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Le anime inquiete di Isabella Cesarini

di Andrea Galgano 22 agosto 2018

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Anime inquiete[1] di Isabella Cesarini, edito da Auditorium, è una ferita di abissi lucenti. Non soltanto per la molteplice galleria creaturale di voci che ne compone l’atto e  la sfida, quanto piuttosto per lo splendore lacerato e umbratile che ordina il mosaico, in cui la mano è attraversata da una voragine e da una sospensione, e, allo stesso tempo, da una mediata testimonianza che si lascia restituire, che si porge, non ostenta, lasciando un sospiro e un grido di esistenze plurime[2].

L’inquietudine è la cifra del limite, che prende coscienza della finitudine e della propria insoddisfatta sospensione, ma che allo stesso tempo, attraverso la precipua Unheimlichkeit[3], varca la caduta di senso e tenta un approdo sconfinato, anche vivendo, come accade in Bernardo Soares, anima estrema e improbabile di Fernando Pessoa:

«Poco a poco ho trovato in me lo sconforto di non trovare niente. Non ho trovato una ragione e  una logica se non a uno scetticismo che non era neppure alla ricerca di una logica per giustificarsi. Non ho pensato di curarmi da questa cosa – perché mi sarei dovuto curare? E che cosa significa  essere sani? Quale certezza avevo che quello stato d’animo dovesse appartenere alla malattia? Chi ci dice che, pur essendo una malattia, la malattia non sia più desiderabile, o più logica […] della  salute? E se la salute era preferibile, per quale altro motivo io ero malato se non per il fatto di  esserlo naturalmente, e se lo ero naturalmente, perché andare contro la Natura, che per qualche  scopo, ammesso che abbia uno scopo, mi avrebbe voluto certamente malato?».[4]

Un mosaico di corpo e gesto nel tempo, quindi, che vibra come uno stemma di domanda o una parola-corpo che si concreta. Per cui la pagina diventa l’esito di questo abisso di vibrata esistenza, diventa il libro dell’essere che ha vissuto, ha sofferto e ha sentito l’oblio e l’amore. Nella prefazione Pasquale Panella, appunto, scrive:

«Questo libro di ritratti non è un libro, è la realizzazione di un sogno, un sogno ingenuo ossia un sogno di tutti, un sogno vero. Questo libro rende invisibile chi legge, invisibile e capace di volare, così chi legge vola e, impercettibile, entra nelle finestre, in tutte le finestre – delle stanze, delle epoche, dei mondi – e vede i corpi. Perché sono corpi, queste anime inquiete».[5]

E l’autrice afferma:

«Sono le “anime inquiete”, protagoniste di immagini ingemmate dal tempo, accese dal cuore di un romanzo che si scrive prima dell’opera stessa. Una tela, sguarnita dall’ornamento di un bordo, custodisce l’esclusiva possibilità di estendersi in qualsivoglia direzione, disarcionare lo spazio e il tempo per planare sulla nuvola del cosmo. […] Raffigurati da un moto inquieto, i personaggi che accadono in queste pagine disegnano suoni ritmati da un solo metronomo: la nota inconfutabile della loro esistenza. Presenza vissuta con l’accento sulla prima emissione artistica e il punto come un cappello perduto nel tempo dei vicoli del mondo. Spiriti non comuni, lanciati in velocità sul bosco fitto, e a tratti oscuro, della vita. Impudentemente, si compiono prima nel divenire creature eccezionali e, in seguito, nella straordinarietà del farsi artisti. L’arte ammanta l’istante dello scrivere, il guizzo del dipinto, il palpito del canto in una zona dal sapore ansante, cadenzata dalla non appartenenza».[6]

La voluttà finale di Lou von Salomé, figlia di un generale dell’esercito imperiale russo, amata da Friedrich Nietzsche e Paul Rèe, amante di Rainer Maria Rilke, ammaliante femme intellectuelle, è un indizio di libertà slacciata, di una scolpita fragilità padrona che però non sconfina nel femminismo o nella rivendicazione. È la luce unica e rarefatta di una estensione narcisista e rifratta che nell’eros percepisce solitudine e carnalità, sovversione e inferno, come l’ultima parola depositata sulla pagina di Rilke, nel loro carteggio.

Sibilla Aleramo è un tormento di gioia stremata. È «poeta» come la definì la Duse, destinata all’esistenza compiuta, in cui l’esposizione «alle arene umane» diventa pagina trascritta di un fremito ribelle, di una passione intima che si risolve nel dramma miracoloso. Come nell’amore vertiginoso con Dino Campana, il poeta degli appunti lasciati nella notte, dei viaggi, dello stupore orfico, ma anche dei balbettii, dell’universo e del suo cinema, raccontano di una segreta incandescenza terragna.

E poi ancora Egon Schiele e il suo dardo lento dell’orrore, la malinconia e l’erotismo, il destino della morte che imbratta le tele, come una malattia, un grido o un faro, che invadono lo strazio nudo del corpo e il sigillo dell’essere. O l’ossimoro narciso di Pierre Drieu La Rochelle, condensato nella firma di morte e nella sua piega irrisolta, nel grido autentico e nella dannazione.

La scrittura di Isabella Cesarini coglie il tratto, la dinamica e l’orlo delle incursioni, non restituendo una ferma galleria, bensì ricomponendo un volto unico, in cui l’inquietudine diventa il mai sobrio agone di un corpo a corpo con la pagina. Qualcosa che visita e irrora, che si annida nei più esili crepacci di abissi e mari della mente, per farsi sinuosa scrittura, incurvatura dell’essere e, infine, vertigine.

L’esile incarnato di Jeanne Hébuterne, le soufflé de Modì, la “Noix de coco”, racconta il vuoto e l’attenzione, la fusione e l’osmosi di arte e dedizione, nella Parigi notturna, ai tavolini della Rotonde, e diventa

«l’affermazione dell’amore sulla vita e sulla morte, l’urto atavico con il cosmo tutto, l’opera d’arte totale con l’aggiunta dell’elemento umano. Jeanne è la madre, l’amica, l’amante e il femmineo. Jeanne è il prolungamento vitale e infine mortale di Modì. Jeanne è la forza di Modigliani. Jeanne è l’espressione massima del sentimento la rinuncia al tutto per innalzarsi proprio sopra quel tutto».[7]

L’edace inquietudine di Dalì e la sua visione fluttuante, quasi non consumata, il principio assoluto e definitivo di Gustavo Adolfo Rol e la sua amicizia con Fellini, fino alla spossessata angoscia di Emil Cioran, abitata dal regno del nulla, fronteggiata dalla sopravvivenza, acuita dal senso di limite e di morte. Oppure il travestimento kierkegaardiano di Leonor Fini e la sua orgasmica vitalità incontenibile:

«Leonor disegna una vera e propria calamita sensuale e nel centro della sua opera figurano, oltre ritratti di personaggi illustri risalenti alla sua infanzia, maestose fogge di donne. Sono creature avvenenti e inquietanti, avvolte in atmosfere oniriche, conduttrici di un mistero che resta festeggiato ai bordi della tela. La pittrice è la creatività eterodossa che vive e germoglia, come prolungamento in altri artisti».[8]

L’arcipelago di Isabella Cesarini esplora ogni cromatura di suono, ogni efferato abisso, inoltrandosi nella musica, come la leopardiana Édith Piaf, canto che dimora «nell’antinomia di un tormento che oscilla tra la discesa e la risalita», l’oro grigio di Ingmar Bergman e il suo strenuo agone con il sigillo della morte, che attraversa lo spazio e il tempo, si fa viaggio, si depone attraverso la fatale campitura umana del dubbio, dell’attesa e del vuoto.

La parola che accade, che si sospende, che si fa carne trova in Clarice Lispector, il vocabolario creaturale più vero. Diventa epifania avida, luminosa oscurità, tela di nervi e densità dell’istante. Lo diventa, allorquando, è parola-donna, disincanto di un crepaccio unico e mancante (Françoise Sagan), selciato di un meraviglioso spavento dell’umanità (Diane Arbus) o invenzione inidonea di realtà, come in Sylvia Plath:

«La poesia di Sylvia Plath (1932-1963) è abitata da un grido[9] di stanze sfumate che inseguono la traccia intrisa e bruciante di una gemma interiore in cui consistere, nata nella sopravvivente cicatrice di segno doloroso, che si sacrifica nella sua anarchia depositata, che sconvolge le linee e si appropria del mistero della realtà e acuisce la dinamica sospesa dell’esistere».[10]

Così come negli spigoli di dolore di Agota Kristóf, in cui si affermano gli schermi della frattura e della resilienza. Irene Battaglini, a tal proposito, scrive:

«Aguzzino e salvatore si dispongono docilmente sullo schiacchiere poetico di Agota Kristof. Le rappresentazioni drammatiche si vestono di sole, luce che imbianca il sepolcro della memoria, dentro la quale, al pari dei chiaroscuri delle celle petrarchesche, si conservano i pensieri “dominanti e lugubri” a far da scrigno solido ai ricordi. «sii felice di essere sola nella primavera», ad esempio, è il quadro evidente in cui figura e sfondo, vittima e carnefice, si schiudono al cielo di alberi abbattuti e freddi che stanno dietro, che stanno prima, che non si «vedono» ma che sappiamo bene quanto siano presenti nel cuore dolente e livido della Kristof. L’amalgama della materia degradata e silenziosa delle parole avviluppate ai fili, tese come panni al vento, è di fatto l’incidente probatorio dell’organizzazione «al limite» della personalità poetica di Agota Kristof. Scrittrice di inviolato talento, ebbe a scegliere il francese come lingua narrante, per misurarsi costantemente, consapevolmente, con i limiti che altrimenti il suo genio non avrebbe incontrato mai con la “lingua madre”, l’ungherese. Scelse una lingua difficile e composita, irrequieta, dotta, per sentire dentro di sé vivo l’anelito ad essere adottata da un genitore idealizzato, e dunque mai carente, disposto e aperto sempre a nuove sfide dialettiche».[11]

Nella malinconia leggiadra come uno specchio, Bruno Lauzi parla d’amore, segna gli angoli di Genova e le pieghe di ogni sistole e diastole del vivente, nel roco titanismo affettivo di Franco Califano racconta la sua libertà indomita, nella disabitata bellezza di Françoise Dorléac, nel prodigio distruttivo e disperato di Janis Joplin e nel dionisiaco abisso di Syd Barrett, il diamante pazzo di oblio e follia, e nella intimità violata, come sacrificio, di Maria Schneider, Isabella Cesarini porta alla congiunzione l’apollineo e dionisiaco, visitando l’acqua indocile delle loro vite che diventano:

«Nomi scolpiti nella potenza di essere al mondo e dentro la possibilità di disperdersi in assenzio, bourbon, inclinazioni meste e morse artistiche. L’arte, nell’affermarsi di tali personalità, è vita e morte, un dialogo tragicamente bello che attraversa gli anni e giunge sino a oggi. Sovraccaricati da emozioni infiammate, corrono sul filo provvisorio che lega il cuore al pensiero e il pensiero al crepitìo di esserci a qualunque costo, sino a trovare la vita nella morte».[12]

[1] Cesarini I., Anime inquiete.23 storie per mancare la vittoria, Edizioni Auditorium Haze, Milano 2018.

[2] Cfr. Iannone L., «La penna è il mio corpo in piena». Intervista a Isabella Cesarini (http://blog.ilgiornale.it/iannone/2018/07/27/la-penna-e-il-mio-corpo-in-piena-intervista-a-isabella-cesarini/), 27 luglio 2018.

[3] Freud S., Il perturbante (1919), in Galimberti U., Dizionario di Psicologia, UTET, Torino 1992, pag. 683.

[4] Pessoa F., Il libro dell’inquietudine, (ed. postuma 1982), Newton & Compton, Roma 2006, pag. 10.

[5] Panella P., Ritratti di parola, in Cesarini I., cit., p.7.

[6] Cesarini I., cit., p.15.

[7] Id., cit., p.46.

[8] Id., cit., p. 64.

[9] Cfr. GHIDINI F., Abitata da un grido. La poesia e l’arte di Sylvia Plath, Liguori, Napoli 2000.

[10] Galgano A., in Id.-Battaglini I., Frontiera di Pagine II, Aracne, Roma 2017, p.435.

[11] Battaglini I., Lezioni alla Scuola di Psicoterapia Erich Fromm di Prato, a.a. 2017-2018, in Galgano A., I chiodi di Agota Kristof (http://www.cittadelmonte.it/wordpress/i-chiodi-di-agota-kristof/), 7 maggio 2018.

[12] Cesarini I., cit., p. 17.

Cesarini I., Anime inquiete. 23 storie per mancare la vittoria, Edizioni Auditorium Haze, Milano 2018, pp. 156, Euro 14.

Cesarini I., Anime inquiete.23 storie per mancare la vittoria, Edizioni Auditorium Haze, Milano 2018.

Battaglini I., Lezioni alla Scuola di Psicoterapia Erich Fromm di Prato, a.a. 2017-2018, in

Freud S., Il perturbante (1919), in Galimberti U., Dizionario di Psicologia, UTET, Torino 1992.

Galgano A., I chiodi di Agota Kristof (http://www.cittadelmonte.it/wordpress/i-chiodi-di-agota-kristof/), 7 maggio 2018.

Ghidini f., Abitata da un grido. La poesia e l’arte di Sylvia Plath, Liguori, Napoli 2000.

Iannone L., «La penna è il mio corpo in piena». Intervista a Isabella Cesarini (http://blog.ilgiornale.it/iannone/2018/07/27/la-penna-e-il-mio-corpo-in-piena-intervista-a-isabella-cesarini/), 27 luglio 2018.

Pessoa F., Il libro dell’inquietudine, (ed. postuma 1982), Newton & Compton, Roma 2006.