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Il silenzio nascente di Hugo Mujica

di Andrea Galgano 1 maggio 2017

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hugo_mujica_zoomr439_thumb400x275«mi nostalgia

por estar donde bien sé que al llegar volvería

a estar fuera»

(de LOS PARAÍSOS PERDIDOS)

L’ Antologia Poetica di Hugo Mujica (1942), uno dei più grandi poeti argentini, tradotto in oltre venti paesi e vincitore del xiii Premio de Casa de América de Poesía Americana (per Quando tutto tace), edita da Lietocolle, che comprende il periodo dal 1983 al 2016[1], è una muta e rada lenizione di esilio e palpebre, in cui ogni dilatazione o sete di bordi scandisce ponti di amore sui precipizi, come abisso che dilava dolori chiusi e come attimo che crepa le fessure del buio: fiore «tutti / in appena tutto» (da Brace bianca, 1983).

Nello spazio che ci chiede di attraversare la pagina, come se fosse luce che apre muri, egli ci interroga attraverso il compromesso con la verità, puntando all’eco trascendente o universale della relazione simbolica[2].

Accade lì il suo essenziale incenso di terra, dove la parola ascolta la notte, dove nei pantani si dicono le stelle. Il suo dire è ciò che nomina il silenzio per accorgersi di essere vivo, sorprendersi, il «brandello che uno bacia / e lo rende tutto / fa così male il sognare / che a volte spezza, a volte si schiude in vita» (46).

La poesia ha bisogno della sua voragine infiammata di spazi, laddove ciò che è bianco cura il tremore del sorgere e del nascere, e la nudità, la pura nudità è un urlo divino di viscere che si abita fino allo scoprimento, al tremore delle sonate interiori e dei propri ciottoli spaccati: «funambolo zoppo / sulla / corda dell’urlo / nudo / come afferrato a / nulla / o piagato / come non afferrato / a tutto / – brace bianca / le ossa dell’uomo»(63).

Rimane in questo tremore abitato una pulizia sorgiva che chiede di schiudersi. È la vita, la sua profanazione illuminata e ardente che aspetta di rivelarsi, che grida ma non sa cosa grida; è la parola, quasi soffiata di alito che naufraga nella sua allegria di agnello ferito, che raschia i fondi per amarsi al punto più alto del cammino: «tutto fu come sempre: / aprii le mani ed eri qui / e tutto fu come sempre / per una sola volta» (8, da Sonata per violoncello o lillà).

L’io visita lo spazio spremuto ed estremo di un ascolto, seminato di luce al tramonto, il vuoto allontanato, per lasciare ciò che si guarda all’albore del quasi nulla, perché esso cominci a parlare, a illuminare a vedersi da ogni paura e da ogni fine, come sul palmo del mondo, perché tutto possa riaccadere, riempire, saturare: «come star risuonando da / un violoncello / ma non di corde, / di tagli. / ogni uomo / sceglie le sue paure» (18), o ancora: «quando non vi sono muri / neppure echi / soltanto pioggia / che cade / verso / sempre / soltanto il mendicante che dorme / su una panchina / come sul palmo del mondo».

Tutta questa mendicanza si avvera prima dell’uomo, perché possa rimestarsi, afferrarsi, per farsi attenzione di confine, imbrattarsi di nulla fino al rischio: «un’arancia / rotola al tramonto giù per una strada / vi è solo una scorciatoia: / perdersi / chè non sta in alto ciò che è alto, / c’è pur senza esserci» (42).

I responsoriali di Mujica precedono l’alternanza di una chiamata di aperture immense che si perdono e perdendosi, elemosinano il canto ultimo delle cose, la loro incessante memoria di orli acuti e di trasparenze, perché nel fondo vibra l’estirpato, dove si vede dio: «quando due vuoti s’incontrano / non sono vuoti: è trasparenza» (11, da Responsoriali, 1986).

Irene Battaglini commenta:

«Hugo Mujica scrive come se incidesse uno spartito al tempo del respiro delle balene. Il gong dell’eterno elemento dilaniato dal rumore del cosmo e il verso è il tratto di un volto che emerge, intatto, da un insieme stravolto del mondo come da uno specchio deformante, strappato al tempo lineare. Il suo verso, allora, è kairos stagliato sullo spartiacque del mondo interno, con la veemenza una linea tagliafuoco»[3].

La visione del poeta non si nutre solo delle aperture degli occhi nudi, è l’acuminata tensione che toglie ogni benda, per spezzare ogni frammento, poiché «si deve aprire ciò che si è guardato» e la parola deve invocare la parola.

La parola inseguita, scritta in un riflesso, tocca e custodisce il fiato infiltrato del vivere: «vivere come si fosse sotto il mare / dove respirare è ingoiare la morte / o come si stesse cercando / un figlio perduto tra la folla, / senza sapere dove si trova / senza sapere se è nato» (3, Scritto in un riflesso, 1987).

È la nota di terra che fa ansimare corpo e anima, impastandole, dove abbracciare lo stelo tra la radice e il fiore, ancora una volta come un ciottolo spezzato, adagiato e chiuso: «davanti allo specchio di ogni giorno / con gli occhi inchiodati nei chiodi degli occhi: / sono adagiato chiuso in due / come un ciottolo spezzato» (7) o un angelo di sabbia addentrato nella mareggiata «o davanti allo specchio / dove l’illusione di vederci guarda / l’illusione di vedere / un vetro è trasparente / quando non lascia trasparire nulla».

La trasparenza di Hugo Mujica è una viandanza di brine che chiede il superamento delle cecità, la sete di un’altra gola, il transito angolare degli occhi, nel luogo in cui il paradiso vuoto lascia delineare e intravedere le impronte cancellate dal vento, ma che esso traccia nuovamente.

E poi  il bordo della pioggia, il salto della nitida visibilità, la paura di non riuscire a nominare, per albergare un’assenza, come la parola finale: «Certe profondità non sono trasparenza, sono riflessi. / Buttati: se la fronte sanguina, è trasparenza, non la tua assenza» (Salto, da Paradiso vuoto, 1993).

Persino nei detriti e nelle macerie, lo spartito degli indizi della realtà e il tempio finale, dove tutto si raccoglie per vivere, un’irriducibile ultimità di un piccolo abisso, che brinda alla vita insopprimibile:

«resta sempre / un indizio di tutto / ciò che accade, / una tazza di maiolica / con il suo manico spaccato, / un lenzuolo logoro / dove si ospitarono / i sogni / nei quali si sopportò la vita; / lo scheletro di / una casa / o una tomba abbattuta. / ogni rovina fa pensare a un tempio, / ogni uomo / è l’avanzo di un suicidio, / la goccia nel calice / che non bevemmo fino a renderlo vuoto» (Scolpito nelle macerie, da Per albergare un’assenza, 1995).

Questo esilio che gronda scava dentro se stesso attraverso il passo di una mancanza incolmabile: «ogni altro ci chiede la parola / che non abbiamo / quella che possa dire ciò che dice / senza dire commiato, / la speranza di dare / ciò che abbiamo sempre chiesto. / l’uno e l’altro la stessa notte, ogni notte / uno stesso anelito: / brindare battendo un altro bicchiere senza che il vetro s’infranga» (La stessa notte, uno stesso sogno).

O ancora l’infinita notte sulla spiaggia a mordere le labbra, per provare il taglio dei denti, chiudere gli occhi e attendere, nonostante le distese spezzate e le cancellature di ciò che non fu pronunciato, l’impossibile che «ciò che accadrà senza che ci accada, / ciò che non arrivando ci mette al riparo / dal volgere lo sguardo».

La nota del vedere è l’incisione dello sguardo che plasma ogni figurazione. Una essenzialità morandiana, in cui l’apparente povertà espressiva diventa inclusione di uno spazio dove le cose battono i loro colpi, abbracciano i corpi amati, per portare sete all’essere vivi, ai resti nudi sulla spiaggia «come un fiore / che nessuno strappa».

I resti lasciati dal tempo ontologico sono schegge isolate e raccolte che albergano nelle assenze esiliate verso gli orizzonti, tremando, e inseguendo l’agnizione di ciò che fu dato, per essere riscoperto ancora e ancora sul far della notte, con le labbra piagate: «si nasce per albergare / un’assenza / e la esiliamo verso orizzonti, / a volte siamo noi / quell’assenza, / a volte abbiamo l’ardire del freddo / che fa tremare un altro corpo / o della fame / che ci rende uguali. / soltanto a volte, / per sapere almeno cosa fu / la vita / per sapere almeno che fummo altri».

Nella sua notte aperta, il poeta cerca di salvare ciò che si dilegua, trattenere ciò che crolla nel commiato, stretto come finale abbraccio. È la brace della memoria, il dono ricevuto della vita e ridato come miracolo in un orlo che rende le distanze meno crudeli e la lontananza di stare vicini senza toccarsi «come bordi della stessa ferita», quando la fedeltà alle cose apre ogni dominio di feritoia, sorso dopo sorso:

«fedele all’umano, / alla grandezza di quanto sta tra le braccia / che cullano, / alla festa / di quanto sta tra le mani, / alla taciuta speranza / che è non stringere labbra. / fedele a un bicchiere d’acqua / e al pezzo di fame / che un altro corpo reca, / fedele sorso dopo sorso, fame dopo fame. / fedele al pudore di un gesto appena, / appena l’abisso / dell’altro / quando il silenzio / mette a tacere la pelle che ci separa. / fedele al limite di morire uomo, / di avere abbracciato il vuoto / che quello stesso abbraccio colmava». (Un pezzo di pane, un bicchiere d’acqua).

L’esito della sua libertà precoce, primaria, unica ed estrema, palpita nella vita che si annuncia, nella sinestesia umbratile e muta delle labbra, dove la propria nudità eleva il suo canto, fino al perdono come urlo di viscere, come fuggitivi senza meta, «fuggendo dallo specchio / che ci afferra a ogni arrivo». Non basta, spesso, dare il nome alle cose nella terra nuda. Ci sono tremori di brina, pianti di sale uniti alla terra, poiché la parola finita infila nel suo territorio il silere dei pezzi della vita come un battito:

«vidi un cane nero morto / in strada, / schiacciato in mezzo al marciapiede, macchiato, / ché nevicava. / vidi la vita, proprio in quel punto, / e non c’era altro che questo: l’alibi / dell’innocente: pagare per tutto. / sentii nella neve la vita e mi vidi morire / come un animale che resiste fino all’ultimo / fino al desiderio di ricevere il colpo di grazia, / fino al gemito finale, / quello che chiede perdono per ogni crimine altrui: / quello che perdona dio» (Fino alla fine, da La notte aperta, 1999).

È l’istante della vita (e il suo epifenomeno) con tutta la concentrazione che deborda l’essere, la sua concreta comparsa e offerta, a portare il gesto creativo a comporsi, farsi, appartenere al miracolo del reale e alle sue aperture, come se qualcosa stia per accadere e svolgersi in tutta la compiutezza da ospitare.

Ed ecco la sete sciolta, il volto nudo, la semina delle nascite, l’impronta nominata del silenzio e il suo annuncio, l’orlo delle cose, il taglio delle partenze, il fulgore dell’assenza accolta: «La bocca aperta sotto la pioggia / e l’acqua che esplora i fondali dell’anima. / Sete dentro / fin dove il mare si prosciuga e si fa notte, / fin dove la sete sorge e si fa spiaggia» (Sete dentro, 2001).

La parola è atto creativo, costruzione e riformulazione, pensiero che si costruisce e che dimora, diviene l’essenziale impresso nella materia vivente, sia come segretezza di lontananze («Vi sono impronte che la notte veglia, / e nudità che la luce spegne», o ancora come un soffio aperto: «dove la lontananza è dentro / dove un soffio mi apre in un altro») e oblio, sia come ultima profondità di nostalgia di piogge («l’assenza che l’anima abbraccia»), perché è donazione commossa dell’essere che ci toglie il vuoto a poco a poco («come la preghiera di un dio / che si accosta alla terra immensa»), interrogazione completa ed elementare che attraversa la nominazione ricevuta della vita, nonostante ogni cancellazione di orizzonti: «Tra il pugno / e la mano che si apre / si spiega una vita. / Soltanto la morte non ci è estranea, / soltanto ciò che più ci appartiene nasce in noi / dall’abbandono» (Abbandono).

Ma esiste un alveo impenetrabile, lontano dalla assenza di memorie, che restituisce la schiusa in anima della carne: «Soffia il vento / sul buio di / questo inverno; / soffia e passa come un fiume / che passando crea / da solo i suoi argini. / C’è sempre qualcuno che / s’inginocchia / di notte, / qualcuno per cui l’attesa / si schiude in anima nella carne» (Alvei, Quasi in silenzio, 2004).

La funzione originaria del poeta è essere ascolto, nel luogo in cui la terminazione del suono si apre alla vocalità, come la riva di un mare silenziato: «La voce, non il silenzio, / è la nudità delle parole».

L’annuncio di Hugo Mujica si situa, allora, nel nascere della luce (e «non il suo mettermi al mondo»), «nell’indecisa bellezza / di ogni foglia che cade», un lampo «nella notte che dilata, / dà alla luce il suo proprio spegnersi».

È il silenzio spinge attraverso la parola ascoltata, la possibilità di passare da una parola che uno dice, al silenzio da dove si dice, nel bagliore terminale dello splendore, nella perdita cosciente, come  la poesia «che si può leggere ad alta voce senza che si senta nulla», poiché ascoltare è appartenere a ciò che ci nomina: «Ormai notte, / camminando, / vidi l’istante di un lampo / sulla pozzanghera di una strada, / chiusi gli occhi / e, bianca e immensa, e nel contempo serena, / si accendeva un’alba» (Splendore).

Il poeta scrive quello che racconta la vita, mentre egli stesso vive nel nascere che chiede nudità: «Quando l’anima è ormai carne / quando si vive nudo, / tutto il fuori è la propria profondità, / da ogni altro / si ascolta il proprio battito».

Ogni cosa che parla si rivela («Qui / nella pelle, come in una pagina / in bianco, / spero che l’acqua, la pioggia, / ciò che vive e trema, / mi si riveli un giorno»), e l’esistenza è una donazione dell’espressione come offerta senza ritorno, dove la profondità dell’umano permette di dar voce a questa esperienza, anche nel punto in cui «quel vuoto è il dono / e quel dono è anche tutto», anche dove tutto si cela smarrito, quando la parola diviene irripetibile: «Sempre / esita una luce / che si vede soltanto quando / non accende nulla, / come una nudità / che si rivela in sé stessa, / non negli occhi di chi la guarda» (In sé stessa).

Scrive Flora Crescini:

«Ogni parola, tuttavia, ha una densità che obbliga a pensare, a sfrondare i pensieri superflui, per lasciare spazio alle poche grandi cose: l’esserci, l’esistere, l’ascoltare. Se Aristotele ha definito l’uomo come «un animale che parla», Mujica con l’intuizione penetrante tipica dei veri poeti, sostiene che la funzione più originaria è quella del silenzio, perché prima di parlare, si ascolta. L’ascolto permette di essere protesi alla realtà, permette all’anima di essere carnale».[4]

La condizione originaria e primordiale e la genesi dell’essere sono l’anima protesa a divenire carne e silenzio innominato («Quando l’anima riesce a entrare dentro / non è ancora l’anima, / non ancora è di carne» (Ancora no), il taglio dell’orizzonte nella carne dove essa ha inizio, la profondità dove la bellezza è alba rivelata:

«Vi è una crepa / nella parola / crepa, / uno strappo dove / ogni parola tace, / dove ogni tacere crea, / è ciò che nel dire è alito / non di suono, / è dove in ogni parola / ci ascoltiamo rivelati» o ancora dove più dell’attendere qualcosa «è il non nominare l’attesa: / quel non sapere / ciò che sta per giungere, / quel lasciare che ci chiami per nome».

Gianfranco Lauretano annota:

«Nella poesia di Mujica spirito e concretezza, anima e carne si toccano. Quella che potrebbe sembrare una posizione orientaleggiante (ma anche Ungaretti aveva nel suo zainetto di soldato una delle prime traduzioni italiane di haiku giapponesi), anche per l’evocazione frequente, fin dal titolo, della voce della natura più che degli eventi degli uomini, si rivela invece come una vasta e rinnovata meditazione sull’incarnazione, in cui il “fuori” conta più del “dentro”. […] L’altro da me, il fuori da me diventa il luogo della più profonda conoscenza dell’essere, purché nello svuotamento dal sé si sia disponibili a consegnarsi al tutto che potrebbe venire; avviene allora la scoperta che Qualcuno ci sostiene da sempre […]»[5].

La rivelazione di Mujica, allora, è un intreccio di sete e un incontro di radici. La disgiunta sproporzione nel profondo, il sapere che va spogliato del sapersi, perché «perfino la luce / per la trasparenza è ombra».

È nella apertura di fibre che si infila la nostra partenza nel dramma del vivente, che si incarna per rilucere, poiché il vuoto non è l’inconsistenza bensì la riscoperta di una sete di pienezza come alba vergine: «All’aperto / tutto il fuori è dentro / e tutto il dentro / è il suo fuori. / Al vuoto / solo si arriva fatti vuoto / così come nella vita / si entra partendo».

[1] MUJICA H., Antologia poetica 1983-2016, traduzione di Roberta Buffi, Lietocolle, Faloppio (Co) 2017.

[2] Cfr. RODRIGUEZ FRANCIA A. M., El “Ya, pero todavía no” en la poesía de Hugo Mujica, Editorial Biblios, Buenos Aires 2007, p. 64.

[3] BATTAGLINI I., Commentari e Lezioni di Psicologia dell’Arte, Scuola di Psicoterapia Erich Fromm, Prato 2017.

[4] CRESCINI F., Hugo Mujica. Esserci, esistere, ascoltare, in «Tracce – Litterae Communionis», novembre 2013.

[5] LAURETANO G., Hugo Mujica, quei versi dove si toccano anima e carne (http://www.ilsussidiario.net/News/Cultura/2013/10/24/LETTURE-Hugo-Mujica-quei-versi-dove-si-toccano-anima-e-carne/438226/), 24 ottobre 2013.

16933695_10211955768239532_205784703_nMUJICA H., Antologia poetica 1983-2016, traduzione di Roberta Buffi, Lietocolle, Faloppio (Co) 2017, pp. 190, Euro 15.

 

 

 

 

MUJICA H., Antologia poetica 1983-2016, traduzione di Roberta Buffi, Lietocolle, Faloppio (Co) 2017.

  • Poesie scelte, Raffaelli Editore, Rimini 2008.
  • E sempre dopo il vento, Raffaelli Editore, Rimini 2013.
  • Quando tutto tace, Raffaelli Editore, Rimini 2016.

BATTAGLINI I., Commentari e Lezioni di Psicologia dell’Arte, Scuola di Psicoterapia Erich Fromm, Prato 2017.

CRESCINI F., Hugo Mujica. Esserci, esistere, ascoltare, in «Tracce – Litterae Communionis», novembre 2013.

LAURETANO G., Hugo Mujica, quei versi dove si toccano anima e carne (http://www.ilsussidiario.net/News/Cultura/2013/10/24/LETTURE-Hugo-Mujica-quei-versi-dove-si-toccano-anima-e-carne/438226/), 24 ottobre 2013.

RODRIGUEZ FRANCIA A. M., El “Ya, pero todavía no” en la poesía de Hugo Mujica, Editorial Biblios, Buenos Aires 2007.