La mezzanotte vana di Virginia Woolf e Vita Sackville-West

di Andrea Galgano 26 giugno 2019/ 12-13 luglio 2019 “Cronache Lucane”

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LA MEZZANOTTE VANA DI VIRGINIA E VITA

L’amore tra Virginia Woolf e Vita Sackville-West, le cui lettere, dal 1924 al 1941, vengono pubblicate da Donzelli, in una elegante edizione dal titolo, Scrivi sempre a mezzanotte. Lettere d’amore e desiderio[1], a cura di Elena Munafò, con un saggio di Nadia Fusini, traduzione di Sara De Simone e Nadia Fusini, è un compendio di ardori e di sogni, segreti, intermittenze cifrate, ombre rifratte, intimità sognate e rarefatte:

«Perché se Vita pratica da tempo con nonchalance e senza pruderie una libertà sessuale che le permette di cogliere il piacere in contatti che indifferentemente la portano nel letto di un uomo, più spesso di una donna; se sa distinguere con chiarezza tra la passione travolgente che prova per la femmina d’uomo, e l’amore casto e volto alla riproduzione che vive con un maschio, il marito, di cui è profondamente amica; se, ripeto, Vita è una donna libera che distingue tra due diversi tipi di amore, quello casto, coniugale, e quello passionale; per Virginia è diverso. Virginia è sì una donna libera, indipendente, ma è anche una donna «sessualmente codarda», impaurita, insicura, che del corpo e del piacere sessuale non conosce l’ardimento. Ma quando incontra Vita, «la donna promiscua», ecco che, miracolo dell’amore, affiora in lei un’altra se stessa, e scopre di essere una donna che ama le donne. Sì, grazie alla saffica Vita, Virginia arriva a conoscere l’amour passion. Tardi, ma lo fa, e grande è per lei la sorpresa».[2]

Il respiro di queste pagine innerva una costellazione di libertà e visione. I sospiri, i viaggi di Vita assieme al marito diplomatico Harold Nicolson (Teheran, Sahara, America), le gratitudini indifese e il desiderio segnano cifre di pensieri avvolto, destinano la lettera a ritmare il sangue, rallentare distanze, narrare il territorio della propria finitudine espansa.

Come un incontro con la realtà più lontana, come la scoperta della proprio respiro vitale che riflette l’esistenza, la «comune progenie» della scrittura e delle sue scadenze, l’ancestrale gioia mistica e coribantica di una visita proibita, di una scintilla di occhi e di una stella immensa. Il loro luogo, nato nella differenza di età (Virginia aveva quarant’anni e scriveva Mrs Dalloway), si perpetua in una sceneggiatura di pudore, foga, segreto e passione.

È un amore che tocca la propria genesi, il proprio solco di energia e desiderio florido, di incarnato fulgido e virgineo, e che scrive la nostalgia e si orienta nelle tenebre, curando gli anditi della letteratura (che non diviene sterile esercizio ma tellurica materia da incidere), come sostiene Nadia Fusini,

«per darsi un appuntamento, per scusarsi dell’assenza, per rimproverarsi di un ritardo; e in ogni caso è l’amore della lingua, che trionfa. Il gusto dei soprannomi, la fantasia delle maschere di animali con cui si travestono, i sottintesi, le allusioni, i silenzi pudichi e le metafore ardite che inventano per dare corpo di parola alle loro emozioni, sono tutti qui, in bella evidenza, in queste lettere di due women in love, di queste due donne innamorate».[3]

La luminosa e remota vicinanza è stordimento di emozioni, voracità di bellezza, stordimento e paura.

«Sono ridotta a una cosa che desidera Virginia. Stanotte avevo composto per te una lettera bellissima, nelle ore insonni, piene di incubi, ma è tutta sparita: mi manchi e basta, in un modo piuttosto semplice, disperato, umano. Tu con tutte le tue lettere intelligenti, non scriveresti mai una frase così elementare; probabilmente non la concepiresti nemmeno in questi termini. Eppure credo che sentirai un piccolo vuoto. Ma lo apparecchieresti in una frase così bella, che finirebbe per perdere un po’ della sua verità. Mentre per me è totale: mi manchi più di quanto potessi credere; ed ero preparata a sentire la tua mancanza, parecchio. Così, in verità, questa lettera è solo un grido di dolore. È incredibile quanto tu sia diventata essenziale per me. Immagino che tu sia abituata a sentirti dire cose del genere dalle persone. Maledetta te, creatura viziata. Non riuscirò a farmi amare di più da te, scoprendomi fino a questo punto – ma tesoro mio, non posso essere furba e distaccata con te: ti amo troppo per farlo. Troppo sinceramente. Tu non hai idea di quanto posso essere scostante con le persone che non amo. Ne ho fatto un’arte sottile. Ma tu hai fatto a pezzi le mie difese».[4]

In quella incarnazione purpurea e femminile, Vita è l’insondabile piega opulenta della realtà, la donna che, proprio in quanto donna, porta con sé l’archetipo della possibilità. Essere primavera e splendore di tenebra. Virginia l’attende come un rovescio rorido di acqua bassa («Per favore, in mezzo a tutta questa baraonda, continua a essere una stella luminosa e costante. Davvero poche cose rimangono a indicare la strada: la poesia, e tu, e la solitudine[5], scriverà Vita a Virginia»), eterea intelligenza di cristallo e incanto, come un lungo abisso splendente e sacro che teme l’oscurità radente della sua amata e ne è pervicacemente avvinta, pur manifestando una sorta di distacco quasi febbrile. Un daimon: «Creatura carissima, era molto molto bella la lettera che hai scritto alla luce delle stelle a mezzanotte. Scrivi sempre a quell’ora, perché il tuo cuore ha bisogno del chiaro di luna per liquefarsi. Da qualche parte ho visto una pallina che continuava a saltare su e giù sul getto di una fontana: tu sei la fontana, io la pallina. È una sensazione che mi dai solo tu[6]».

Ma è lei a compiere il primo gesto sul divano che esplode nella stanza. Non c’è resistenza. Solo la prima unione e l’ingresso in un mondo nuovo. Le irresistibili e giocose metamorfosi di Vita e il desiderio per lei continuo e viscerale, quello che toglie l’anima e, allo stesso tempo, la fa diventare corpo. Vita è per Virginia un fuoco immenso che abita antiche epoche inoltrate:

«Il fascino per quel mondo antico c’entra con l’attrazione che prova per Vita. L’attrazione ha molto a che fare, le pare, con quella profondità storica che sente alle spalle di Vita. Ma c’è anche dell’altro, e di che altro si tratti, prova a spiegarselo. Si auto-analizza13: forse è per puro egoismo, per puro narcisismo che ama Vita: le piace l’idea di piacere a Vita. Ama non Vita, ma il fatto che Vita l’ami. Puro egoismo. Ma è un fatto, pur sempre un fatto che si tratta di un affair ardente, focoso, travolgente. E insieme innocente, giocoso. La verità incontrovertibile è che quando è con Vita si sente completamente e assolutamente felice. Si sente agile, sciolta, trasportata dalla sua energia, quasi fosse una pallina in acrobatico equilibrio sul getto di una fontana, o un bebè a cui venga offerto del latte zuccherato».[7]

Pietro Citati scrive:

«Virginia Woolf incontrò per la prima volta Vita Sackville-West il 14 dicembre 1922; e la invitò a casa sua a Richmond l’11 gennaio 1923, quando le fece visitare la Hogarth Press, la piccola casa editrice che apparteneva a lei e a suo marito Leonard. Da principio, Virginia era diffidente. Ma le piacquero moltissimo le gambe di Vita: quelle esili colonne o quelle betulle, che si slanciavano trionfalmente verso il tronco, piatto come quello d’ un corazziere. Le piacque il volto, simile a uva matura: il labbro sporgente, la peluria di pesca che velava l’incarnato della guancia: l’aria opulenta, la collana di perle, i brillanti, sgargianti colori dei vestiti; e le viole inumidite degli occhi. Quella donna risvegliava in lei l’impressione di un tempo molto antico: l’Inghilterra elisabettiana e shakespeariana, con i suoi castelli, i suoi cavalli, i suoi cani, le sue cacce a perdifiato, le sue passioni incandescenti».[8]

Per i quindici anni della loro storia, Vita e Virginia sono fuochi di stanze osmotiche. Nella lussuria incandescente e nella gioia umbratile, nella furia incendiaria e nella trasparenza centrale, e oltre le regole borghesi, vibra l’ignota destinazione del sangue e la protezione reciproca, in ogni luogo del possibile e dell’inviolabile, come una carezza insonne e perpetua: nella casa dei Woolf a Londra o nella campagna a Rodmell, nelle case di Vita, a Long Barn, Sissinghurst, nel castello di Knole o in Francia.

Vi sono assenze di «giorni sottolineati» e distanze che sembrano attese eterne («Non mi scrivi mai e la tua immagine s’è rimpicciolita nella distanza come l’ombra pallidissima della luna vecchia: ma proprio mentre Vita stava per svanire, è apparso un sottile spicchio d’argento, e ora pendi sulla mia vita come una falce[9]») , nomi-bestiari per ridisegnare il mondo, la forza di Eros che travolge, le infedeltà di Vita e la gelosia di Virginia (chiamerà le amanti di lei «letargiche ostriche oscene e lascive»).

Virginia ridisegna le linee del loro amore. Orlando è il deposito di un mutamento affettivo, la trama arguta e sottile di una linea nuova.

Nadia Fusini scrive:

«Virginia, la scrittrice, prova a slacciarsi dai lacci della seduzione, grazie alla potenza dell’unico potere che è suo, quello dell’immaginazione creativa. S’inventa la «sua» Vita. Sostituisce Mrs Nicolson con una creatura di sua invenzione, ne fa un doppione, un golem infinitamente più affascinante della persona umana. Il personaggio di Orlando è questo. È la Vita di Virginia. Tutta sua. Trasformandosi in un redivivo Minnesänger, Virginia canta l’amata in quella «fantasia» scherzosa – quel divertissement sublime che è Orlando, dove con eccelsa ironia attacca gli stereotipi di genere e descrive le avventure di un personaggio, che è Vita, che nasce maschio nel Cinquecento e diventa femmina nel Settecento e attraversa con scanzonata allegria i secoli, fino al 1928, anno della pubblicazione del romanzo».[10]

Irene Battaglini afferma:

«Non ci sono presupposti morali sufficienti per stabilire se un amore sia autentico oppure no; a maggior ragione non è possibile stilare un codice di trascrizione psicoanalitica dell’amore, che è e deve restare un mistero nell’enclave intrisa di segreto e di simbolo, secondo una chiave di decrittazione nota – solo, e forse neppure a loro stessi – agli amanti. Tuttavia un così ricco e colto, ironico e smascherato, ricorso all’eros per fare della letteratura il cuore trascendente tra Vita e Virginia, può essere anche ricollocato in una lettura di transfert, con la dovuta delicatezza, con il rispetto per quel segreto inespresso, che si è avvalso della metafora epistolare per essere non tanto detto, quanto mostrato, tra le maglie sgranate di un tempo in cui il dialogo amoroso tra due donne era da considerarsi un segno chiaro di eversione, di devianza sociale. Per questo Virginia sceglie la strada della speculazione letteraria, mentre Vita la via del potere e della seduzione. Lo scenario tra Vita e Virginia è solo apparentemente saffico. È almeno parzialmente legato all’evocazione di un transfert plurimo e condensato, in cui maschile e femminile non sono che versanti di un grande archetipo primigenio, di un amore primario che sembra più vicino ad uno stadio avanzato della seduzione narcisistica di Racamier tra madre-figlia, oltre che alla matrice – edipica, incestuale? – di un attaccamento più o meno declinato intorno alla dialettica oggettuale tra distanza-avvicinamento, tra evitamento ed accostamento, tra eccitazione e gratificazione, in un desiderio riconosciuto e chiesto, ma mai esploso, mai confermato dalla parola chiara: ma sempre sotto lo scacco della rivelazione ai limiti del possibile (oltreché del concesso). È questo che rende a tratti perverso un elemento che sarebbe altrimenti carico di bellezza e poesia, di Amore: il non-sapersi dire a loro stesse, in un tra-noi che rinuncia alla metafora ellittica. Il non sapersi dire amanti, ma solamente sfiorati dall’amore, che sembra invece un giocare un ruolo di sfondo, di orizzonte. Un forse verso il destino, attratto dalle vele di un vento sempre e solo immaginato, che non porta a navigare ma a tessere, issare, calare le vele senza mai solcare la rotta: un mare che così, non può tradire. Ad una lettura profana, è Virginia a cadere nell’inganno della donna di mondo Vita, abile manipolatrice delle pulsioni erotiche di femmine acerbe e opportuniste che mettessero in risalto la sua bellezza androgina e sovrana. Ma Virginia sa bene di essere sola, di essere oggetto di quelle pulsioni e contenitore regolativo, e lo fa attraverso un discorso interno in cui Vita è presa a prestito dal suo genio letterario, per rendere omaggio nelle sue opere non tanto a Vita (e ai suoi tentativi goffi di elevarsi ad amante di rango di una delle più grandi scrittrici del suo tempo) quanto all’Amore Perduto, per la madre che nel cuore non ebbe mai, forse, quel linguaggio di amore che Vita spacciò per oscena tenerezza. Per questo, parafrasando Emily Dickinson, non si può dire che questo amore sia stato vano».[11]

Le fughe, gli allontanamenti, le riappacificazioni sono materia vivente anche sotto le bombe, tra doni di burro dal sapore di rugiada e miele e patè, e quello mancato dei pappagallini che lasciano. Il cuore dell’esistenza è fatto di mani, però, che si avvicinano e si raggiungono, fino all’ultimo e all’acqua gelida dell’Ouse: «Mi hai dato tanta felicità» e Vita, subito dopo, le scrive, come penna strappata al cigno:

«Tesoro, quanto mi ha commossa la tua lettera stamattina. Mi è quasi caduta una lacrima dentro l’uovo in camicia. Le tue rare dimostrazioni d’affetto hanno sempre avuto il potere di emozionarmi moltissimo e – siccome suppongo che in questi giorni siamo tutti un po’ tesi (più che altro inconsciamente) – oggi mi arrivano in picchiata, dritte al cuore, come un proiettile che sbatte sul tetto. Ti amo anch’io. Lo sai».[12]

[1] Woolf V. – S. West V., Scrivi sempre a mezzanotte. Lettere d’amore e desiderio, a cura di Elena Munafò, con un saggio di Nadia Fusini, traduzione di Sara De Simone e Nadia Fusini, Donzelli editore, Roma 2019.

[2] Fusini N., Due donne in amore, in Woolf V. – S. West V., Scrivi sempre a mezzanotte, cit., p.9.

[3] Id., cit., p.9.

[4] Lettera di Vita a Virginia, 21 gennaio 1926, Milano, spedita da Trieste; infra, p. 63.

[5] Lettera di Vita a Virginia, 8 gennaio 1926, Long Barn; infra, p.62.

[6] Lettera di Virginia a Vita, 7 ottobre 1928; infra, p.176..

[7] Fusini N., cit., p.17.

[8] Citati P., Il mio amore con Virginia Woolf, in “La Repubblica”, 27 agosto 2002.

[9] Lettera di Virginia a Vita, 29 dicembre 1928; infra, p.180.

[10] Fusini N., cit., p. 19

[11] Battaglini I., Commentari e Lezioni di Psicologia dell’Arte, Scuola di Psicoterapia Erich Fromm, Prato – Padova, a.a.  2018-2019.

[12] Lettera di Vita del 1° settembre 1940; infra, p. 249.

Woolf V. – S. West V., Scrivi sempre a mezzanotte. Lettere d’amore e desiderio, a cura di Elena Munafò, con un saggio di Nadia Fusini, traduzione di Sara De Simone e Nadia Fusini, Donzelli editore, pp. 304, Euro 24,00.

 

Woolf V. – S. West V., Scrivi sempre a mezzanotte. Lettere d’amore e desiderio, a cura di Elena Munafò, con un saggio di Nadia Fusini, traduzione di Sara De Simone e Nadia Fusini, Donzelli editore, Roma 2019.

Battaglini I., Commentari e Lezioni di Psicologia dell’Arte, Scuola di Psicoterapia Erich Fromm, Prato – Padova, a.a.  2018-2019.

Benini A., Lettere rubate, in “Il Foglio”, 23 marzo 2019.

Bentivoglio L., Cara Virginia, Scrivimi ancora, “ La Repubblica – Robinson”, 12 maggio 2019.

Citati P., Il mio amore con Virginia Woolf, in “La Repubblica”, 27 agosto 2002.

Franco T., Strappa una penna al cigno!, in “Il Sole 24ore”, 9 giugno 2019.

Marzi L., Se sapessimo tessere il tempo, in “Letterate Magazine”, 20 maggio 2019.

Pigliaru A., Vita e Virginia, nel cuore delle parole, in “Il Manifesto”, 15 maggio 2019.

Note critiche a “Non vogliono morire questi canneti” di Andrea Galgano

di Diego Baldassarre

17 giugno 2019

Leggi in Pdf Nota a Non vogliono morire questi canneti

L’ultima opera di Andrea Galgano “Non vogliono morire questi canneti” è una silloge poetica che mostra come l’autore sappia mescolare attentamente modernità e linguaggio poetico classico. Leggendolo si sente prepotente la forza evocativa di D’Annunzio ma anche l’insegnamento filosofico di Leopardi.

Già dal titolo si può evincere l’influenza del poeta di Recanati. I canneti come metafora di frapposizione tra interiore ed esteriore che già caratterizzava la “siepe” dell’Infinito.

Canneti, cresciuti tra la sabbia della spiaggia e il mare, che simboleggiano anche quel limbo dove il poeta sovente si pone. Uno spazio angusto eppure immenso da cui osservare in ogni direzione.

E non vogliono morire questi canneti, nonostante la siccità della vita ordinaria o le alluvioni della vita interiore.

Il libro si compone di tre sezioni.

La prima, intitolata “Cartografie”, ci presenta una serie di acquerelli poetici che trattano di strade (Via del Popolo(PZ); Via Lillo; Via Gioberti e Via Panzani a Firenze) e di luoghi della memoria affettiva legati a Maratea e al Golfo di Policastro, con tutti i colori di un mare che ad ogni ora del giorno pervade ogni poesia con il suo panorama esteriore e interiore.

Tra questi dipinti poetici spiccano, come soggetto, anche molte città care all’autore. E sono tutte città di mare. Quasi a voler sottolineare  quel rapporto tra realtà e anima che l’acqua suggerisce. Infatti troviamo Livorno dove “ … l’anima terrazza / ha balaustre e scacchi di albe / sul sibilo dei porti,/ sulle cale di Calafuria …” ma anche San Pietroburgo, il luogo in cui “… le sponde della Neva / vibrano di sangue notturno / e il lampo della luce genitrice, / la gloria dell’oro di sant’Isacco / che scorta i nugoli rossi / di bionde e magre matriosche…”; e poi Rimini in cui “… la terra di sale delle darsene / sostiene i moli trasparenti / e i crepuscoli della stazione …” e ancora il sole di Salerno che inonda la città e il golfo; ma anche Marsiglia con le sue case d’avorio.

Questa sezione è un viaggio che Andrea Galgano percorre con le sue parole e in cui trascina  per mano il lettore, avvolgendolo con  i colori e le emozioni che ha vissuto. E nel descrivere i luoghi utilizza lo stesso sguardo esterno che porta verso l’interno proprio del pittore  Edward Hopper  a cui  ha dedicato la poesia “Monopoli”.

La seconda sezione “Je suis un autre” sembra quasi una parafrasi del “Je est un autre” di Rimbaud.

Ma al contrario del poeta francese qui l’Io non è impotente di fronte al pensiero ma è il pensiero stesso che si immedesima in altri “Io”.

E troviamo personaggi che hanno attraversato l’immaginario del poeta, attori come Massimo Troisi o Paolo Villaggio, ma anche cantanti come Mango e Jannacci e persino un giocatore simbolo della sua generazione quale Paolo Maldini.

Sempre in questa sezione troviamo anche l’aspetto più religioso dell’autore. Dio e la fede si affacciano tra le pagine del libro nei ritratti di Don Giussani, e di altre persone che in un modo o nell’altro hanno significato qualcosa di spiritualmente importante per il poeta come “ Mancusedda” , “Anna Antonia” , “ Michele”, “Mel”.

L’immedesimazione dell’autore prosegue in questa sezione con i quadri dell’amica pittrice  Irene Battaglini  (“Tra bore” e “Dioniso in esilio”), e con la fotografia di Renato Maffione (“La donna ospite”). Il tutto a sottolineare ancora una volta  un rapporto strettissimo tra Andrea Galgano e l’arte figurativa.

L’ultima sezione “Algoritmi” è la sezione più intimistica dell’autore. Sono 7 poesie in cui l’io poetico non parla a se stesso ma a qualcun altro. Sono poesie affettive ricolme di passioni colorate, malinconiche eppure vivaci nel descrivere un sentimento antico e profondo quale è l’amore.

La poesia che chiude la raccolta, forse la più ricca di suggestioni dell’intera silloge, è  il suggello ad un libro che può essere considerato come l’approdo di Andrea Galgano alla propria maturità poetica.

Il cielo crisalide di novembre

apre la tenebra

e il temporale sui pioppi tremuli

lo spiraglio del viale che trepida

e il tuo cappello viola

 

sembrò venire

dagli altipiani

il rovaio sulle eriche,

il lungo sorriso

come un damasco di nebbia

 

fece chinare gli occhi

il tremore di essere due

le mani che principiavano

gli uccelli e le camelie

 

le nostre uve bionde

e il sigillo delle brine

 

il taglio del nudo mondo

ci insegue

nei muri spezzati

 

è grazia

è terra.

Rivoluzioni frommiane #4

di Guido Rutili 9 giugno 2019

PARTE QUARTA

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“Se un individuo è capace di amare in modo produttivo, ama anche sé stesso; se può amare

solo gli altri, non può amare completamente.

Se l’amore per sé stessi non è disgiunto dall’amore per gli altri come ci spieghiamo l’egoismo, che ovviamente esclude qualsiasi interesse genuino per altri?

L’egoista s’interessa solo di sé stesso, vuole tutto per sé, non prova gioia nel dare ma solo nel ricevere. Vede il mondo esterno solo dal punto di vista di ciò che può ricavarne; non ha interesse per i bisogni degli altri, né rispetto per la loro dignità e integrità. Non riesce a vedere altro che sé stesso; giudica tutto e tutti dall’utilità che gliene deriva; è fondamentalmente incapace d’amare.

Questo non prova che l’interesse per gli altri e l’interesse per sé stessi sono alternative inevitabili?

Sarebbe così se l’egoismo e l’amore per sé stessi fossero la stessa cosa. Ma questa convinzione è l’errore che ha suscitato tante conclusioni errate riguardo il nostro problema.

Egoismo e amore per sé stessi, anziché essere uguali, sono opposti”[1].

Archimede, con una leva fisica, prometteva di sollevare un mondo particolarmente retrogrado rispetto alla propria capacità inventiva.

Erich Fromm, 1700 anni più tardi, costruiva una leva diversa, sociale, che avrebbe sollevato non solo il suo ma molti altri mondi a venire; negli anni ’60 del secolo scorso ridefinì l’amore per sé stessi.

Un’alternativa e non un sinonimo di egoismo, qualcosa di sovrapponibile all’amore per gli altri: principio fatto di una sostanza biofila capace di portarlo all’interno dell’individuo e veicolarlo verso gli altri con la medesima, sana, modalità propulsiva.

Una forma erotica produttiva che, al tempo in cui veniva pubblicato “L’Arte di Amare”, pareva presentare lacune importanti dovute a fattori sociali ed ambientali che rendevano difficile l’espressione lineare di una tendenza altruistica.

C’era forte necessità di rivendicare o rafforzare diritti umani a malapena sopravvissuti all’organizzazione precedente, belligerante, ormai superata.

L’individualità (intesa come attributo della persona, dello stato etc.), in un contesto in cui il mutuo aiuto era stato per duri anni rimpiazzato dall’aridità dell’affermazione individuale, aveva preso le sembianze di un’istanza potenzialmente pericolosa.

Ecco che l’egoista diveniva lo stereotipo del distruttore, dell’aggressore, di colui che cresceva nutrendosi dei frammenti di nemici onnipresenti, anche fantasmatici, anche ingiustamente investiti di questo ruolo.

Nel turbine di un tale stato reattivo, non c’era terreno che consentisse il fiorire di un amor proprio virtuoso, privo di effetti collaterali.

La consapevolezza che per dare in modo significativo è prima necessario essere, e che un’autenticità dell’essere presuppone la coscienza della centralità del Sé, non riusciva ad attecchire.

Eppure un Sé pienamente espressivo, capace di armonizzarsi alla comunità, abile ad erogare verso l’esterno in termini energeticamente positivi, non può esercitare nessuna funzione senza la contemplazione del proprio, solido centro.

Oggi le condizioni al contorno non sono le stesse: i valori conquistati e radicati dalle generazioni precedenti tremano sotto il peso di una coscienza collettiva annoiata, che li dà per scontati.

Non c’è belligeranza manifesta, ma solo aggressività velata.

Non si corrono pericoli e l’unica cosa che fa provare un brivido alle masse è l’horror vacui da assenza di saggi da seguire e nemici da debellare.

L’egoismo contemporaneo ha le spoglie del narcisismo maligno; non dunque quello che nutre il nucleo pulsante del singolo per permetterne la crescita, ma quello “fine a sé stesso”, che svaluta e appiattisce tutto ciò che lo circonda, al solo scopo di rivalutare la propria, neutra planarità.

Se l’egoismo di Fromm confliggeva con l’amore per sé stessi, l’odierno narcisismo cozza con l’individuazione dell’Io, aggravando la profondità del problema.

L’Io senza una casa non è più capace di amare, né in modo centrifugo né in modo centripeto, può solo illudersi di farlo, fraintendendo l’amore con una spinta di diversa origine.

La curiosa manifestazione sintomatica consiste nell’attribuzione di colpa verso un fantomatico neo-egoista dai tratti troppo tenui per godere del beneficio della rendicontazione verso la società.

La figura in luce, quella a lui contrapposta, è altresì l’enfatico promotore di un’affettività marcatissima, visibile anche ai miopi.

Ecco che torna il testo del maestro Fromm, che spiega bene questo neo-altruista nella metafora della “madre troppo premurosa”: “Mentre lei crede di essere particolarmente attaccata al suo bambino, in realtà ha una profonda, repressa ostilità per l’oggetto del proprio interesse.

È eccessivamente premurosa, non perché ami troppo il proprio figlio, ma perché deve compensare la sua incapacità d’amarlo[2].

Eccoci al punto.

Il problema non è più discernere tra egoismo e amore per sé stessi ma riuscire a salvare l’amore per sé stessi (fonte d’altruismo sano) dal falso altruismo (lampante ma caustico divoratore d’eros relazionale).

L’etero-tendenza spuria è infatti il fattore sociale dell’eccessiva (ma inautentica) preoccupazione per il bene di chi ci pare dipendente o richiedente: figlio adottivo di una collettività purtroppo incapace di concedersi eros ego-diretto.

Cogliendo la metafora della madre troppo premurosa, scoviamo così l’ombra motrice dell’accoglienza cieca: puro odio per il prossimo.

Abbiamo il vecchio problema del Super-Io inflativo, che taccia d’egotismo ogni faticoso moto auto-centrante, senza considerare il paradosso sotteso ad ogni intervento di castrazione: la rivoluzione del bene nel male e viceversa.

D’altra parte in psicoanalisi ogni atto positivo eccessivamente palesato è campanello d’allarme, poiché tende a cercare l’assoluto nel buono, esperienza soggettiva per eccellenza.

L’atto compiuto correttamente rende l’agente soddisfatto, la necessità di rimarcare il proprio operato lascia invece trasparire l’insoddisfazione strisciante e dolorosa di chi non ha tratto alcun piacere dalle proprie condotte.

La tendenza altruistica di oggi fa esplodere fragorosamente all’esterno un vuoto interiore incolmabile, nella falsa illusione che possa essere il fragore del botto a creare sostanza.

“L’egoista non ama troppo sé stesso, ma troppo poco; in realtà odia sé stesso. Questa mancanza di amore per sé, che è solo un’espressione di mancanza di produttività, lo lascia vuoto e frustrato.  È solo un essere infelice e ansioso di trarre dalla vita le soddisfazioni che impedisce a sé stesso di raggiungere.  Sembra interessarsi troppo di sé, ma in realtà non fa che un inutile tentativo di compensare la mancanza di amore per sé.  […] È più facile capire l’egoismo se lo si paragona ad un morboso interesse per gli altri”[3].

Si torna alla madre che enfatizza moti d’amore e cela l’odio, scambiando in definitiva l’autentico col falso.

L’obiettivo è morboso, come dice il sociologo tedesco, e porta ad un aggressivo interesse per l’altrui mondo, deformato dall’inflazione di elementi che non aveva e -probabilmente- neanche voleva.

Non c’è nulla di catartico, solo prodotti di scarto.

Quale tra tutti?

Frustrazione.

è sorpresa scoprire che (l’individuo), ad onta del proprio altruismo, è assai infelice e che i suoi rapporti con coloro che lo circondano non l’appagano[4]

La frustrazione è il primo stato psicologico a dominare il singolo e le masse che non nutrono il proprio nucleo narcisistico primario, secondo una sana ricetta a base di amore autentico per sé stessi.

Tale elemento, centralmente radicato nella struttura di personalità, è il sale della vita biologica, tanto da essere innato, bio-innestato.

È il successore della scossa coatta che porta lo spermatozoo a dimenarsi in modo tale da andare in una direzione ed un verso: dritto, avanti.

È il pronipote della forza che muove il primo respiro e il vagito liberatorio.

È la fame, la sete, la ricerca evolutiva.

Possiamo pensare che certi fattori, favorevoli alla vita, possano essere efficaci se presenti soltanto nel prossimo contestuale e non in noi?

No, assolutamente!

Ecco che compaiono dunque i casi particolarissimi di cui ci stiamo occupando: al “buon egoismo”, sfiorando l’ossimoro, accostiamo il “buon altruismo”, che si ottiene in primis dalla negazione dei luoghi comuni, passando dall’amore per sé stessi.

Oggi è un amore per sé stessi delicatamente ricodificato nei meandri di qualcosa di antico e primitivo, concesso dagli dei all’uomo per la virtù d’essere sceso dal paradiso terreste: la libertà di elargire amore, purché continui ad esistere, senza badare al luogo in cui lo si ripone, poiché più lo si usa, più si è capaci di generarne.

Come il Meister Eckhart citato nell’Arte di amare, siamo quindi capaci di affermare che “Se ami te stesso, ami gli altri come te stesso. Finché amerai un’altra persona meno di te stesso, non riuscirai mai ad amare te stesso, ma se ami tutti nello stesso modo, compreso te stesso, li amerai come una persona e quella persona è sia Dio sia l’uomo.

È grande e giusto chi, amando sé stesso, ama in egual modo il suo prossimo.”[5]

 

[1] Erich Fromm, L’arte di amare

[2] Ibidem

[3] Ibidem

[4] Ibidem

[5] Ibidem

 

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Rivoluzioni frommiane #3

 

Rivoluzioni frommiane