2020.02.26 il pensiero del giorno – Anemometro Temporale

di Gualtiero Armosino

26 febbraio 2020

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Non so se si possa misurare il tempo in nodi invece che in secondi, ma è così che io faccio. Mi serve per pensare che il respiro non finisca con la morte. Anche adesso lo sto facendo, nell’atrio partenze dell’aeroporto di fronte ad un poster pubblicitario che promuove il turismo nella mia città. La città in cui sono nato. Io il primo a nascere lì di una famiglia che ha cambiato nome per confondersi tra la gente del posto.

Nascere lì per mio padre, per la madre di mio padre, per il nonno di mio nonno è stato un traguardo. Io sono il traguardo.

Nella foto il cielo è azzurro e terso come in una giornata di Foehn.

Lo sguardo a volo d’uccello dello scatto di un drone in una bella giornata di pochi anni fa.

Le Alpi sullo sfondo.

Se mi giro, nonostante il vento soffi anche nel presente fuori da quella fotografia, una coltre di smog rende invisibile tutto.

Non riesco a vedere la collina che so esserci al fondo della pista di decollo e sulla quale c’è una casa in cui sono stato. Quando la ragazza che ero andato a trovare era solo una ragazza che odiava il padre e invidiava il fratello. L’erede di un nome che nessuno avrebbe mai cambiato.

Ma questo non conta più. Un vento di Tramontana ha portato via da lì quella ragazza da anni.

“Come fate a parlarvi con questo rumore continuo dei motori?” avevo chiesto io allora.

“Non ci parliamo neanche quando gli aerei non passano. Ma quando c’è tutto quel rumore assordante posso sorridere con le labbra e dire in faccia a mio padre cosa penso di lui, tanto non mi sente”.

La ventata d’aria fresca capace di pulire il cielo della mia città da tutti i fumi dell’industria sembra dirmi: “Non ce la faccio. Mi dispiace, mi sono arresa. Sorrido e apro le labbra ma faccio solo finta di soffiare come faceva finta di dire cose belle quella tua ragazza. Guarda là!”

E io guardo e vedo in mezzo alla folla agli imbarchi quattro persone con una mascherina anti-virus. Vedo tre ragazzi che escono dalla sala fumatori lasciando la sigaretta a metà appena entra un ragazzo dai tratti orientali.

Il ragazzo scuote la testa, sorride e dice: “Sono più sano e più italiano di voi, stronzi imbecilli!”. L’epidemia del Coronavirus riempie le pagine dei giornali. Ogni giorno il vento fa svolazzare una pagina in più.

La brezza mediterranea che mi aspetta a Barcellona è la stessa che ho lasciato trent’anni fa, quando ero arrivato con un treno su cui ero salito senza diritto.

Perché non avrei dovuto essere lì.

Non oltreconfine durante una licenza di cinque giorni sotto servizio militare. Era una cosa punibile con l’arresto.

Non in Spagna per la quale non provavo nessuna attrazione. Ero intimamente sprovvisto dell’estetica del sangre e arena, della passionalità del flamenco, del senso di Hemingway per l’aperitivo sulle Ramblas e il Partit d’Alliberament Catalunya mi stava già parecchio antipatico allora.

Ma era inverno e avevo già preso tanto vento freddo per i servizi di guardia, Parigi era troppo cara per una paga da sergente e volevo vedere Gaudì da tanto tempo.

Stavo cercando qualcosa di meno scontato di un venditore di fumo, di una discoteca trasgressiva e l’unico film in castigliano non doppiato in catalano era quello.

Per me il regista non era nessuno.

Antonio Banderas non era nessuno per tutti.

Ma la Ley del deseo era un titolo così suadente per uno che aveva vent’anni e cercava da tempo di capire quali fossero i suoi desideri che entrai nel cinema.

L’inizio era una provocazione senza precedenti.

La scena di sesso scorreva parallela di fronte ad una seconda telecamera in scena e riprendeva un ragazzo sexy qualunque e due attori del doppiaggio tanto bravi quanto privi di sensualità, a dimostrare che la pornografia è sempre e solo finzione.

Un transessuale interpretato da una donna come Carmen Maura e una madre interpretata da un transessuale come Bibi Andersen erano un tocco da maestro.

Il genio risaliva la china di una società manieristica da poco affrancatasi dal Franchismo. Il talento di uno che scherzava con un super-otto come se fosse stato YouTube.

L’indomani mattina venni via su un Pablo Casal diretto a Milano, carico di emergenti uomini d’affari, modelle e l’inizio di una folle economia fondata sul nulla degli anni ‘90 che ancora dovevano venire.

Ma tra il vento che avevo lasciato sulle Ramblas avevo visto una cosa che era unica.

In un posto dove non dovevo essere e che Almodovar aveva inventato.

Ed ora quella brezza è di nuovo qui.

A dispetto di bollettini medici che mi inseguono come un contagio.

Nell’ossessione fobica il mio Pablo Casal diventa il treno pieno di virus di Cassandra Crossing, diretto verso un ponte dal quale è previsto che precipiti perché nessuno ha capito che le bombole di ossigeno installate sui vagoni carrozza per isolarne i viaggiatori ammorbati hanno sconfitto il virus e tutti sono di nuovo sani.

E così Sofia Loren, Martin Sheene, Burt Lancaster, Ava Garner e O.J. Simpson sono qui con me, coinvolti in una suspense che alla fine li salverà. E il vento del destino consentirà a O.J. Simpson di ammazzare la moglie e vivere indisturbato fino a finire comunque in carcere per rapina a mano armata e sequestro di persona. Perché al vento non si sfugge.

E questo non lo dice l’anemometro in stile modernista catalano sul tetto di un palazzo su un paseo, lo dice invece il cartone animato di Gumball che mio figlio sta guardando in spagnolo nell’appartamento sopra il centro culturale LGTB che ha affittato mia moglie.

Anche il cartone parla di contagio. La delusione amorosa di un palloncino ha progressivamente tolto i colori al mondo e solo il recupero dell’amore per la vita, comprensiva delle sue incertezze, può far rinascere i colori che ritornano con un vento d’amore per le cose che possono essere indipendentemente da come sono soltanto.

Il vento dalla Germania ha portato un nuovo caso di Coronavirus a La Gomera nell’arcipelago delle Canarie che è la mia meta. C’è scritto su La Stampa di Torino di oggi che mia madre non ha ancora comprato e che a breve comprerà uscendo a prendere il pane.

Io guardo il telefono aspettando che vibri e che una voce preoccupata mi chieda con tono allarmante e allarmato di non andare alle Canarie a respirare gli Alisei.

Come se lei stessa o tutti quanti non potessimo già essere il contagio. Come se il vento si potesse fermare con un rifiuto a respirare.

Ma è vero che il vento non è per forza sempre e solo buono.

Era vento anche quello che ha portato via l’intero tetto della scuola di mio figlio cinque anni fa. È vento anche questo che ha riportato oggi il razzismo che aveva spinto secoli fa il mio trisnonno a fuggire dal Caucaso, prima che fosse troppo tardi.

Ma al vento si può sempre tendere una vela per risalirlo in bolina come un marinaio, come una donna di buona famiglia che sposa contro il volere di tutti uno zingaro che la lascia vedova in tempo di guerra, con figli che chiamano fascista il maiale nero nell’aia. Che nasconde Ebrei in soffitta con la cucina piena di nazisti in rastrellamento.

Una donna che non mi lasciato una ricetta della torta di mele della nonna ma che ha saputo rispondere ad un reduce da a un campo di concentramento, tornato a vedere se gli aveva tenuto i soldi e le cose che le aveva affidato: “Ecco è tutto qui, ed è ancora tuo. Ora puoi portare via di qui il mio figlio più giovane che ha lo stesso cuore debole di suo padre? Prima che schiatti sull’aia sotto un sacco di farina? Prima che debba coprire anche sul suo volta la smorfia contratta di un uomo che muore d’infarto? Portalo con te in città, insegnagli a riparare gli orologi. Ad avere come te in tasca una scatola d’argento per non gettare a terra i mozziconi di sigaretta. Fagli fare un lavoro sedentario che lo renda ricco per il giorno in cui dovrà pagarsi a Londra i primi by-pass riusciti”.

Il vento importante è di fronte a me da sempre anche se in questo momento si mostra sul Paseo de Gracia ad alzare le foglie secche dai marciapiedi. È sulla facciata di Casa Battlo in una coppia di verricelli montacarichi messi in vista come draghi incatenati al posto di nasconderli dietro una fioriera quando il pianoforte è già stato elevato al piano nobile.

E mentre cammino il virus ritorna sulla mascherina di una donna cinese che esce da un negozio di Louis Vuitton. Vuole evitare il rifiuto da parte del negozio. I rifiuti di ragazze che sono scese da una passerella dell’alta moda prima di compiere trent’anni e del concierge che sulla passerella dell’alta moda non c’è mai salito, perché l’alta moda maschile non esiste. Per questo che il concierge odia le commesse e le commesse odiano tutti. Ma la donna cinese non lo sa e così indossa la mascherina come un chirurgo e gli occhiali neri di Dior come Jackie Kennedy per non fare vedere il suo sguardo titubante.

Voltando in un calle che risale la collina verso il Parc Guell il Levante cessa di soffiare davanti ad un mercato coperto che non ha ancora subito la gentrificazione del Sant Antoni Market. Qui il pesce in scadenza viene venduto col prezzo ribassato e il puzzo è vero.

I tre suonatori di violino, viola e violoncello all’angolo della strada sono anziani. E anche se piacciono molto al pubblico non riesco non pensare che se io avessi suonato una partita di Bach così approssimativa la mia maestra di pianoforte alla terza battuta mi avrebbe detto: “Non ho tempo da perdere con te anche se tua madre ti vuole sul palco, il musicista vero è tuo fratello! Quello che suona qualsiasi cosa senza neanche uno spartito. Quello che disegna qualsiasi cosa veda. Quello con un disegno del quale tuo padre ha pagato mezzo trasloco. Il disegno incorniciato e appeso dietro la scrivania di un ufficio di fianco alla foto di una gru col nome di una ditta. In quel disegno c’è il vento. In tuo fratello c’è il vento. Io vorrei lui, non te. Ma a tua madre tuo fratello non piace. Se gli piacesse non lo farebbe scappare lontano al comando di un cargo che impiega quattro giorni ad essere riempito di derrate di bassa qualità e che va avanti e indietro dalla Cina. E che per questo sua moglie oggi gli ha detto che non lo voleva a casa perché poteva essere infettivo più di un monatto. Ma la verità è che lei non lo vuole da tempo. Ed è tua la colpa. Di te che suoni così male!”.

Il panorama mostra che il soffio di nessuna Galerna riuscirà mai ad abbattere le perenni impalcature della Sagrada Familìa, che vista da lì sembra indossare una mascherina anch’essa.

Sento il Terral che soffia verso il porto. Vorrei partire dalla Estació de França, perché è bella è antica e ha le vetrate delle volte centinate in curva che sembrano le ali di un uccello nel vento. Ma ho un viaggio diverso da fare. Diverso dai viaggi di un tempo. Diverso da tanto tempo.

Da ragazzo ho viaggiato un po’.

Abbastanza tutto sommato. Cercavo la libertà ma non sopportavo l’idea che uno dovesse rinchiudersi ad Amsterdam per farsi una canna, a Berlino per farsi una pera, a Mikonos per farsi qualcuno, a Ibiza per dormire ubriachi sulla spiaggia.

I posti scontati mi mettono l’ansia da sempre.

E così ha girato l’Europa passando da un ghiacciaio ad un lago, ad una foresta, ad un museo, ad un fiordo, ad una biblioteca, ad un circolo polare Artico. Sempre in mezzo al nulla o sospeso sopra a tutto come uno stilita o un pipistrello. Un pipistrello affetto da un virus.

Un virus che mi teneva là su un ramo alto di un albero, in attesa di una mongolfiera che al primo vento mi portasse di fronte alla meraviglia della pace di anelito.

Ma il mio virus è un vento che non conosce pace.

E così dopo essere stato in balia della moltitudine di persone di una metropoli di tre milioni di abitanti, sono andato a dormire sei ore prima della intera città.

Sulla città il vento non si è mai fermato.

Verso le cinque mi sono svegliato per il rumore di una musica che usciva da un’auto ferma sotto le mie finestre come mi succedeva da bambino nella periferia della mia città.

Come facevo allora mi sono alzato che il giorno era ancora notte.

Persone di tutte le età ancora passeggiavano in un quartiere senza locali o discoteche, in una piazzale un po’ panorama un po’ parcheggio del distretto di polizia.

Un ragazzo è spuntato da un vicolo inseguito da un altro.

Il primo arrabbiato, il secondo cercando una riconciliazione.

Il primo non si voleva fermare, aveva il vento in poppa.

Il secondo lo ha preso per un braccio. Il primo si è divincolato un po’ come un bambino che fa i capricci e un po’ come un uomo che ha delle sante ragioni.

L’altro ha tentato di abbracciarlo sebbene l’uno facesse resistenza. Ci è riuscito, si sono baciati sulla bocca senza essere a Mikonos, ad Amsterdam, a Berlino, a Ibiza. Tra la gente, davanti alla polizia.

Molti li hanno guardati per capire se tutto andasse bene. Nient’altro.

Poi uno dei due ha offerto la sigaretta all’altro. Hanno cominciato a parlare e a discutere.

Ad un certo punto uno ha detto una cosa. L’altro ha dato un pugno forte alla lamiera di una saracinesca. Poi un altro ed un altro ancora. Si è messo le mani sul viso e il suo corpo ha sussultato dal pianto.

Senza guardare l’altro ha mosso la mano in segno di addio e se n’è andato.

L’altro scuotendo la testa ha preso la direzione opposta. Ha detto qualcosa a due poliziotti che gli hanno sorriso ed è scomparso anche lui.

Io non so se qui il vento sia migliore, se l’aria sia più pulita. Se qui il virus non abbia peso. Non so se sono veramente pronto a scendere dall’albero.

Ma in quella scena ho visto che il vento può cambiare direzione, cambiare le cose e poi cambiarle ancora fino a ricucire il tempo.

Non so se scenderò mai dal ramo ma so che posso fare scendere mio figlio. Perché un posto nel mondo, in cui fino a ieri c’era una dittatura, è diventato un luogo in cui c’è posto anche per le storie d’amore che possono finire male in mezzo alla gente. E questo mi basta. Sia come che, sia come perché.

Anzi, il perché non mi interessa. Come non mi interessa sapere del paziente zero del contagio, di questo e di altri virus.

Non mi interessa sapere quale fosse il guasto tecnico che mi ha tenuto a terra sul mio aereo per due ore sulla pista del Areopuerto El Prat. Mi basta che l’aereo non sia decollato prima che qualche mio simile avesse risolto il guasto. Questo è il “che”. Il “che” come il vento.

Il vento che batte tutti i virus.

Il vento che non si ferma mai.

Il vento che misura il tempo.

2020.02.25 – Il pensiero del giorno

di Guido Rutili

25 febbraio 2020

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Se questo virus fosse più “nostro” di quanto pensiamo?

Nostro, umano, dimenticando l’informazione (non la formazione, mi raccomando), che lo racconta nato in seno ad un’altra specie.

Fermiamoci a riflettere, nel panico che imperversa; facciamo un profondo respiro senza considerare che potrebbe ucciderci, bensì confortandoci col fatto che tra i miliardi di respiri fatti, a partire dal primo vagito, sono più quelli che ci hanno regalato la vita.

Guardiamo lontano, con gli occhi persi in un punto all’infinito, messo lì per dare suggerimenti importanti: certo, la mucosa delle orbite è l’altra frontiera con il mondo virulento, ma non per questo togliamoci la luce.

Anche le apnee e il buio possono uccidere, mentre l’idea illuminata è sempre figlia di un arresto.

Fermiamoci, pensiamo e sentiamo, come fece Sigmund Freud quando intuì che buona parte dell’esistenza si nascondeva nell’inconscio, complemento divino della mente.

Abbiamo creato il virus per sabotare qualcosa. Se è stato un laboratorio a farlo, pensava di sabotare il mondo eppure, siccome Freud aveva ragione, sotto l’egida dell’inconscio, non ha fatto che privilegiare la vita totale, quella che ci costringe a vedere anche nell’ombra dell’iceberg sommerso.

Per questa minaccia assistiamo al crollo dei somatismi sociali, e scopriamo, nello sconforto, che elencarli tutti sarebbe troppo oneroso: il mercato forte, il benessere perpetuo, la vita garantita, il posto di lavoro fisso, la famiglia perfetta, l’auto che guida da sola, i politici capaci, il caffè al bar, la corsa di un’ora al giorno per mantenersi in forma, la dieta chetogenica, le stette lauree bimestrali (che farebbero un terzo di una vecchia laurea quinquennale), lo stage alla NASA per fotocopiare foto lunari.

Arriva una sigla, COVID-19, e torna la protagonista del disturbo somatogeno di questa società indebolita: l’angoscia. E con essa torna, ahimé, la luce su un mondo interno trascurato, negato, rimosso, evitato, rabbiosamente cancellato.

Angoscia.

Nominarla è doloroso, perché non volevamo farlo.

Ci siamo abbracciati stretti fino a ieri per non sentirne la presenza, sostenuti da valori liquidi con cui ci rassicuravamo, dimenticandoceli un attimo dopo e coniandone di nuovamente instabili; ma ora gli abbracci sono banditi.

Una bella fetta di noi potrebbe approdare alla chemioterapia psicofarmacologica o potenziare quella in essere: diciamo che può funzionare, almeno fino all’arrivo di un COVID-20, poi dovremmo tornare sulle parole precedenti.

Allora cosa ci resta?

Soli, senza saperci stare, senza poter contare su supermercati con gli scaffali ineluttabilmente straripanti, paranoici, perché chi ci faceva coraggio adesso è potenziale nemico, immaturi, perché non abbiamo mai pensato che la psiche potesse essere una risorsa nel periodo del benessere digitale, ci crediamo perduti.

Vanno riesumati psicologi e psicoterapeuti, dinosauri cultori dell’anima, che l’angoscia la conoscono bene e possono indossare la veste druidica per riorientarci ed invocare su di essa una magia.

Perché c’è una formula magica che ne parla, che se rammentata la trasforma finalmente in carrozza e che suona all’incirca così: l’angoscia è mortifera finché non le si trova un nome.

Ora che tutte quelle manifestazioni psico-socio-somatiche sono passate e che la causa scatenante è riapparsa all’orizzonte, ognuno può fermarsi, riflettere, dare un nome alla propria angoscia, contenerla senza più sintomi.

Certo che serve coraggio, ma l’alternativa, qui alla resa dei conti, è la perdizione.

Non è certo un processo indolore, gli effetti collaterali sono molti, ma impareremo a sopportarli: dal giorno dopo non saremo più manager (o lasceremo tale identificativo ad una voce sulla job description), i selfie con la famiglia non infonderanno automaticamente l’amore sempiterno tra i suoi membri, per dimagrire dovremo solo mangiare meno, sarà meglio sapere tante cose che mostrare di non saperle con sette lauree, rifiuteremo stage finalizzati alla fotocopia, sapremo che ogni cosa “fissa” è impossibile per forme di vita evolutive e transitorie e riscopriremo il piacere di andare in bicicletta, che da sola non fa le curve e neanche riesce ad avanzare: soprattutto non avremo più l’illusione dell’immunità.

Non saremo immuni, dall’angoscia, dai malanni (soprattutto quelli della psiche), dalla morte.

Come in ogni vaso di Pandora che si rispetti, tuttavia, troveremo sul fondo la più grande speranza possibile: la consapevolezza.

 

Robert Walser: la superficie innevata del mondo

di Andrea Galgano 10 febbraio 2020

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Robert Walser (1878-1956) dispone la frammentazione come spasimo di nebbia imprecisata, raccolta nella mancanza, indistinta nel gelo, vissuta nel bagliore opaco della neve e un luogo santo per poter accogliere la densità dell’istante, quasi negata ma ricercata e invocata, nonostante la luce opprimente, il taglio indocile dell’oscurità: «Il cielo, stanco della luce, / ha dato tutto alla neve».

È il fragore che compone la sua orma, la percorre e il poeta resta in ascolto di qualcosa che non ha fine: egli sente desiderio, amore, vitalità ma vi è sempre una specie di ombra sulla materia vivente, una debolezza inavvicinabile sull’anima.

Nel 1909, pubblicò a Berlino, presso l’editore Cassirer, Gedichte, dopo che già aveva dato alle stampe una serie di romanzi, accompagnato da sedici acqueforti del fratello Karl. Ci lavorò nel periodo in cui lavorava come impiegato del commercio a Zurigo tra il 1897 e il 1898 e anche se continuò a scrivere versi, resterà questa la sua unica raccolta, Poesie[1], ora pubblicata dall’editore Casagrande, con le traduzioni di Antonio Rossi.

La sua poesia, dunque, si apre nella mancanza e nella lacerazione, non nate dal vuoto bensì dalla privazione ferita, dalla penuria della pienezza e dalla destinazione dilatata e  nostalgica del cuore stanco.

In esse, allora, si sperimenta una specie di doppia solitudine, come avviene in In ufficio, dove l’impossibilità «di un rapporto plausibile all’interno della società organizzata, di cui l’ufficio e il principale sono emblema, spinge il Soggetto alla ricerca di un interlocutore esterno, rappresentato in questo caso dalla luna (immagine collocata in posizione cardine ad apertura ed in chiusura di testo, oltre che all’inizio della seconda strofa), unica entità che partecipi alla sorte del commesso[2]»: «La mancanza è la mia sorte: […] La luna è la ferita della notte, / gocce di sangue sono le stelle. / Se anche rimango lontano dalla felicità / per questo la mia indole è modesta. / La luna è la ferita della notte».

Il pianto, la stanchezza, il dolore non divengono l’esito di un lamento infinito ma di una condizione inquieta, in cui l’inafferrabilità e l’imprendibilità del reale nel rapporto con le cose («Giallonero riluce davanti a me nella neve / un sentiero e si perde fra gli alberi. / È sera e pesante è l’aria / impregnata di colori. / Gli alberi sotto cui cammino / hanno rami come mani di bambino, / implorano senza fine, se mi fermo, / con dolcezza indicibile») e

 

«il credito concesso alla vita, così rari per uno scrittore del suo tempo, rappresentano una conquista, un raggiungimento etico e spirituale, persino un atto di fede, non un punto di partenza. Le più elementari e canoniche tra le situazioni liriche – la relazione con il paesaggio, la riflessione interiore, il dialogo con sé stessi, la dichiarazione dei propri sentimenti (nostalgia, paura, quiete, colpa, amore, stanchezza, sono titoli di queste poesie) – vengono afferrate come un’ultima possibilità di vita da un uomo che ha il secolo a venire già davanti agli occhi».[3]

Persino l’anima del sole non ha durevolezza, nonostante il giorno abbia disperso le tenebre e le nebbie che avvolgevano i campi. Il sole di Walser è una meta di sogno e di oblio, lontano dal possesso del dolore e dell’oppressione (e quindi vicino all’emancipazione), come bisogno di avvenimento. Qualcosa deve accadere. Ma avviene sempre un torpore, una luce nera e affilata che conchiude, mentre il petto cerca riposo e calore.

Una relazione con la datità naturale in senso antropomorfico. Esiste, in Walser, un desiderio incompiuto, non soltanto per il respingimento del reale che crea disagio, angoscia e il perdurare di una minaccia.

Egli attraversa il mondo come mondo, le sue regioni inferiori[4] vagano come miracoli schiusi, svaniscono e si affermano come transiti di fughe, bisogno di notti chiare («Tutto è accaduto in silenzio, / senza rumore, frutto di una volontà / aliena da ogni cerimonia. / Sorridente il miracolo si schiude, / non servono per questo razzi / o micce, solo una notte chiara») e dimore irraggiungibili:

«Apro la finestra, / c’è un’opaca luce mattutina. / Ha smesso di nevicare, / una grande stella è al suo posto. / La stella, la stella è meravigliosa. / L’orizzonte è bianco di neve, / bianche di neve sono le cime. / Fresca e profonda / quiete mattutina nel mondo. / Ogni voce risuona chiara, / i tetti luccicano come tavoli per bambini. / Tutto è silenzioso e bianco: / un grande splendido deserto / il cui freddo silenzio rende vano / ogni commento. Dentro di me avvampo».

Nella sua ordinarietà grigia, nella sradicata incompiutezza, nella mancanza del sentimento del tempo, egli «sente un oscuro sì: / l’infelicità è ancora qui / e io sono ancora nella mia camera come sempre», la luna, come una grossa lacrima, pende nel giardino di nebbia, e tutto sembra dissolversi e perdersi.

Vi è sempre, in Walser, qualcosa che rimane, anche friabile e sottile, una strettezza meditabonda, una pronunciazione straziante che chiude l’ora: «Nevica, nevica, la terra è coperta / da un bianco peso così esteso, esteso. / Sfarfalla così dolente giù dal cielo / il brulichio dei fiocchi, la neve, la neve. / Ora c’è un senso di pace e di vastità, / il mondo coperto di neve mi sfianca. / Così prima piccolo, poi grande, il mio desiderio / si fa largo in lacrime dentro di me».

La sua neve conosce digiuno e rinuncia, malattia e dono che si porge come bellezza in disarmo, un grembo di terra interiore, dove tace il silenzio e le parole ormeggiano nelle sue cicatrici che tacciono. Nel suo cosmo di estesa vastità, la conoscenza primordiale si imprime come un sigillo di buio e di aria:

«Qui tutto è silenzio, qui mi sento bene, / i pascoli sono freschi e puri / e le chiazze d’ombra e di sole / vanno d’accordo come bambini giudiziosi. / Qui si libera la mia vita / fatta d’intensa nostalgia, / non so più cosa sia la nostalgia, / qui si libera il mio volere. / Una commozione silenziosa mi prende, / linee attraversano i sensi, / non so, tutto è intrico / e tutto è contraddetto. / Non odo più lamenti / e tuttavia ci sono nell’aria lamenti / lievi, candidi, come in sogno / e di nuovo non capisco più nulla. / So solo che qui tutto è silenzio, / niente più assilli e costrizioni, / qui mi sento bene e posso stare in pace / poiché nessun tempo mi misura il tempo».

Pietro Citati scrive:

«[…] Walser comprese di essere uno straniero, un escluso: Io sono ancora sempre davanti alla porta della vita, busso e busso, certo con scarsa irruenza, e tendo solo curiosamente l’orecchio per sentire se viene qualcuno che voglia aprirmi il chiavistello. Un chiavistello così è un po’pesante, e nessuno viene volentieri se ha la sensazione che quello che bussa di fuori è un mendicante. Non sono altro se non uno che ascolta e attende. Amava essere un ciottolo abbandonato sulle rive dell’ esistenza: a cui niente e nessuno apparteneva, nemmeno sé stesso. Aveva gli occhi vulnerabili, l’anima vulnerabile, il cuore vulnerabile; e persino i raggi luminosi della felicità, lo facevano soffrire, come se fossero troppo dolorosi per lui. Dove poteva abitare, se la vita lo teneva fuori dalla porta? Solo sulle strade interminabili, bagnate dalla pioggia e dalla neve, dove vagava da quando la rugiada era ancora lucida sull’erba sino alla discesa delle tenebre. Una valigia è tutta la casa che abito in questo mondo. Passeggiare era il ritmo interiore della sua mente: accresceva e placava la sua inquietudine, era la gioia, l’estasi; e solo i passi veloci potevano conoscere l’universo, che si nascondeva agli occhi troppo vulnerabili. Provava un doloroso bisogno di offrirsi, di donarsi agli altri, di appartenere a qualcuno, come un servo, o un cane, o una cosa: voleva appartenere loro anche dopo la loro scomparsa, affinché il dono potesse piangere la perdita del suo possessore. Sperava che la sua dedizione non fosse corrisposta, che il dono non venisse accolto, che il suo amore restasse infelice perché essere abbandonati non ha forse un suono morbido, carezzevole e benefico?».[5]

E ancora:

«Come osano soltanto gli stranieri e gli esclusi, esaltava l’eterna bellezza del mondo. Amava tutte le cose: il sorriso del cielo, l’estate, l’autunno, le foglie verdi e le foglie cadenti, la nebbia, i venti e il gelo dell’inverno, le città grigie, le città industriali, le città delle fabbriche e della cenere, l’innumerevole dolore del mondo, i bambini a cui la natura ha negato ogni grazia. Come Linceo, accettava l’esistenza, quale essa fosse. Non giudicava: non desiderava o inseguiva nessun principio o idea. […] Amava gli orologi, le banche, le feste domenicali, gli uffici di collocamento, l’orgoglio provinciale dei piccoli cantoni: sapeva che dietro questo mondo limpido, dove i lillà e le margherite sembravano appena usciti dalla lavanderia, si celava la vita più misteriosa».[6]

La sua lingua confusa, nella quiete dove l’anima trova la sua placata destinazione, la precisione e la potenza della parola come le stesse acqueforti del fratello, devono cercare la meraviglia. L’atteggiamento dinanzi al vivente è, per Walser, una “povera” lontananza, una dolcezza febbrile che risplende inumidita da ombre chiare e piani screziati, come una lunga canzone d’amore che si assopisce.

Alice Pisu afferma:

«La sua intera opera letteraria è permeata dall’indagine sul senso dell’esistenza dell’essere umano, e su quel mal di vivere che nelle prose è reso negli interrogativi sulla condizione del derelitto che vede distrutti i progetti, le speranze e i sogni. […] La percezione di non possedere nulla, come recita il titolo di un suo racconto, richiama non solo la relazione di Walser con l’esistenza, ma l’idea di vivere nell’attesa e nell’insignificanza non conoscendo più neanche lo struggimento, come sentirà Simon ne I fratelli Tanner, e racconta la misura del suo rapporto con la memoria, e in particolare con la sua perdita, che può assumere le sembianze della cenere».[7]

Una veglia o una vigilia segregata dove inerzia e frenesia si muovono insieme come alveo e prigione, struggimento e illuminazione. Già. Il visibile. Nel suo enigma sminuzzato, nell’erranza, nella povertà (come avviene nell’apparizione di Gesù in mezzo ai poveri, il cui passaggio segna la piena della sua indigenza, per dirla con Mario Luzi) in disparte, nel sonno del giorno soffocato, vi sono distanze che separano come grumi, una destinazione di abisso o una fuga indicibile sulla superficie innevata del mondo: «Com’è spettrale la mia vita / nell’affondare e nel risalire. / Sempre mi vedo far cenni a me stesso / e a me stesso sfuggire. / Mi scopro risata, tristezza / profonda, selvatico / intrecciatore di discorsi / e tutto ciò affonda nell’abisso. / In nessun tempo vi è stata giustizia / Sono destinato a vagare / in spazi dimenticati».

[1] Walser R., Poesie, con le illustrazioni di Karl Walser, traduzione di Antonio Rossi, Edizioni Casagrande, Bellinzona 2019.

[2] Rossi A., Postfazione, in Walser R., cit., p.122.

[3] Galaverni R., Il senso di Walser per la neve, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 12 gennaio 2020.

[4] Magris C., Nelle regioni inferiori: Robert Walser , in M. C., L’anello di Clarisse. Grande stile e nichilismo nella letteratura moderna, Torino, Einaudi 1984, pp. 165-177.

[5] Citati P., Walser lo straniero, in “La Repubblica”, 18 settembre 1990.

[6] Id., cit.

[7] Pisu A., Contro la normalizzazione dell’insolito. Sulle orme di Robert Walser, (www.minimaetmoralia.it/wp/la-normalizzazione-dellinsolito-sulle-orme-robert-walser/), 7 marzo 2019.

Walser R., Poesie, con le illustrazioni di Karl Walser, traduzione di Antonio Rossi, Edizioni Casagrande, Bellinzona 2019, pp. 136, Euro 18 Chf 24.

 Walser R., Poesie, con le illustrazioni di Karl Walser, traduzione di Antonio Rossi, Edizioni Casagrande, Bellinzona 2019.

Citati P., Walser lo straniero, in “La Repubblica”, 18 settembre 1990.

Galaverni R., Il senso di Walser per la neve, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 12 gennaio 2020.

Magris C., Nelle regioni inferiori: Robert Walser , in M. C., L’anello di Clarisse. Grande stile e nichilismo nella letteratura moderna, Torino, Einaudi 1984, pp. 165-177.

Pisu A., Contro la normalizzazione dell’insolito. Sulle orme di Robert Walser, (www.minimaetmoralia.it/wp/la-normalizzazione-dellinsolito-sulle-orme-robert-walser/), 7 marzo 2019.