Sé e non come scena di natura morta, quindi non su una tela come un qualsiasi dipinto – si frappongono come scudo alla confusione di un mondo arcaico e inesplorabile, nel rispetto dei tempi di quegli oggetti, gravidi di nostalgia e struggimento, oggetti che vanno a costituire l’orizzonte di una cultura greca, dotata di forma con infinite qualità tonali, contro cui la confusione si frange inesorabilmente incontrando il limite di un logos che non si esperisce mai a sufficienza.

I vasi e le bottiglie dalla composta postura ieratica, si fanno simbolo di una pulsione di morte naturale, una poetica dell’ovvietà contro l’angoscia, come principio di sospensione di ogni stimolo negativo: e perciò la natura morta si traduce still life, poiché la pulsione di morte naturale in Morandi altro non è che l’opaco fondo biancastro delle ampie campiture di appoggio, che è più luttuoso e controsole di un pozzo atro, ma che per la sua stessa caratteristica si rifà ad un modello generale della mente umana in cui il lutto è un processo che attacca il fondo della psiche ma che sempre si situa dentro la vita. Il simbolico di Morandi non vive per se stesso, ma per qualcos’altro, e trova non solo eco ma anche segno ad esempio in Wright, poiché è il segno di quella fusione di orizzonti di cui parla Donnel Stern, tra ieri e oggi, tra memoria e inganno».

La ricerca di Wright è una voce lavoratissima e senza disfacimenti. Affronta il segreto della realtà risuonando di dolcezza struggente e di visione. Per cui anche la cesellatura fonetica, l’aria ironica, il dolore disperso come carta bruciata, le parole «su quella croce in cemento», la memoria compìta che raddoppia la dislocazione dei luoghi, non spezzano né disperdono la gioia tenuta.

Mantova, sperduta di nuvole e parole smemorate e intagliate, «Metà del cielo colmo di pioggia, metà no / canne spinte dall’acqua a restare immobili, / il fiume che scende in piena ma senza tracimare, / tutto capovolto, / il cielo a riposo sotto i piedi. / Parole, ma chi si ricorda? / Che parole sanno il cielo, le nuvole? / Sulla parete della residenza estiva, / dove lo lasciò Giulio Romano, / il leone beve sulla sponda del fiume, e gli alberi accudiscono», i giorni italiani nei grembi dell’Adriatico, le infinite gallerie, le incisioni di Vicenza e il Palladio acuiscono un processo di gloria memoriale, dove le impronte delle forme vivono di associazioni mentali splendenti che eccedono ogni natura temporale. Tutto si muta in questa giacenza di illuminazione irradiante. In Wright, la rievocazione è un incombenza composita, una soglia che affranca le miglia della sua inner vision «che raduna la luce come fa il vetro», facendole ricomparire e ritrarsi nel loro isolato raccoglimento, attraverso «l’oscura allegoria dell’anima / nella luce bianca dell’eternità»:

«Certe sere, quando le stelle emettono i loro segnali in codice come bande rivali, / e la nebbia scende a distendersi cauta come una sposa novella / sui gradoni degli alberi / che salgono dal mare / e il lampione che attrae zanzare comincia a rapprendersi / come una crosta sulla foglia di palma e sul falso pepe, / e il profumo delle giunchiglie / aleggia come un giardino di giugno / sul tavolo in cucina, / Scuderi chiama ad alta voce il mio nome / mentre salgo i sei piani verso la sua stanza / e mi ripresento sulla soglia, / elettrico e redivivo nel mondo della luce […]» (Giorni Italiani).

È la parola dipinta (si pensi ai grumi di tempera e ai cambiamenti cromatici di Roma, vissuta in una veste celeste) sui vortici di acqua di Pavese («I tuoi occhi saranno parole vane, un silenzio / che vedrai nel chinarti verso lo specchio / ogni giorno, / l’unico sguardo che ha per chiunque») o le riscritture di Leopardi, vissute e amate nei suoi interminati spazi che risuonano come vento («l’oceano senza orizzonte che manda segnali, / comincio a esumare dal marmo / interminati spazi, oltre, / silenzi così immensi da risuonare come vento») nei nascondimenti di mezzogiorno («Lo so che sei lassù, nascosto dietro la luce del mezzogiorno / e il cristallo dello spazio.»), nei passi delle stelle voltate alla luna, con la sua vita unita allo sguardo del cielo («Mezzogiorno, e tu sei di nuovo lì sull’altra faccia del cielo. / Due aquiloni hanno fatto il nido nella gonna secca / della palma / e graffiano la loro voce come unghie / sulle finestre dell’aria»):

«Se sei diventato un’idea eterna / che rifiuta ogni investitura nei nostri stracci rosa, / saggio al di là di corpo e forma, / o se dispensi altrove l’ostia di un diverso sole / in uno degli altri eteri, / da quaggiù / dove i nostri anni hanno fauci onnivore,  / ascolta ciò che dicono queste parole di uno che ti ricorda […] Non volevo dire altro. / Pensami di tanto in tanto, come io penso a te / quando la luna è una zecca dorata nel cielo estivo / gonfia di luce: / tu sei parte delle mie parti del discorso. / Pensami di tanto in tanto. Io penserò a te».

Annota Gianni Montieri:

«Questa è la grande capacità di Wright nel suo racconto di mezzo secolo d’Italia, di mostrare e lasciare campo alla nostra immaginazione, di accendere i ricordi e di destare curiosità. Wright è poeta che conosce a fondo il nostro paese per averci vissuto, averci soggiornato a più riprese. Lo conosce perché lo ama e, questo è evidente, lo ha amato da subito. Qui non leggiamo solo del paesaggio, delle colline, dei laghi o delle città. I versi di Wright ci portano da Verona a Mantova, da Milano all’Umbria, da Venezia a Positano, eppure non si limitano, naturalmente, a descrivere un luogo, ma dicono che il luogo è di chi lo sa guardare, il luogo è fatto delle opere d’arte che ospita, il luogo è la gente che passeggia e lavora, il luogo sono gli inverni e le estati, sono i profumi che avvertiamo fortissimi. I luoghi di Wright sono ponti di dialogo con i pittori e i poeti che lo hanno preceduto. I luoghi sono Pound, sono Leopardi, sono Morandi, sono Oscar Wilde, sono Dino Campana, sono Cesare Pavese. I luoghi di Wright siamo noi, ed è stupendo che ce li mostri come se fosse la prima volta uno che chiameremmo, sbagliando: straniero».

La nominanza esuberante come inconoscibile supplica e la sceneggiatura dell’impossibile trama che legano i luoghi alla smisurata esistenza e, allo stesso tempo, alla loro calibratura immaginifica. Le parole vivono la loro scena, anche quando sono disfatte o sperdute, e celebrano, indomite, la vocazione della realtà a farsi confine dell’essere e vita insorta, come accade in un testo sul suo pellegrinaggio ad Arquà, sospesa dimora di Petrarca: «Passo fantasma di stanza in stanza e cerco in ogni modo / di riamalgamare tutto ciò che continua a mancare, / di ricomporre ancora / gli arazzi e i focolari invernali, / le lunghe passeggiate e la solitudine / prima che i danni della storia e una fama malintesa / scompaginino tutto tranne il mero nome e uno schema di rime».

Questa insurrezione mobilita gli interstizi del dicibile come un gesto di attesa ascoltata e concentrata, dove la luce porge il suo diario, filtrando ciò che l’io genera, «come incastonato per caso nel ricordo, / incandescente e tenuto stretto».

L’ascolto e la fuga nella radice della rosa, in una limpidità di gioia, rivendicano un’ampiezza nuda che riportano la nascita delle cose all’indecifrato segreto dell’esistere e al gremito gemito del linguaggio, per risplendere e non abbagliare, poiché «tutto arriva fermarsi»:

«Dal mio balcone, l’azzurro intenso del sotto-cielo, / zaffireo e anodino, / fa da fondale alla corona della Madonna. / Più tardi, un lembo arcuato di nube, / come la scia di un jet o la coda di una cometa, vi volteggia più sopra, / anello medievale di Paradiso. / Oggi è di nuovo lo stesso azzurro, azzurro di redenzione / sul quale, tra i filari di vite, / il verde abbraccia forte la terra. / Non ancora, pare dire, oh, non ancora».

In un luminoso diario della notte, Wright ripone la sua ricerca assoluta come profondità affamata e nomade: «La notte assoluta si ritrae. / Brezze dure gelano sotto le mie palpebre. / La luna, corno di mica stampigliato, / risponde per me nelle arterie delle querce. / Desidero ardentemente acqua limpida, il silenzio / del rischio e dello splendore profondo, / la quiete dentro la solitudine. / Voglio la sua goccia sul labbro, la sua fredda impresa» (Diario della notte II).

Il forte e lucente abbraccio alla vita presente, che si sporge dai dettagli, è l’incommensurabile ampiezza di un abisso chiaro, dove persino l’oscurità è visibile, catturata dall’alone di ogni cosa dorata che lambisce il “tempio”, per dare significazione al reale (non solo le grandi città ma anche l’indocile provincia), per infrangere le cose e accoglierle, persino nei negativi di attrito, diventando stupore di vertigine: «Là fuori non c’è altro che luce, / disse l’artista mancato / con ragione, come al solito, a metà: / c’è anche un nonnulla di buio, lo sanno tutti, su entrambi i lati di entrambi gli orizzonti, / prescritto e in dipingibile, / che ci tocca i polpastrelli, in qualsiasi direzione decidiamo di saltare» (Vite degli artisti).

Le parole della poesia inseguono il dialogo inesauribile che scopre i netti recessi, i nessi, le scoperchiate miniature della realtà, non per possederle ma per perpetuare il senso di una leggera  gratuità che trasfigura la molteplicità in nitore e nostalgia azzima, bisogno ultimo e alternativa vitale disegnata dalle stelle.

L’aggregazione delle immagini si espongono nei ritmi che tratteggiano l’ombra disvelata e i lunghi fili del visibile nell’invisibile, ordinati in una sorta bellezza difficile:

«Ascolta, la memoria ha il cuore duro e la testa tenera. / Qualsiasi luce l’occhio veda, il cuore ripete buio, buio, buio. / Nulla è mai perso, dissi una volta. / Non era vero, / lo so adesso, con il passato che è un nascondiglio / oltre ogni possibilità di ricordo e recupero, a dispetto del nostro / desiderio e della nostra diligenza. / Quello che è andato è andato, / e si posa come gusci di riccio di mare sotto la palpebra della memoria, / giù nella tenebra dove non si muove nulla, / nulla tranne il cuore / quel pesce senza occhi, portato da correnti lente, invisibili / sotto un gioco della campana di isole azzurre dove, in superficie, / un giovanotto dallo spirito intatto riunisce alcuni amici / su un frangiflutti al sole / Poi uno di loro tira fuori una macchina fotografica».

Scrivono Moira Egan e Damiano Abeni nella Postfazione:

«Il filosofo-poeta degli Appalachi ha passato una vita a tradurre i segni del tempo e della natura in parole: parlando di noi stessi descrive la sensazione del caldo del sole sulla pelle, gli interminati viaggi delle nubi, la musica dell’acqua, le masse imponenti dei monti in poesie disegnate con la grazia di un calligrafo orientale, venate di metafore fini e sorprendenti. Al cuore delle sue poesie, spesso interpretabili come discorsi sull’ars poetica, c’è il tentativo di governare il linguaggio come mezzo per poter governare la vita, perpetuare il ricordo, sopportare la nostalgia, sempre nella speranza di trovare parole che non siano effimere» (p. 343).

La lingua, che definisce l’umano, non ha solo l’urgenza di dire ma spinge alla contemplazione e alla sacertà di ciò che si annuncia, che occorre conoscere e poi raschiare e cancellare, per raggiungere la nitidezza oggettuale, il carattere della sua floridezza, del suo raggio di fiamma e, infine, del suo tessuto cicatriziale. La grazia oscura del mondo, allora, è il territorio su cui lasciare il segno, per diventare mattino.

 

[1] “Oggi siamo particolarmente interessati all’emergere del senso di un’esperienza che prima non aveva significato, e sempre meno interessati a quella che Bollas ha efficacemente definito «la decodificazione psicoanalitica ufficiale» “ (Donnel Stern, in: Hoffman I. ,1998, p. 48).

6aefdee8c121fc9ec95d3c4ab9d0194a_w600_h_mw_mh_cs_cx_cyWRIGHT C., Italia, a cura di Moira Egan e Damiano Abeni, Donzelli, Roma 2016, pp. 160, Euro 18,50.

WRIGHT C., Italia, a cura di Moira Egan e Damiano Abeni, Donzelli, Roma 2016.

Italia sua, in “La Voce di Romagna”, 18 gennaio 2017.

BATTAGLINI I., Commentari e Lezioni di Psicologia dell’Arte, Scuola di Psicoterapia Erich Fromm, Prato 2017.

BRULLO D., L’avventura di Charles Wright l’ex soldato americano che rubò la poesia a Pound, in “Libero”, 31 gennaio 2017.

GALAVERNI R., C’è un americano in Italia ma, attenti, non è un turista, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 15 gennaio 2017.

GALGANO A., Il viaggio inciso di Charles Wright, (http://www.polimniaprofessioni.com/rivista/il-viaggio-inciso-di-charles-wright/), 4 gennaio 2014.

Hoffman I. (1998), Rituale e spontaneità in psicoanalisi, Atrolabio, Roma 2000.

McCLATCHY J. D., Charles Wright, The Art of Poetry, no. 41, Winter 1989.

MONTIERI G., Una frase lunga un libro #87: Charles Wright, Italia (https://poetarumsilva.com/2017/01/25/wright-italia/), 25 gennaio 2017.

RICCIARDI C., Wright. Luoghi e cose che mi hanno colpito in Italia, in “Alias – Il Manifesto”, 5 febbraio 2017.

STERN D. B., L’esperienza non formulate. Dalla dissociazione all’immaginazione in psicoanalisi, Edizioni Del Cerro, Pisa 2007.

La tempesta di Zbigniew Herbert

di Andrea Galgano 26 gennaio 2017

leggi in pdf La tempesta di Zbigniew Herbert

herbertLa pubblicazione, presso Adelphi, degli ultimi versi di Zbigniew Herbert (1924-1998), L’epilogo della tempesta, in un volume che raccoglie i testi poetici scritti tra il 1990 e il 1998, anno di morte dell’autore, con l’aggiunta di testi sparsi scritti tra il 1950 e gli ultimi anni, rende ragione a questo autore, attraverso «una poesia definita classica e intellettuale, ma permeata di quel romanticismo polacco che imponeva un modello di scrittore impegnato nella storia, poeta dell’oscura sofferenza esistenziale e bardo dell’opposizione nella Polonia di Solidarnosc […]» (Francesca Fornari, Postfazione, p. 173).

La poesia di Herbert non sa indugiare. Quando compone l’elegia del mondo, si serve della realtà per sfogliarla, provocarne la fibra, divulgando la sua pagina senza mediazioni e spingendo la speculazione filosofica alla catabasi stoica, permeata dal passaggio «dall’oggettivazione figurativa e culturale, dall’impersonalità e dal distacco delle schermature allegoriche, che costituiscono il tratto qualificante della sua fisionomia espressiva, a una pronuncia più personale e dolente, più esposta e coinvolta in prima persona» (Roberto Galaverni), e, infine, solcata dal transito solare:

«Chi sarei diventato se non avessi incontrato Te – Henryk Maestro mio / A cui per la prima volta mi rivolgo per nome / Con la riverenza il rispetto che si devono – alle Grandi Ombre / Sarei stato fino alla fine della mia vita un ragazzo buffo / Sempre alla ricerca / Affannato taciturno che si vergogna di esistere / Un ragazzo che non sa / Vivevamo in tempi che erano davvero il racconto di un idiota / Pieno di frastuono e delitti / La Tua severa mitezza la forza delicata / Mi insegnavano a stare nel mondo come pietra pensante / Paziente indifferente e sensibile al contempo» (A Henryk Elzenberg nel centenario della Sua nascita).

L’inclinazione della poetica herbertiana raccoglie la profondità della pietas, esponendola alla mitologia, allo scarto e all’avamposto di una umanità senza cesure, come dirà in un’intervista nel 1991: «Scrivevo poesie serie, tragiche, e adesso scrivo sul mio corpo, sulla malattia, sulla perdita del pudore»), che sperimenta la fine e il limite, il chiaroscuro-fervore dell’attuale, della testimonianza attonita e, infine, del tempio sacro del vivente che lotta ai margini attraverso le ombre chiare e le schiere inermi.

Afferma Valeria Rossella:

«[…] Herbert declina in una lingua scabra e precisa da tragedia antica, con allegorica figuratività, le sue parabole intrise di rigoroso ethos. Mai si abbandona al catastrofismo, al soggettivismo solipsistico, in questo incarnando la figura del poeta-testimone, tipica della poesia polacca, caratterizzata secondo Miłosz da un «costante connubio con la storia»: una poesia non ombelicale, lontana dal narcisismo e dal nichilismo di tanta lirica novecentesca. Fra i sontuosi visionari arazzi di Miłosz e il microcosmo metafisico della Szymborska, questo poeta che Adam Michnik ha definito un «guardiano delle tombe» per la sua profonda pietas stoica, ci parla di chi finì nella macina della storia come “I lupi” (i partigiani dell’Armja Krajowa) e di chiunque si oppone ostinatamente alla sua legge brutale e distratta. Questa pietas è la sua cifra, espressa tramite exempla, “parabole” come le definì acutamente Brodskij, tratte spesso dall’antichità greco-romana da cui era affascinato […]».

Elegia per l’addio, la settima raccolta di Herbert, uscita nel 1990, già presente in Rapporto dalla città assediata, antologia pubblicata da Adelphi nel 1993, a cura di Pietro Marchesani, rappresenta l’esito di una incendiata sovrapposizione di natura e storia, regno vegetale, umano e animale, attraverso una impronta che dispiega metafore di violenza nascosta e pervasiva, segnate da una ferita urgente e unite da folli cause perse.

Lo sguardo sull’uomo dimidiato e percosso (La famiglia Nepenthes) penetra nelle fibre scure del male radicato nelle fessure, laddove l’assenza di innocenza («e noi viviamo in armonia con la nepente / tra campi di concentramento e di sterminio poco ci importa / di sapere che nel mondo vegetale l’innocenza – è assente») banchetta alle irresistibili spire dei nettari vischiosi, come «polizia segreta di una certa superpotenza».

Il prugnolo, nonostante «le peggiori previsioni degli indovini del clima», fiorisce a dispetto del «gelo polare conficcato fino in fondo all’aria», esponendo la sua sopravvivenza e il suo concerto solista alle bufere accecanti e alle note sparpagliate, a «questo cespuglio ai bordi delle strade» che «spezza / la congiura dei prudenti», diventando franto dispendio di giovinezze perdute, «come gli insorti che malgrado gli orologi della storia / malgrado le peggiori previsioni / malgrado tutto iniziano».

La colpa e il perdono toccano assottigliano il giudizio della coscienza, quando «il proiettile che ho sparato / da un piccolo calibro / nonostante le leggi di gravitazione / ha fatto il giro del globo / e mi ha colpito alle spalle / come volesse dirmi / che niente a nessuno / sarà perdonato» o si è tentato di cancellare dalla memoria «con l’acqua della pietà / la fuliggine il sangue le offese» perché «la nobile bellezza / il fascino dell’esistenza / e forse persino il bene / dimorassero in me».

Non è un mondo perduto bensì un aguzzato recupero di ciò che è, innocentemente, perduto: ombre sporche, venti senza alberi e senza nuvole, luna conficcata nel cielo, poiché il poeta è, come scrive ancora Roberto Galaverni: «un uomo lasciato improvvisamente scoperto dal ritiro della spessa coltre della Storia, e, dall’altra parte, dal possibile tradimento della vita. Tutto il suo mondo, il suo stesso sistema poetico, solo poco tempo prima assolutamente convinto e agguerrito, sembrano a questo punto ritorcersi contro di lui».

Al suo alter ego, il Signor Cogito, lascia la sua disillusione amara e radiosa, il suo eroismo e la sua casa oscura e incerta, il numero delle figure che se ne vanno, l’agenda corrosa e nebulosa del proprio esistere, fino alla trasformazione artistica della sofferenza e della memoria concava, come un sigillo, poiché «per Zbigniew Herbert, le regole del mondo erano chiare, stare dalla parte dei deboli, ambire a un posto nella schiera dei grandi spiriti, stare dalla parte degli oppressi» (Jaroslaw Mikolajewski).

Come ad Hermes, invece, il rammarico del passo danzante della sua preghiera inesauribile o il colore della terra del commiato:

«[…] tutto si dispiega in fasce orizzontali – un fiume pigro / l’altra riva scoscesa che ripida digrada verso il basso / rivela infine quel che si doveva confessare / argilla sabbia rocce di calcare strati di terra nera / e il bosco gracile ora un bosco che piange / sono felice ovvero libero da illusioni / il sole appare poco ma in compenso offre / spettacoli di splendidi tramonti quasi alla Nerone / sono calmo dobbiamo prendere commiato / i nostri corpi hanno assunto il colore della terra».

La disposizione di Herbert, quindi, pur abitando e patendo la schiera nefasta delle ombre novecentesche e la pura cognizione della sofferenza, non genera mai «l’abdicazione» della dignità (Jaroslaw Mikolajewsky), vivendo il ciglio e il dolore dell’orizzonte ultimo, sperperando i sigilli increspati di ciò che ascende e della domanda intagliata nel sangue, aggrappato al sapore dell’ostia e del lenzuolo bianco, alla parola nuda che tace ed affiora («a lungo si dovrà lavorare / per riportarle fuori / si dovrà accelerare / il ritmo del cuore / o rallentarlo / e forse ancora una volta / qualcuno le scriverà su un muro / nelle catacombe della notte / sul vetro latteo dei mattini»), preparando il rilascio di ogni possibilità detenuta, come accade a Barabba, terrorista, vasaio, mulattiere, usuraio, proprietario di navi o spia al soldo dei romani, che «pulisce le mani macchiate di delitto / nell’argilla della creazione»: «Lui Imperatore delle proprie mani e della testa / Lui Governatore del proprio respiro», mentre «il Nazareno / è rimasto solo / senza alternativa / con il ripido / sentiero / di sangue».

Antonella Anedda, infatti, sostiene:

«È vero, questo tardo Herbert che scrive sul ciglio della morte dice più spesso «io» rispetto al passato, ma lo fa mantenendo una distanza di sicurezza; scrivendo poesie che reggono, dalla struttura perfetta, dove ogni aggettivo è calibrato e ogni dettaglio ha un senso. Nessun ammiccamento al lettore, nessuna civetteria o lusinga. Non solo chi scrive, ma anche chi legge deve assumersi le proprie responsabilità. La reticenza – quella che ha dato vita alle tante poesie sul Signor Cogito, ironica considerazione anti-cartesiana – resiste intatta in una confidenza non ostentata ma piena di pudore, anche nell’osservazione del proprio corpo invecchiato, malato: strumento di conoscenza, che ritrova – attraverso la memoria del professore di medicina legale, chino sul torace dei suicidi – la pietà di Antigone».

Rovigo (1992) rappresenta, per Herbert, lo strato di un passaggio e di una iniziazione, in cui la prospettica sospensione tra passato e presente si accompagna alla crocifissione del luogo e dello spazio, e dove non esiste sacrificio vano. La grande cultura italiana è il segno del suo sguardo, attraverso di essa, anche ciò che è minimale, diventa centro, perché

«in Herbert è il dato concreto, il dettaglio il punto di partenza per una riflessione che però va sempre verso una generalizzazione che valga per tutti. […] Nell’opera poetica di Herbert i grandi temi tralucono dalle piccole cose, da dettagli apparentemente inessenziali. Il fuoco della lente di ingrandimento è sempre sui particolari, sui dettagli delle situazioni rappresentate; ogni esistenza è singolare, precaria, drammatica e irripetibile» (Giorgio Linguaglossa).

Scrive Josif Brodskij:

«Herbert è un poeta molto italiano, poiché la sua estetica risente moltissimo dell’arte italiana, della pittura in particolare […]. La figura del Rinascimento che viene in mente quando si legge Herbert è, senza dubbio, Piero della Francesca, perché le poesie di Herbert si interessano, per così dire, più della geometria del fondale del dramma che dei suoi personaggi centrali. Sì, geometria è la parola giusta: più che a qualsiasi altra cosa le sue poesie assomigliano a teoremi o, se vuoi, a parabole: per via della loro reticenza e del loro rigore» (Lettera al lettore italiano, Rapporto della città assediata, p.17).

L’orlo della confessione intima, la pietas irrinunciabile come avvertimento dell’umano, l’incanto della parola avversa alla refrattarietà del tempo e la demarcazione trascritta e inesausta della domanda a Dio (sconosciuto),  diventano «un sudario di terra calato con premura / sugli occhi». È il pudore, rarefatto di azzurro, della sua humanitas.

Sulla classicità oraziana di Herbert, Francesca Fornari, così scrive:

«Le figure mitologiche e i personaggi della storia classica sono apparizioni via via più sporadiche nei testi di Herbert, che nel raccontare il duello tra Achille e Pentesilea coglie l’eroe in un momento di pietà e commozione davanti alla bellezza dell’amazzone uccisa (Achille e Pentesilea). Il Dioniso di Herbert è incarnazione del motivo del viaggio, naviga verso l’ignoto in una spedizione senza meta che è anche il viaggio della vita stessa, dove l’unica certezza è la consapevolezza della nostra ignoranza (Opera a figure nere di Eksekia). Nell’ultima fase della sua scrittura Herbert compone testamenti spirituali, affida al lettore le confessioni intime di un io che abita «sull’orlo del nulla»: finito il tempo dell’emergenza storica, per la prima volta infrange la propria regola poetica dell’oggettività, che imponeva il riserbo nell’esprimere emozioni, e dice semplicemente: «la mia anima è triste»» (p.174).

Il fondale di Herbert, allora, non è un epicedio dell’umano bensì la resistenza di ciò che è umano contro la depressione, la malattia, il limite, l’amarezza, la decadenza di ciò che ci circonda. È l’arte che è specchio «che passeggia per la strada maestra», riflettendo «i miraggi / l’aurora boreale / l’estasi dei posseduti / i banchetti degli dèi / gli abissi / lotta anche con la storia / con alterni successi / tenta di addomesticarla / di darle un senso umano».

Persistono le rovine ma sono punto focale di ciò che, a dispetto di tutto, resiste all’assedio del tempo, non soltanto come tregua ma come resurrezione scandita. In questa forza risiede il suo canto strenuo, la sua parola non sbiadita e il suo tentativo di ripristino della realtà «collosa» che unisce tragedia, sacrificio e riscatto di incontri sicuri («Solo i bottoni inflessibili / sono scampati alla morte testimoni del crimine / salgono dalle profondità in superficie / unico monumento sulla loro tomba / sono testimoni che Dio farà la conta / e avrà pietà di loro / ma come potranno risorgere col corpo / se sono parte collosa della terra») (I bottoni, dedicata a suo zio Edward Herbert, ucciso dai Russi a Katyn): «Con la legge dei lupi hanno vissuto / per questo la storia ne ha taciuto / di loro nella neve molle è rimasta / urina giallastra e quell’orma di lupo / più rapida di uno sparo a tradimento nella schiena / li colpì al cuore la disperata sete di vendetta / mangiavano miseria bevevano acquavite / cercavano così di resistere alla sorte» (I lupi).

Il suo passaggio affronta nubi, quelle di Ferrara, ad esempio, vissute attraverso il precipuo scorrimento di natura e creazione dipinta (il Ghirlandaio), che «scorrono / molto lentamente / sono quasi immobili» e rivelano il destino mancato di chi non ha potuto scegliere «niente nella vita / secondo il mio volere» e che ha sempre cercato, non trovandolo, il rifugio nella storia o la sua sosta. Perché è in loro la destinazione umana, le estensioni di tempo, di dimenticanza e di durata, la persistenza paziente e l’osservazione sofferta, le palingenetiche ginocchia dell’infanzia (quelle della nonna che gli faranno scoprire «la ruvida / superficie e il fondo / della parola»), la precisione del male.

La prospettiva che spinge verso l’infinitesimale presenza delle cose trova in Rovigo, il paesaggio grigio e la città di pietra e carne, e come afferma Francesco M. Cataluccio, essa diviene «per lui il simbolo della normalità e delle occasioni perdute, di qualcosa che non riusciamo, forse non vogliamo del tutto, afferrare: una città di passaggio, come la nostra vita»:

«STAZIONE DI ROVIGO. Associazioni incerte. Un dramma di Goethe / o qualcosa di Byron. Sono passato per Rovigo / n volte e per l’ennesima volta ho compreso / che nella mia geografia intima è un luogo / particolare anche se non cede di sicuro il passo /
a Firenze. Non vi ho mai messo piede / e Rovigo si avvicinava o fuggiva all’indietro / Vivevo allora d’amore per l’Altichiero / dell’Oratorio di San Giorgio a Padova e per Ferrara / che amavo poiché ricordava la / saccheggiata città dei miei padri. Vivevo sospeso / tra il passato e l’attimo presente / crocifisso più volte dal luogo e dal tempo / E tuttavia felice fermamente fiducioso / che il sacrificio non sarebbe stato vano / Rovigo non si distingueva per niente di particolare era / un capolavoro di mediocrità strade diritte  brutte case / solo prima o dopo la città (in base alla direzione del treno) / dalla pianura si alzava all’improvviso una montagna / – tagliata da una cava rossa simile a un prosciutto festivo ricoperto di un cavolo crespo / e oltre a ciò niente che divertisse intristisse attirasse lo sguardo / Eppure era un città in carne e pietra – come altre / una città dove qualcuno ieri qualcuno è morto qualcuno è impazzito / qualcuno per tutta la notte ha tossito disperatamente / IN COMPAGNIA DI QUALI CAMPANE APPARI ROVIGO / Ridotta a una stazione a una stazione una virgola una lettera cancellata / niente soltanto una stazione – arrivipartenze / e perché penso a te Rovigo Rovigo».

È ne L’epilogo della tempesta, che il suo accertamento del dolore impalato si fa più denso e infittito: «ogni palmo di terra è stato scavato e devastato / dall’attacco precedente spianato del tutto e allora perché / questa furia del dolore se questo è un segnale / e il dolore è un segnale inviato allo stato maggiore».

Il suo breviario è preghiera («Signore, / Ti rendo grazie per tutta questa cianfrusaglia della vita, in cui annego senza scampo da tempi immemorabili, mortalmente assorto nella continua ricerca di minuzie»), linea del respiro, «sospesa come i ponti, come l’arcobaleno, come l’alfa e l’omega dell’oceano», accordo lacerato e confessione di falde («Signore, / so che i miei giorni sono contati / ne rimangono pochi / bastano perché io possa raccogliere la sabbia / con cui mi copriranno il viso / non farò più in tempo / a riparare alle offese / né a chiedere perdono a tutti / coloro a cui ho fatto del male / per questo la mia anima è triste»).

L’intimità dell’io espone così le sue ultime battute nude: «perché / la mia vita / non è stata come i cerchi sull’acqua / un inizio che cresce / risvegliato dentro profondità infinite / si dispone in anelli falde gradini / per spirare sereno davanti / alle tue imperscrutabili ginocchia»).

Il dolore del corpo e il terrore notturno, gli oggetti silenti e appartati nella loro concretezza, ontologicamente descritti in tutta la miniata sofferenza quotidiana («Signore, Ti rendo grazie per le siringhe con l’ago spesso o fine come un capello, per le bende, per ogni tipo di cerotto, per l’umile impacco, grazie per la flebo, i sali minerali, le cannule, e soprattutto per le pasticche di sonnifero dai melodiosi nomi di ninfe romane, / che sono buone perché chiamano, ricordano, sostituiscono la morte»), la lingua non arresa di sogni e fiori salpati e distratti compongono la trasparenza dell’ultima parola («la mia vita / dovrebbe descrivere un cerchio / chiudersi come una sonata ben scritta / e adesso vedo chiaramente / un istante prima della coda / gli accordi lacerati / parole e colori assortiti male / strepito dissonanze / le lingue del caos») e la compassione verso un’attesa «scevra da qualunque ansia thanatofobica o anche thanatofilica, vissuta con l’animo sereno di chi vede la nave ormai prossima al porto e riflette su ciò che è stato, con tono pacato, ma non per questo privo di tragicità» (Andrea Ceccherelli).

Ancora una volta al Signor Cogito, egli consegna la sua privata allerta, l’ironia e le mani impazienti, il transito alla sua cara Leopoli «città che non esiste su alcuna mappa / del mondo», dove «c’è un pane che può nutrire / tutta la vita nero come la fede di rivedere / la pietra il pane l’acqua il permanere delle torri all’alba», l’appartenenza al tempo e allo spazio, l’impossibilità, la fedeltà iscritta e l’attesa, la memoria sopravvivente all’oblio, l’infinità e la coscienza, il corpo inappellabile, e la sua anima, nell’esilità del respiro doppio, così portata in spalla, sarà pronta al volo nella piena luce del giorno: «Dove passerai l’eternità? / Non lo so. Forse tra la sabbia delle nebulose» (Conversazione).

32fe833dce51df0052fea6b452e01645_w600_h_mw_mh_cs_cx_cyHERBERT Z., L’epilogo della tempesta. Poesie 1990-1998 e altri versi inediti, a cura di Francesca Fornari, Adelphi, Milano 2016, pp. 180, Euro 20.

HERBERT Z., L’epilogo della tempesta. Poesie 1990-1998 e altri versi inediti, a cura di Francesca Fornari, Adelphi, Milano 2016.

  • A poet Who Misses Censors, in «Newsweek», 1991.
  • Rapporto dalla città assediata, a cura di Pietro Marchesani, Adelphi, Milano 1993.
  • Rovigo, a cura di Andrea Ceccherelli e Alessandro Niero, Il Ponte del Sale, Rovigo 2008.

ANEDDA A., Zbigniew Herbert, la pianura fredda tra le parole (https://www.alfabeta2.it/2016/11/20/zbigniew-herbert/), «Alfabeta2», 20 novembre 2016.

CATALUCCIO F.M., L’epilogo italiano di Herbert, in “Il Domenicale- Il sole 24ore”, 30 ottobre 2016.

CECCHERELLI A., Zbigniew Herbert, il morso del tempo sul corpo del dolore, in “Il Manifesto”, 4 settembre 2016.

CUCCHI M., Novecento in versi. Il secolo d’oro della Polonia, in “Avvenire”, 29 dicembre 2016.

GALAVERNI R., Il nemico non c’è più, il vate si congeda, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 25 settembre 2016.

LINGUAGLOSSA G., “Rovigo”. Una poesia di Zbigniew Herbert Traduzione di Andrea Ceccherelli e Alessandro Niero. Commento di Giorgio Linguaglossa, (http://www.giorgiolinguaglossa.com/index.php/giorgio-linguaglossa-critica28).

ROSSELLA V., recensione di HERBERT Z., L’epilogo della tempesta. Poesie 1990-1998 e altri versi inediti, a cura di Francesca Fornari, Adelphi, Milano 2016, in «Poesia», dicembre 2016.

 

I cieli celesti di Claudio Damiani

di Andrea Galgano 2 gennaio 2017

leggi in pdf I Cieli Celesti di Claudio Damiani

presente nella Bibliografia critica su www.claudiodamiani.it

claudio-damianiLa nuova silloge di Claudio Damiani (1957), uno dei maggiori poeti italiani, Cieli celesti, edita da Fazi, è una popolata emersione di dettagli e incontri, visualità splendente e cromature di fondi.

Ma se l’eco dell’antica tradizione poetica, che si prolunga fino ad Orazio, passando per Leopardi, Pascoli e Caproni, non ama rinserrarsi in una racchiusa condensazione di voce, la poesia di Damiani è una domanda di incontro. Domanda tersa e piovuta come l’ambientazione azzurra, che pur prendendo l’accento dalla coltre intensa di Beppe Salvia, trasla il suo apice attraverso una profonda creaturalità e una estremità limpida che rafforzano la sua scaturigine nella pacatezza e nella origine.

La domanda elementare di Damiani, allora, si fonde in tutta la sua peculiare destinazione nella contemplazione del cielo vivo, nel segreto riflesso del tempo e nelle trame del vivente che lanciano il loro indefesso dialogo con il reale e la sua impossibile smarginatura:

«Riverso sul lettino in terrazzo / guardo il cielo azzurro, / azzurro di un azzurro fitto, / pieno, come più mani di azzurro. / Come siete lontani stelle e pianeti / dell’universo, quando potremo mai incontrarci, / come, creature vive e intelligenti, uomini / come noi, sparsi come siamo tutti / in uno spazio tanto grande? / Così adesso restiamo noi qui, pensando di essere soli / perché anche il tempo è tanto lungo, come lo spazio. / Vi pensiamo però, esserci cari, e ci sarà un tempo / in cui ci incontreremo».

Roberto Galaverni afferma:

«Damiani s’interroga sulle ragioni del suo idillio appena increspato da qualche nube e ombra lieve. Il che significa che sta riflettendo anche sulla necessità stessa della sua poesia o anche, almeno agli occhi di un critico di poca fede, sulla sua plausibilità. Il registro espressivo e i referenti in ogni caso restano sostanzialmente gli stessi elementi basici e situazioni elementari per un lessico altrettanto basico ed elementare. Ecco allora: creatura, vita, cuore, terra, aria, cielo, azzurro, prato, sole, luna, stelle, universo, amore, e poi gli animali, le rondini, i passerotti, il gatto. Damiani prova a rendere ragione della realtà di quello a cui sempre ha guardato: la nuda e semplice presenza della vita al di sotto o, che è lo stesso, al di là della storia, delle faccende quotidiane, dell’impegno per dirottare su chissà quali strade il nostro destino».

Lo sguardo, che celebra e contempla, congiunge e domanda, destina e si immerge, diventa l’orma basilare di un approdo di chiarità (il monte Soratte, ad esempio, fissato in tutta la sua cosmica apparizione di millenni e limiti umani come cicatrici) e di un respiro che ha bisogno del prosimetro della realtà per intensificare la lingua e il suo cuore luminoso: «L’aria tenera della tua bocca / la respiro a pieni polmoni, / ti respiro dentro nel corpo / fin dentro l’anima, cielo».

O ancora come un ascolto o un amore, la nitida limpidezza diviene presenza, natura pensante e universo, in cui la giuntura umana che è chiamata a scoprire la vita e la vivezza, l’esistenza e il suo germoglio, la sua angolazione e il suo mistero, persino la sua ironia:

«Stamattina il cielo era azzurro, con nuvole / ora è completamente grigio, coperto. / Il cielo coperto è meno bello / non tanto perché è buio / e dà una sensazione di freddo / ma perché copre, appunto, il cielo. / La sensazione è quella di una cappa, di un muro / che ti separa dal cielo. / Se solo pensassimo, se riflettessimo un attimo / che oltre quella cappa, oltre quel muro / il cielo azzurro risplende / con tutte le stelle e lo spazio / forse saremmo meno / meteoropatici».

Il mistero dell’esistente, quindi, è grazia di danza improvvisa. Il tocco delle cose, come la fisica di Luzi, restituisce il dono epifanico atteso, in cui la conversazione è il profumo del verso, la corsa del tempo, il mondo che si sporge. La dettagliata cifra dell’essere è sempre nominazione:

«C’era un prato verde verde / con cielo azzurro e sole, / aria fredda e erba verde e grassa, / primi di aprile, mattina, / vento di tramontana /  e un pastore con dietro / tutte le pecore, ferme / per attraversare. Passo con la macchina / e dietro di me attraversano le pecore. / Quando ritorno, dopo dieci minuti, / le pecore stavano riattraversando. / E tu, luna, stavi guardando, / tu che ti muovi con passo lento di danza, / grande sfera aerea innamorata della terra, / te che pure, un giorno, nascesti / partorita dalle stelle, / forse una costola della terra, / forse nascesti dall’unione / di tanti piccoli corpi, / crescesti come una bambina e diventasti / questa ballerina meravigliosa che si muove con grazia / ammirata da tutti, che balla tutta la notte».

Il territorio poetico di Damiani (e il suo paesaggio appenninico), non è una frazione idillica e nascosta, lambisce la realtà non solo con l’immediata riflessione luminosa ma è attraverso l’ apertura e l’incontro che l’inatteso avviene: «Sai quegli scienziati caparbi / che ripetono all’infinito l’esperimento / con una pazienza disumana? / E proprio quando stavano per desistere, / proprio quando stavano, sfiduciati, per lasciare perdere / quella pietra si illuminò di luce azzurra».

Solo così il dipinto del mondo si innerva nel processo segreto di epistemologia e stupore: «Sono in terrazzo, sdraiato / vedo il cielo azzurro, / a un tratto vedo alcune rondini, / sono arrivate, è primavera».

Lo stupore è la sua forma di conoscenza che si increspa e si concede in ogni invocazione e proposta che richiama il piccolo spazio di una porzione di sole o di una tenerezza d’aria che consegna baci celesti da prendere e voci lontane: «Prendo il sole come un albero / nel mio piccolo spazio, il mio terrazzo, / prendo la mia porzione di sole / piccola ma per me enorme, / non comparabile con nessuna cosa, / e col sole prendo quest’aria tenera / la respiro tutta / e non ne lascio niente. / Prendo i tuoi baci, cielo / e non ne rifiuto nessuno. / E le chiacchiere degli uccelli / mi sono care, e le voci, / lontane, degli umani».

O ancora, attraverso una vigile attesa che ricostituisce la genesi di ogni tempo da rincorrere come un respiro che, come in ogni densità d’istante, bacia l’aria: «Questo cielo, come sarebbe difficile / spennellarlo, voglio dire dipingerlo, / sarebbe un’opera difficilissima / e invece ecco, apri la finestra / e te lo ritrovi qui, bell’e fatto. / […] Ma tu tesoro mio puoi non credere in quello che vuoi / ma un universo e miliardi di anni / ti sembra poco?».

La poesia di Damiani  si nutre dell’accortezza generativa delle cose che si apre all’infinito, alla limpidezza, al «gorgogliare sommesso / dell’acqua». Sono le stesse cose a parlare a rivelarsi in un momento di naturalezza imprevedibile e generosa, che pur perdendosi, dà vita in una gioia fresca:

«Caro Sole, tu ogni giorno / non so quante tonnellate di materia perdi / e anch’io, ogni giorno, perdo qualcosa, / ogni giorno perdiamo un giorno / ma quando sarà finito il tuo tempo / si potrà dire di te: è stata una stella generosa, / per tutto il tempo ha illuminato e scaldato / i corpi intorno, senza fermarsi mai / dando tutto il possibile di sé, / sempre al massimo delle sue possibilità, / tutto quello che poteva fare l’ha fatto / e tutti sempre l’hanno ringraziato / e l’hanno adorato, l’hanno benedetto / e nella sua lunga vita lui ha sempre gioito / della riconoscenza di tutti».

Le sue epifanie, i suoi balzi avvolti e i suoi avamposti soli dove «il sole ci bacia e la brezza / ci vellica le guance, / il vento muove le nostre pagine / e i nostri giorni volano», le ombre celate e ritrovate che vivono nelle uniche sproporzioni («è notte, vedo il cielo nero / senza stelle, e così nero lo sento / e così grande, così grande / e penso a quando era piccolo / che avrei potuto tenerlo / in una mano, / e quasi mi viene da piangere / a pensare che poi sarebbe diventato così grande / e con tante terre e tanti soli / e infiniti animali e infiniti uomini / di infinite razze, che dopo tanto errare / si sarebbero sempre più avvicinati, / si sarebbero alla fine ritrovati»), e i suoi crinali splendenti e intensi («[…] ma ora, senti come è tenera l’aria / tiepida e fresca del cielo notturno / e viene un odore di fiori di acacia / e di biancospino. / E senti il cuore mio come batte / e senti il tuo, e c’è qualcuno / che chiede di entrare, anzi è entrato / e cammina dopo di noi»), i cambi d’aria e lo scioglimento degli elementi (aria, luce, acqua), nelle infinite variazioni della vita degli alberi, procedono in una metafisica dichiarativa e ragionativa che gemma nei semi sul tracciato.

Con l’infinitamente piccolo e le grandezze, egli evoca e rievoca la sua appartenenza («[…] siamo un numero molto grande / che può far paura, nel nostro numero è Dio / in qualche modo, e un valore molto piccolo / è ciò che è nostro e solo nostro di individui, / il valore individuale potremmo dire / che, in quanto piccolo, è però un valore / che nullifica ogni nichilismo, / che dà a te, amore mio, e a me / un’unicità che ci fa divini»), ed è da essa che si esprime, appieno, la libertà e il suo legame con la comunità e con tutto ciò che c’è, come un tenue miracolo di unione prossima:

«Dolce cielo celeste / dipinto di azzurro tenero / e voi verdi monti e voi / valli e boschi, nuvole / che là, verso l’orizzonte / navigate lente, e tu sole vicino / al tramonto che spandi questa luce / d’oro nell’aria, e ogni cosa fai tiepida / del tuo calore, e tu aria che muovi / i miei capelli e spiri sulle mie / guance e le pagine volti dispettosa / del quaderno ove scrivo… / state insieme, vi date come la mano / contenti di essere uniti, / di essere l’uno all’altro / indispensabili, di essere insieme / questo miracolo che vedo».

Roberto Galaverni afferma: «Le questioni sono ancora una volta le più elementari, spesso riprese non a caso dalla filosofia presocratica: fissità e mutamento, il senso (detto come direzione) della natura, il rapporto tra il singolo e la comunità, tra la vita individuale e le ere, il retaggio antropologico e soprattutto il tempo, che costituisce il filo conduttore del libro».

La trincea del vivente, le pause degli istanti e i semi di luce, i mondi abitati e inabitati dalla vita, le lontananze dipinti e i cieli notturni aprono crepe nelle evidenze del tempo e della realtà, negli spari insonni, nelle armature a difesa della propria nudità fonda (come in Svegliarsi in una notte del 2012…), dove l’amore annulla ogni paura e smarrimento sgranato.

Damiani cesella le sue immagini senza lentezza ma quasi per deposito granulare. Da una singola immagine che sembra annullarsi, compare un ulteriore dettaglio o una nuova esistenza che porge il suo singolare sussulto di sacertà, di forma, di oblio e di luce.

Silvio Perrella scrive:

 «Damiani è un asincrono; non ama stare al passo con i tempi; o piuttosto cerca nei tempi il Tempo, quell’atomo di vita che collega gli uni agli altri. e non solo in orizzontale, ma anche in verticale. ed ecco che vien fuori una verticale come questa, dove si sale e si scende sulle scale del tempo, e lo si fa in un attimo di dormiveglia, pensando a quel che pensano tutti, ma pensandolo dentro l’unicità del nostro corpo singolare, e sentendo il risveglio degli altri, il loro stesso girarsi tra le lenzuola del cosmo».

Attraverso l’ode, il pensiero sorgivo, la tenerezza dell’essere, la speculazione filosofica e l’ironia, Damiani compone la sua trama e il suo segno, annotando le vibrazioni piccolissime e le concitazioni dei ronzii. È la sua obbedienza alla realtà a rendere ragione alla poesia, che si nutre di ciò che vive e muore, che insegue il tempo passato e presente ed accade in silenzio come una luce bianca. La caducità è uno splendore lucente e la coltre di ogni limite possibile ma immenso, allo stesso tempo, dove il nostro schianto lucente e assaporato si compie:

«Siamo caduchi, siamo quelli che cadono / sul campo di battaglia della vita. / Ci falcia il tempo, che ci insegue in ogni momento / dopo averci partorito, / ci tiene il fiato sul collo / e non ci lascia respirare. / Se ci fermiamo un momento / lui passa e noi lo stiamo a guardare / come dalla spalletta di un ponte / ma ci divora dentro. / Che cosa succederà domani / tu non lo puoi sapere /  per questo sei nelle sue mani / e non ti puoi liberare. / Siamo caduchi, siamo quelli che cadono, / cadiamo come le mosche, / quando nasciamo ce l’abbiamo scritto in fronte / che cadiamo, / ma non ce ne vergogniamo / anzi camminiamo a fronte alta / con la nostra morte nel cuore. / Non siamo soli, siamo tanti, / siamo un esercito immenso, / marciamo insieme, spinti dal tempo / con questa croce sul cuore. (Canzone dei caduchi)

La pienezza vivente è uno sguardo e una carezza d’amore, come nostalgia di realtà e mortalità, canto pazzo che non si ferma, relazione di nascita e morte insieme, e vita che vince la morte in una moderna Arcadia:

 «E questo canto, amore mio, di cicale / sotto il sole di luglio, in una campagna italiana / cielo azzurro e poche nuvole, piccole, / odore forte di rosmarino e ginestre / e questo canto pazzo che non si ferma / nel’aria bianca bruciata / e noi, io e te, sotto questi pini / alziamo i calici e brindiamo, silenziosi, / tu vestita come una dea, con lunghe ciocche annodate / e perle tra i capelli, / là sulla collina il nostro capanno di legno / e giù lo scoglio dove passo tutte le notti / a piangere guardando il mare».

Le nostre lontananze, la tiepida aria di giugno, solitaria e fresca, quasi come un fiore strappato, richiamano l’attraversamento del tempo e la sua unione di tutti i tempi nel tempo, in una serie di passi e punti di osservazione investigati:

«Ma adesso questo cielo e questo fresco sulla pelle / quest’aria pulita e queste poche nuvole / e questo chiacchiericcio di uccelli / e uccellini nei nidi, come un brusio, / in questo tardo pomeriggio di giugno / dove tutto sembra finito, e all’inizio, / e questo rumore di camion lontani / tra le voci degli uccelli, / rumori di un tempo che è questo tempo preciso / e tutti i tempi, insieme, / come se quest’aria tiepida, mite / li attraversasse tutti i tempi, li unisse».

Il transito dei nostri passaggi lascia la musica che resta come essenza vibrata e come intima e congiunta proprietà dell’essere. È il nostro andirivieni, la nostra prima linea, i rumori delle cose lontane, che recano in grembo il senso dell’ultimità conciliata di un mistero disciolto nel suo scorrimento azzurro e nella sua trasparenza:

«Lascia che sia, lascia che sia / non lo contrastare, / alla fine è questo cielo della sera / quello che resta, i rumori delle cose lontane / e questo colore pallido e luminoso insieme / acceso e bruno nello stesso tempo. / Alla fine quello che resta sono i rumori / delle cose lontane, che fanno i dolci, che passano, / alla fine quello che resta è il nostro passare, / essere passati e dover ancora passare, / questo rumore di fondo come il mormorio di un ruscello / o un chiacchiericcio sommesso, che ti concilia il sonno».

cieli-celesti-light-1-671x1024-671x1024Damiani C., Cieli celesti, Fazi, Roma 2016, pp. 164, Euro 18.

 Damiani C., Cieli celesti, Fazi, Roma 2016.

  • La difficile facilità. Appunti per un laboratorio di poesia, Lantana Editore, Roma 2016.

Galaverni R., Le buone cose di semplice gusto, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 20 novembre 2016.

Langone C., Nel tempo del Natale profanato leggo le ultime poesie di Claudio Damiani, in “Il Foglio”, 21 dicembre 2016.

Gnerre A., Il laboratorio difficile e facile di Damiani, (https://www.rivistaclandestino.com/il-laboratorio-difficile-e-facile-di-damiani-di-a-gnerre/), 4 dicembre 2016.

Lombardi L., Tempo, Spazio, Terra. Damiani contempla, in “Il Tempo”, 19 dicembre 2016.

Perrella S., Svegliarsi in una notte del 2012…, in “Il Mattino”, 9 novembre 2016.

Le sinopie smarrite di Diego Baldassarre

di Andrea Galgano 6 dicembre 2016

leggi in pdf Le sinopie smarrite di Diego Baldassarre

diego-baldassarre-sinopie-smarriteLa nuova raccolta di Diego Baldassare (1969), poeta romano trapiantato sulle colline pistoiesi, Sinopie smarrite, edita da Lietocolle, restituisce non già un mondo sommerso bensì la linea rarefatta e smarrita di un preludio vivente, di un’anima non arresa (e perciò vincente) e, infine, di una intensa dirittura.

Egli stesso, infatti, ci orienta sul titolo: «La sinopia è il disegno preparatorio di un affresco, disegnato sull’intonaco: quando viene realizzato l’affresco questo disegno si perde, si smarrisce. Eppure senza quel disegno l’opera finale non potrebbe essere realizzata. Se l’opera finale è l’Uomo, le sue sinopie sono le emozioni e le esperienze che l’hanno condotto ad essere quello che è».

Il portato fisico dell’opera di Baldassarre, pertanto, si intreccia con il limite e con l’incompletezza umana ma, altresì, riesce a compiere una poesia visitata da una acuta percezione del mondo. La ricchezza di questa visione interiore, le sezioni illuminate, le stanze accertate da improvvise coloriture avvengono in una prospettiva di discesa salutare, in cui il rapporto mistico tra la natura e l’artista è pervasivo, invasivo e costitutivo.

L’elemento naturale mescola varchi e scorci in un taglio di visione e volo, profonda riflessione e appunti che documentano lo smalto del vivente, la sua prolusione e la sua demarcazione di interludi e impronte, come ripasso di progetti:

«È nell’interludio tra l’ultimo battito / del volo della falena / e il raggio dell’alba sul sangue gelato / della farfalla / che l’uomo abita il suo silenzio / Si esiste solo per l’attimo che mozza / il respiro / per lo specchio scuro dell’otturatore / che riflette la retina / Per il dito cacciatore dei propri sogni / Ansima la pupilla eccitata dalle ore / insonni / La smania dell’attesa si combatte / ripassando progetti / L’esatta inquadratura è predisposta / per l’impronta di colore per l’inganno di se stessi» (Lo scatto).

La poesia di Baldassarre è visitata e abitata da una vertigine rivelativa che introduce l’agone di un’attitudine che lotta per vivere e respirare, e che testimonia, nel grido e nella domanda dell’io che preda, le parole e le raduna sulle orme ungulate, sugli scavi, sulle tracce d’acqua e sugli smottamenti d’animo: «Sono io / predatore di parole / l’unico abitante dei fogli» o ancora «Imperterrito sterro seguendo il silenzio di orme ungulate / per non sembrare dissimile / dal lupo che segue la preda».

La parola, dunque, è la sua preda vigile che insegue la verità dell’esistere e del vivere, cribrata dalle radici («Seguimi fino all’antico mulino / devo mostrarti olivi secolari / hanno radici profonde / e una pazienza senza sconfitta») e fessurata attraverso la tensione dello sguardo, oltre le linee di ogni orizzonte possibile e ogni vibrazione nel silenzio sulla terra nuda «ferita abrasa / purulenta di fango / A picco sul silenzio»: «La forma di pietra / levigata / attira la carezza / della mano destra / Rimangono impresse / nella salsedine ciottolosa / incerte linee / della vita / tre salti sull’acqua / azzurro deserto / l’esistenza si sottende / tra spuma di mare / e pioggia imminente».

In questa linea adoperata dall’autore esiste una gradazione di silenzio e palpebre che disegna il suo arriccio sgualcito e vivido, che delinea il suo abbozzo, che concreta le immagini, le compone e le riempie in una vigilanza e veglie dipinte, e tracciandole e comprimendole nelle proprie maree interiori, le fa risplendere nell’ «anima arenata sulle parole», fino ai sospinti ricordi controvento:

«All’improvviso incespico nella / radice affiorante dei sensi / Ricordi controvento sospingono / pensieri dentro una radura / laddove calpestio di formiche / traccia sentieri ortogonali / La memoria atavica della stirpe / pulsa alle tempie: vibrano / i capelli al suono delle parole / Il sussulto del tempo incute / rispetto per segnali irrilevanti / non cado ma duole la caviglia / che sosteneva il passo dei versi» (Ricordi controvento).

L’immagine tremante diviene dispendio di vita e vocazione di palpebre, che sogna l’indicibile e l’inscrivibile tensione di una trafittura e di una rivelazione di bellezza, trascritta e riemersa, come foglia sugli occhi.

La trama della vita corrente insegue trasparenze assolute e umbratili, pedina l’eterno gioco delle stagioni, lasciando emersioni vive di impronte e tracce che colorano il magma vivente attraverso una sognata e ubicata antichità, come il vento di pioggia che sciaborda tra i rami e la forra che sussurra parole d’acqua:

«Sulle mie colline adottive / sciaborda vento di pioggia tra i rami / Non scorgo il pettirosso del mattino / La forra sussurra parole d’acqua / Non è possibile muoversi oltre / il profilo del bosco / Pigramente attendo che l’arcobaleno sorga / sulle mie colline adottive / L’occhio spazia su fusti di castagno / sulle spine di giovani robinie / Ma non vola l’aquilone dei sogni / Sciaborda vento di pioggia tra i rami / Sbandano i minuti affacciati / alla finestra nascosta dal tetto / solo la poiana si libra altera / Non scorgo il pettirosso del mattino / L’anziana vicina – mani antiche / d’olivo – spezza rami avvizziti / Sul confine dell’esistenza immobile / la forra sussurra parole d’acqua» (Mani antiche d’olivo).

La trasparenza della sua poesia frequenta sponde e barriere, l’ombra incastonata sul muro, la luna che sussurra versi taglienti, dove memorie antiche curano l’apice oscuro e luminoso dell’arte e la sua veglia essenziale.

L’essenzialità è qui vertiginosa. Non solo per la concrezione elementare di immagini ed elementi come volti e condizioni ma soprattutto per l’epifania del dicibile e la sua solvente trasformazione, la comprensione del mondo e la minuta sacrale di tutti i passaggi.

Come avviene nella sezione degli Haiku, dove il bilanciamento linguistico rinserra la politura della sua espressione. Gli haiku posseggono la vorticosa fragilità di ciò che è primario ma, allo stesso tempo, anche fusione con il reale, con tutte le sue ferite e il concepimento di una domanda di amore: «Onda fragile / su scogli interiori: / spuma di vita» o «Le mie donne / corrono con il vento: / madre e figlia», «Ho abbattuto / l’ippocastano stanco: / piango sul vuoto», «Passa il vento / nevicano petali / mentre cammino».

Nelle Diafonie poi, scrive l’Autore, «si raccoglie tutto ciò che crea un disturbo (positivo o negativo) nell’esistenza: la poesia ed il suo ineffabile spirito; il lavoro o la sua mancanza; le guerre e le sue vittime; i ricordi con la loro malinconia; i viaggi; le amicizie. La vita di ogni giorno sospesa al filo sottile delle esperienze e dell’esasperazione».

Il disegno così tracciato, coperto dall’intonaco poetico e restituito da una restaurata apertura percettiva, proclama brevi dilegui di respiro e nuovi dedali mentali, guerre e pleniluni di sogni che brillano «sulle tegole di carta velina», stazioni ripiegate e solitarie (Stazione ostiense), cesure dimenticate e erranti nella liturgia del vivere: «Circonfuso da pulviscolo di idee / errante a tastoni sul foglio / attendo paziente la fortunata / congiunzione neuronale di un verso / L’irreparabile cesura tra me / e il riflesso errante offerto agli altri / m’inghiotte e mi protegge».

La poesia diviene autentica quando comunica lo stupore e il taglio, collocando gli occhi nel dramma vivente senza censure e, infine, quando recupera ciò che la vita e la realtà rilasciano («Ogni giorno si cede / ai pavimenti al vento / alle lenzuola agli altri / brandelli di noi / Gocce di sudore capelli / frammenti di pelle / saliva sperma / Incuranti degli spiccioli / di vita caduti / nel tombino del tempo» (Vita in spiccioli), o nella pieve lucente, dove il silenzio dei secoli si dilata nelle parole, e le pagine sono incise come scalfitture: «Scarpe si trascinano calcando / pagine incise con lo scalpello / ognuno incede / evitando di leggere tra le scalfitture / l’esistenza calendarizzata / Il silenzio dei secoli dilata nelle parole / La voce dell’anziano poeta torna bambina / e ascolta la solitudine dei versi».

Gli incroci delle vite pendolari raccolti nei dettagli passano nella loro minima presenza, il volo-pensiero «smuove lo sfondo del paesaggio», come se il bozzolo di carta fosse anticipo esploso di volo, il telaio memoriale della polvere di fard come riflesso, lo zoo di cartone e la soglia della memoria che propone il suo bivio dove il tempo «spezza le ali all’anima» ed «è ambra ciò che era resina».

La poesia di Baldassarre non deposita i suoi detriti di viaggio sulla pagina, bensì anima l’accertamento di una presenza di cose e presenze, volti e affermazioni di carezze e di attese, poiché l’attesa «è donna silenzio vita» e ritrova «il vuoto prima / e dopo la parola / caduta».

Frequentare l’attesa significa tendere a un compimento impaziente, proteggere la sosta cara e il traffico dei ricordi affollati, i sogni che sporgono volando, il bagliore della fuga prima del sibilo che squarcia la notte, l’interno del condominio come filigrana onirica.

Ha scritto Giuseppe Panella:

«Come con la poesia, quindi, si è in presenza di una dimensione vitale che fa esistere chi la realizza concretamente in modo tale da assumersi la responsabilità di ciò che vede e di ciò che sente, di ciò che ama e di ciò che assorbe […] Il “telaio” che lavora all’interno dell’animo del poeta produce continuamente voci e suoni e significanti che bisognerà poi trasformare in senso e significato perché la poesia possa emergere e fiorire, luccicando nel primo sole dell’alba e riflettendo sul proprio volto il piacere di vivere».

I suoi retropassaggi, allora, diventano il soggetto di una sceneggiatura temporale proiettata in tutte le dimensioni del vivente e della bellezza che persiste in ogni ruga e in ogni faglia: dai brandelli penitenti di fioca luce diurna, alle soglie di casa «lì dove un segreto sogno / ti attende imprendibile / Non sei / glaciale riflesso del cielo / ma bianco grido di ricordi / che intacca nuvole spesse / che apre varchi e chiude porte», dalla nebbia arresa alle cattedrali di sabbia, dove ricostruire, a ritroso e nell’impossibilità, guglie sommerse, dalla parola scolpita nello sguardo, erosa di lacrime e striature, fino alle sfilacciature sulla sabbia d’acqua marina.

Tutto conclama alla pienezza non tanto (o meglio, non solo ed esclusivamente) concettuale quanto piuttosto vitale. La poesia si dice in un teatro di presenza e di pioggia, dove «l’acqua scava e ti scava / la mia calma è farina / il tuo silenzio lievito / col temporale saremo pane». La pienezza è frutto di una decisione per l’esistenza, tallonare il suo senso è un disegno di figlia:

«Mia figlia disegna pipistrelli colorati / per udire il mondo in altra dimensione / Si scatena in un tripudio di pennarelli / e sul foglio volteggia inseguendo fantasie / Anni di vita le insegneranno che volare / è cosa da poeti è vizio da sognatori / Ma qui stanotte / aleggiano sul foglio pipistrelli arcobaleno» (Pipistrelli arcobaleno).

Il tempo dell’amore diviene l’oblio dicibile, dove rimbalzano le ore e l’agguato della tenera docilità di ogni passaggio, che unisce amore e co-nascenza, rifugio e dono, come egli stesso scrive, «Tornare neonati / con il medesimo / limbico bisogno / di non sentirsi soli» (Nel seno):

«Le pupille di bambina non colgono le scorie crepuscolari / di un’epoca aggettata sul vuoto / Età troppo adulta / Ti nascondi dietro la porta impugnando / tutto il coraggio necessario alla finzione / e – simulando un agguato d’amore – / urli la vita a sorpresa dietro i passi / di genitori indaffarati dai pensieri / L’ingenua bellezza sorride stupita del suo successo / Un soprassalto di dolcezza ti osserva / con gratitudine».

Oppure il retrogusto di assenza ubriaca che rappresenta la quieta presenza e il segno nel destino e la precisa meta di un’attesa ricongiunta sui passi:

«L’ametista prigioniera dell’ombra lunare / meraviglia lo sguardo / riflesso nel mare del tuo sorriso / d’artista / È amaro il sapore color del rame / con cui disegni le parole sul foglio / Solo l’aroma dei baci / distrae il pensiero smarrito nell’arco / ocra disegnato da stelle cadenti / Non ha mai abbandonato i ricordi / che dal passato ti conducono a me / A noi / Probabilmente il vento dell’Appennino / ha mescolato le emozioni / con la sabbia sedimentata nella mente / Ha sapore di vino l’ubriaca tua assenza / e fragore d’acqua sugli scogli / la tua quieta presenza nel mio destino».

La sezione Esogenesi esprime una appartenenza più che una riappropriazione. Il solco degli autori incontrati permette riscritture insolite e percorsi sorgivi di tempo: Hofmo, Saba, Rosselli, Blok, Bukowski o Campana, per citarne alcuni, librano fonemi sospesi e incompresi che permettono di far luce sulla propria esperienza di poeta e di uomo, con gli occhi muti sul mondo, dove lo splendore «della parola impressa / cicatrizza / l’animo ferito dai giorni chiusi» e dove annaspare alla ricerca di unico battito di fulgore.

Baldassarre D., Sinopie smarrite, Lietocolle, Faloppio (Co) 2016, pp. 124, Euro 13.

 Baldassarre D., Sinopie smarrite, Lietocolle, Faloppio (Co) 2016.

Panella G., Malinconia autunnale. Diego Baldassarre, “L’acqua sogna trasparenze”, (https://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2014/06/05/i-libri-degli-altri-n-83-malinconia-autunnale-diego-baldassarre-lacqua-sogna-trasparenze/), 5 giugno 2014.

 

“Ferita donna”. Una lettura critica del femminile con uno sguardo rivolto al maschile

di Serena Baroncelli 2 dicembre 2016

leggi in pdf Ferita-donna. Una lettura critica del femminile con uno sguardo rivolto al maschile

lucio-fontana-concetto-spaziale-attese-1968La nascita di una perla è un evento davvero miracoloso. A differenza delle pietre o dei metalli preziosi, che devono essere estratti dalla terra, le perle sono prodotte dalle ostriche che vivono nelle profondità marine. Le pietre preziose devono essere sottoposte al taglio e levigate per farne emergere la bellezza: le perle invece, non hanno bisogno di questo processo complementare. Nascono dalle ostriche con una naturale iridescenza brillante, una lucentezza ed una morbida luminosità intrinseca che nessun’altra gemma al mondo possiede.

Una delle ferite che la donna moderna è costretta a risanare è quella relativa al rapporto padre-figlia.

Le radici di questa ferita sono antiche e profonde: possiamo analizzarle chiaramente prendendo in considerazione l’Ifigenia in Aulide di Euripide, scritta nel 405 a.C.

Ifigenia è la figlia maggiore e prediletta del re Agamennone, eppure, nel dramma, è sacrificata, condannata a morte, proprio dal padre che la ama profondamente. Per la maggior gloria della Grecia, l’oracolo consiglia al re di sacrificare la sua primogenita. Disperato, alla fine Agamennone acconsente e manda a chiamare Ifigenia, dicendole di venire ad Aulide per sposare Achille. In seguito, il re capisce di aver commesso una pazzia, ma ormai è troppo tardi; si sente costretto a compiere tale sacrificio perché teme la rivolta delle masse inferocite e perché l’obbedienza al potere e alla gloria della Grecia prevalgono sulla sua capacità decisionale. Intanto litiga furiosamente con Menelao, il fratello sposo di Elena, accusandolo di essere uno sciocco che si lascia abbagliare dalla bellezza. Ifigenia e la madre Clitemnestra scoprono il complotto e, disperate a causa dell’orrenda verità, si scagliano contro Agamennone. Clitemnestra lo accusa di aver commesso altre infamie, cerca di farlo vergognare mentre Ifigenia lo implora di salvarle la vita. Dapprima maledice il padre assassino, Elena e gli avidi soldati diretti a Troia, ma alla fine si risolve a morire nobilmente per la Grecia, assolvendo suo padre e dicendo alla madre di non essere adirata e di non odiarlo.

In questo dramma tutte le donne sono viste come proprietà dell’uomo, di conseguenza il femminile non può manifestarsi a partire dal suo vero nucleo, ma è ridotto inevitabilmente a quelle forme compatibili con la visione del maschile. Il dramma del femminile parte allora da qui, dal predominio del maschile sul femminile, dal non riconoscimento del principio femminile, dalla negazione della possibilità di rivelarsi ed esprimersi nelle sue molteplici forme. Il femminile, quando è così svalutato e represso, si adira ed esige ciò che gli spetta in modo primitivo, come Clitemnestra che per vendetta uccide Agamennone.

Come si caratterizza dunque la ferita padre-figlia?

Menelao ed Agamennone portano nel dramma un’evidente scissione del maschile tra la cupidigia per la bellezza e l’avidità per il potere alle quali corrisponde un’analoga scissione del femminile tra la bellezza, incarnata da Elena e l’obbedienza, personificata da Clitemnestra. Il maschile diviso così in due opposti a sua volta riduce l’ideale femminile alla bellezza e all’obbedienza. Tutti e due i fratelli si servono delle donne, uno per il piacere, l’altro per il potere. Ifigenia rappresenta il potenziale femminile che, alla fine, si sottomette alla situazione e agli obiettivi del potere. Il mondo femminile è perciò svalutato, perché è ridotto al servizio dell’uomo sotto le due forme della bellezza e dell’obbedienza. La donna, quindi, non esiste in se stessa e per se stessa, poiché risulta in ogni momento l’oggetto della proiezione del desiderio maschile, ricavandone in questo modo la sua identità. Un’identità che però la pone in una posizione di Puella, cioè di dipendenza fanciullesca; inoltre l’obbedienza pedissequa la riduce al rango di serva di un padrone uomo.

La stessa situazione si perpetua ancora oggi nella cultura occidentale: il femminile è purtroppo ancora troppo spesso ridotto ai ruoli di moglie obbediente o bella amante e la reazione delle donne si conforma a queste aspettative: molte si trovano a vivere per gli uomini e non per loro stesse; altre, per liberarsi della dipendenza da Puella, imitano il modello maschile perpetuando così la svalutazione del femminile; altre invece si conformano al sistema ma, come Clitemnestra, esprimono di nascosto la loro ira, per esempio eliminando il sesso, bevendo troppo, indebitandosi con le carte di credito del marito o diventando malate…

In conclusione, il mito di Ifigenia ci fornisce un’immagine del rapporto uomo-donna quanto mai attuale. Un uomo che calpesta il femminile calpesta se stesso, perdendo così il proprio rapporto con il femminile stesso. Molti padri che credono di dover mantenere il controllo, l’autorità o perseguire potere e successo, si trovano spesso a vivere questa situazione con le loro figlie: essi hanno perso il potere delle lacrime e non riconoscono la propria ferita personale. D’altro canto, esistono molte Ifigenie moderne che hanno una visione ristretta del femminile, una visione ristretta che è nascosta nella cultura e anche nei padri e nelle madri personali.

Nella pratica psicoterapeutica è possibile trovarsi spesso di fronte donne ferite: donne che dietro la vernice del successo e della soddisfazione nascondono un sé ferito, lacerato, disperato, sanguinante. Sono donne minate nella fiducia di sé, nella capacità di costruire rapporti duraturi e, più in generale, nella capacità di operare nel mondo. Lo scopo della terapia è allora quello di affrontare questa ferita del femminile, di accettarla e risanarla, per dare voce e giustizia alla sofferenza patita.

Prendiamo una seduta tra paziente e terapeuta e consideriamo le lacrime che immancabilmente segnano il percorso di crescita e di cambiamento. Ecco, accade ora qualcosa di incredibilmente vero, puro ed autentico: le lacrime appartengono alla donna ferita. Perché le lacrime rappresentano la disillusione, simboleggiano l’abbattimento delle difese psichiche che fino a quel momento hanno permesso alla paziente di sopravvivere, comunicano che è giunto il momento di prendersi cura di se stessi e che non è più tempo di soffrire. Questi sentimenti devono essere portati alla luce ed elaborati in terapia, per far sì che quella antica ferita si rimargini. Si rimarginerà, ma non guarirà mai completamente, dal momento che la cicatrice dell’anima rimarrà visibile per sempre: tuttavia, non farà più male sbattendoci contro.

Le lacrime costellano in modo così specifico il percorso di guarigione che, in qualche modo, diventano parte essenziale di esso. Le lacrime aprono un varco nell’anima: possono dunque liberare una donna e partecipare alla sua guarigione e alla sua vita con la ferita. Le lacrime possono cadere come pioggia benefica che permette la rinascita e la crescita primaverili: precipitano nell’anima stanca e ferita così che, laddove c’era terra bruciata, arida e secca, adesso possono germogliare verdi ciuffi d’erba, possono sbocciare i semi delle proprie potenzialità, della propria essenza e donare colore, forma e musica alla vita. Anche l’ira può liberare la donna ferita, poiché la sua ferita ha un centro che duole, brucia e fa male. La rabbia è senza forma ed obiettivi, è esplosiva, fa paura. Alcune donne rimuovono il dolore e la rabbia che accompagnano la ferita: la rabbia si rivolge quindi all’interno sotto forma di sintomi fisici, pensieri depressivi, suicidi, ipocondriaci, che paralizzano la loro vita e la loro creatività. La rabbia porta però con sé anche energia, potenza che, se ben utilizzate, possono liberare le potenzialità in quanto donne e trasformare il femminile.

Il cammino verso la guarigione della donna ferita assomiglia a quel processo che rientra a pieno titolo tra i misteri più affascinanti della natura, quello che porta alla formazione della perla all’interno di un’ostrica, di cui la citazione iniziale. Una perla naturale comincia a nascere infatti quando un corpo estraneo (quasi sempre un parassita) accidentalmente penetra nel mantello soffice di un’ostrica, da dove non può essere espulso. Nel tentativo di alleviare l’irritazione, il corpo dell’ostrica assume un’azione difensiva secernendo una sostanza cristallina liscia e dura intorno all’oggetto estraneo, definita sostanza madreperlacea. Fino a quando il corpo estraneo resta nel mantello, l’ostrica continua a secernere intorno ad esso la sostanza madreperlacea, strato su strato. Dopo pochi anni, il corpo estraneo viene completamente coperto dal lucente rivestimento cristallino. Il risultato è quella bella e splendente gemma che chiamiamo perla.

L’infezione è la conditio sine qua non per la formazione della perla preziosa. Così, solo una ferita profonda, se elaborata e digerita, può condurre all’espressione piena del sé e del talento creativo di un individuo.

BIBLIOGRAFIA

Leonard, L.S (1985). La donna ferita. Modelli e archetipi nel rapporto padre-figlia. Astrolabio: Roma

 

 

Riccardo Gramantieri, Post 11 settembre. Letteratura e trauma, Bologna, Persiani Edizioni, 2016

di Giuseppe Panella 28 novembre 2016

leggi in pdf Riccardo Gramantieri Post 11 settembre

14163903_1098282886885744_1268067472_o-211x300L’11 settembre 2001 due aerei americani furono dirottati dal loro consueto percorso di viaggio e si schiantarono sulle pareti di vetro e cemento delle Twin Towers, le Torri Gemelle, orgoglio del centro commerciale di Manhattan. Il suolo aereo americano venica violato pubblicamente per la prima volta. L’impatto sull’immaginario mondiale (e non solo americano) è stato talmente imponente da mutarne radicalmente le coordinate e le implicazioni socio-soggettive. Si tratta di una pagina di psicologia storico-sociale ancora tutta da scrivere e da verificare sotto il profilo scientifico ma le sue conseguenze non potevano non influenzare prepotentemente le arti più popolari (e non soltanto quelle più esposte dal punto di vista mediatico). Se la letteratura ha una funzione di risarcimento o di cicatrizzazione dell’Io ferito – come sostiene la maggior parte degli studiosi dei rapporti tra immaginario e processi di soggettivazione, dalla Melanie Klein a Heinz Kohut a Alain de Mijolla – è indubitabile la funzione riparatrice svolta dalla narrativa di anticipazione nel caso degli eventi dell’11 settembre. Questo ottimo libro di Gramantieri, di conseguenza, ha il merito di ricostruire i processi di funzionamento di tale processo risarcitorio e di verificarne l’attuazione a livello fantasmatico e narrativo. Nel caso dell’11 settembre, la letteratura anglosassone si è concentrata in una maniera che si potrebbe definire maniacale sui fatti avvenuti in quel giorno particolare e li ha trasformati in una data che facesse da turning point alla soggettività epocale della cultura del mondo occidentale. Non è un caso, infatti, che la maggior parte della produzione più popolare (e, come si diceva prima, non solo quella) abbia come quasi esclusivo oggetto dei propri plot narrativi e dei propri sviluppi fantapolitici gli eventi relativi al crollo delle Torri Gemelle. Tutto ciò è evidente negli esempi di letteratura portati come testimonianza  nel libro di Gramantieri:

«La scelta del mondo editoriale e della critica letteraria di denominare un genere letterario come “post-11 settembre” (o post 9/11), se da una parte potrebbe sembrare l’ennesimo esempio della pratica di etichettare un’opera e confinarla in un genere al fine di poterla classificare e disporla sugli scaffali delle biblioteche e delle librerie, dall’altra è indicativa della grandezza dell’evento storico. Dopo la caduta delle torri, Ground Zero non è più il luogo in cui scoppia la bomba atomica (già evento epocale di suo) ma il luogo in cui sorgeva il World Trade Center; dopo la caduta delle torri nasce un genere letterario che descrive l’attacco al centro nevralgico degli Stati Uniti (Banks, McInerney, DeLillo), i suoi antefatti (Updike) e le sue conseguenze (Aldiss, Steyn); ma anche tutte le suggestioni che una catastrofe comporta, e da qui le storie apocalittiche (McCarthy, Crace, Aldiss, MacLeod), ucroniche (Roth), sperimentali (Julavits, Foer) e quelle di fantasmi (Shepard, King, Bradford, Oates, Schwartz). Ognuna delle opere prodotte può servire da esemplificazione di un diverso tipo di meccanismo mentale di risposta all’evento, tutti comunque riconducibili al trauma. Più che una semplice descrizione dei fatti, questa letteratura è capace di rendere visibili  quei processi psichici che avvengono a seguito di un evento spaventoso e angosciante» (p. 131).

Gli autori citati da Gramantieri sono tutti nomi “pesanti” nel panorama culturale e letterario americano – autori mainstream importanti come Philip Roth, Updike e Cormac McCarthy hanno dato il loro contributo a illuminare di luce radente un panorama devastato come quello che appariva agli occhi di tutto il mondo dopo la tragedia del crollo delle Twin Towers. Ma come hanno fatto scrittori quali Joyce Carol Oates o Jonathan Safran Foer o Don DeLillo, allo stesso modo, autori meno culturalmente riconosciuti si sono cimentati nella descrizioe di ciò che restava della mente occidentale e dell’American way of life  dopo lo schianto degli aerei sulle strutture high-tech delle Torri di Manhattan. Soprattutto chi non ne ha scritto direttamente ma solo obliquamente o allusivamente, ha colto la natura catastrofica degli eventi di quel giorno –  ha individuato cioè la sua natura di punto di non-ritorno nell’ambito delle soggettività in gioco in questa partita apparentemente finale e definitiva. Qualcosa è cambiato, qualcosa si è spezzato e non sarà più possibile tornare al passato idilliaco di un’America intatta e incontaminata. La ferita è ormai permanente (come quella di Amfortas, il Re Pescatore). La “terra delle opportunità” è diventata una Terra Desolata di morte, di violenza e di impossibilità fino ad allora mai sperimentate.

Per risarcire questo quadro psicologicamente devastato, di questo momento traumatico assoluto, è necessario trovare un rimedio plausibile ed efficace nel ricorso al fantastico. Scrive, infatti, Gramantieri a proposito del trauma del “ritorno degli oggetti cattivi”:

«Il processo psicologico che Fairbarn chiama il ritorno degli “oggetti cattivi”, cioè la riproposizione nella memoria di ricordi del passato che richiamano immagini paurose e angoscianti che si vorrebbe dimenticare, è individuabile sotto forma di finzione narrativa in alcuni testi letterari, sia mainstream sia, soprattutto, di genere fantastico, il solo capace di rendere metaforicamente rappresentabili i fatti psichici. […] La letteratura fantastica è forse in grado di rendere più compiutamente del mainstream il meccanismo psichico del ritorno degli oggetti cattivi. Essa, nelle sue varie espressioni allegoriche, è risultata particolarmente efficace nell’esemplificare il ritorno del rimosso provato negli americani dopo l’attacco alle Torri Gemelle. Tralasciando le similitudini con le paranoie da Guerra Fredda o le storie di invasione, il sottogenere più capace di esprimere il perturbamento della borghesia americana di Manhattan, e contemporaneamente costituire sotto forma letteraria il processo dell’oggetto perduto e ritrovato, è quello del racconto di fantasmi. Diversamente dai romanzi, che per la loro ampia struttura permettono una visione più estesa della realtà che vogliono rappresentare, i racconti fantastici riescono a concentrarsi su singoli aspetti, e quello del ritorno del rimosso è particolarmente sentito da diversi autori di science fiction» (pp. 99-100).

Il “ritorno del rimosso” (in questo caso il trauma della distruzione di un habitat familiare e consolidato come il paesaggio urbano di Manhattan) permette alla scrittura di risarcire la perdita attraverso quel processo di “fantasticheria organizzata” che Freud ha ricostruito (brillantemente ma forse un po’ troppo cursoriamente) nel suo Il poeta e la fantasia del 1909. L’ipotesi di William R. D. Fairnbarn sul “ritorno degli oggetti cattivi” (costruita a partire dalle riflessioni precedenti di Melanie Klein sul tema delle relazioni oggettuali e sviluppata a livello generale) serve a Gramantieri per analizzare le conseguenze di un trauma collettivo che ha influenzato l’immaginario collettivo dell’intero pianeta, nel bene e nel male.

Merito del saggio, allora, non è soltanto quello di ricostruire proficuamente quindici anni di letteratura di genere nel mondo anglosassone (anni in cui sono stati prodotti capolavori come La strada di Cormac McCarthy o grandi romanzi ucronici come Il complotto contro l’America di Philip Roth che alludono alla catastrofe avvenuta l’11 settembre) quanto di avanzare delle ipotesi terapeutiche per la riparazione possibile del danno psicologico arrecato.

Un libro tra psicologia e letteratura, dunque, dove l’uso diretto della letteratura si coniuga con quello indiretto dell’analisi psicologica – un tentativo di frontiera, dunque, per utilizzare proficuamente uno strumento, quello estetico-letterario, che le pratiche paramedicali di tipo comportamentistico-gestaltico rischia di appannare e di declassare in nome di una sostenuta scientificità assoluta nello studio della psiche. Il caso del trauma post 11 settembre e della letteratura che ha sostenuto e che sorregge tuttora, invece, dimostra come scrutare nel buio della psiche sia compito comune di scrittori e psicoterapeuti (come avventurosamente già aveva sostenuto tante volte Sigmund Freud nei suoi scritti sull’argomento in questione).

 

Davide Rondoni e lo stupore di tenebra

di Andrea Galgano 20 novembre 2016

leggi in pdf Davide Rondoni e lo stupore di tenebra

15146860_10211003661477458_50510230_oIl nuovo libro di Davide Rondoni (1964), La natura del bastardo, edito da Mondadori, scompone il frammento in chiarità sperata, mescola la luce buia in una traversata luminosa di «cuore sbranato e cuore niente» che raccoglie polvere e preghiera, domanda elementare e acqua, come ferita e incanto di viaggio sterminato e di fioritura aerea.

Lo sterminato viaggio cerca la profondità e l’esplosione deflagrata dell’essere in tutte le cose:

«rosa notturna che ho esplosa in testa / ferita dell’alba / cuore rovinosa festa / tremano le inferriate la cassetta di bottiglie i baci i mai / più / sterminato viaggio di cosa qui / passaggio dominatore / e tu / non sei più tu / uomo d’aeree fioriture / di rose / cerca la profondità, deflagrazione / dell’essere in tutte le cose».

In Rondoni convivono due anime: quella incontaminata affermazione della presenza dell’essere e la dismisura attonita dei dettagli di ombra e silenzio luminoso, come se ad accompagnare il tempo dell’io ci fossero due schegge di spavento e incanto, sospensione sbagliata e attraversamento d’infinito.

Scrive, infatti, Alessandro Zaccuri:

«Lo spavento e l’incanto rappresentano da sempre i poli più riconoscibili nella poesia di Davide Rondoni. Spavento come consapevolezza del rischio, però, non come rifiuto della realtà. E incanto come apertura alla vita, non come compiacimento di sé. […] In questo canzoniere recalcitrante – nel quale la ripresa a distanza di temi e lemmi ha la stessa funzione delle rime che si ritrovano ad emergere con quieta necessità – le cronache d’amore si mescolano di continuo con le vicende della contemporaneità, tra la provincia italiana e i sommovimenti laggiù in Siria o in qualche altra parte del mondo che d’ora in poi non sarà più lontana».

È l’esito di una chiamata delle cose, la sospensione dell’infinito come «una sbarra che ci traversa», l’imperversamento della Natura, il richiamo bisbigliato delle cose che mescola e imbastardisce, riflette il gemito della bellezza come un sigillo lavorato nelle oscillazioni dell’universo, nel vuoto e nella domanda ultima, aperta nella finitudine:

«Cane, o / bestia o infinito d’un infinito, cosa / sei un dio, un festone / dimenticato / appeso ai rami ai fari in discoteca / viso oscurato che pulsa / un niente / in questa notte l’universo / oscilla, in questa notte / l’universo esce a bere / cerca energia / in un altro big-bang, in un altro quartiere? / dopo festa / dopotutto ipermercato vuoto / come se avessero telefonato: ragazzi / l’alluvione, prendete / ogni cosa che potete – / o deserti scaffali della testa / vetro che perde / la scritta nel fiato / ti chiamano energia oscura del creato / mormorare di colpo: tutto amato tutto andato? –».

La natura bastarda ha la cifra dell’assoluto come segno, meta colta nel soffio del vivente e nella beatitudine estrema di ciò che compie, nell’aria persa dei «sedili di un’auto abbandonati sul pendio / schienale sudicio davanti al cielo, / la città strana scena, follie / e oblio / vedi l’alba? la notte come grande nave ci abbandona / ritira l’àncora di stelle, la sua catena / tra le costole mi suona…».

La poesia non celebra il reale, si intesse con la sua trama segreta e oscura e con la concrezione delle immagini, i lampi e i detriti, che sono nulla senza desiderio senza fine, senza il grido dell’alba, senza la luce folle della gloria: la prima occhiata aperta nell’aria allarmata, i ventagli infiniti e la resa delle stelle:

«Se non hai nella fessura da cui ti entra il porco mondo negli occhi almeno la piccola luce febbrile di un desiderio senza dine, e non guardi mai come grida l’alba anche su luride vetrate, non perdere tempo, non è questa roba intrattenimento – qui come in un sacco di poesie si dicono al vento cose dure e fantastiche, del tipo: / nessun albero / crea la luce folle della sua gloria, / dopo la notte di blu lampi e detriti / la prima occhiata aperta nell’aria allarmata / trova il perdono del rosa, i ventagli infiniti – / tira fuori una birra, il sorriso più antico che hai, ha forse fine il mistero del mondo? L’ultima stella a cosa si arrende quando l’alba dal giorno è divorata dolcemente? sei forse tu chi accende i primi neon nelle fabbriche gli occhi di tuo figlio, i fari dei treni sui binari ghiacciati? / nessun battito d’ala o di cuore / crea il luogo e il tempo / dove si arrischia e distende».

La fame dell’essenziale, la fame bastarda, il mormorare della natura e del destino è un’uscita verso il cielo tra le rovine di Roma e la linea A della metropolitana. L’amore, no, non è mai giusto, non penetra soltanto nelle fibre, compie uno scarto, una chiamata, una promessa che profuma di dismisure e verticale desiderio.

È viaggio, avventura, forza di abisso, non già per lo sconvolgimento quanto piuttosto per il suo sproposito di grido e fiamma che muove, perché fa nascere cose protese che non finiscono qui, come arde un velo oltre la giustizia e la giustezza:

«L’amore non è giusto / il ventaglio duro / splendido dei rami / si apre contro / il viola azzurro / mattini, sere / l’amore è un albero ma il fusto / s’inabissa, deve sparire / per nutrire / lo slanciato assenso che dà all’aria / e lei in un felice incendio lo incorona – / l’amore è un ragazzo che quando gli parli / fa un altro discorso / occhi lupo bianco, nubi / fa nascere cose che non finiscono qui / ma fuori dalla giustizia, in terra e in cielo / – e brucia sempre nell’aria il suo grido, / come arde un velo».

Il nascondimento, la sospensione delle cose, le esistenze delicate sono affermate dall’io che le guarda. La realtà (il suo sperdimento spaesato e la sua fioritura indocile) esprime la sua lontananza infinita di troni d’aria e inseguimenti.

Esiste una leggerezza indomita di tracce dimenticate e recuperate come collisioni dorate e immensità di universo. La muta sventura è un pianto salvato.

Il cuore decifra e insegue, nasconde le cicatrici dove «i mari invernali della mia mente cercano ancora / le tue dita d’aurora – anche dal vetro opaco / mi hai toccato le labbra – / ti cerco sempre nuova / vita, / impestato di te, gioia senza possibile cura».

Ma è ancora l’amore a opporsi alla fine, alla morte, al limite, a ciò che basta:

«bastami non bastarmi amore / fai giorno insinuando il tuo sguardo / sotto le palpebre / cucite / imbastardisci me / di te / nelle vie dove allunga le dita l’aurora, nei bar / dopo la chiusura / il tempo dell’ultimo attacco / sta venendo / in un’alba come sempre quando / la prima luce alla tenebra s’afferra / e da ogni parte si svuotano / parcheggi, muovono eserciti, stormi / s’alzano da terra e / iniziano a mormorare le maree — / toccami la mano, danzatore ferito / ritmo che mi batti / spezzato, infinito».

Il mormorare della realtà non è solo il dettaglio attraversato e trascritto che ricorre in tutte le sue sfumature, bensì è sospeso attraversamento (lei guarda la scrittura dei rampicanti), epifania guerriera e improvvisa come presentimento e sospiro sulle labbra.

Tutta la bellezza che compone il teatro della scena del mondo è fatto di segni e attraversamenti, stupori e transiti che incendiano l’orlo dei cieli e le luci notturne, grido delle stelle a miriadi e bagliori lontani, e ogni lemma dice ciò che accade, lo frastaglia, lo dispiega in tanti volti, varchi e passaggi che avvisano lo splendore:

«L’isola da lontano lanciava ancora bagliori, feriva / gli occhi, forse segnali millenari, sogni, / fiori bianchi a miriadi di notte sulle scogliere… / Palermo, sono dolci le sere / a camminare sperduti / dopo aver lavorato, sfiniti / e la mente non sa più che pensare / vuole solo sentire lui / il respiro del mare… / E tu che gesticoli al telefono e vai / ti discosti e mi lanci un’occhiata / ragazza maghrebina, / dolce, ferita, innamorata – / e mi ricorda ama, senza disperare / ama con dolore, / bastardo trovatore, ama / per non meno di questo avviso di splendore».

L’attraversamento del mondo strepita, allora, negli istanti, e nella strana gioia nel petto, come un appuntamento o una presenza, e persino la tentazione del vuoto. Ma nel termine più oscuro rifulge qualcosa di inaspettato che visita e promette.

L’unica forza smisurata è un gesto che riscopre il battito del mondo, nessun riparo nell’aria che risale. E poi ancora sconfinamenti, latrati perduti e l’ombra del grande strano splendore («Venne il bacio, uno solo e leggero sul fiume – / niente lo avrebbe motivato mai / nessun circuito o apprendimento neurale / solo quel grande strano splendore – / Poi tu o la tua ombra m’ha fissato serissima: / dimmi se lo sai, macchine non siamo, dimmi / non lo saremo mai, vero?»), in un Volto che si fa carne e ama da morire: «il Verbo, sorride, viene dal profondo / del cielo e della natura, stupisce i vivai di comete, le piogge bianche del sole / e si fa carne, ama da morire, ha un volto / un volto… imbastardisce pure lui…».

Nella poesia di Rondoni avviene sempre qualcosa di inatteso e di desiderato. L’amore delle mani giunte che ripercorre le linee fiato di Beatrice, il così sia senza fine e l’intuarsi come segno dell’impossibile. Farsi tu, essere tu come impazzito d’amore e la carezza dell’immiarsi, mondo risorto e suo segreto: «[…] – solo un impazzito / d’amore poteva senza potere più nulla, più nulla / inventare queste parole / Io mi intuo come tu ti immii / nella commedia umana e celeste / farla precipitare per le scale del suo dolore / qui tra i denti e i compostissimi furenti / baci, le tende rotte alle finestre / darti questa carezza è il segreto del mondo? / immiati, m’intuo e / spegni la luce che vediamo nella notte / sorgere la città».

La bellezza non è mai relegata in uno squarcio di affezione: è primaria, primordiale, solleva le trame del tempo, lo imbroglia, ne ferma il giogo. È il rifugio della casa sui crinali alla apertura degli occhi come un sussurro dinanzi alla tempesta, una domanda solo di amore alla musica sospesa del mondo: «L’alba sui crinali / dopo la pioggia / è indecisa / aperture del cielo / e tristezze dell’aria quasi color di perla – / un essere vola via dalla staccionata / percorro la strada deserta / odore fresco di gasolio e terra bagnata / da giorni / cerbiatti color cenere mi fissano dai campi / il verde nella foschia si prepara a splendere – / che occhi inquieti contemplare / per dire grazie serrando la giubba del vento / la musica ancora segreta del mondo».

In questo lunghissimo e profondo itinerario i figli rappresentano la domanda di un mosaico senza fine che chiede a Dio di tenerli: Clemente, il più piccolo «attaccato alle spalle» («non avrò ricchezze da lasciarti / ragazzino che porterai il mio nome e quello / di mio padre, ma quando / c’è una curva da fare e non sai / cosa ti può aspettare / prepara gli occhi, prepara il cuore»), Carlotta («Finché si gonfierà il sole, figlia mia, / il cielo riprenderà fiato / si gonfierà, sì, esploderà il sole / in un silenzio smisurato / l’attimo finale dell’universo guardato da niente, nessuno / o saremo tutti presenti – mi dirai: “babbo…” – / ci cercheremo la mano / tutti lì in un attimo felice, perso?»).

Oppure come il canto irrotto per la madre, stremato e immenso fondo:

«Quanto sono stato lontano da te / come se dovessi consumare con tutte le forze l’amore / che mi hai dato / e in tutti i viaggi / e baci e parole cercare stremato il fondo / di quel che mi hai donato / Non c’è posto del mondo, non c’è delirio / che non abbia il tuo sorriso, il tuo martirio, / ma non hai reso dominio la tua femminile vastità / Sei divenuta il silenzio alto della valle / mia madre, albero fiorito alle mie spalle».

La comunione delle parole è un profilo di grazia. Nella rastremata durezza veggente della guerra imminente, in un rosario-gesto impotente e glorioso, nel respiro farfalla tra le labbra che mette in fuga gli stormi della paura, il mare diventa impronta notturna di buio che consegna l’umano alla sua stupefatta mortalità, lungo la danza violenta delle stelle:

«Parla al buio il mare / riflessi d’oro, fanali sospesi / parla al buio il mare / parla al buio / riflessi / fanali, / l’oro dell’inverno, noi così stupidi / magnificamente mortali / all’uscita dall’hotel / l’ho sentito dalle rive gridare / cupa e azzurra forza, così solo / oltre la statale, sotto la non luna / le stelle rotte / le sue immense non parole / che sanno tutto, / come nasce l’onda / e si inabissa l’amore».

O come in una consegna gonfia della vastità, la vita si ascolta nel suo segreto esploso e ineffabile che rinasce inerme e senza ritorno:

«Non ridarmi più indietro / quel che mi hai rubato, la luce ultima, / la quiete, via / l’albero esploso della mente / non ridarmi più quel che mi hai / strappato / non ridarmi indietro niente, meglio / finire in te che morire me / in me solo / tieniti tutto, dimenticami – / perdimi / dentro di te, completamente».

La vera destinazione dell’umano si compie solo amando, è una fretta di assedio, è una lotta con l’indicibile nudo: uno strappo, un luogo fisico e ubriaco che non finisce mai, assetato di senso, ebbro di nodi, che si annida nelle nostre traversate, nella nostra esperienza, nel nostro giudizio come cammino di verità. Strappato in tutta la sua forza di abbandono, in tutto il suo fiato di movimento e danza, nella essenzialità tesa e astrale di un abisso che trema e ama «la prima eternità / chiamata lontananza» come vita salvata:

«Possiamo soltanto amare /  il resto non conta, non / funziona, / al mattino appaiono /  la tazza, il vecchio pino, le zolle umide, fumo / dell’alito mentre apri l’auto / nel gelo. Potevano non apparire, non arrivare / più qui, alla riva degli occhi. E l’estate / c’era, c’è, nella calda bruna memoria / dei rami tagliati, / i visi diventano ricordi / le voci gridate stracci silenziosi, i denti conoscono il sapore / del niente e l’oblio che ha portici / e portici infiniti. Possiamo soltanto amare / strappandoci felicemente figli dalla carne / parlando d’amore continuamente / ubriachi feriti, vili / ma con gli occhi lucenti come laser / di fiori splendidi e il canarino nel palmo della mano. / Mormorare come dare baci nell’aria. / Il rametto profumato non si raddrizza / con i colpi della nostra ira, lo sguardo /  di tuo figlio non perde il velo di tristezza / se glielo togli mille volte / dal viso…
Possiamo soltanto amare / fino all’ultimo nascosto spasmo /  che nessuno vede / e diviene quella specie di sorriso / che si ha nell’abbraccio finalmente / di morire come scendendo nell’acqua.
Le stelle a miriadi saranno testimoni, e i venti /  passati una volta accanto /  sulla gioia profonda delle ossa /  diranno: era fatto di allegria, amava, /  oppure diranno niente e poi niente / per sempre. Possiamo soltanto amare, / il resto è il teatro amaro dell’impotenza sotto il sole giaguaro».

Ogni lontananza, in Rondoni, è prossimità. La luminosità delle figure oblique si accompagna alle soglie del bello imperioso e indifeso del mondo, all’ultima parola che si consegna, all’ultimo respiro che recide il nome dal niente traversando le nascite.

Non c’è incertezza di altrove, esiste l’altrove richiamato e ferito ma rilucente in tutta la sua pienezza mai rassegnata, in tutta la sua nudità crepitante. I luoghi della poesia sono dettagli eterni di un dispendio perpetuo che schiude la verbalità ultima e oscura allo stupore “bandito” e all’amore. È il suo sì, l’estremo e stellare sigillo con le lacrime sulle ciglia: «l’ultima parola / baciando in bocca la tenebra sarà: / meraviglia».

14875085_10210821974415395_2051045130_nRondoni D., La natura del bastardo, Mondadori, Milano 2016, pp. 144, Euro 18.

 

 

Rondoni D., La natura del bastardo, Mondadori, Milano 2016.

Zaccuri A., Rondoni dà voce alla contaminazione che salva, “Avvenire”, 11 novembre 2016.

L’Aprile di Francesca Serragnoli

di Andrea Galgano 3 ottobre 2016

leggi in pdf  L’APRILE DI FRANCESCA SERRAGNOLI

sul sito di Lietocolle editore: Andrea Galgano su Francesca Serragnoli

1014458_10201533419246323_856356504_nLa nuova silloge di Francesca Serragnoli (1972), tra le più importanti poetesse italiane, Aprile di là, edita da Lietocolle, nella preziosa collana curata da Gian Mario Villalta, apre la conoscenza del tempo in una accensione vitale e scoperta. È incontro, tessuto, vita che scorre, dolore che apre le vene, grazia che incombe, terrena partecipazione alla realtà ma anche librata trascendenza di forma.

Nel ricordo di Marina Sangiorgi, ora in braccia più salde di quelle terrene e ricordata nell’eterna linea leopardiana («amava l’aria dolce, la vanità del volare / e nidi piccoli, letti lunghi stretti / Bisogna ridere al barelliere che ti porta in fondo? / salutare con la mano / guardate solo il volto / il mondo è un attimo»), la poesia si raffronta al dolore, della mancanza e del cielo-fiato quando fiorisce un tremito e avviene l’inizio di un ricamo infinito:

«Spegneva Dio con due dita / il lumicino brevissimo. / La morte diventava arietta, / corsa di fiato / alito di vento sul volto / immobile della statua / inclinata sul fondale / che sente le braccia sgretolarsi / il muschio in bocca / sul capo ammucchiarsi le foglie. / Ti rivedrò un giorno? / Ti poseranno vicino / ricorderai d’avermi conosciuto / sull’orlo dell’acqua / fiorisce un tremito / l’inizio di un ricamo infinito. / L’eterno dondolare delle madri / muove le onde».

Il suo gesto poetico possiede sempre una profonda imprendibilità, ma è l’abissale profondità di chi smuove il fondale e l’abisso per rinascere sempre ad ogni istante, per proclamare la ricerca di una vita nella vita, per lasciare al sangue il clamore di un’occhiata, «i grani sciolti di un amore» e «il bianco lino nel volto trasparente / commuoverà solo il vento».

È sempre una forza nuda la dolenza della nostra sacralità, l’altare di pietra fredda dove sanguinano le ginocchia e il dolore sgretola ogni risata in un pugno di terra: «Questo dolore sgretola / ogni risata in un pugno di terra / la neve diventa gelo, trasparenza odiosa / gli abbracci sembravano radici d’uva / cadono come fili legati a un tronco morto / e quel pianto che ci lega le mani / schiena contro schiena / non è un’aquila crudele / che ha nidificato nei nostri sguardi».

Anche nel barlume buio, nella sfioritura non frenata, negli «istanti pietrificati» che «hanno in cima corone di neve» e dove tutto sembra sventrato, arriva un varco, una crepa, un buco in cui risplende la felice tessitura dell’essere: «Dentro questo vietnam girato a spalla / lascio all’abatjour indicare / un fioco pallore di luna / attendere bambina piegata sul prato / i grilli uscire dal buco del cuore».

Le altissime manifestazioni della realtà (il sorriso che ti morde le gambe, il tempo che è un cane perfetto, la primavera tagliata da ottobre «come il contadino il fieno») toccano il tempo della ferita, colorata e fiorita come una partenza: «lì c’è tua madre le avrei detto / scuce e ricuce la tua partenza / come un ferita colorata / ha messo del late / dentro un vecchio bicchiere / appoggiato alla finestra / la vedi agitare le mani / come facesse trecce alla pioggia». È in essa, nel limite buio arroccato che attraversa gli scuri che avvampa l’ultimo frammento di luce ridestata: «Laggiù la ferita è un fiore / le pareti fra noi cadono come petali / distratti da una manata di vento / il volto di cartone si piega come un vecchio amore / e ricomincia a stringere con i pugni l’aria».

Il suo posto delle fragole non è solo la sospensione ma anche il «lasciarsi leccare / un attimo dal mondo», nel viaggio breve contro il cielo, nella tersità della risata dove vivere, fino alla precisione blu dello splendore, alla faglia fra la madre e il buio, quando il canto profumato dell’aria è stretta negli anni. Essi sono brevi distanze, murati vivi, rimangono attorno alla prima casa e non sanno separarsi, sdraiati nella brezza dove il dolore, antico e colato, rimane «con granelle di cibo» per essere «un asilo / l’altalena dove spingersi nell’aria del petto / era mio, svolazzava, faceva i segni del vento / mi passava fra le mani come un anello».

Non è solo la poesia degli attimi aperti, ricuciti, sfibrati o liberati dalla letizia di una dismisura dell’anima a condensare le sue linee, è l’ora che non pesa, l’ora felice dove i cieli sono bellissimi e l’appartenenza è al fuoco che non muore, unico e peculiare:

«Nei giorni c’erano cieli bellissimi / tutti col piede appoggiato al muretto / varcavano confini, volavano schiaffi / uno sputo alla pioggia / l’esser soli di baci ne riceve tanti / ci vuole quella stranezza che girava / fra i tavoli di una discoteca / quel venire dentro le maniche / che solo il freddo conosce il brivido / ci vuole un cielo solo tuo / un cielo peso sulla spalla / con i suoi cementi, le pozze piccole / quel tramonto di gamba / grossa che gira con la palla intorno al sole / ci vuole quel briciolo di fuoco tuo / che chiede solo di cadere / come una cantilena nell’oscurità / e le calze il vento le lascia / per qualche minuto / dondolare vuote».

Pertanto, il suo allarme originario è primordiale, riflette il declino e la letizia emergente delle immagini, come «una gioia che gioca l’asso / fra me e l’universo», la fronte sudata della terra o il cielo travolto dall’addio.

Forse declino meraviglioso, forse specchio argentato o forse ancora felicità limata nel petto che custodisce i semi dell’eterno («osservavo il blu / lasciavo morire il movimento / e quelle luci i bottoni / aperti nel petto oscuro / toccavo quei muri / come un volto d’uomo / dalla rapida luce che si sdraia / nella notte, adesso. / E nessuno spegnerà il declino meraviglioso»):

«Le tue notti sdraiate nei deserti / sono occhi grandi, neri, caldi / hai mani che cercano nel vento / il ventre di una donna, / con il dito sollevi l’aria / per vedere la fronte sudata della terra / capelli lunghi come la notte appena trascorsa / un soffio muove la barca / fra l’imbrunire e il volto d’acqua / l’avvenire dondola nel blu / vibra una figura che scende / laggiù e non si volta / nemmeno per morire. / Non sai più dove la notte / vende ai fari i suoi specchi argentati. / L’acqua riflette un cielo travolto dall’addio».

L’alfabeto di Francesca Serragnoli, allora, è un tempio che custodisce l’alacre bellezza delle notti in piena con le sue ore brevi e la sua mezzanotte oltre il tavolo, cadenza l’infuocato ritmo e il respiro che «è una bandiera / bianca davanti a Dio», il silenzio del voler essere felici, il mezzogiorno delle tapparelle mentre si spinge fino alla sera delle stelle che «a testa bassa fanno la maglia», intrecciando il vivere e il morire, e nell’onda d’acqua «il gioco delle tue labbra spostava / la luna e la polvere / chiamavano l’onda per nome / chiamavamo quell’acqua, quel foulard / volevamo toccare la domenica, quel costato / come ragni del Signore, iniziare lì».

Nulla rimane fuori da questa pienezza di finitudine protesa, nulla che dopo l’eterno sfogliare dei giorni non cerchi il ricordo custodito, gli addii pestati, gli specchi del mare oltre l’aria inginocchiata e fedele, e gli anelli rovesciati come fiato:

«Non riuscivo a dire nulla d’immortale / accarezzavo moltissimi dei tuoi nomi / ero quella sulla scala mobile / che incrociavi senza morire. / Non te lo so spiegare, dicevi / ma la rosa è meglio di te / è rossa, e quel rosso tu non ce l’hai. / Hai la fuga e il piede nella pietra / non hai nemmeno l’azzurro fra punta e punta. / È come se avessi gettato / gli anelli in mare, / rovesciato il fiato come cenere».

La vita che si svolge promana e promette il suo canto disteso di dettagli dove il cuore prende fuoco nel grido agli angeli, e l’amore è promesso e lasciato, incrociato e disegnato, felice nell’aria scelta dove l’anima scivola la notte, nei codici segreti delle vendemmie: «Hai il cuore cadente dal petto / non lo sai tenere, spinge / conosco il movimento / la confusione delle due / i pulsanti, i codici segreti / il tuo cuore ha risate e sassi / sputa, non è dipinto / l’aria dolce ti cerchia il viso / come un nastro. / Stacco cose dal tuo esistere / è una vendemmia, eppure / c’è un che di aspro, di sbiadito, di invenduto / la notte, furiosa statua / cerca con le braccia di afferrarlo».

Ci sono emblemi tersi e violentissimi che muovono le sue figure nell’aria selvaggia, il canto e la domanda al cielo che è punto di fuga e di conquista, senza travestimenti. Poesia nuda che chiede nudità alle cose, le mendica, le curva pronunciandole e, infine, fa fiorire le parole in segreto dove qualcosa rimane nella polvere e non muore mai, come un nido, un incontro o un ricovero di pronunciamenti per «sentire il sole sulla testa / un cavallo che pesta l’erba / dove i pensieri miei e suoi / si annusano come animali»:

«Percorre un ripido scendere / degli occhi nel basso lei / che ha avuto voli in giovinezza / stretti in mani morte / curva sui suoi anni avverte / nello stare insieme qui / gioielli d’harem e risale / vedo nell’asfalto riflessa / paura di gioire / ma l’ossatura precisa, cadente / non morirà in quei fanali / non finirà la vita / fiorisce in lei la parola dolce / mai pronunciata, di un possibile amore».

Altra vita nella vita, voglia di vivere come musica che divide in due la riga fra i capelli e porta via, fino allo splendido sacrificio di un frantumato amore di grano e impasto di luce e terra, corpi e aria, come lo sfarzo ripido dove scivolano baci e carezze e dove «il duro grigio occhio interrato / cerca nella radura in fondo una margherita / su di lei appoggia la testa / e sogna il fresco domani»: «Mi porti là dove non sono mai stata / i piedi piatti sopra il ruvido della luna / come vecchie parrucchiere alla ricerca / di teste dove mettere i canditi. / Oh gioia che rifai con me il giro intorno al vicolo / mi porti come un cane / lasciami diventare / quel frantumato amore del grano che si lascia morire».

E allora l’incerta gloria di un giorno d’aprile, nei testi nati fra il Policlinico Sant’Orsola Malpighi di Bologna e l’Ospedale di Imola, si avverte tutta la bellezza e la povertà lucente dell’essere vivi, tutto l’abbandono, la grazia dell’eternità figlia dei matti e il posto delle fragole.

Questi ritratti affermano, si posano nel mosaico senza fine di un tempo infinito, dilatato e sofferto, dove ogni crepa dell’essere, ogni limite sono occhiate splendenti al di là dell’orizzonte dell’esistenza delle parole necessarie: ­­­­«Gabriella! alza quel nero vivo uccello notturno / che raspa fra le mani strette, alzalo / che riposi fra le tempie della notte / mentre ti guardo con il volto di vetro soffiato / e le stesse vecchie dure lacrime / sono i miei occhi azzurri».

Come la povere frantumata del futuro immobile che «una donna col carrello tira via dagli angoli / pietra di pianeta, eternità morta / un buco nero sembra dal nero nuovo, / pestato con orme di ciabatta / dove la roccia è girata e rida al cielo / e il pianto ha mille piedi / che vanno e vengono dalla sua ombra», poi Rita appesa a un chiodo d’aria e i suoi occhi divorati dalla luce come una farfalla notturna, la siepe oltre il buio dell’Ingresso Nuove Patologie che attraversa l’immensità e tocca la fine, il tramonto ritornato in viso del reparto geriatria Lunardelli. Un accenno e un sigillo encore: «Ho incontrato due soldati al ventiquattro / quelli partiti per la guerra / i baffetti appena accennati / li ho visti ora che il confine è un altro / le bandiere sono alte immobili bellissime / discutevamo, ma uno è uno / uno è sempre lui, quello che era / non importano gli anni / e non hai il coraggio di dire / tu devi morire, manca poco / ti spareranno dalle piccole e frantumate isole / metteranno i sigilli, chiuderanno la porta / ricorderanno che avevi vissuto / non ce la fai a non guardare tutto come eterno».

Serragnoli F., Aprile di là, Lietocolle, Faloppio (Co) 2016, Euro 13.

Francesca-Serragnoli-Aprile-di-là-copertinapiatta

 

 

 

 

 

 

Serragnoli F., Aprile di là, Lietocolle, Faloppio (Co) 2016.