La funzione terapeutica della fiaba tra Archetipi e Miti-I parte

di Linda Gargelli            4 ottobre 2014

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rackhamNegli ultimi anni la cultura occidentale, soprattutto dopo l’avvento di tecnologie sempre più avanzate, sembra aver perduto una modalità pedagogica importante per favorire lo sviluppo psicologico del bambino: il racconto di fiabe. Ciò che è andato perduto non sono tanto le fiabe di per sé, che si ritrovano oggi trasposte nei numerosi film per bambini, ma quel prezioso ed intimo momento in cui adulto e bambino entrano reciprocamente in contatto tramite un’interazione diretta, costituita dal racconto.
Per fiaba si intende una narrazione caratterizzata da racconti medio-brevi e centrati su avvenimenti e personaggi fantastici come fate, orchi, giganti e così via. Esse, di origine popolare, sono state tramandate oralmente di generazione in generazione per descrivere la vita della povera gente, le sue credenze, le sue paure, il suo modo di immaginarsi i re e i potenti e venivano raccontate da contadini, pescatori, pastori e montanari attorno al focolare, nelle aie e nelle stalle. Questo mio progetto nasce dal desiderio di recuperare il racconto di fiabe come potente strumento pedagogico poiché esso può costituire una sorta di addestramento alla vita. I bambini sentono il bisogno di una preparazione, di un’iniziazione, di un insegnamento e le trame fiabesche possono rappresentare una sorta di supporto, facendo sentire il piccolo meno solo e inadeguato di fronte agli ostacoli che la vita presto o tardi gli porrà.
Calvino considera la fiaba come: “una spiegazione generale della vita; il catalogo dei destini che possono darsi a un uomo e una donna, soprattutto per la parte di vita che è il farsi un destino: la giovinezza, che poi vede la sua conferma nella maturità e nella vecchiaia” (Calvino, 1956, p.17). Privando i nostri figli del comune retaggio fantastico, cioè della fiaba popolare ma anche delle fiabe più moderne, il bambino non può trovare da solo trame efficaci che lo aiutino ad affrontare i problemi della vita. Il materiale fiabesco offre queste trame che ricalcano fedelmente i passaggi basilari dell’esistenza di ogni individuo. Bettelheim sottolinea che la fiaba fornisce al bambino ciò di cui ha maggiormente bisogno: “essa inizia esattamente dove il bambino si trova dal punto di vista emotivo, gli mostra dove andare, e come procedere”(Bettelheim, 1976 p.120) . La fiaba diventa una sorta di “fidata consigliera” che suggerisce al bambino come muoversi nel percorso ad ostacoli della vita stessa.

L’ intento di questo mio progetto è quello di illustrare come il racconto di fiabe, sia quelle tradizionali1 sia le storie fantastiche di autori più moderni, siano un potente strumento educativo con forti implicazioni terapeutiche, che possono influire positivamente sul raggiungimento di un sano e completo sviluppo psicologico.
Molti studiosi si sono occupati delle valenza psicologica delle fiabe, ma per affrontare questo mio progetto, ho scelto di basarmi sul contributo di due autori che hanno vivamente sostenuto i benefici e gli effetti terapeutici che si possono trarre da esse: Bruno Bettelheim (1903-1990) e Marie-Louise von Franz (1915-1998).

Bettelheim, psicoanalista infantile di matrice freudiana, si è a lungo dedicato alle fiabe, soprattutto a quelle dei fratelli Grimm, ritenendole rappresentazioni dei miti freudiani, ossia quelle idee basilari che sostanziano la teoria di Freud, come, ad esempio, le fasi dello sviluppo psico-sessuale, le istanze intrapsichiche Io, Es e Super-io, il complesso di Edipo, ecc., mentre Marie-Louise von Franz, psicoanalista svizzera di matrice junghiana, ne ha esplorato l’espressione degli archetipi2 contenuti nella struttura della fiaba.
L’importanza che le fiabe assumono nella vita mentale del bambino fu sottolineata già da Freud nel suo scritto “Materiale fiabesco nei sogni” (1913), in cui egli afferma che elementi derivanti da racconti fiabeschi possono essere frequentemente ritrovati nell’analisi dei sogni. Le fiabe rientrano, pertanto, nella complessa elaborazione dei simbolismi onirici inconsci, assieme ai miti, ai motti di spirito, ecc. Saper interpretare analiticamente il materiale fiabesco permette di raggiungere i contenuti segreti che popolano l’inconscio del fanciullo.

Nella seconda parte dell’elaborato svilupperò le idee di un’autrice più contemporanea, Margot Sunderland, psicoterapeuta infantile e direttrice del Institute for Arts in Therapy and Education di Londra, che utilizza la fiaba come strumento terapeutico, avvalendosi di due modalità: la prima è la costruzione da parte del terapeuta di una storia che ricalchi la situazione emotiva del bambino, mentre la seconda è la costruzione di una storia che il bambino stesso inventa e crea. In ambedue i casi si tratta di storie terapeutiche, ma seguendo il primo approccio, la storia creata dal terapeuta per il fanciullo ha come finalità l’esplorazione delle dinamiche emotive del bambino, aiutandolo a sentirsi più compreso e meno solo di fronte ai propri disagi e proponendo all’interno della trama possibili vie di uscita dalla situazione che lo tormenta.
Mentre nel secondo caso il bambino diventa l’autore di racconti fantastici e le storie che crea riflettono nelle trame e nel susseguirsi degli eventi i nuclei nevralgici delle sue vicende interiori. I protagonisti e le vicende fantastiche create dal piccolo si configurano come una proiezione del suo mondo interno. In questo modo la fiaba assume valore terapeutico, poiché essa si struttura come uno strumento proiettivo che può aiutarci ad indagare le dinamiche inconsce ovvero quei conflitti e quei pattern comportamentali che risiedono sotto il livello di consapevolezza e possono tormentare il bambino.

Per la Sunderland il materiale fiabesco ha connotazioni terapeutiche quando il racconto di storie può facilitare la crescita psicologica del bambino aiutandolo nell’esteriorizzazione delle vicende interiori. Ma perché il racconto di fiabe è stato messo al bando e sempre più ignorato dai genitori di oggi, che considerano la fiaba una letteratura di serie “B” e talvolta perfino dannosa per i propri bambini? Perché tanti genitori preoccupatissimi del felice sviluppo dei loro figlioletti tengono così di poco conto il valore della fiaba, privando i bambini di quanto queste storie hanno da offrire? La prima risposta che sorge a questi interrogativi è che il mondo occidentale, impregnato di razionalismo, non può offrire né spazio né tempo alle fiabe poiché, considerate quadri non veritieri della realtà, sono percepite inutili e malsane.
Alcuni genitori temono che raccontare ai loro piccoli gli eventi fantastici contenuti nelle fiabe significhi dir loro delle “bugie”, poiché questi non trovano corrispondenza nel mondo reale. Questa loro preoccupazione trova spesso alimento nella domanda del bambino: “È vero quello che mi racconti?”. Molte fiabe offrono una risposta a questo interrogativo ancora prima che il quesito possa essere posto: cioè proprio all’inizio della storia. Spesso l’incipit delle fiabe viene trascritto come “C’era una volta..” o “Tanto tempo fa… in un regno lontano ..” e questa indeterminatezza spaziale e temporale fa intuire al bambino che i racconti sono veri “nell’antica e remota epoca del regno della fantasia”, poiché la verità delle fiabe è la verità della nostra immaginazione, non quella dei normali rapporti di causa-effetto.

Altri genitori temono che i loro piccini si possono lasciar trasportare dalle loro fantasie finendo per credere nella magia, ma questi trascurano il fatto che ogni bambino crede nella magia avendo un pensiero prevalentemente animistico3 e che cessano normalmente di farlo quando diventano grandi. Altri ancora temono che la mente di un bambino possa fare una tale indigestione di fantasie fiabesche da trascurare d’imparare come si affronta la realtà. Ma questa erronea convinzione è smentita anche da Bettelheim il quale ne sostiene l’impossibilità: “Per quanto una persona sia complessa – piena di conflitti, ambivalenze, contraddizioni – la personalità umana è indivisibile. Quale che possa essere un’esperienza, coinvolge sempre tutti gli aspetti della personalità. E la personalità totale, per essere capace di affrontare la vita, deve poter essere sostenuta da una ricca fantasia combinata con una ferma coscienza e una chiara comprensione della realtà” (Bettelheim, 1976, p.117). Espresso in altri termini, affidarsi e usare la fantasia non esclude il fatto di vigilare sulla realtà tangibile.

Ci sono poi coloro che mettono al bando le fiabe tradizionali poiché ricche di personaggi mostruosi e terrificanti, così eliminando personaggi salienti o ancor peggio tramutandoli da malefici a bonari e trascurando, allo stesso tempo, il mostro che il bambino conosce meglio e lo preoccupa di più. Seguendo Bettelheim, in questo modo il bambino non è in grado di viversi “il mostro che sente o teme di essere, e che a volte arriva a perseguitarlo” (ibidem p. 119) . Tenere questo mostro all’interno del bambino, inespresso e nascosto nel suo inconscio può essere molto più pericoloso; mentre dargli vita con l’immaginazione significa alleggerire il fanciullo da massicce ansie e preoccupazioni, insegnandogli a dominarlo e a conoscerlo senza averne timore, tramite l’identificazione col personaggio.
Ma le fiabe popolari o le più generiche storie moderne lette o inventate dai bambini hanno davvero funzioni terapeutiche per il sano sviluppo psicologico?

1. La funzione terapeutica della fiaba secondo Bruno Bettelheim e Marie-Louise von Franz: significati psicoanalitici a confronto.

1.1 Due diversi modi di attribuire significati alle fiabe.

In questo secondo capitolo verrà illustrato e comparato il pensiero di due autori che hanno prodotto opere fondamentali sulla comprensione psicologica e sul valore terapeutico delle favole: Bruno Bettelheim (1903-1990), illustre psicoanalista infantile di matrice freudiana, e Marie-Louise von Franz (1915-1998), allieva e collaboratrice di Jung nonché grande esponente della psicologia analitica del XX secolo.
Per Bettelheim la fiaba permette di risolvere i problemi psicologici annessi al processo di crescita del bambino. La sua funzione è quella di illustrare in forma simbolica i tipici conflitti interiori, come superare delusioni narcisistiche, dilemmi edipici e rivalità fraterne, mostrando come questi possono essere risolti riuscendo ad abbandonare dipendenze infantili, conseguendo il senso della propria individualità e del proprio valore. Le favole, con le parole di Bettelheim, si occupano soprattutto di quei problemi “che preoccupano la mente del bambino, e quindi parlano al suo Io in boccio e ne incoraggiano lo sviluppo, placando al contempo pressioni preconscie e inconsce.
Le storie, nel loro svolgimento, ammettono a livello conscio e manifestano le pressioni dell’Es, e indicano dei modi per soddisfare quelle che sono in accordo con le esigenze dell’Io e del Super-io”. (Bettelheim, 1976, p.14)
Ad esempio la fiaba “I tre porcellini” illustra in maniera simbolica il conflitto tra il principio di piacere e il principio di realtà. In maniera indiretta la fiaba insegna al bambino che non bisogna essere pigri e prendercela comoda, perché altrimenti potremmo morire. Le case che i tre porcellini costruiscono simboleggiano il progresso dell’uomo nella storia. Il comportamento dei primi due porcellini rappresenta il modo di vivere secondo il principio di piacere (Es), senza darsi pensiero per il futuro e preoccuparsi dei pericoli della realtà. Solo il terzo porcellino ha imparato ad agire secondo il principio di realtà (Io); è in grado di rinviare il momento del piacere e agisce conformemente alla sua capacità di prevedere il futuro. Le azioni dei porcellini riflettono un progresso da una personalità dominata dall’Es a una personalità sotto l’influenza del Super-io, ma controllata dall’Io. Difatti, vivendo in accordo con il principio di piacere, i porcellini più piccoli cercano una gratificazione immediata. Il porcellino più grande ha imparato ad agire in conformità con il principio di realtà, rimandando il desiderio. Il lupo rappresenta le forze inconsce da cui l’individuo deve imparare a proteggersi e che possono essere sconfitte tramite la forza dell’Io.
La fiaba, in sintesi, cerca di far capire al bambino che è possibile raggiungere la soddisfazione, rispettando al contempo le esigenza della realtà.
L’obiettivo terapeutico della favola è quindi la conquista dell’integrità, perseguibile equilibrando le istanze intrapsichiche Io, Es e Super-io, in modo da placarne le pressioni che esercitano sull’inconscio del bambino, provocando conflitti difficilmente gestibili se lasciati giacere indisturbati nel serbatoio inconscio. Bettelheim utilizza dunque le categorie freudiane di Super-io, Io e Es per analizzare il contenuto delle fiabe, permettendo lo scontro tra le varie istanze intrapsichiche necessario per raggiungere un buon livello di maturità e soprattutto una sana personalità. Bettelheim, nel suo saggio “Il mondo incantato”, illustra la funzione pedagogica della fiaba e scrive: “ Il processo di sviluppo del bambino inizia con una fase di resistenza ai genitori e con la paura di crescere e termina quando il giovane ha realmente trovato se stesso, raggiungendo l’indipendenza psicologica e la maturità morale”( ibidem p.17). La fiaba permette al bambino di dialogare con i propri contenuti inconsci, poiché parla un linguaggio simbolico ed evocativo, non invadendo la sua intimità. Non va dunque detto al bambino il significato che la favola suscita in lui: la favola letta non va spiegata:
“è sempre un atto di invadenza interpretare i pensieri inconsci di una persona, per rendere conscio ciò che desidera mantenere preconscio e questo è particolarmente vero nel caso del bambino” ( Bettelheim, 1976 p.23). Fondamentale è che il bambino entri “indirettamente” in contatto con i propri motivi inconsci, poiché se totalmente negati alla coscienza o totalmente repressi la personalità subisce un danno. Il supporto offerto dal materiale fiabesco permette all’inconscio di affiorare alla coscienza e di rielaborarlo attraverso l’immaginazione, così da renderlo meno pericoloso e più malleabile. La fiaba, in quanto opera letteraria, mentre intrattiene il fanciullo, gli permette di evocare significati profondi in relazione al suo stadio di sviluppo. Afferma l’autore: “[…] le fiabe hanno un valore senza pari: offrono nuove dimensioni all’immagine del bambino, dimensioni che egli sarebbe nell’impossibilità di scoprire se fosse lasciato completamente a se stesso. Cosa ancora più importante, la forma e la struttura delle fiabe suggeriscono immagini per mezzo delle quali egli può strutturare i propri sogni ad occhi aperti e con essi dare una migliore direzione alla propria vita” (ibidem pp.12-13). I racconti presentano problemi umani universali (il bisogno di essere amati, la sensazione di essere inadeguati, l’angoscia della separazione, la paura della morte ecc.). La funzione terapeutica delle storie all’interno di questa cornice concettuale sta nel fatto che la fiaba si propone come una sorta di auto-cura, permettendo ai processi interiori di venire esteriorizzati tramite l’identificazione con i personaggi e la proiezione sulle trame narrate; il fanciullo trasla sul personaggio, con il quale si identifica, le proprie trame sentendosi meno solo, più rassicurato e soprattutto compreso. L’ esteriorizzazione è incoraggiata dalla fiaba, poiché essa parla di verità che non hanno a che fare con la quotidianità routinaria del bambino. L’incipit della storia come “c’era una volta”o “mille anni fa” introduce un altrove che non è il luogo e il tempo in cui siamo ma suggerisce che stiamo per lasciare il mondo della realtà, per entrare in un luogo antichissimo e remoto, simile allo spazio onirico dove la logica con la sua casualità viene sospesa lasciando spazio all’immaginazione e alla fantasia.
Un elemento che favorisce il processo di identificazione è la non ambivalenza dei personaggi, in quanto essi si presentano o come del tutto buoni o come del tutto cattivi. Prima e durante il periodo edipico, il bambino divide ogni cosa in opposti, scinde il buono dal cattivo, sia nel mondo esterno che in quello interno. La presentazione delle polarità del carattere, contenuta nei personaggi fiabeschi, permette al bambino di comprendere con meno difficoltà la differenza fra i due aspetti e al contempo di familiarizzare con la propria parte “oscura”, come l’aggressività, la rabbia, la gelosia, l’odio, ecc. che generalmente vede riflessa nei personaggi negativi. Quando il bambino si identifica con il personaggio fiabesco l’interrogativo che egli si pone non è “voglio essere buono?” ma “chi voglio essere?” ricalcando una questione esistenziale molto profonda che va ben oltre una semplice questione di preferenza e implica un’ ardita ricerca di significato per la costruzione della propria personalità.
Inutile tentare di tener i fanciulli sotto una campana di vetro illudendoli che tutto ciò che incontreranno e vivranno sarà roseo e meraviglioso, ma più utile e sensato è mostrargli che nella vita esistono anche gravi difficoltà e ostacoli, che possono essere superati con il coraggio e la determinazione. La struttura della fiaba assolve anche a questa funzione: oltre alla fata buona si può trovare anche la matrigna cattiva, ma quest’ultima può essere depotenziata e resa innocua, mettendo in atto le opportune strategie. Le fiabe per Bettelheim non sono semplici storielle per addormentare i fanciulli la sera, ma sono più profonde di quanto noi pensiamo. Ad esempio la formula finale “e vissero tutti felici e contenti” non implica un’illusoria credenza nella vita dopo la morte, bensì suggerisce al fanciullo che formando una relazione interpersonale, che nella fiaba può configurarsi, ad esempio, con l’unione della principessa con il principe, l’individuo può sfuggire all’angoscia di separazione e che è necessario uscire dalla “stretta dei genitori” senza che ciò implichi morte interiore e distruzione.
Alcuni motivi fiabeschi oltre a quello primario che è la conquista dell’integrazione, secondo Bettelheim, che possiamo trovare nelle fiabe possono essere:
– le trasformazioni dei personaggi che permettono di scindere una persona in due per mantenere incontaminata l’immagine buona, con questo espediente tutte le numerose contraddizioni sono improvvisamente risolte. (vedi il personaggio della matrigna che permette di scindere la madre nell’oggetto cattivo e malefico)
-il romanzo familiare: può contenere l’idea che i propri genitori non siano realmente i propri genitori e che il bambino è figlio di qualche altro individuo. Questa fantasia è utile perché permette al bambino di nutrire un’autentica collera contro il “falso genitore” senza avvertire sensi di colpa, ad esempio la figura della matrigna cattiva permette di proiettare i sentimenti negativi su di essa preservando l’immagine della madre buona.
-la sostituzione dell’ordine al caos: i personaggi essendo unidimensionali sono incarnazioni di aspetti tra loro diametralmente opposti, questo permette di sistematizzare il caos interiore del bambino e di isolare e separare tra di loro i diversi e contraddittori aspetti dell’esperienza proiettandoli anche su personaggi diversi.
-Conflitti edipici e risoluzioni: in alcune fiabe, ad esempio in Cenerentola o in Biancaneve, l’esistenza beata della fanciulla edipica con il padre viene interrotta dall’entrata in scena della perfida matrigna, raffigurata come un personaggio più anziano e malintenzionato che minaccia la coppia padre-figlia. I bambini edipici, grazie alla fiaba, possono godere pienamente di soddisfazioni edipiche a livello fantastico e mantenere buoni i rapporti con i genitori nella realtà.
Infine, mi pare utile riportare la distinzione che Bruno Bettelheim compie tra fiaba, mito e favola. Si definisce mito la narrazione di eventi fantastici o leggendari, in qualche modo legati a credenze religiose, su divinità e antichi eroi o sui rapporti tra l’uomo e la natura. Anche il mito, come la fiaba, rappresenta un conflitto interiore ma presentando il tema in forma grandiosa i personaggi acquisiscono tratti con i quali è difficile identificarsi, poiché noi umani rimarremo sempre inferiori agli dei. I miti riguardano le richieste del Super-io in perenne conflitto con le richieste dell’Es e le esigenze di autoconservazione dell’Io ma per quanto ci possiamo sforzare non riusciremo mai a vivere completamente all’altezza di quanto il Super-io, così come è rappresentato dai miti degli Dei, sembra chiederci. La fiaba contrariamente al mito non pone richieste, non fa sentire inferiori cosicché anche un bambino piccolo può identificarsi con facilità con i personaggi. Le favole diversamente dalle fiabe sono racconti brevi e semplici, per lo più di carattere morale, che hanno come protagonisti gli animali.
Secondo Bettelheim, la funzione terapeutica della favola è assai limitata rispetto ai benefici che si possono trarre dalle fiabe. Le favole presentano anch’esse un difficile conflitto interiore ma suggeriscono, in forma figurata, quello che le persone dovrebbero fare, imponendo o minacciando in modo moralistico la soluzione da adottare suscitando così ansia e timore che bloccano la discesa conoscitiva del bambino nel proprio inconscio.
In altri termini, parlano con il linguaggio autoritario e critico dell’adulto, dicendo cosa è giusto fare e cosa non fare, scartando così tutto il range di possibilità che il bambino dovrebbe consultare quando si trova in conflitto o in situazioni problematiche.
Per Marie-Louise von Franz, l’azione terapeutica delle fiaba mira alla descrizione e al potenziamento di un unico evento psichico estremamente complesso, che Jung definisce Sè, perseguibile tramite il processo di individuazione4.

Rifacendosi alla psicologia analitica junghiana, l’autrice sostiene che le fiabe consentono di studiare approfonditamente l’anatomia comparata della psiche in quanto esprimono in forma simbolica i processi dell’inconscio collettivo riproducendo alcuni modelli archetipici del comportamento umano. La von Franz abbraccia e condivide la tesi junghiana secondo la quale oltre ad un inconscio individuale che Jung chiama “inconscio personale” composto principalmente dai cosiddetti “ complessi a tonalità affettiva”, propri della vita psichica di ogni individuo, vi è anche un inconscio definito “ inconscio collettivo” dove risiedono gli archetipi, di cui la fiaba ne è pura espressione. L’inconscio collettivo può essere immaginato come un grande serbatoio comune e identico per tutti gli uomini che costituisce un substrato psichico universale di natura sopranaturale presente in ogni uomo. Con le parole di Jung: “un certo strato per così dire superficiale dell’inconscio è senza dubbio personale. Esso poggia però sopra uno strato più profondo che non deriva da esperienze e acquisizioni personali e che è innato. Questo strato più profondo è il cosiddetto inconscio collettivo” (Jung, 1936, pp. 15-16). Ma che cosa sono questi archetipi di cui la fiaba ne costituirebbe un autentico riflesso?

Il termine archetipo (da archè, principio, origine, e typos, forma ma anche immagine) indica le “immagini primordiali”, esse sarebbero autoctone, capaci cioè di generarsi in forza autonoma, percepibili nella coscienza ma provenienti da una matrice inconscia comune a tutti i popoli. Il sé, al quale mira ogni fiaba, rappresenta l’archetipo fondamentale della psiche, l’obiettivo primario dell’intero corso della vita: la completezza umana, la compenetrazione delle forze opposte che da sempre influenzano il nostro comportamento. Marie-Louise von Franz definisce il Sè come “la totalità psichica dell’individuo, ma anche, paradossalmente, il centro regolatore dell’inconscio collettivo. Ogni individuo e ogni popolo vive a suo modo questa realtà psichica”(von Franz, 1969 p.2 ). La totalità psichica, di cui parla l’autrice, fa riferimento alle varie componenti che strutturano la personalità, esse devono essere integrate tramite il processo di individuazione, per poter raggiungere il Sè. Con il termine individuazione, si intende quel lento e quasi impercettibile processo di sviluppo psichico che conduce, nel corso della vita, verso l’unificazione e la fusione delle varie istanze dell’apparato psichico, che per la psicologia analitica junghiana sono:
– Io: il complesso centrale nell’ambito della coscienza, rappresenta la mente conscia – Ombra: è la parte inconscia della personalità caratterizzata da tratti e comportamenti che l’Io cosciente tenta di rimuovere o ignorare.
– Anima/Animus:secondo Jung, ognuno di noi porta in sé l’immagine dell’altro sesso, l’inconscio dell’uomo porta in sé un elemento femminile complementare e così dicasi per la donna che porterebbe un elemento maschile complementare.
-Persona (dal latino “maschera dell’attore”): si riferisce al proprio ruolo sociale, derivato dalle aspettative della società e dell’educazione.

Nei sogni, così come nelle fiabe, le varie istanze possono manifestarsi sotto forma di personaggi: l’anima, in quanto principio dell’eros, può venir rappresentata con immagini di donne che variano dalla prostituta e seduttrice alla guida spirituale (saggezza). Sono personaggi dai tratti effeminati, ipersensibili e talvolta melanconici, mentre i personaggi che incarnano l’Animus, essendo il principio del logos (razionalità), presentano caratteristiche di rigidità, intransigenza e spirito polemico. L’ombra si configura in quei personaggi più istintivi, selvaggi e primitivi, spesso nei sogni è rappresentata da una persona dello stesso sesso che sogna.

Nel volume “Le fiabe del lieto fine, Psicologia delle storie di redenzione” (von Franz, 1987), l’autrice sviluppa il concetto della storia a lieto fine attraverso la redenzione concepita come una liberazione, con la suprema possibilità di arrivare a conoscere e sviluppare il proprio Sè. Le fiabe non sono esclusivamente rilevatrici dello stato di salute psichica ma si propongono anche come metodo terapeutico, per ottenere un processo di guarigione, addestrando il soggetto all’individuazione, per raggiungere la percezione cosciente della propria e unica realtà psicologica, tenendo conto di potenzialità e limiti. Analizzando la struttura archetipica della fiaba, la psicoanalista svizzera scrive: “ al di sotto della superficie delle nostre vite quotidiane esiste uno strato della vita psichica dove gli eventi scorrono proprio come nelle fiabe. I grandi miti emergono e si sviluppano a partire da tale livello per poi ridiscendere nuovamente nel profondo dell’inconscio e trasformarsi in fiabe” (von Franz,1977 , p.22). In altre parole, le fiabe rappresentano gli archetipi in forma chiara e coincisa, offrendo preziosi contributi ed indizi per comprendere i processi che si attuano nelle psiche collettiva. Secondo la von Franz, l’interpretazione della fiaba non è altro che la traduzione della storia in un linguaggio psicologico. Il motivo e la ragione, che conducono a tale lavoro analitico, sono gli stessi che spingevano a raccontare fiabe e miti: l’effetto vivificante che se ne trae e la pace con il substrato inconscio istintivo che ne consegue. Attraverso il racconto è possibile leggere un processo personale e culturale: un tentativo di riconoscersi nelle fiabe. Nel suo libro Le fiabe interpretate (1969), l’ autrice arriva ad illustrare le fasi da seguire per una corretta interpretazione della storia archetipica. La fiaba per essere interpretata deve essere divisa nei suoi vari aspetti5:

1. Introduzione: l’introduzione più comune che generalmente si ritrova nelle fiabe è
“C’ era una volta…”. Questa formula indica una collocazione temporale e spaziale fuori dal tempo, in un non-tempo, in “nessun luogo dell’inconscio collettivo” (Ibidem, p.40).

2. Personaggi: contare il numero di personaggi all’inizio e alla fine può essere utile per cogliere un elemento archetipico della fiaba stessa: von Franz illustra l’esempio di reintegrazione del principio femminile, in un racconto dove all’inizio “il re aveva tre figli”, quindi va sottolineato che ci sono quattro personaggi e la madre assente. La narrazione, però, può finire con una disposizione diversa dei vari personaggi anche se il numero è invariato: il figlio, la sua sposa, la sposa del fratello e un’altra sposa, tre donne che erano totalmente assenti.

3. Esposizione o inizio del problema: all’inizio della storia vi sono sempre delle difficoltà, perché altrimenti non vi sarebbe la storia stessa, le crisi e le difficoltà vanno attentamente analizzate per centrarne il significato e captarne l’essenza.

4. Peripezia e Lisi: segue la peripezia che può essere una sola o molte e può durare anche parecchie pagine fino a giungere all’apice della tensione dopo la quale “avviene una lisi o, talvolta una catastrofe, una soluzione positiva o negativa, un esito finale”(Ibidem p.36)

5. Formule conclusive: dette anche “rite de sortie” per non rimanere nel mondo onirico dell’inconscio collettivo dove siamo stati condotti nel racconto della fiaba. Una caratteristica della conclusione in una fiaba che non troviamo in altri generi come miti e leggende è che essa alle volte può essere ambigua, cioè una conclusione felice seguita da un’osservazione negativa del narratore.

Per concludere la panoramica sui motivi fiabeschi di matrice junghiana portata avanti da Marie-Louise von Franz è utile illustrare alcuni personaggi con i relativi archetipi che rappresentano che possiamo trovare nelle fiabe. Ogni archetipo è scisso in due polarità opposte, tranne l’archetipo del vecchio sapiente (vecchio saggio) e della magna mater (la Grande Madre) che esprimono, il primo, la totalità del principio maschile e spirituale mentre, il secondo, la totalità del principio femminile e materiale. Il vecchio sapiente (vecchio saggio) che compare spesso come aiutante del protagonista è il più tipico archetipo dell’integrità dell’Io maschile, incarna il suo potenziale che gli fa cenno dal futuro ma soprattutto le sue forze vitali che vengono ad un compromesso con lo spirito cosciente. Quando esso compare nelle fiabe, indica un indizio della saggezza e della superiorità che l’individuo vorrebbe acquisire per sé, infatti esso compare quando il protagonista si trova in una situazione critica dove per poter uscire dalla situazione disperata necessita di attingere dalle riserve energetiche dell’inconscio per poter raggiungere lo scopo. La magna mater è l’equivalente del vecchio sapiente e presenta la totalità nella donna o la sua potenziale integrità. Non bisogna confonderla con quella parte del potenziale femminile che è la maternità.

Tra gli archetipi maschili possiamo trovare il personaggio del padre/orco, questa figura è la personificazione dell’autorità, della legge, dell’ordine, delle convenzioni sociali, oltre ad essere anche figura maschile protettiva. Questo archetipo nella polarità di orco simboleggia il padre oppressivo che tenta di manipolare la personalità in modo conformistico mentre al vertice opposto il padre buono che addestra il figlio al processo di individuazione. Il personaggio del giovane vagabondo o cacciatore è l’equivalente maschile della Principessa; dotato di giovinezza e gaiezza, ha in sé il seme della potenziale trasformazione nell’eroe e successivamente nel vecchio saggio, incarnando a tutto tondo i molteplici aspetti dell’Io; poiché egli è anche il Cercatore. L’aspetto del vagabondo rimanda a un personaggio privo di altre influenze se non quelle provenienti direttamente dal suo inconscio, il suo errare privo di obiettivi indica il rifiuto di diventare adulto rischiando così di rimanere un eterno fanciullo anche nella vecchiaia negandosi la condizione di uomo; l’aspetto del cacciatore simboleggia invece la passione piena di curiosità e di spirito avventuriero che contrasta con la pazienza, il sacrificio e la dedizione.

L’archetipo dell’eroe/cattivo raffigura l’audacia e lo spirito d’iniziativa dell’individuo. Se le attitudini di volontà e di potere di comando vengono esaltate ed estremizzate in tutti i campi possono sfociare in tendenze aggressive di natura antieroica facendo così emergere la parte negativa dell’archetipo, ovvero la figura del cattivo. Il cattivo rappresenta le radici dell’inconscio e questo archetipo ha una forte propensione all’egoismo che può portare alla megalomania, soprattutto se si trascura il versante emotivo.
La figura archetipica dell’imbroglione (o mago bianco) / (mago nero), è inafferrabile e alquanto complessa: i lati luminosi e quelli oscuri si compenetrano e sembrano molto meno differenziati che negli altri archetipi. Questa figura dapprima può essere utile ma diventare pericoloso in un secondo tempo (o viceversa). Tuttavia quando le difficoltà sono state affrontate e gli ostacoli superati, allora tutti gli sforzi avranno una ricompensa, qualunque cosa sia successa nel frattempo.
Anche gli archetipi che riguardano la sfera del femminile, come quelli maschili si presentano scissi in due polarità tra loro opposte uno tra i più comuni è quello della madre/madre terrificante (matrigna).

La polarità madre incarna l’aspetto materno e protettivo della donna: la creatrice del focolare, colei che dà cibo e rifugio mentre quella della madre terrificante è l’aspetto divorante, castrante e distruttivo della maternità che può anche sorgere in una madre comprensiva, iperprotettiva che inizia improvvisamente a minacciare la crescita, lo sviluppo e l’indipendenza dell’individuo, la madre che tiene i figli legati a sé con un amore e una dedizione abnorme può apparire anche in queste sembianze. Il personaggio archetipico della principessa/seduttrice, da una parte incarna le qualità eternamente giovani della spontaneità e del calore umano, mentre dall’altra incorpora l’immagine della fantasia erotica, la fatale sirena incantatrice e distruttrice di ogni autentico rapporto. L’amazzone/cacciatrice è l’archetipo che rappresenta le qualità intellettuali femminili dove nella prima metà compaiono tratti come la forte determinazione, tenacia, impegno e ambizione e nella seconda metà accanimento e frustrazione per le ambizioni irrealizzate. In ultima analisi, l’archetipo della sacerdotessa/strega indica, nella polarità di sacerdotessa, le qualità di saggezza, conoscenza, guarigione mentre nella polarità opposta di strega caratteristiche come la sensitività, l’estasi, l’occulto e l’extrasensoriale. Dopo questa descrizione non sarà difficile rintracciare molti personaggi tipici delle fiabe più note: il Re e la Regina, come Padre e Madre, l’Orco e la Matrigna, che rappresentano i loro aspetti negativi, il Principe (o Giovane) e la Principessa, la Fata (o sacerdotessa) e la Matrigna (strega), il Mago (Bianco) o lo Stregone (Mago nero), l’ Eroe e l’antagonista (il cattivo), il Vagabondo spesso rappresentato nella fiaba come il fratello minore disprezzato da tutti, l’eroina(o amazzone) e il suo aspetto negativo (la Cacciatrice o Assassina) e cosi via.

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1Con questo termine si intendono quelle fiabe legate alla tradizione orale e patrimonio del popolo che molti autori hanno raccolto e trascritto. Tra i trascrittori di fiabe di matrice europea più noti si possono citare: Charles Perrault (Francia) e i fratelli Grimm (Germania) e i più recenti Italo Calvino ( Italia), Alexander Afanosiev (Russia) e William Butler Yeats (Irlanda). Fra gli inventori di fiabe più celebri che non hanno trascritto fiabe popolari ma inventate di nuove riprendendo creativamente gli stilemi della tradizione popolare troviamo il danese Hans Christian Anderson, l’italiano Collodi e il britannico James Matthew Barrie.
2 La parola archetipo deriva dal greco antico ὰρχέτυπος col significato di immagine: tipos (“modello”, “marchio”, “simbolo” e archè (originale). Nella concezione junghiana il termine viene usato per indicare le idee innate e predeterminate dell’inconscio collettivo.
3I bambini, soprattutto dai due ai sei anni, attribuiscono “vita” sia ad oggetti inanimati. Questa tendenza del fanciullo a considerare i corpi come vivi e dotati di intenzionalità, è stata definita da Piaget “animismo infantile”.
4 Il termine “individuo significa “non divisibile”. L’individuazione, secondo il pensiero junghiano, è il processo attraverso il quale l’individuo diventa se stesso, un essere umano intero e inscindibile. Esso tende alla realizzazione della totalità psichica e cioè dell’integrazione delle varie componenti della psiche: tale tendenza è espressione dell’archetipo del sé.
5Le fasi della struttura della fiaba sopraelencate sono tratte dal volume di M.L. Von Franz, Le fiabe interpretate, 1996.