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"Frontiera di Pagine Magazine on Line" Rivista di Arte, Letteratura, Poesia, Filosofia, Psicoanalisi, ... Lo sguardo poetico vive sempre di un’esperienza di confine. Ma è allo stesso tempo un modo ragionevole di conoscere il mondo, di esplorarne gli anfratti. Un fenomeno umano che si lascia sorprendere e invita a un viaggio e a una meta. La pagina scritta è il segno di una tensione a ciò che compie, al dato dell’esistenza. Attraverso questo strumento conoscitivo e antropologico, ciò che desta la nostra attenzione è sì un’esperienza di confine, spesso fratturata, ma è, per dirla con le parole di Luzi: un atto di “onore” per la realtà. L’esperienza del limite non appartiene solo al poeta in quanto tale, ma è caratteristica precipua di ogni esperienza umana. L’io ha bisogno del tu per completarsi e mettersi in relazione, e che possa, in qualche modo, vincere questa mancanza. Un qualcosa che poggia sull’oltre e che sia riconoscimento di una domanda. Un dono, un appiglio, un gancio. Oltre all’esperienza di stupore e di obbedienza devota, per dirla alla Auden, ciò che ridesta lo sguardo, con i gomiti appoggiati all’orizzonte, ci sono due termini decisivi per ogni esperienza poetica e letteraria: memoria e visione. Due atti coniugati al presente per raccogliere il reale. Si scrive ricordando, come messa a fuoco della memoria. Intesa nel suo significato di azione viva, per inseguire ciò che non si sa. Inseguimento duro che non si inventa. Un ricordo che non ricorda, scriveva Piero Bigongiari, per cercare la fodera di ciò che c’è e vederla, appunto. In questo passaggio di rubrica si scoprirà ciò che alimenta il respiro, in una narrazione presente, un abbraccio di occhi tra sangue e respiro, come uomini veri e liberi.

Abuso sessuale: come e quando

violenza-bambinidi Emanuele Mascolo

22 gennaio 2014

 

 

 

Con questa pubblicazione, voglio parlarvi seppur in breve di come e quando si configura un abuso sessuale, che è un reato perseguibile penalmente.

Nella nozione di abuso sessuale, tra le tante che ci sono, è importante notare come in considerazione dell’abuso rileva non tanto l’atto sessuale intrinseco, quanto la condizione della vittima, spesso un minore, incapace di scegliere se avere o no quel tipo di rapporto e di averlo con quella specifica persona.

L’abuso sessuale è configurabile anche quando la vittima non subisce l’atto, ma viene costretta ad ascoltare discussioni o a visionare video che non abbiano il contenuto adatto alla sua età anagrafica, ciò anche sulla base della recente giurisprudenza. Infatti la Corte di Cassazione, ha ritenuto “ che la nozione di “atti sessuali” di cui all’articolo 609 bis c.p., intende sia la congiunzione carnale che gli atti di libidine.”[1]

Un filone giurisprudenziale ha ritenuto violenza sessuale e dunque abuso, anche quel gesto che comunemente chiamiamo “ toccatina”, poiché “ nella nozione di atti sessuali di cui all’articolo 609bis Cp, si devono includere non solo gli atti che involgono la sfera genitale, bensì tutti quelli che riguardano le zone erogene su persona non consenziente (cfr, ex multis, Cassazione, Sezione terza, 11 gennaio 2006, Beraldo; cfr. Sezione terza, 1 dicembre 2000, Gerardi). E’, infatti, pacifico che la condotta vietata dall’articolo 609 bis Cp ricomprende – se connotata da violenza -qualsiasi comportamento (addirittura anche se non esplicato attraverso il contatto fisico diretto con il soggetto passivo) che sia finalizzato ed idoneo a porre in pericolo il bene primario della libertà dell’individuo attraverso il soddisfacimento dell’istinto sessuale dell’agente. Invero, il riferimento al sesso non deve limitarsi alle zone genitali, ma comprende anche quelle ritenute dalla scienza non solo medica, ma anche psicologica e sociologica, erogene, tali da essere sintomatiche di un istinto sessuale (cfr. Cassazione, Sezione terza, 1 dicembre 2001, Gerardi; cfr, Sezione terza, 66551/98, Di Francia). Pertanto, tra gli atti suscettibili di integrare il delitto in oggetto, va ricompreso anche il mero sfioramento con le labbra sul viso altrui per dare un bacio, allorché l’atto, per la sua rapidità ed insidiosità, sia tale da sovrastare e superare la contraria volontà del soggetto passivo.[2]

Riguardo invece un altro aspetto, quello degli abusi sessuali nei confronti dei minori, di recente la Corte di Cassazione, si è occupata di un caso particolare: abuso sessuale su un minore compiuto da un terzo, di cui la madre del minore era perfettamente a conoscenza.

Un chiarimento è d’obbligo: la giurisprudenza consolidata prende in considerazione la posizione di garanzia di un genitore, che nel pieno dei loro poteri, possono (dovrebbero) impedire la realizzazione di tali condotte sul minore.

Infatti, “ le posizioni di garanzia sono inequivoche espressioni di una particolare solidarietà ed hanno un “innegabile punto di riferimento” nell’art. 2 della Costituzione, norma che nel riconoscere i diritti inviolabili dell’uomo, esige l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà (politica, economica e sociale).Quanto all’altro aspetto, la funzione delle posizioni di garanzia, la Corte riferisce che: la funzione specifica della posizione di garante è rivolta a riequilibrare la situazione di inferiorità, in senso lato, di determinati soggetti, attraverso l’instaurazione di un rapporto di dipendenza a scopo protettivo La funzione è quindi quella di punire il garante che non ha ottemperato i propri doveri giuridici (di attivarsi in funzione impeditivi dell’evento) permettendo il verificarsi di un evento lesivo in capo al garantito: in altre parole, il garante verrà punito anche se esso non è il soggetto che ha materialmente realizzato l’evento lesivo, ma verrà punito per il sol fatto di non averlo impedito, o meglio, sul presupposto che a causa del suo comportamento omissivo il garantito abbia subito un vulnus.”[3]

Tornando ora al caso in cui il genitore del minore è a conoscenza degli abusi, la posizione di garanzia del genitore viene estesa, come stabilisce la Corte di Cassazione nel 2013, che condanna la madre, per “ non aver impedito la violenza sulla figlia avendo l’obbligo giuridico di impedire l’evento.”[4]

 

 



[1] Suprema Corte di Cassazione Penale, Sezione VI, 22 luglio 2013, n. 31290.

[2] Suprema Corte di Cassazione Penale Sezione III, 26 marzo 2007, n. 12425

[3]  A. Montagni,, La responsabilità per omissione. Il nesso causale. Fenomenologia causale nella responsabilità penale per omissione, 2002, pag. 84.

[4] Suprema Corte di Cassazione Penale, Sezione III, 28gennaio 2013, n. 4127.

La lancia di Frank O’Hara

di Andrea Galgano                                         16 gennaio 2014

poesia contemporanea La lancia di Frank O’Hara

frank-ohara

Frank O’Hara (1926-1966) ha scritto la sostanzialità della concretezza, l’emergenza sorgiva, la finitudine di una parola-scoppio come una nervosa grazia che irrompe scoperchiata.

Incontrato in un party nel Village, Marisa Bulgheroni così lo ricorda:

 

«[…] stava tra gli altri, pittori, poeti, musicisti, gente di teatro, i protagonisti della Scuola di New York, come un re in incognito, arrivato lì per caso, la polvere del viaggio sulla giacca stinta a righe bianche e celesti, gli occhi irrequieti azzurrovioletti, tagliati in una materia mobile come vento o come neve, intensamente presente benché forse sul punto di andarsene, un perfetto abitante della vorticosa Manhattan delle sue poesie. Già allora la sua grazia nervosa, la sua volontà di vivere e scrivere in un unico gesto, di rendere durevole il precario, di trasmettere alla parola l’istantanea del passo e del respiro avevano per i più giovani la forza di un contagio e la sua stessa vita, scoperchiata, giocata con grandiosità, «tenuta insieme precariamente nella mano veggente di altri», la sua omosessualità, la sua abissale trasparenza di uomo che si riconosce molteplice erano leggenda ancor prima che morisse, nel luglio ’66, in seguito a un incidente simile a uno spettacolare appuntamento. Il suo sand buggy – costruito per corse veloci sulla spiaggia – saltò in aria su una duna di Fire Island, la storica isola, piatta come una lingua di sabbia appena affiorante dall’oceano, dove Thoreau, nel 1850, andò a cercare i relitti del naufragio in cui era perita Margaret Fuller».

Ma se la poesia di O’Hara «non è fatta di strumenti / che funzionano a volte / poi ti lasciano / ridono di te vecchio / si ubriacano di te giovane / la poesia è parte di te», vero è quel che ha scritto Donald Allen, usando la parola record, come registrazione che rifiuta l’aspetto combinatorio del gesto poetico e si attesta alla diretta espressione dell’energia vitale.

È la registrazione dell’esperienza vitale soggiace ad ogni suggestione, movimento, denso incontro.

Nel suo manifesto, Personism, O’Hara giunge a far crollare ogni confine tra la vita e l’arte: «la poesia non è tra due pagine, ma tra due persone».

Questo incrocio di incontri è il nemico dell’astrazione e si incide in una magmatica apertura di suggestione ed emozione: «L’astrazione (in poesia, non in pittura) comporta la rimozione della persona del poeta. […]. Il Personismo, un movimento che ho fondato recentemente e che nessuno conosce, mi interessa molto perché è completamente opposto a questo tipo di rimozione astratta».

L’attestazione pittorico-musicale e la poesia come atto creativo nascono da una lotta furiosa che risale a Pollock, de Kooning fino al realismo immaginario, si richiama a Picasso e i suoi collages, risale ai simbolisti francesi, si appropria di Apollinaire e come scrive acutamente John Ashbery: «[…] parole e colori che potevano essere presi liberamente a prestito qua e là per costruire grandi strutture ariose, mai viste fino ad allora nella poesia americana e in genere in tutta la poesia, più simili alle circonvoluzioni erranti di una mente aperta fino al punto della distrazione. Ne scaturiva una libertà di espressione poetica che era davvero praticabile e che, insieme ad altri tentativi analoghi sul versante tecnico (Charles Olson) e psicologico (Allen Ginsberg), spianava la strada a tutta una generazione di poeti più giovani».

In un articolo apparso su «Poesia» del dicembre 1997, intitolato Frank O’Hara e la poesia dell’emergenza, Roberto Ferdani scrive che «La poesia, in O’Hara, accade, come accade la vita; nasce da (e richiede) un atteggiamento essenzialmente emozionale, destrutturato, immediato; è ciò che fluisce dall’essere quando la logica – luogo di separazione, di finitudine e di temporalità – si arresta e arrestandosi permette lo scorrere inarrestabile del movimento dell’essere fattosi parola. Per lui l’azione poetica non avviene attraverso un atto intellettuale bensì attraverso un’apertura emotiva. […] Frank O’Hara ha composto, attraverso il dire poetico, il suo “diario intimo”. […] Motore e forza unificante della poesia di O’Hara è dunque quell’io che si fa centro di irradiazione e luogo nel quale il fenomenico viene non solo percepito ma ricreato. Di più, l’io multiforme e onnivoro di O’Hara crea se stesso attraverso il contatto con il mondo; si fa cioè luogo di rifrazione del mondo; si dà, keatsianamente, forma».

Ed ecco che l’immersione nella città, con le sue creatività caotiche, impara a cacciare la preda invisibile del tempo, l’immagine che implora e sfugge, il cosmo che si trasforma e l’incontro che mette a nudo.

La poesia di O’Hara non ama l’intellettualismo cieco perché, in esso, non trova la linfa e la sorgente. Il  magma poetico ha bisogno di scivolare come aggredito, di amalgamare suggestioni, depositarsi nel fondo dell’essere.

Pur non trovando né stabilità né protezione, sperimenta la leggerezza di un’emergenza, come scrive ancora Marisa Bulgheroni: «La metropoli è per lui un cosmo compiuto, contenente quanto occorre per sentirsi vivi, il verde sufficiente, vette e gole montane e marine, luce e uomini in movimento: tocca al poeta riscoprirla come natura, vedere nella sua eterogeneità, nella sua discontinua corporeità, un modello di linguaggio alternativo rispetto a quello della tradizione letteraria. Da un lato l’io poetico si nega e si dissolve nel caos dell’esperienza urbana, produttrice di sempre nuovi automatismi fisici e mentali e quindi di inedite associazioni di immagini, di inattese identificazioni con gli oggetti che affollano simultaneamente il campo visivo; dall’altro si rappresenta come punto di riferimento, nucleo di energia psichica, protagonista e possente cronista della velocità di cui partecipa».

L’avvenimento della sua poesia si appropria di un linguaggio che si afferma nei ritmi biologici, come rapidità sollecita e cenno di vertigini e abbandoni. La sua geografia, che attraversa New York quasi sbandando, è la memoria del desiderio che si poggia, gocciolando, sulle cose.

Nessun oggetto finito né un confine accertato, ma una traccia in divenire rapida e riprodotta che si fa colloquio e riferimento, come scrive Nicola D’Ugo: «La poesia di Frank O’Hara costituisce un fenomeno raro e prezioso. Il suo modo di scrivere è colloquiale. La sua sapienza sta nel rendere tale colloquialità priva di scosse retoriche, con andanti minimali e accostamenti di immagini che anziché esaltare l’io poetante riducono qualsiasi argomento socialmente ammaliante ad una dimensione svuotata della sua appetibilità. L’io poetante non si fa voce privilegiata della società, ma uomo, e quest’uomo che ne vien fuori, con le sue debolezze e la sua minuta dignità, è ancora più amabile degli smaglianti contesti sociali cui ha un accesso privilegiato: siano essi di cultura elitaria o d’entourage economico. O’Hara accosta la cultura di massa alla tradizione ‘alta’, alla quale fa sparsi ma puntuali riferimenti, non tanto per sminuirla, ma per mettere in luce che tutta la sua cultura mitica la si ritrova più compiutamente nell’incontro con l’uomo comune e non per questo meno affascinante, come nella celeberrima Prendere una coca-cola con te»: «Non starò sempre a piagnucolare / né riderò tutto il tempo, / non mi piace un “motivo più dell’altro. / Avrei l’istantanea di pessimi film, / non solo di quelli barbosi, ma anche del genere / di prima classe delle megaproduzioni. Voglio esser / vivo quantomeno come il volgo. E se qualcuno / appassionato alla mia vita incasinata dice: “Non è roba / da Frank!”, tanto meglio! Io / non mi metto sempre abiti grigi e marroni, / o sbaglio? No. Per l’Opera indosso camicioni da lavoro, / spesso. Avere i piedi scalzi voglio, / voglio un viso ben rasato, e il mio cuore … / non puoi programmare il cuore, ma la sua parte migliore, la mia poesia, è allo scoperto».

La polisemia dei significati non si apparta con l’io, egli si gioca la vita e l’anima scrivendo, («Quanto è successo ed è qui, un / foglio sfregato contro il cuore / e troppo fresco ancora per la cornice»), spende il lauto pasto dell’esperienza, con la cromatura delle note e dei passaggi instaura rapporti duraturi ed estremi, dove la gioia e il dolore, il pranzo e lo sgomento, toccano gli anelli della vita con trasparenza, fruizione temporale, spazi bianchi di cosmo.

La germinazione dei luoghi non viene corretta da regole e imposizioni, bensì è l’incontro aperto e crudo a divenire istinto di vita che si apre («Sono una casa piena di finestre»), come un «luogo vuoto continuamente sostituito da segni, presenze, abitanti imprevedibili» (R.Ferdani).

Nei Lunch Poems (1964), il poeta della città si immerge in New York, con il suo tocco di attrazione e repulsione, e vive il suo slancio di nervi e sangue.

Il rapimento sensuale è un approdo di latitudini, perché «Mangiare e amare, andare a pranzo e andare a letto vivono in questa poesia come i termini della stessa equazione. Amare è sentire il richiamo del pranzo; pranzare è sentire il richiamo dell’amore» (Paolo Fabrizio Iacuzzi).

Il poeta lotta con le sue parole, l’io che mangia se stesso, si separa e si riunifica (Per il capodanno cinese), rumina il torpore della sua infanzia e adolescenza, immerge il suo atto creativo nel reale: «I Lunch poems non sono soltanto il diario dell’io, ma della memoria dei pasti nel corpo, come avviene nel Diario di Pontormo» (P.F. Iacuzzi).

L’attraversamento teatrale diviene epica del quotidiano, ritorno al punto primigenio dell’infanzia orfana e abbandonata (Allen Ginsberg dirà il suo canto a Frank: «Spero tu abbia saziato il tuo amore per l’infanzia / la tua fantasia per la pubertà / il tuo marinaio per punizione sulle ginocchia / la tua bocca per ciuccio»).

La lunga rapsodia della città è una natura che fa folla del suo io, sono le sue poesie-lance, e non solo poesie di pranzo, che egli scaglia nel languore e nel tremito dell’«umidità luminosa», del suono variegato, della luce dei grattacieli, della scomparsa del tempo nelle rifrazioni e movimenti, in una scrittura di terra dinamica e mordace.

La carne, il respiro di una città che vive, irrora l’io con le sue rapide impetuose e il profumo dolce e malinconico delle epifanie. «La New York di O’Hara partecipa all’infinito dinamismo della vita», scrive Roberto Ferdani, «che non è una qualità delle cose ma un flusso che le attraversa e le sospinge. New York è presa e trasformata così come la luce aggraziata è “sospinta” da un grattacielo all’altro. Questa città è una vasta mappa emozionale; è la geoscrittura di un io che scivola attraverso librerie, cinematografi, negozi ed emozioni private. Tutta la città e i suoi abitanti sono presi da un dinamismo straordinario che O’Hara rende attraverso quell’affabulazione che ha ereditato da Whitman».

Un io che non ha paura della cancellazione delicata nel desiderio, dell’incanto che nasconde dolore e perdita, come imprinting nervoso che avvolge impressioni e precisioni lievi, odori e sapori, come l’aspirazione della sua cucina.

Si consegna al poema che dipinge, all’apocalisse che si mette il vestito della festa e non teme, appunto, i vortici dei venti, la fusione delle lontananze e l’evento sensuale delle assenze rubate, degli amori buttati, delle fusioni dei turbini.

È jazz, pittura, sguardo di caffè, alito vitale, la sua cosmogonia che omaggia gli amici (Pollock, Billie Holiday) e consegna la sua realtà vitale delle sue metafore, l’impulso grafico della sintassi, la percezione che si fa carico dell’esistenza, non per annullarsi ma per dire “io” davanti alle estremità della vita, alle profondità del cibo, alle mancanze, come «un bacio. Sensuale, misterioso, allegro, divertente e alcolico. Molto alcolico» (Allen Ginsberg).

 

O’hara F., The Collected Poems of Frank O’Hara, a cura di Donald Allen, University of California Press, Berkeley-Los Angeles 1995.

Id., Lunch poems, Mondadori, Milano 1998.

Id., Jackson Pollock, Abscondita, Milano 2013.  

Bulgheroni M., Chiamatemi Ismaele, Il Saggiatore, Milano 2013.

D’Ugo N., La traduzione di poesia(http://poesia.blog.rainews.it/2011/02/22/la-traduzione-di-poesia-nicola-dugo/)

Ferguson R., In Memory of My Feelings: Frank O’Hara and American Art, University of California Press, Los Angeles 1999.

LeSueur J., Digressions on Some Poems by Frank O’Hara, Farrar, Straus and Giroux, New York 2003.

Shaw L., Frank O’Hara: The Poetics of Coterie, University of Iowa Press, Iowa City 2006.

Smith H., Hyperscapes in the Poetry of Frank O’Hara: Difference, Homosexuality, Topography, Liverpool University Press, Liverpool, 2000.

Le vele di Billy Collins

di Andrea Galgano                                         8 gennaio 2014

poesia contemporanea Le vele di Billy Collins

billy collins

La tensione poetica di Billy Collins (1941), poeta laureato del Congresso degli Stati Uniti nei primi anni 2000, si dispiega in una concretezza visiva che impone altezze d’anima, sollecita slanci e agilità, impone tensioni.

Quando scrisse che scrivere versi è fare «sci d’acqua / sulla superficie di una poesia», come afferma in Introduction to Poetry, egli si attesta sul bordo ruvido e sullo sfioramento agile delle pagine, ma la scrittura è anche «la cartolina illustrata, una poesia sulla vacanza, / che ci costringe a cantare le nostre canzoni in piccole stanze, / o a pesare i nostri sentimenti col bilancino. / Scriviamo sul retro di laghi o cascate, / e aggiungiamo al paesaggio una didascalia convenzionale» (American Sonnet).

Commenta padre Antonio Spadaro:

 «L’occasione per far poesia non è mai in sé elevata né epica. La poesia scaturisce dalla vita ordinaria, dal mondo dischiuso da un dettaglio accolto senza enfasi e retoriche. Qualunque cosa sia – scrive in American Poetrydeve avere / uno stomaco capace di digerire / gomma, carbone, uranio, lune, poesie. Vale per lui l’immagine del granello di sabbia nel quale è possibile, secondo il celebre verso di William Blake, vedere un intero mondo. Si scrive sul retro della realtà, come se si scrivesse su una cartolina. Questo è ciò che ci sembra più tipico della sua poesia: essa parte da un dato concreto, semplice, ordinario, spotless, cioè candido, senza macchia, per aprire questo dato alla ricchezza dell’immaginazione».

La tensione dello sguardo non si ammaina a favore di una semplicistica immersione conoscitiva, bensì sfuma e si bagna nell’ordinario, in cui veleggiare (sailing), come dinanzi a «vaso di peonie / e accanto un  binocolo nero e un fermaglio per i soldi / proprio il tipo di cose che oggi preferiamo, / oggetti che si dispongono quieti su un verso con lettere minuscole».

A vela in solitaria intorno alla stanza (2013) rappresenta il viaggio che diventa, come scrive Franco Nasi, «l’esplorazione di un mondo qualunque, fatto di cose senza importanza, durante il quale il protagonista, un professore universitario di Letteratura, bianco, anglosassone, di formazione cattolica, di origine irlandese, sornionamente seduto nella sua barca a vela, annota gli oggetti del suo soggiorno o trascrive i sogni a occhi aperti che gli capita di fare sfogliando un’enciclopedia. Un diario di bordo redatto in una casetta tranquilla di una periferia borghese, a un’ora di treno da New York».

Gli appunti di Collins, pertanto, inseguono la linea e lo slargo di una nominazione appuntita, in cui la prospettiva trasforma la coltre ordinaria degli oggetti, degli spunti, degli orli o degli angoli, sviluppando quello che lo stesso Nasi chiama acutamente «svolte inattese»: «Qui non ci sono abbazie né affreschi che si sbriciolano o cupole / famose, e non c’è bisogno di mandare a memoria una successione di re […] Quant’è più bello disporre dei semplici spazi di casa / che sentirsi schiacciato da un pilastro, un arco, una basilica».

Le sue vele scoperchiano un mondo improvviso, che solo apparentemente appare inanimato. Sembra quasi disarcionare l’inerzia, in un vivido paradosso, che se da un lato, richiama la porzione più viva delle cose, dall’altro ama la sfrontatezza delle azioni e delle vicissitudini, come il bonsai che visto da vicino sembra un enorme albero che permette di toccare l’orizzonte e scorgervi persino una balena, con accanto i fiammiferi-zattere («Guardalo dall’ingresso, / e il mondo si dilata e si gonfia. / Il bottone che gli sta accanto / è ora una ruota di perla, / i fiammiferi Minerva sono una zattera, / e la tazza del caffè una cisterna / che raccoglie la stessa pioggia / che bagna le sue piccole zolle di terra scura e muscosa. / […] Il modo in cui si piega verso l’entroterra, / m’invoglia a farmi strada / fino alla cima del suo fogliame spinoso, / a restare attaccato con tutta la forza / e guardare la furia della tempesta marina, / nella speranza che appaia una piccola balena»), oppure sognare di attraversare a piedi l’Atlantico e provare a immaginare come «debba sembrare tutto questo ai pesci là sotto: / il fondo dei miei piedi che appare, scompare», o ancora versarsi un bicchiere di vino al tramonto e accorgersi di non aver toccato mai la voce di anima viva, salvo poi ricordarsi di aver parlato con la tartaruga, incontrata durante una camminata o la sua cagna, alla quale aveva spiegato che non era ancora ora di cena.

In un articolo su “Avvenire” del 10 dicembre 2011, Roberto Mussapi scrive: «I suoi versi non manifestano alcuna pulsione conoscitiva, ascensionale, nessun senso della finitudine, da cui nasce la poesia. […] Per riempire i teatri e ricevere la corona d’alloro, come è riuscito lui, bisogna scrivere una poesia semplice e fruibile. Come? Abbandonando la grande linea del Novecento americano, Eliot, Pound, Hart Crane, Stevens. Cioè abbandonando monumenti di poesia che da americani sono diventati universali: la grande poesia moderna parla elio tese, poiché eliotianamente pratica il “correlativo oggettivo”: parlare di realtà immateriali e atemporali attraverso immagini concrete».

La dilatazione e il rigonfiamento del mondo spesso acquisiscono non solo humour intenso e geniale, ma anche la sovrapposizione di suoni, l’indizio surreale e lo scarto improvviso.

Ecco cosa racconta in Un altro motivo per cui non tengo una pistola in casa: «Il cane dei vicini non smette di abbaiare. / Abbaia sempre lo stesso alto, ritmico abbaio / che abbaia ogni volta che vanno fuori. / Si vede che lo accendono quando escono. / Il cane dei vicini non smette di abbaiare. / chiudo tutte le finestre di casa / e metto una sinfonia di Beethoven al massimo / ma lo sento ancora ovattato sotto la musica, / che abbaia e abbaia e abbaia, / e ora lo vedo seduto nell’orchestra / a testa alta e sicura come se Beethoven / avesse inserito una parte per cane che abbaia. / quando alla fine il disco finisce abbaia ancora, / seduto là, nella sezione degli oboe, abbaia, /  con gli occhi fissi sul direttore che lo / guida con la sua bacchetta /  mentre gli altri musicisti ascoltano in rispettoso / silenzio il famoso assolo per cane che abbia, / coda infinita e causa prima dell’affermarsi / di Beethoven come genio innovativo ».

L’acutezza di Collins ama questa sovrapposizione e dilatazione per scrivere la realtà, nell’arguzia di un wit fruibile intenso, che afferma e sollecita misura e discrezione. Se è vero, come egli sostiene, che «Il candore è nipote dell’ispirazione», il suo tratto è una spoliazione e una continua ripulitura: «[…] non esitare a prendere / per i campi e a sfregare il fondo / dei sassi o a spolverare sui rami più alti / della buia foresta i nidi pieni di uova. / Quando ritroverai la strada di casa / e riporrai spugne e spazzole sotto il lavello / vedrai la luce dell’alba / l’altare immacolato della tua scrivania, / una superficie pulita al centro di un mondo pulito» (Consiglio agli scrittori) o come avviene in Purezza: «Mi tolgo i vestiti e li lascio in un mucchio / come se fossi morto sciogliendomi e il mio lascito fosse solo / una camicia bianca, un paio di pantaloni, e una teiera di tè non più caldo. / Poi mi tolgo la pelle e l’appendo a una sedia. / La sfilo dalle ossa come fosse un vestito di seta. / Lo faccio perché quel che scrivo sia puro, / completamente sciacquato dal carnale, / incontaminato dalle preoccupazioni del corpo. / infine mi tolgo tutti gli organi e li dispongo / su un tavolino accanto alla finestra. / non voglio sentire i loro ritmi antichi / mentre cerco di battere a macchina il mio intimo battito».

La sua spoliazione, pertanto, è un nudo slittamento che insegna a percepire il fitto folto di vita e morte. Scrive Charles Simic: «A un poeta come Billy Collins una poesia offre l’opportunità di distanziarsi dalla “Poesia”. Il mai-visto-prima, il mai-sentito-prima è ciò a cui aspirano i poeti del suo tipo. Essi si affidano al loro senso del comico per difendersi da una retorica d’accatto. Per quel che li riguarda, è meglio sentirsi accusare di fare i buffoni o i matti che non avere la taccia di pappagalli e indossare il costume di una qualche antiquata moda letteraria».

Il vestito di Collins non è una «corda legata a una sedia», come certi critici o professori tentano di fare della poesia, per «torturarla finchè non confessi», colpirla con un tubo di gomma «per tirar fuori che cosa davvero vuol dire», anzi, come avviene in Balistica (2011), la sua tensione originaria mira alla linearità dei bersagli, alla primordialità dei passaggi e degli spazi nuovi, alla voce non sovra strutturata, come approdo, tregua e scandaglio di abisso.

Chiede ai lettori di unirsi a lui per iniziare una fitta sassaiola contro gli insegnanti che domandano cosa stesse cercando di dire il poeta (cita a tal proposito Thomas Hardy e Emily Dickinson imbrigliati nella loro incapacità di dire bene ciò che volessero dire), ma alla fine «noi nella classe di Inglese della terza ora della prof Parker / qui al liceo di Springfield ce la faremo».

La sua poesia mal sopporta questa imbrigliatura, l’interpretazione come sponda di senso. Il suo gesto poetico ama le ospitalità, i transiti aperti del mistero, l’accessibilità che introduce a inattesi spostamenti verso «reami di inscrutabilità, dove ci si può avvicinare alla verità solo con un gesto. Se ogni verso in una poesia fosse chiaro allo stesso modo, saremmo privati delle ambiguità e dei segreti di cui la poesia, da sempre, è stata il mezzo migliore di esplorazione; se ogni verso fosse illeggibile non avremmo terreno su cui stare in piedi, non avremmo un posto da cui guardare il grande enigma al centro delle nostre esistenze».

Ecco il fuoco di Billy Collins che porta in giro la sua voce nel mondo, allontanandola dalla vivisezione dell’anatomista. Il suo microcosmo compare per mettere in scena un proiettile che corre preciso, come quello che ha perforato un libro di un poeta non amato, facendo esplodere le pagine. La pallottola perfora ogni anfratto di carta delle poesie della sua infanzia, fino alla foto dell’autore «attraverso la barba, gli occhiali rotondi, / e quello speciale cappello da poeta che gli piace indossare».

Lo humour serve l’ordinario in una grande arguzia associativa, in cui i connubi della sua arte realizzano teatro e abisso, voce aperta e sintassi accesa, poesia di linee e quadro scrostato.

In una intervista rilasciata a Franco Nasi, al quale si deve il merito di aver fatto sfociare la sua poesia in Italia, Collins ricorda le sue influenze. Dal latino imparato senza particolare attenzione, quando serviva messa e poi risultato essere un’ arcana espressione sensoriale, alle rubriche di bridge delle riviste che hanno scoperchiato in lui un orizzonte e un linguaggio quasi esoterici, che riportano a Stevenson e al Settimo Sigillo di Bergman, persino in frasi come «Sud vince con l’asso del morto, prende l’asso di picche e taglia quadri», infine  ai cartoni animati di Warner Brothers.

La suggestione dell’abisso è la sua coperta apertura di una narrazione scomposta e poi continuamente ricomposta, come la morte di un suo vicino di casa con un figlio, che mescola indirizzi e numeri in una strana pioggia di maniche vuote, «Il peso dei miei abiti, non dei suoi / potrebbe essere appeso nell’oscurità di un armadio oggi».

La sua vocazione diviene segno e fenditura di una rivelazione che svolta nell’esistenza, come scelta dell’essere: «Se mai ci fosse un giorno di primavera così perfetto, / reso ancor più bello da una calda brezza intermittente, / da spingerti a spalancare / tutte le finestre di casa, / e ad aprire la porticina della gabbia del canarino, / anzi, a rimuoverla dallo stipite, / un giorno in cui i vialetti di freschi mattoni / e il giardino che scoppia di peonie / sembrassero incisi nella luce del sole / da farti venir voglia di prendere / un martello per il fermacarte di vetro / del tavolino del salotto / e liberare così gli abitanti / dal cottage coperto di neve / perché possano uscire / tenendosi per mano e ammirare / questa cupola più grande azzurra e bianca, / be’, oggi sarebbe proprio un giorno così» (Oggi).

  

Collins B., Balistica, Fazi, Roma 2011.  

Id.,  A vela in solitaria intorno alla mia stanza, Fazi, Roma 2013.

Antonelli S. (ed.), Ritratti americani. 15 scrittori raccontano gli Stati Uniti, Elleu Multimedia, Roma 2004.

Darlin R., Billy Collins: Sailing alone around the room: New and selected poems, «http://www.expansivepoetryonline.com/journal/rev112001b.html».

D’Orrico A., Billy Collins senza humour non c’è poesia, in “Corriere della Sera”, 25 settembre 2011.

Hilbert E., Wages of fame: The case of Billy Collins «http://www.cprw.com/Hilbert/collins2.htm».

Simic C.,  recensione a A vela in solitaria intorno alla stanza, trad. di P.F. Paolini. in «La rivista dei libri», 11, 2006.

Spadaro A., Nelle vene d’America, Jaca Book, Milano 2013.

FEMMINICIDIO:PERSECUZIONE O VIOLENZA? TERZA ED ULTIMA PARTE

violenza-donne

di Emanuele Mascolo

III parte

11 dicembre 2013

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C’è voluto un termine straniero per arrivare a perseguire in Italia il femminicidio, non bastava il termine PERSECUZIONE? …

È questo un passaggio di una rappresentazione teatrale alla quale ho assistito il 25 novembre, giornata mondiale contro la violenza sulle donne.

Passaggio che mi ha molto colpito e che credo sia utile per riflettere: si parlava di Santa, una ragazza di Palo del Colle (BA) di soli 23 anni la quale verrà colpita mortalmente dal un giovane sotto il portone di casa.

Spesso quando si parla di violenza sulle donne, si parla di violenza di genere, nella cui definizione, rientra anche la violenza contro un minore, ugualmente e in vario genere oggi diffusa, purtroppo.

Tale tipo di violenza, pone l’accento sull’approccio, tassativamente sessuale della violenza, il voler predominare dell’ uomo sulla donna, usandole violenza fisica e atrocemente morale perché tenta di annullare la figura femminile.

La violenza sulle donne è stata definita già nel 1933, come  “qualsiasi atto di violenza per motivi di genere che provochi o possa verosimilmente provocare danno fisico, sessuale o psicologico, comprese le minacce di violenza, la coercizione o privazione arbitraria della libertà personale, sia nella vita pubblica che privata.”[1]

Nella violenza di genere può certamente farsi rientrare la violenza domestica (abusi sessuali,delitti di onore, uxoricidi – di cui nell’ordine ci occuperemo a seguire – ) spesso commessi all’interno del nucleo familiare da parenti e, in altri casi, da conoscenti.

Rientra certamente nelle violenze di genere il femminicidio che nel modo più semplice possibile in questa rubrica abbiamo cercato di riportare all’attenzione dei lettori evidenziando anche alcuni aspetti storico – giurisprudenziali.

Articoli correlati: Prima Parte, Seconda Parte, Conferenza: La violenza nella relazione di coppia

 [1]  Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne, art.1.

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La velatura di Vittorio Sereni

di Andrea Galgano                                         30 novembre 2013

poesia contemporanea La velatura di Vittorio Sereni

vittorio-sereni

«Sereni nasce come un ermetico sui generis, che corteggia il racconto esistenziale e non crede nel primato della letteratura sulla vita; è un evocatore di spiriti, ma tiene lontani gli spiritualisti e Freud; s’inventa uno stile magmatico, ma mai avanguardista o espressionista; è un poeta di oggetti concreti, ma al tempo stesso di trasalimenti e indefinibili umori; abbozza affreschi storici, ma malgré lui, perché la storia gli si impone coi contraccolpi che determina nella vita interiore: dà conto della crisi del soggetto, ma non rinuncia a dire «io», oscillando tra polo lirico e prosastico […]; infine, è a suo modo socialista: però si tratta di un socialismo privo delle coperture ideologiche marxiste, che fa tutt’uno con un illuminismo lombardo d’antan aggiornato dall’eclettica fenomenologia di Banfi» (Matteo Marchesini, da «Sereni,  mito esile e prezioso», “Il Sole 24ore”, 27 gennaio 2013).

La poesia e la moralità di Vittorio Sereni (1913-1983) risiedono nella purezza dell’intesa o in quello che Alfonso Berardinelli chiama «attesa ansiosa, nel suo essere sorpreso e strappato a se stesso dalle “visitazioni della poesia”».

Era poeta della guerra, Sereni. Una guerra strappata, vertiginosa e perduta. Ma anche poeta-funzionario editoriale. Egli stesso considerava, infatti, questa professione una espressione di concretezza e di rigore, un lavorìo che parte da lontano, investe l’esilità reticente e il pudore della sua pagina, con l’estremo riserbo di una conversazione che tende via via sempre più al monologo, alla trama della perdita e dell’assenza a bassa voce.

Se in molti videro, in lui,  l’uscita della poesia italiana dall’Ermetismo, egli rappresenta una sorta di enclave poetica, uno spazio vibratile e lirico che canta la terra d’Algeria o espone il suo canto al senso segreto del verso.

Scrive Roberto Mussapi: «La dimensione orizzontale di Sereni, così felice nel suo incanto addolorato per i paesaggi albari e serali, per gli istanti di passaggio che segnano la vita della comunità umana, non esclude una sua esplorazione verticale, in profondità. Semmai la prospettiva si sposta dall’uomo in toto, dalla realtà antropologica, all’uomo Sereni, al poeta che fa della propria cronaca doloroso e luminoso campo di esplorazione della vita. Il dominio del chiaroscuro, della tenuità, la mancanza di visionarietà, generano una poesia misteriosa proprio nella sua nitida leggibilità, tremante e nello stesso rivelante». 

La rivelazione, se da un lato conduce all’agglutinamento espressivo, dall’altro condensa la pagina in una registrazione e in una pressione d’attesa: «Programmare una poesia “figurativa”, narrativa, costruttiva, non significa nulla, specie se in opposizione di ipotesi letteraria a una poesia “astratta”, lirica, d’illuminazione. Significa qualcosa, nello sviluppo d’un lavoro, avvertire un bisogno di figure, di elementi narrativi, di strutture: ritagliarsi un milieu socialmente e storicamente, oltre che geograficamente e persino topograficamente, identificabile, in cui trasporre brani e stimoli di vita emotiva individuale, come su un banco di prova delle risorse segrete e ultime di questa, della loro reale vitalità, della loro effettiva capacità di presa. Produrre figure e narrare storie in poesia come esito di un processo di proliferazione interiore… Non abbiamo sempre pensato che ai vertici poesia e narrativa si toccano e che allora, e solo allora, non ha quasi più senso il tenerle distinte?».

La fame di realtà tocca il mondo nei sui punti e nei suoi slarghi, spesso umbratili ed fantasmatici, ma egli, come scrive Daniele Piccini su «Poesia» del settembre 2013, «rimase fedele a quel mondo, per molti aspetti: all’opposizione tra una solarità agognata e il senso di una limitazione oscura e angosciosa (insomma al «cortocircuito fra vitalità e morte costitutivo della poesia sereniana», come si esprime Mengaldo); alla presenza, soprattutto, di una “frontiera”, termine e tema massimamente polisemico».

La vita e la morte in limine, così come lo spazio di percussione tra sogno e veglia, come una peripezia del poeta nello spazio urbano, si appropriano di un punto in movimento che conosce l’esilità fissa della gioia e la dolorosa cronaca della morte, la nullificazione minacciosa e la magia fascinosa dei luoghi.

La partenza e l’arrivo identificano il suo tempo e la concreta esperienza poetica, ossia, come afferma Lanfranco Caretti, «il tempo della lampeggiante chiarezza entro l’aggrovigliato flusso dell’esistenza, nel tempo “presente”».

Il rapporto del tempo presente, pertanto, «porta costantemente in sé il proprio passato: non come ingombro o museo memoriale, bensì come attualità, o per dirla con lui stesso, come una somma di “sostanze, ossia di qualcosa di ben più fondo, ben più inamovibile e inalienabile dei ricordi».

La densità e la complessità del presente illumina porzioni di passato sempre in atto, slanci sperduti, fallite assenze, come «toppe d’inesistenza, calce o cenere / pronte a farsi movimento e luce».

L’esistenza, quindi, slancia la sua paratia in un recupero patrimoniale di esperienze e visioni che si sovrappongono, le sfumature riprendono il vertice dei suoni per dare vita a un gioco di specularità e iterazione, dissolvenza e ricorrenza.

Nell’esordio poetico Frontiera (1941), il caleidoscopio sereniano declina le sue pitture e i suoi idilli in un’ombra sfacelante (molto simili al Coleridge de La ballata del vecchio marinaio), dove il delineamento di figure incerte che si attardano e il viaggio acquoso (Luino e il suo paesaggio di confine-limbo) percorrono la sua linea d’ombra originaria, che transita solo per dissolversi e scomparire, per abbandonarsi nella luce e nello strazio di un congedo sfasato («La svelata bellezza dell’inverno»). Un tentativo di accordare immagini minacciose e silenti con il sotteso delle rotture e della fissità sfumata, in ciò che Silvio Ramat definisce come «passione trepida di romanzo»: «Un altro ponte / sotto il passo m’incurvi / ove a bandiera e culmini di case / è sospeso il tuo fiato, / città grave […] Maturità di foglie, arco di lago / altro evo mi spieghi lucente, / in una strada senza vento inoltri / la giovinezza che non trova scampo».

La donna-lago, che chiude l’opera, ammalia e nullifica, colloca l’immagine bianca e invernale del tempo in un rapimento inquietante e immobile, in cui la pienezza vivente si sorprende nell’abito mortale dell’inverno e della sua sospensione tacita: «S’imprimeva in me un senso di diffuso biancore, con riflessi metallici, ghiacciati, invernali, quasi avessi a che fare con una metafora dell’inverno; e già questo era fuorviante, quanto più una giustificazione e una caratterizzazione di ordine visivo mi offriva una scappatoia semplicemente sensoriale rispetto alla reale,e fin lì impenetrabile sostanza del testo».

La stessa atmosfera si riscontra in Diario d’Algeria (1947), dove il diarismo culmina nella dolorosa esperienza personale. Catturato a Trapani col suo reparto dagli Angloamericani nel 1943, venne trasferito nell’Africa del Nord nei campi di prigionia di Orano e Casablanca.

È l’esperienza-limite dei fantasmi della Storia, l’essere margine escluso di qualcosa che si svolge altrove, per essere «morto alla guerra e alla pace», sull’orlo indicibile del tempo, sul trabocco metafisico «tra due epoche morte / dentro di noi». Partecipe e inadatto: «Vado a dannarmi e insabbiarmi per anni» o ancora «Ora ogni fronda è muta / compatto il guscio d’oblio / perfetto il cerchio».

Afferma Daniele Piccini: «Sereni, al contrario di Luzi, è il poeta del cimento, della paziente e difficile conquista di un verso, di una scena, di una figura: non procede con la miracolosa facilità che possiamo riconoscere nel fiorentino e, in modo diverso, in Bertolucci, ma con studio, per filtraggi, per condensazioni».

La sua rarefazione è frutto di uno sforzo ed è sempre minacciata dalla paura del silenzio, dell’angoscia di non poter scrivere, da una permanente perplessità. Egli muove da questi limiti interiori, da questi assilli e trova il modo di superarli, anche attraverso una stratificazione di voci e di registri, di suggestioni e di spunti combinati in organismi complessi e sfuggenti».

La sostanziale purezza lirica che si unisce al suo precedente libro fa spazio all’isolamento e all’inazione, al trauma che scocca i suoi segni, alle ferite partecipate. L’essenziale raspamento, che quell’esperienza porta con se, determina un graduale passaggio viandante e poi prigioniero. Il vento, il sole, le nubi sono legati a una dura sostanza corporea, a una geografia incolore, a uno straziato ed esule cromatismo.

Il residuo della vitalità si richiama nei ricordi, quasi salvati, e allo stesso tempo sfumati, perché «la voce più chiara non è più / che un trepestio di pioggia sulle tende». La mancanza, il vuoto, l’isolamento giacciono nel fondo umano la loro immobilità larvale e purgatoriale, «Sereni», scrive Giulia Raboni, «costruisce nella prigionia un guscio protettivo che finisce per rinchiuderlo in una sorta di limbo, non troppo duro da sopportare ma insieme, anche per questo, tanto più colpevolizzante».

Lo scatto e l’affondo distinguono nuove sovrapposizioni, affermando l’esigenza di difendere i tratti degli istanti significativi, per «produrre figure e narrare storie in poesia come esito di un processo di proliferazione interiore». È l’esito di una pronuncia nascosta che cerca salvezze antiche, l’io che sceglie in modo privilegiato.  

La trasformazione e l’ampliamento del lessico di Saba e Montale, se da un lato impongono una modernità verso il basso, precipui a un territorio vastissimo, dall’altro contestualizza l’espressione in un movimento preciso e quotidiano, come testimonia Laura Barile nel suo saggio Amore e memoria, ripercorrendo ciò che lo stesso Sereni afferma: «Un istinto incorreggibile mi indusse a riprodurre momenti, a reimmettermi in situazioni trascorse al fine di dar loro seguito, sentirmi vivo […] Perché facilmente una forma di presunta fedeltà alla propria immaginazione si pietrifica nell’inerzia, in una stortura».

La fase di attraversamento nel tempo del dolore e della perdita diviene esperienza vissuta e coltre d’amore: «ama dunque il mio rammemorare / per quanto qui attorno s’impenna sfavilla e si sfa: / è tutto il possibile, è il mare».

La sovrapposizione di piani, pertanto, accende la sua umbratile luminosità, Ancora sulla strada di Zenna testimonia il riflesso di una esclusiva immanenza; Il muro persegue un dialogo notturno con il padre, mentre osserva una partita di calcio davanti al cimitero di Luino («Dice che è carità pelosa, di presagio / del mio prossimo ghiaccio, me lo dice come in gloria / rasserenandosi rasserenandomi / mentre riapro gli occhi e lui si ritira ridendo / – e ancora folleggiano quei ragazzi animosi contro bufera e notte- lo dice con polvere e foglie da tutto il muro / che una sera d’estate è una sera d’estate / e adesso avrà più senso / il canto degli ubriachi dalla parte di Creva»), La spiaggia condensa passaggi epifanici attraverso una conversazione al telefono.

La perlustrazione del vuoto esprime un movimento inconsolabile, il sigillo di qualcosa di inespresso e perduto: «e dopo / dentro una povere di archivi / nulla nessuno in nessun luogo mai», o ancora «E quante lagrime e seme vanamente sparso», «Ancora non lo sai / – sibila nel frastuono delle volte / la sibilla, quella / che sempre più ha voglia di morire – / non lo sospetti ancora / che di tutti i colori il più forte / il più indelebile / è il colore del vuoto?».

Eppure in Sereni permane, afferma Daniele Piccini «struggente e lucida, direi virile, la suggestione di una gioia che si oppone a quelle ombre e che ne è istantanea e non metafisica risposta. […] La compressione dolente, propriamente angosciosa del discorso di Sereni determina il liberarsi di forze in senso contrario, di fioriture fortunose, che non si attentano a rovesciare il discorso, a risolverlo, ma a tenerlo in una drammatica tensione, in una dinamica aperta a più significati, scaturiti dalla frizione e dalla clausura».

Negli Strumenti umani (1965), l’aggressione alla pienezza della prima persona sembra richiamarsi al silenzio, alla sovrapposizione dei gorghi di voce, all’eloquenza e alla moralità, attraverso «un tentativo», come afferma Franco Loi, «di sfuggire al Narciso, di cogliere, attraverso la poesia, “gli strumenti umani”, le “minime” verità della sua vita, “i minimi atti”, e nel tentare questo la moralità traspariva come specchio, rigoroso varco e “tornasole” per la sprezzata-amata, e tuttavia ovunque riemergente, compiacenza dell’Io».

L’estremo sforzo di riallacciarsi alla necessità delle fatiche, degli amori, della storia degli ignoti diventa il riflesso sulla propria condizione precaria e oscura, in quelle «toppe di inesistenza» che culminano come solitari emblemi e punti ciechi di assenza: «I morti non è quel che di giorno / in giorno va sprecato, ma quelle / toppe d’inesistenza, calce e cenere / pronte a farsi movimento e luce». L’immanenza trema di gioia, come sperpero di disseminata grazia: «con che fermezza che forza quelle mani / tendevano al sonno gli arbusti / strappati all’ultima riva».

Non esiste, in Sereni, un colore lugubre, né un soprassalto metafisico o una lamentazione, ma la materia del mondo è la sorvegliata misura della morte, che accetta la prigionia in un campo senza cromatismi: «L’anima, quella che diciamo anima e non è / che una fitta di rimorso, / lenta deplorazione sull’ombra dell’addio».

Gli asettici inferni delle fabbriche, l’essere visitatori del mondo, la mimesi del paesaggio toccano il buio della mente, il rumore che si somma per divenire straniero, per credere, come sostiene Mengaldo: «alla funzione rappresentativa anche per altri di una sua particolare esperienza, e della “morale” che ne scaturisce; e in questo senso crede ancora, problematicamente, alla poesia».

Il decorso biografico si appropria dei riflussi, della estrema esiguità di un mito esile: «Siamo passati come passano gli anni, / Altro di noi non c’è qui che lo specimen anzi l’imago / Ma ero / io il trapassante, ero io / perplesso non propriamente amaro».

L’agguato e l’insidia della realtà negativa abita la pagina, come comparsa di lacuna e referto estranei, ma non ammutina la serenità vitale della protezione dell’amicizia, dello scoscio sonoro e del lievito quotidiano, volti a eternare, cristallizzare e conferire la transizione vertiginosa e memorabile del passaggio multiforme dell’esistere: «Niente ha di spavento / la voce che chiama me / dalla strada sotto casa / in un’ora di notte: / è un breve risveglio di vento, una pioggia fuggiasca», oppure «Confabula di te  laggiù qualcuno: / l’ineluttabile a distesa / dei grilli e la stellata / prateria delle tenebre».

La rimarginazione tessuta fino all’osso di Stella variabile (1981) compone il suo referto in una spoliazione estrema: «non lo sospetti ancora / che di tutti i colori il più forte / il più indelebile (/ è il colore del vuoto?».

La trasparenza emorragica dei giorni impone il suo ritardo e il suo rimorso per una mancanza, un’omissione, un ricordo riportato in vita, come aria popolosa. Aveva ragione Fortini, quando scrisse che la poesia di Sereni si muoveva tra indugi elegiaci e scatti di impazienza, quasi a farsi permeare da una crucialità di palcoscenici di varia esistenza e di incertezza.

«Ma da queste situazioni spettrali, prive del risarcimento ideologico che hanno in Montale» sostiene Matteo Marchesini, «Sereni riesce a difendersi. Capita quando intravede un riflesso di quella pienezza vitale che è il suo vero mito. Questa pienezza si rivela nell’amore: ma soprattutto nell’amicizia, e nella grazia dell’efficienza fisica».

Dagli strumenti umani, attraversatori di vita, alla straziata prospettiva stellare, proiettata e dislocata in un ambito memoriale di sogni e trapassi, che trascolora di rinunce, commozioni e stravolgimenti, finisce per «Stringersi / a un fuoco di legna / al gusto morente del pane alla / trasparenza del vino / dove pensosamente si rinfocola / il giorno da poco andato giù / dalle rupi col grido dei pianori / nel vello dei dirupi nel velluto / delle false distanze fin che ci piglia il sonno?».

Il baleno che vive a ridosso della gioia è la stella variabile di un armistizio, verso una memoria che non sfama mai, come il nudo stupore, ricolmo di brivido, verso se stesso, che abbandona e si avvicina alla vita, si sporge dal sogno e dal paesaggio inafferrabile di quel «viandante stupefatto / avventurato nel tempo nebbioso».

 

Sereni v., Poesie e prose, Mondadori, Milano 2013.

Id., Materie prime, in «La Rotonda», Almanacci Luinese 1981, F. Nastro, Luino 1980.  

Aa.Vv., Per Vittorio Sereni. Convegno di poeti, Luino 25-26 maggio 1991, a cura di Dante Isella, All’insegna del Pesce d’oro, Milano 1992.

Agosti S., La poesia di Vittorio Sereni, Librex, Milano 1985.

Baffoni Licata M.L., La poesia di Vittorio Sereni, Longo, Ravenna 1986. 

Barile l., Amore e memoria. Il rammemorare e il mare di Sereni, «Autografo», vol.V, n.s., n.13, febbraio, 1988.

Ferretti C., Poeta e di poeti funzionario, Il Saggiatore, Milano 1999.

Luzi a., La poesia di Vittorio Sereni: se ne scrivono ancora, Stamperia dell’Arancio, Grottamare (AP) 1997.

Memmo F.P., Vittorio Sereni, Mursia 1973.

Mengaldo P.V., Per Vittorio Sereni, Aragno, Roma 2013.

Raimondi S., La “Frontiera” di Vittorio Sereni. Una vicenda poetica (1935-1941), Ed. Unicopli, Milano 2000.

Rondoni D., Sereni, il punto fermo o il punto morto?, in Non una vita soltanto. Scritti da un’esperienza di poesia, Marietti, Genova 1999.

Schuerch R., Vittorio Sereni e i messaggi sentimentali, Vallecchi, Firenze 1985.

 

 

 

Walt Whitman e la fecondità dell’essere

di Andrea Galgano                                         20 novembre 2013

Poesia moderna Walt Whitman e la fecondità dell’essere

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H.D. Thoreau scrisse che Walt Whitman (1819-1892) «con il suo vigore e con il grande respiro dei suoi versi, mi mette in uno stato mentale di libertà, pronto a vedere meraviglie; mi porta, per così dire, in cima a una collina o al centro di una piana; mi scuote e poi mi getta addosso migliaia di mattoni», e in questa visionaria tessitura si può scorgere come Whitman, con il suo Foglie d’erba, rappresenti il crinale estremo di un canone che racchiude un popolo in un poema, lo accarezza nelle linee storiche e, infine, lo pronuncia: «Gli americani, di tutti i popoli che sono mai apparsi su questa terra, possiedono forse la natura poetica più piena. Gli Stati Uniti in sé, nella loro essenza, sono il più grande dei poemi. […] Qui finalmente troviamo nell’umano operare qualcosa che risponde all’operare maestoso del giorno e della notte».

La voce di Whitman non si nasconde nella prosopopea retorica, bensì, nelle sfumature profonde, insegue la sua freschezza vitale, come «i poeti del cosmo» che «avanzano attraverso tutte le interferenze, gli occultamenti, i turbamenti e gli stratagemmi verso i primi principi».

La celebrazione scolpita, come forza e abbandono, della materia vivente, l’aspetto numinoso della realtà e la sospensione rappresentano il suo territorio unico, laddove «qualunque possa essere stato nel passato, il vero uso della immaginazione nei tempi moderni è quello che vivifica i fatti, la scienza e la vita comune, dotandoli di quello splendore, quella gloria e quella fama che appartengono a ogni cosa reale, soltanto alle cose reali. Senza questa definitiva vivificazione – che solo il poeta o l’artista può mettere in atto – la realtà sembrerebbe incompleta,e la scienza, la democrazia, la vita stessa alla fine, cosa vana».

Se il suo canto si sofferma sull’abbandono alle forme di «cameratismo», «allegria», «soddisfazione», «speranza», la furiosa scultura del vivente e la calura del suo magma introducono, come scrive Giuseppe Conte: «la pulsante istantaneità della vita nella poesia e nel verso. Il vivo del Tempo, l’immanenza, ciò che di misterioso e palpabile lega l’io all’universo. Se esiste una poesia inafferrabile, del puro presente, quella di Whitman è la migliore del genere».

Nato in un villaggio di Long Island nel 1819, tipografo, carpentiere, giornalista, Whitman ha assaggiato le grandi masse democratiche dell’America, come un grande fiume che trascina forze commiste, nei giorni in cui stava diventando una grande Nazione, da New Orleans a Chicago, fino a New York, passando per il Mississippi, i Grandi Laghi e il fiume Hudson, in un’estatica virulenza fiduciosa, nelle forze dell’uomo, nel canto-bardo universale, come «Adamo nel primo mattino, che usciva di sotto il riparo di fronde, ristorato dal sonno» (Figli d’Adamo).

La felice brillantezza del mattino dell’umano impone la sua purezza senza peccato, racchiude il gemito e l’ardimento di una imprescindibilità valoriale, assoluta e primigenia: «Io dico che l’intera terra e le stelle universe nel cielo esistono per la religione. / Dico che nessun uomo è mai stato abbastanza devoto, neppure la metà del necessario».

È la religione che permette l’unione inclusiva e fulgida dello sforzo umano, nell’ Amore e nella Democrazia: «Noi non consideriamo divine le bibbie e le religioni – e io non dico che non siano divine, / Ma dico che sono nate da voi, e da voi altre volte possono nascere ancora».

La lettura del Vecchio e del Nuovo Testamento, come analizzato acutamente da G.W. Allen, di Shakespeare, di Omero, di Eschilo, del Canto dei Nibelunghi, hanno innalzato il pinnacolo della poesia stuporosa e ampia dell’uomo e del suo definitivo istante, come afferma David Herbert Lawrence: «Senza principio né fine, senza né base né frontone, continua a passar vicino superbamente, come un vento che trascorre senza posa né si può incatenare. Whitman in realtà guardava al prima e al dopo: ma non sospirava per ciò che non è. La chiave di tutto il suo segreto espressivo sta nella stima del momento istantaneo e nient’altro, della vita che si gonfia essa medesima in espressione alla sua reale sorgente».

La feconda prosodia partecipa alla elencazione scandita del mondo. Le novità della scrittura rinomina il mondo in un nuovo parto di energia originaria, come ritmo e pazienza di splendore.  

La poesia è l’Evento del destino, in cui la complicanza, grezza ed entusiasta del suo ritmo panteistico e democratico, apre la sua recitazione.

G.K. Chesterton, soffermandosi sulla «materia per poetare misticamente» che valorizza l’umano in Whitman, in L’umanesimo è una religione? scrive: «Ciò che apprezzavo era quella proposta di una nuova eguaglianza, che non consisteva in uno squallido livellamento, ma in un entusiastico guardare in alto; un grido di gioia sul semplice fatto che gli uomini erano uomini. […] ognuno di essi possedeva quella maestà e quella mistica propria degli dei, pur essendo nello stesso tempo franco e confortante amico», e continuando afferma che «La gloria apparteneva agli uomini in quanto tali; il culto comune andava cercato nell’amicizia e anche la persona meno importante deve poter far parte di questa fratellanza; un negro gobbo mezzo scemo, orbo da un occhio e con tendenze omicide, deve anche lui avere la sua aureola dorata e illuminata».

La poesia che abbraccia, esonda, diviene coraggiosa, che guarda alla gente comune, all’interezza di un popolo, fatta di falegnami, boscaioli, calzolai, diviene immagini di un grido barbarico fresco e spontaneo: «Io canto il sé, la semplice singola persona, / E tuttavia pronuncio la parola Democratico, la parola En masse».

Commenta Giuseppe Conte: «C’è un che di fluido, organico, tempestoso, innocente, progettante, esclamativo in lui, un’enfasi, una volontà predicatoria, un pioneristico respiro vitale, una corporeità selvatica che fonda una saldissima, idealistica fede nella democrazia, una visione attiva del mondo e del linguaggio, […] la poesia di Whitman si pone da un lato come forza eversiva, energia che libera energie, pratica che scardina il conformismo di ogni ordine, dall’altro come canto che celebra, glorifica il presente, la realtà nei suoi aspetti ora minimi, un filo d’erba che nasce, ora solenni, un eroe che cade».

È nel popolo che la Musa trova dimora, il luogo oltre tempo dove esaltare la presentificazione del reale e radicarla in esso, parlando a chiunque: «Ecco, io ti presento, qui oggi, o Musa, / Le occupazioni tutte, i doveri grandi e modesti, / Il lavoro, il sano lavoro e il sudore infiniti, incessanti».

La semplicità gioiosa si affaccia allo spirito del Paese, per «esprimersi letterariamente con la perfetta rettitudine e insouciance dei movimenti degli animali e l’incontestabilità del sentimento degli alberi nei boschi e dell’erba ai margini delle strade».

Ecco la vastità dell’io che tocca il mondo, la sua avventura, la sua dilatazione ricettiva: «Dentro me le latitudini si ampliano, le longitudini si allungano», per essere «Una snella nave che gonfia le vele, piena di ricche parole, piena di gioie» e dove inalare, aspirare con avidità «lunghi sorsi di spazio, / l’est e l’ovest sono miei e il nord e il sud sono miei, / Più grande, migliore son io di quello che pensassi, / Io non sapevo di avere in me tanta bontà. / Tutto mi sembra bello».

La fulgida corrispondenza tra corpo e io, nazione a terra, compone il suo gemito: «Fate che possa contenere tutti i suoni (io grido come un folle) / Riempitemi di tutte le voci dell’universo, / datemi i loro palpiti, anche quelli della Natura, / E le tempeste, le acque, i venti, le opere e i cori, le marce e le danze, / Cantateli, versateli in me, perché io tutto vorrei contenere».

Commenta padre Antonio Spadaro: «Le visioni whitmaniane mai si fermano ad una tensione visiva astratta o vagamente fantasiosa perché il poeta si fa subito veggente del concreto e del reale. Dunque lo appassionano non solo la natura, i suoi campi aperti, le tempeste, le montagne e il mare, ma anche «l’opera dell’uomo» che ”è egualmente grande nell’artificiale – in questa profusione di brulicante umanità – in queste prove di ingegnosità, strade, merci, case, navi – queste frettolose, febbrili, elettriche, masse d’uomini”».

L’ebrietudine della pienezza soffia sulle strade, sulle linee compiute e infinite, sui lacci che sfiorano gli spazi: «Su, anima, non scorgi tu subito lo scopo di Dio? / Che la terra è percorsa e congiunta da reti di strade e di ferro, / Le razze, i vicini sono congiunti perché si sposino e siano sposati, / Gli oceani sono attraversati per avvicinare chi è distante, / E per cucire insieme le terre». La maestà della vita e la maestà del reale in un unico vertice di vertigini esplose.

La pulsazione, la potenza, la passione congiungono la loro visione metaforica, finendo per cogliere il «filo che connette le stelle, gli uteri e il seme paterno» e, come commenta ancora Conte, «per questa visione, tutto è divino, il poeta è divino dentro e fuori di sé, e così santifica tutto ciò che tocca, ed è santificato da ciò che lo tocca».

Il respiro di Whitman cerca la inaugurale vibrazione, la vorace estasi, l’incarnazione della cosa pensata, come barbarico battito dispiegato che insegue la chiarezza materica, la fragranza che sboccia, per giungere, come commenta Spadaro, «alla natura vera delle cose, per vedere le cose con occhi vergini»: «Tutte le verità attendono in tutte le cose, / Esse né affrettano la propria liberazione, né resistono, / Non richiedono il forcipe dell’ostetrico: / L’insignificante è così grande per me, come ogni altra cosa».

Scrive Harold Bloom: «Whitman divideva se stesso (o riconosceva se stesso come diviso) in «my self», «my soul», e «real Me» non è per nulla un Es. […] Questo «Me myself» non è esattamente «bramoso, grezzo, mistico, nudo» e nemmeno «turbolento, carnale, sensuale, che mangia, che beve e procrea». Aggraziato e in disparte, assolutamente equilibrato, affascinante oltre misura, questo strano «real Me» è maschile e femminile, molto americano per quanto non rude, stimolante e in accordo con se stesso. Qualunque cosa sia l’anima di Whitman, questo «Me myself» non può evidentemente avere con essa alcuna relazione egualitaria». Quando l’ «Io» di Whitman si rivolge all’anima, sentiamo un avvertimento».

La sua catalogazione è la declamazione dell’essere, pensato, ricreato, innovato, persino guardato con sfrontatezza, come un cosmo dilatato che si presenta. La maschera del suo io ideale che fronteggia il suo io reale e vero. È in se stesso che ogni uomo è tutto: «Walt Whitman, americano, uno dei duri, un kosmos / turbolento, fatto di carne e ossa», perché ciò che costituisce la sua idealità «non costituisce il mio Io. Ciò che io sono in disparte sta da quanto mi attira e trascina, / Se ne sta divertito, compiacente, compassionevole, inattivo, in se conchiuso, / Guarda dall’alto in basso, eretto, o piega il braccio su un punto di impalpabile quiete, / Guarda col capo reclinato, curioso di ciò che accadrà, / Partecipe e fuori del gioco, osserva e stupisce».

Lo stupore conosce. Cosicchè «Deluso, respinto, piegato a terra / Oppresso da me stesso, che ho osato aprir bocca, / Conscio ora che tra tante vane parole, i cui echi ricadono su me, non ho mai avuto la minima idea di chi o che cosa io sia, / Ma che di fronte a tutte le mie arroganti poesie il mio vero Io resta intatto, inespresso, tuttora inattinto, / e, ritiratosi lontano, mi irride con beffarde congratulazioni e inchini, / Con scrosci di lontane risate ironiche per ogni parola che ho scritto, / in silenzio indicando questi canti, e poi la sabbia che m’è sotto i piedi, / m’avvedo che non ho mai nulla capito, neppure una cosa, e che nessuno vi riesce, / La natura, qui, in vista del mare, approfittando di me per scagliarsi su me e ferirmi, / Perché ho avuto l’audacia d’aprir bocca e cantare».

Il prodigioso vortice dell’essere si attesta in una radicale novità originaria che esalta l’individuo, il singolo, ma anche la massa e l’eguaglianza, per essere una istintiva e ubertosa libertà, farsi natura, concepire la vitalità come prodromo di desiderio, allegoria sognante di abbagli, larga e piena di moltitudini.

L’esperienza della guerra civile rappresenta la trama ferita di una stagione che apre il sentiero della fatalità e del mistero inesplicabili, ma che scoperchia anche una pietà intensa, visiva, sofferente, persino scolpita, come avviene nella cristica morte di un giovane.

Quasi un vagito che cambia prospettiva: «Dovrò dunque mutare i miei canti trionfali? Mi chiesi, / dovrò imparare a cantare le fredde nenie dei vinti? / e i cupi inni degli sconfitti?».

Oppure geme nella preghiera sofferta di affidamento e di bacio, come tempio di anima navigante che percepisce il nome delle onde lontane: «Prossima è la mia fine, / le nubi già si serrano su me, / il viaggio è contrastato, dubbio, smarrito il corso, / i miei vascelli ecco li affido a Te. / Le mani, le mie membra son divenute inerti, / Il mio cervello, sotto le torture si smarrisce, / si sfasci pure la vecchia mia carcassa, io non mi sfascio, / Mi stringo stretto a Te, mio Dio, mi colpiscano pure le onde, / Te, Te almeno so».

Una foglia d’erba non è meno di un giorno di lavoro di tutte le stelle.

 

whitman W., Foglie d’erba, a cura di Giuseppe Conte, Mondadori, Milano 1991.  

allen G.W., «Biblical Echoes in Whitman’sWorks», in American Literature, VI, 1934.

Id., A reader’s guide to Walt Whitman, University Press, Syracuse (Ny) 1997.

Lawrence d.h., Studies in Classic American Literature, University Press, Cambridge 2003.

Manicardi L.,Walt Whitman e la poesia, Tip. Degli Artigiani, Reggio Emilia 1895.

Mathiessen F.O., Rinascimento americano. Arte ed espressione nell’età di Emerson e Whitman,

Enaudi, Torino 1954.

Pavese c., La letteratura americana e altri saggi, Einaudi, Torino 1951.

Pisanti T., Poesia dell’Ottocento americano, Guida, Napoli 1984.

Spadaro A., «Le verità attendono in tutte le cose». La poesia di Walt Whitman, in «La Civiltà Cattolica», II, 526.

Id., Nelle vene d’America, Jaca Book, Milano 2013.

27.3.2014: Aspetti Legali e Fiscali dell’Internazionalizzazione delle Imprese

CONVEGNO

Alba, 27 marzo 2014
Sala Convegni del Palazzo Banca d’Alba (Via Cavour n.4 – Alba)

LocandinaConvegnoInternazionalizzazione
Aspetti Legali e Fiscali dell’Internazionalizzazione delle Imprese – 27.3.2014

locandina in pdf  Convegno 27 03 2014

  • Iscrizione obbligatoria a convegni@agiconsul.org
  • Il Convegno è stato accreditato dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Alba con delibera del 13/03/2014 con l’attribuzione
  • ai partecipanti di n. 4 crediti formativi.
  • Il Convegno è stato accreditato dall’Ordine dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili di Cuneo.

PROGRAMMA

Registrazione: ore 14.30

Inizio lavori: ore 15.00

Saluti Introduttivi: Avv. Raffaele Battaglini (LL.M.; Segretario Generale AGICONSUL)

interventi

  • I contratti per l’internazionalizzazione delle imprese, Avv. Nemio Passalacqua (ufficio legale Ferrero S.p.A.)
  • I risvolti fiscali dell’impresa all’estero, Dottor Luca Ferrini (Ph.D.; dottore commercialista; professore a contratto Università di Torino; consiglio direttivo AGICONSUL)
  • La risoluzione delle controversie e il Third Party Funding, Avv. Giovanni Pera (associato AGICONSUL); Avv. Niccolò Landi (LL.M.; Studio Legale Gianni, Origoni, Grippo, Cappelli & Partners)
  • Africa e Medio-Oriente, Avv. John Shehata (Studio Legale Orrick, Herrington & Sutcliffe)
  • Un’esperienza imprenditoriale d’internazionalizzazione, Dottor Franco Morando (Amministratore Delegato Morando S.p.A.; consigliere Giovani Industriali Torino)

Conclusioni: Avv. Riccardo Cappello (Presidente AGICONSUL)

Moderatore: Avv. Riccardo de Caria (Ph.D; LL.M.; consiglio direttivo AGICONSUL)

Chiusura lavori: ore 18.45

INFORMAZIONI

Posti limitati
Iscrizione obbligatoria a convegni@agiconsul.org
Il Convegno è stato accreditato dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Alba con delibera del 13/03/2014 con l’attribuzione
ai partecipanti di n. 4 crediti formativi.
Il Convegno è stato accreditato dall’Ordine dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili di Cuneo.

AGICONSUL – Associazione Giuristi e Consulenti Legali –
Codice Fiscale 96344570583
e-mail: info@agiconsul.org
Sito: http://www.agiconsul.org
Via Davide Bertolotti, 7 – 10121 Torino
Tel. 011/08.66.155
Fax 011/197.198.43
Cell. 380/38.88.280
Con la collaborazione di
Aspetti Legali e Fiscali
dell’Internazionalizzazione delle Imprese
Alba, 27 marzo 2014
Sala Convegni del Palazzo Banca d’Alba (Via Cavour n.4 – Alba)

 

 

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Locandina Convegno Impresa all'Estero-Profili Pratici Legali e Fiscalilocandina in pdf: Locandina Convegno Impresa all’Estero-Profili Pratici Legali e Fiscali

Torino, giovedì 12 dicembre 2013

Moderatore: Avv. Raffaele Battaglini (LL.M.; Segretario Generale AGICONSUL)

Via Davide Bertolotti n. 7 (presso Terrazza Solferino)

L’evento attribuisce crediti nell’ambito dei programmi formativi dell’Ordine dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili di Ivrea-Pinerolo-Torino e dell’Ordine degli Avvocati di Torino.

Registrazione: ore 15.45
Inizio lavori: ore 16.00

– Redazione delle clausole inerenti la risoluzione delle controversie
Avv. Giovanni Pera (associato AGICONSUL)
– L’arbitrato online
Avv. Riccardo de Caria (Ph.D; LL.M.; consiglio direttivo AGICONSUL)
– Contenzioso finanziato: Third Party Funding
Avv. Niccolò Landi (LL.M.; Studio Legale Gianni, Origoni, Grippo, Cappelli & Partners)

Pausa

Ripresa lavori: ore 17.15

– L’internazionalizzazione delle imprese italiane, dall’esportazione all’investimento: i principali modelli
contrattuali e loro applicazione in Cina quale mercato emergente
Dottor Pier-Domenico Peirone e Avv. Lucia Netti (China Consultant S.r.l.)
– Fare impresa all’estero: i risvolti fiscali
Dottor Luca Ferrini (commercialista; professore a contratto Università di Torino; consiglio
direttivo AGICONSUL)
– L’Italia e l’internazionalizzazione delle imprese
Avv. Riccardo Cappello (Presidente AGICONSUL)
– Un’esperienza imprenditoriale d’internazionalizzazione
Ing. Pietro Quaranta (Amministratore Delegato Tubiflex S.p.A.)

Chiusura lavori: ore 19.00 – Dottor Walter Pucci (AZIMUT Wealth Management)

Iscrizione obbligatoria scrivendo a

convegni@agiconsul.org

Numero di posti limitato. Iscrizioni aperte
fino al 9 dicembre 2013.

AGICONSUL – Associazione Giuristi e Consulenti Legali –
Codice Fiscale 96344570583
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Fax 011/197.198.43

Il FEMMINICIDIO. Il punto di vista di una donna

di Emanuele Mascolo, con la collaborazione di Maria Giovanna Bloise

II parte

18 novembre 2013

femminicidioIn questo articolo, che segue a quello precedente, vi proponiamo il commento di una donna sul tema: a parlarcene è la dott.ssa Maria Giovanna Bloise.

Parlando con alcuni uomini, ho potuto notare come il termine “femminicidio” sia ritenuto immotivato e come riguardo all’introduzione del termine ci siano delle resistenze, nel senso che viene intesa una forzatura voler distinguere tra il delitto ed il delitto in base al sesso della vittima. Non si tratta solo di una parola in più ma di una sostanziale evoluzione culturale e giuridica. La violenza nega alle donne i più fondamentali diritti: la vita, la libertà, l’integrità corporea, la libertà di movimento e la dignità della persona. Essa è un fenomeno radicato, strutturale in una società che pone uomini e donne in una relazione di disparità, di subalternità, di dominio.

Quando il femminicidio (che comprende una molteplicità di forme di violenza che vanno dalla violenza fisica, sessuale, psicologica, economica, sociale, destinata ad annientare la soggettività della donna) precede il femmicidio o femicidio (termine derivante dall’inglese femmicide, che sta ad indicare la morte di una donna con movente di genere ed è la forma più estrema di violenza contro le donne) siamo in presenza di una vera e propria forma di violenza di genere e su un genere. Negli anni novanta si specifica che “l’uccisore è un uomo e il motivo per cui la donna viene uccisa è il fatto di essere donna”.

Nel duemila si specifica, poi, che questa forma di violenza viene perpetrata anche da adolescenti nei confronti di ragazze e bambine, per cui, nella formulazione appena citata, si sostituiscono a uomo e donna i termini femmina e maschio. Ogni tre giorni viene uccisa una donna. Ma il massacro può essere fermato. Tale fenomeno affonda le sue radici in un’impostazione culturale del nostro Paese: è la cultura patriarcale improntata sul possesso che porta alla morte le donne per il solo fatto di essere donne. Spesso stalking e violenze portano ad un reato più grave. Sovente le vittime non sporgono denuncia-querela a seguito delle violenze subite per una serie di motivi che vanno dalla vergogna, al senso di colpa, al timore di un’escalation della violenza e di ripercussioni. E’ necessario prestare estrema attenzione a questo fenomeno sociale e la donna va maggiormente assistita.

Anche l’uomo va aiutato, perché se è stato violento una volta, lo sarà ancora. La donna va educata sin da piccola a non sopportare e a ribellarsi e deve essere tutelata maggiormente. C’è bisogno di un generale sforzo educativo e culturale che coinvolga la famiglia, la scuola e tutta la società, eliminando così la paura vissuta da molte vittime di parlare e chiedere aiuto nel timore di sentirsi giudicare e sole.

E’ fondamentale anche programmare risposte ed interventi mirati alla prevenzione, così da bloccare la violenza sin dal suo nascere, muovendo a livello di percezione sui ragazzi, sui bambini, insegnando loro il rispetto, la capacità di riconoscere le emozioni, anche negative, ed imparando a gestirle anziché agirle sugli altri. Occorre diffondere tra i giovani il messaggio che la donna non è un oggetto da modellare o da possedere e che il rapporto sentimentale si basa sul rispetto reciproco, sull’autonomia e libera scelta dell’altro. Dunque, oltre a strumenti di tipo pratico, occorrono sempre più interventi culturali che possano abbattere stereotipi di questa forma. Quando la violenza sulle donne ha le chiavi di casa, non bastano modifiche al codice penale o di carattere processuale: la donna va anche aiutata economicamente. Adesso c’è la crisi economica, la mancanza di lavoro che determina una profonda crisi e la donna per amore dei propri figli cederebbe a qualsiasi sopruso.

vai alla prima parte

Morte, buone morti, cattive morti nel Medioevo di Siena

di Vinicio Serino                                       11 novembre 2013

Antropologia

pdf Morte, buone morti, cattive morti nel Medioevo di Siena

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Normalità della morte e vita brevis

“La prima scoperta dell’uomo è la morte. Non la morte astratta del Medioevo, passaggio verso l’al di là. Ma la morte incarnata: il Medioevo volgendo al suo termine inciampa nel cadavere” (Le Goff, 1981). Ciò avviene proprio quando, nel così detto “Autunno del Medioevo”, si è ormai formata una società proto-borghese e proto-capitalista, molto incline alle cose del mondo e quindi intrinsecamente umanista. Una società nella quale, pur nella consapevolezza di una dimensione spirituale post mortem, cresce comunque il rimpianto per la vita. Che si manifesta appunto quando si è consapevoli di lasciare in questa (già) valle di lacrime, molte cose/persone, che hanno dato piacere e godimento, come sembra suggerire, con la forza espressiva della propria potente pittura, Ambrogio Lorenzetti. Quando, nel suo “Effetti del Buon Governo in città” descrive uno spazio pieno di uomini e di donne impegnati nelle attività più disparate – ci sono calzolai, muratori, filatrici, persino un magister con la sua classe – al cospetto dei quali nove fanciulle (allusione alle Muse) danzano leggiadramente al tempo battuto, con un tamburello, dalla decima (madonna Armonia?).

E ciò nonostante che “la durata della vita sia comunque bassa – specie se limitata alle aspettative del nostro tempo – tanto che di rado supera i trenta anni per le donne, mentre a malapena tocca i quarantacinque per gli uomini. Pochi i vecchi i quali, superati i quarantacinque anni di età, durante i quali si è già verificata una rigorosissima selezione naturale, hanno una qualche speranza di vita più lunga ….Un quarantenne, dunque, nel Medio-evo è già ben oltre la maturità, un cinquantenne è un vecchio” (Gatto, 2003). Anche a Siena questa è la norma per la concomitanza di una serie di eventi capaci di produrre rilevanti selezioni quali morti infantili, guerre, pestilenze, dissenterie, carestie e cambi climatici (Turrini,  2003).

La morte è (anche)immagine

Un nuovo modo di intendere la morte si percepisce, a partire dal secondo decennio del XIV secolo, attraverso il forte intensificarsi della sua iconografia (Gianni, 2003). Il che è sociologicamente spiegabile con la nostalgia per una vita che, almeno per le classi più elevate, le stesse che “commettono” le immagini, merita comunque di essere vissuta. Lo sapeva bene Cecco Angiolieri quando scriveva: “tre cose solamente mi so’in grado, /le quali posso non ben ben fornire: ciò è la donna, la taverna e ‘l dado; /queste mi fanno ‘l cuor lieto sentire.”

D’altra parte, già a partire del XIII, questa gaudente filosofia della vita anima gran parte dei Carmina burana, una serie di composizioni, verosimilmente tutte cantate contenute nel c.d. Codex Latinus Monacensis proveniente dal convento di Benediktbeuern (l’antica Bura Sancti Benedicti, nei pressi di Bad Tölz in Baviera), dove molto presenti sono le tematiche amorose, bacchiche, conviviali e satiriche. Erano opera dei “Clerici vagantes” o goliardi, dal nome del loro mitico capostipite, Golia, che si spostavano da una città all’altra. Forse il più noto tra questi carmina è quello dedicato alla Fortuna, “imperatrix mundi”, cangiante come la luna che cresce o cala …

L’idea della morte ed i suoi tanti volti

Quello espresso da Cecco e, almeno in parte, dai Clerici vagantes, era un ideale “di “basso godere”, che certo mal si conciliava col misticismo di Bernardo di Chiaravalle o la profondità di sapere di Bonaventura di Bagnoregio, il Doctor Seraphicus. Eppure l’idea dissacrante di vivere nel mondo e per il modo era sempre più diffusa nella Res publica Christiana, dopo il transito del temibilissimo anno Mille: Mille e non più Mille. Ma l’idea della morte – molto spesso l’ossessione della morte – era pur sempre presente e, con l’ annus horribilis 1348, l’anno della terribile pandemia di peste, le rappresentazioni iconografiche di quell’inevitabile evento si intensificheranno, mentre al senso del rimpianto per i piaceri perduti si aggiungerà l’orrore per la tremenda, collettiva moria.

Questo “rimpianto” per i piaceri perduti con la fine della vita spiega, probabilmente, non solo il senso di “horror” che emana dalle raffigurazioni della morte ma anche la quantità di “declinazioni” di questo horror. La morte è uno scheletro, il che ci illumina su come sarà il nostro corpo “dopo”, secondo il modello allegorico del “Contrasto tra tre vivi e tre morti” forse rappresentato, per la prima volta, nel  Cattedrale di Santa Maria Assunta, ad Atri, in Abruzzo, a metà del XIII secolo. I tre gentiluomini, che si apprestano alla caccia col falcone, incontrano tre scheletri che li rimproverano per la loro spensieratezza e li ammoniscono sulla ineluttabilità della morte.

Nei “Documenti d’Amore” di Francesco da Barberino (a. 1314), la morte è un mostro villoso, con tre facce e quattro braccia che, con due archi, lancia le sue micidiali frecce, tre per ciascun arco. In mezzo,  una donna colpita da due saette  sta per cadere: dietro a essa è Amore alato, diviso in lungo per metà e mentre la metà sinistra è intera, la destra è spezzata in più parti. E’ evidente – ma difficilmente interpretabile – il significato allegorico della rappresentazione che, per alcuni, sarebbe un’allusione alla celebre Setta iniziatica dei Fedeli d’ Amore di cui avrebbe fatto parte anche Dante (Valli, 1994). Per altro il messaggio potrebbe anche essere inteso che mors non amor omnia vincit

La morte è anche una danzatrice che guida un singolare ballo nel quale si uniscono scheletri con i diversi rappresentanti della articolata società basso medievale, contadini, artigiani, prelati e cavalieri: è questa la danza macabra, denominazione che, forse, serve a rievocare il sacrificio dei sette fratelli Maccabei, giustiziati insieme alla loro madre sotto il regno di Antioco Epifane per aver osservato la propria fede nel Signore. Ma che potrebbe anche rimandare alla parola siriaca maqabreu, seppellitore, a sua volta da connettere con maqbar, cimitero. La più antica rappresentazione iconografica della penisola, risalente al 1485, si trova nell’Oratorio dei Disciplinati di Clusone, nel bergamasco.

Nel territorio della Repubblica di Siena la  morte è “cattiva morte”, come nell’opera di Biagio di Goro Ghezzi nella Chiesa di san Michele Arcangelo in Paganico. E’ effigiata come una donna terribile (una strega ?), a cavallo di un destriero nero, montato a pelo; porta, legata alla cintura, la terribile falce, mentre dal suo arco micidiale lancia una acuminata freccia. Sopra di lei Cristo che ammonisce: “ O tu che leggi pon chura ai colpi di chostei/c hocise me che so signior di lei”.  Persino il Figlio di Dio ha dovuto soggiacere alla tremenda legge di quella orribile creatura …

Nella stessa Chiesa, Goro ha rappresentato San Michele nella sua funzione di pesatore delle anime secondo una impostazione simbolica che rammenta la psicostasia egizia. Alla destra dell’Arcangelo (la sinistra per chi guarda) la Vergine intercede per le anime del Purgatorio, essendo ormai stata fissata la tripartizione dei mondi dell’al di là (ved. Infra). Alla sinistra dell’Arcangelo un demone (o una diavolessa) emaciato e con le ali di pipistrello, accoglie, nel suo regno tenebroso, l’anima (nuda) di una  giovane donna.

Morte, ritualità della morte e mondi del post mortem

A partire dal XIII secolo, quando il processo di formazione della nuova società medievale comincia a completarsi, socialmente ed antropologicamente, con il ruolo crescente della borghesia cittadina, in molte città italiane si vanno stabilmente delineando nuove modalità rituali che, tra l’altro, comportano la fine delle “vecchie lamentazioni funebri dell’antichità” e l’avvento di “un complesso cerimoniale religioso, con la conseguenza di messe di suffragio, richieste di indulgenza, accensioni di ceri e anche lasciti di beneficenza per la salvezza dell’anima ” (Turrini, 2003). L’esempio di Siena è, al riguardo, molto illuminante.

Si tratta dunque di un vero e proprio processo di razionalizzazione delle pratiche rituali, accompagnato da precise disposizioni del de cuius sulla destinazione del proprio patrimonio, in perfetta coerenza con le tendenze di una società borghese nella quale, grazie alla crescente formazione di ricchezza mobile – il denaro, sostituto della ricchezza immobile terriera tipica degli antichi feudatari – ci si può anche salvare in articulo mortis, praticando quella che J. Chifffoleau definisce “contabilità dell’anima”.

Ovviamente per il buon Cristiano la morte non è affatto la fine. Ed un aspetto innovativo relativo al “dopo” è dato dalla introduzione di una nuova dimensione, intermedia tra Inferno e Paradiso, il Purgatorio. Già nell’Antico Testamento se ne adombrava l’idea. Lo si ricava dall’episodio, contenuto in Maccabei II, dei soldati di Giuda uccisi in battaglia e trovati in possesso di “cose consacrate agli idoli”. Allora, continua il testo sacro, “ricorsero alla preghiera, supplicando che il peccato commesso fosse pienamente perdonato …. Perché se (Giuda) non avesse avuto ferma fiducia che i caduti sarebbero risuscitati, sarebbe stato superfluo e vano pregare per i morti. Ma se egli considerava la magnifica ricompensa riservata a coloro che si addormentano nella morte con sentimenti di pietà, la sua considerazione era santa e devota. Perciò egli fece offrire il sacrificio espiatorio per i morti, perché fossero assolti dal peccato …” (Maccabei II, XII, 40-46).

Molti secoli dopo Agostino d’Ippona, nel suo “De Civitate Dei”, parlerà di un focus purgatorius, tema  che ritornerà poi con Beda il Venerabile, Bernardo di Chiaravalle, Piero Lombardo, e molti altri. Ma è nel secolo  XIII secolo che, per opera di grandi teologi come Alberto Magno, Tommaso d’Aquino, Bonaventura da Bagnoregio, si forma compiutamente l’idea di un “luogo” dove è temporaneamente possibile la purificazione dei peccati per accedere quindi alla definitiva e beatifica visione di Dio.

Il II° Concilio di Lione del 1274 sanzionerà definitivamente questa importante innovazione della Chiesa affermando solennemente che “le anime sono purificate dopo la morte con pene che lavano”. Il Giubileo del 1300, indetto da papa Bonifacio VIII, poi, svilupperà ulteriormente l’idea del suffragio con la bolla Antiquorum habet fida relatio: ogni cento anni, chiunque visiterà le tombe degli Apostoli, per quindici giorni, godrà della remissione totale di tutte le pene che avrebbe dovuto scontare in terra o in Purgatorio. L’indulgenza vale anche per quelli morti durante il viaggio.   Alla costruzione di questo luogo – non luogo molto avevano contribuito le tante storie di anime che chiedevano preghiere per la propria salute riferite dai viaggiatori nell’al di là, di cui Dante è il più noto …

Per J. Le Goff l’idea di Purgatorio (Le Goff,1982) si afferma in parallelo con l’ascesa della borghesia produttiva, grande manipolatrice e dispensatrice di denaro. Una vera e propria classe intermedia che si pone tra  i chierici ed i nobili cavalieri da una parte e la massa damnationis – in terra – dei contadini e delle miserabili plebi urbane dall’altra. Si viene così formando una nuova visione del mondo secondo la quale, nonostante il peccato, è comunque possibile il riscatto e quindi, la redenzione attraverso la purificazione espiatrice, agevolata dall’azione dei viventi. La Chiesa visibile era l’unica istituzione che, con la forza delle preghiere e della messa, ma anche attraverso le indulgenze – a pagamento … – poteva spingere l’anima verso la beatifica visione dell’Eterno. I ricchi borghesi della Siena del ‘300 – come d’altra parte quelli di molti altri liberi comuni – faranno ampio ricorso a questa (pia) possibilità.

Per l’onore di Giovanni d’Azzo

Per altro la morte era anche occasione di esibizione di ricchezza e di potenza di ceto. Illuminante quanto avviene a Siena nell’anno del Signore 1390, quando Giovanni d’Azzo, nobile e cavaliere, ebbe la sua fastosa cerimonia funebre “… fecelisi grandissimo onore; in prima el suo corpo ebbe duecentodieci doppieri legati nel castello di legname … e arsero mentre che fece tutto l’ufficio. Vestì il Comune quattro cavalli con la balzana e con le bandiere e l’arme del popolo,e anco vi si vestie sessanta uomini a bruno. Fue portato in una bara ad alto coperta d’un bellissimo drappo d’oro; e sopra al corpo uno padiglione di drappo d’oro foderato d’armellino …”I doppieri erano torce di cera, molto utilizzati nelle case dei più abbienti:  E nelle case entrato, fatto pianamente aprir la camera nella qual sapeva che dormiva la giovane, in quella con un gran doppiere acceso innanzi se n’entrò” racconta G. Boccaccio nella novella VI°  della V° giornata. La pelle di armellino, ossia ermellino, diventa di un bianco candido di inverno, simbolicamente rimandando alla idea di purezza … Una delle opere d’arte più famose, opera di Leonardo, “La dama con l’ermellino”, rappresenta appunto una splendida donna, poi identificata con Cecilia Gallerani – la cui famiglia, emigrata a Milano, era di origine senese – dama della corte degli Sforza, amante di Ludovico il Moro. La splendida donna reca in braccio un candido ermellino, forse per alludere all’Ordine dell’Ermellino che il re di Napoli aveva conferito al Duca di Milano.

“ … el detto padiglione” continua la cronaca di quel fastoso funerale,  “portava in quattro stagiuoli cavalieri e grandi cittadini di Siena , e fur vestiti vinti cavagli a bruno con le bandiere di sua arme … e uno uomo armato a cavallo di tutte le sue armi e barbuta , spada nuda e speroni, e altre armadure le quali tutte rimasero al Duomo … Anco a detta sepoltura furono tutti e’ Priori di palazzo e furonvi tutti frati e preti delle regule di Siena e di chiesa parrocchiali; e furo avvisati tra preti e frati e monaci intorno a seicento…” Un corteo funebre degno di un monarca, per il quale le note – e teoricamente severe – disposizioni suntuarie del Comune di Siena non trovarono applicazione: rileva la solennità della cerimonia con l’uomo a cavallo che, coperto di barbuta, cioè dell’elmo, ricorda agli astanti le virtù cavalleresche del defunto.

Honor mortis (e non solo)

Eppure la morte, ossia il trattamento del morto, è sottoposto ad una disciplina molto precisa, a Siena, come in molte altre città comunali. Si tratta di disposizioni oltre che circostanziate anche particolarmente severe,  sostanzialmente motivate da diverse esigenze:

a)     il divieto dell’uso di certi colori come il rosso, il verde e l’azzurro, per le vesti dei partecipanti, con l’imposizione del nero per uniformare, per quanto possibile, la cerimonia di commiato, evitando ostentazioni di ceto che, in ogni città medievale piena di divisioni, di fazioni, di “Monti”, sarebbero potenziali fonti di dissenso verso il (precario) potere costituito;

b)    il divieto di assembramenti, col “contingentamento” del numero dei partecipanti alle esequie, chiara misura di prevenzione di ordine pubblico, altro nervo scoperto nell’ambito delle rissose comunità cittadine del tempo;

c)     il divieto di partecipazione delle donne al corteo funebre in coerenza con una società (almeno relativamente ai tempi) sessuofobica, salvo che non si tratti delle esequie di una defunta, nel qual caso scatta sempre il meccanismo del (rigido) “contingentamento” (Turrini, 2003);

d)    il divieto del “bociarerium”, ossia delle manifestazioni di dolore esteriorizzate, accompagnate da pratiche come la lacerazione delle vesti o lo strappo dei capelli, dal momento che tali forme di disperazione sono incompatibili con la credenza in una vita eterna post mortem.

Il senso di tutte queste prescrizioni va ricercato nell’impegno delle autorità ad assicurare comunque, specie in caso di manifestazioni coinvolgenti più persone, una rassicurante condizione di normalità …

Morte ad omicidi e spie

Una delle espressioni pubbliche della morte è quella relativa alla sua somministrazione come pena per crimini gravissimi. Nelle città medievali – e Siena non costituisce affatto un’eccezione – attiene a reati molto gravi, come l’omicidio considerato ”Horrido e grande peccato”, perché priva dalla dimensione terrena una creatura fatta ad immagine dell’Eterno. Questo tremendo delitto non ha altra pena che quella della decapitazione: “… punisscase in ella pena del capo.” La ratio di questa disposizione sta nella c.d. “legge del contrappasso”: ogni delitto va colpito con una sanzione comminata secondo il principio dell’ analogia, deve cioè essere “coerente” con la colpa commessa. E la pena deve contenere un messaggio, un insegnamento facilmente comprensibile e, al tempo stesso, di forte valenza pedagogica di cui va immediatamente apprezzata la funzione dissuasiva.

La “spiccatura” della testa, dunque, oltre a valere come punizione per il reo esprime anche una propria valenza simbolica in quanto si ritiene che all’interno del cranio  si trovi il principio attivo dell’essere, in coerenza con le credenze proprie delle popolazioni del nord – i Galli, i Celti – che consideravano uccisi i propri nemici solo se ne avevano spiccato la testa. Inoltre, presso quelle popolazioni, si pensava che la  (macabra) acquisizione delle teste mozzate conferisse al vincitore la forza ed il coraggio del guerriero vinto (Chevalier e Gheerbrant, 1989). Notizie in tal senso provengono da Tito Livio quando racconta della cocente sconfitta subita dalle legioni romane guidate da Postumio Albino contro le tribù celtiche dell’Appennino durante la II° Guerra Punica. Qui, nella foresta di Litana, i barbari con uno stratagemma ebbero ragione dei Romani. Lo stesso Postumio cadde e la sua testa tagliata venne portata dai Boi nel loro tempio, considerato lo spazio più sacro. “Ripulita la testa”, racconta Tito Livio, “come è loro costume ornarono il teschio con un cerchio d’oro, e questo era per loro un vaso sacro con cui libare alle solennità e allo stesso tempo una coppa per i pontefici e per i sacerdoti del tempio …” (Tito Livio, Historiae).

La stessa pena della decapitazione viene riservata, nell’anno del Signore 1375, a Nicolò di Tuldo, un giovane gentiluomo perugino accusato di congiura e spionaggio a danno della Repubblica di Siena. Sembra sia stato condannato ingiustamente e che solo grazie a S. Caterina abbia deciso di richiedere il conforto religioso.  In una sua lettera a Frate Raimondo da Capua Caterina descrive le ultime ore di Nicolò che invita la Santa a non abbandonarlo. ” Io sentivo uno giubilo” dice Caterina ”uno odore del sangue suo, e non era senza l’odore del mio, sentendo el timor suo, dissi: ‘Confòrtati, fratello mio dolce, chè tosto giognaremo alle nozze. Tu n’anderai bagnato nel sangue dolce del Figliuolo di Dio, col dolce nome di Gesù, el quale non voglio che t’esca dalla memoria, e io t’aspetterò al luogo della giustizia …’ Poi egli giunse come uno agnello mansueto … Posesi giù con grande mansuetudine; e io gli distesi il collo  … e rammentalli il sangue dell’agnello. La bocca sua non diceva se no Gesù, e, Catarina. E così dicendo ricevetti il capo nella mani mie … Riposto che fu l’anima mia si riposò in pace e in quiete, in tanto odore di sangue, che io non potevo sostenere di levarmi il sangue, che mi era venuto addosso, di lui” (Epistolario, 1940). L’odore del sangue è l’odore della vita che sta finendo e che impregna, indelebile, il corpo della santa.

Dunque nel mondo medievale la testa mozza possiede una vis evocativa straordinaria non solo rappresentativa della supremazia esercitata su qualcuno, ma anche come immagine simbolica ricollegabile all’idea stessa di giustizia. Lo sapeva bene Ambrogio Lorenzetti quando, nel Buon Governo, raffigurava la sua Giustizia , posta accanto alla Temperanza, con una spada nella mano destra, una corona nella sinistra e, appunto,una testa mozza in grembo. A rafforzare ulteriormente il senso del rapporto con la giustizia, ai piedi della virtus un gruppo di cavalieri e di armigeri appiedati recano, al cospetto del Bene Comune, dei malfattori saldamente legati.

Morte ai raptores

Un altro reato particolarmente grave  contemplato – e pesantemente sanzionato – dagli Statuti delle città medievali è la rapina. La figura del raptor è assai spesso presente e talora manifesta aspetti inquietanti. Gregorio VII, l’autore del Dictatus papae, chiama i cavalieri del suo tempo, noti per la loro brutalità, raptores  ossia predoni. E li invita alla conversio: “Nunc fiant Christi milites, qui dudum extiternat raptores”. Mettano dunque le proprie armi e la propria abilità guerriera al servizio di una buona causa – che sarà la liberazione del Sepolcro di Cristo – abbandonando quella malefica, violenta pratica che ha solo una ricompensa, la morte. Da queste parti della Toscana il raptor più noto fu sicuramente Ghino di Tacco, immortalato in una celebre novella di Boccaccio per aver sequestrato l’Abate di Clugny.

Anche per questo delitto la pena prevista è la morte: ma con una variante rispetto all’omicidio. Viene comminata per impiccagione: “…empicchase cum laccio per la gola in elle forche si et in tal forma che moga e l’annima se sepera dal corpo”, è scritto nello Statuto di Radicofani, il nido di Ghino. Molti anni fa, occupandosi della valenza simbolica della impiccagione, uno studioso della grandezza di Furio Jesi evidenziava come e quanto, dal punto di vista della mitologia dell’area mediterranea questa tipologia di pena – talora utilizzata anche in cerimonie iniziatiche in qualche modo connesse col culto degli alberi – andasse ” considerata per la sua capacità di significare il passaggio dalla condizione terrestre all’alterità espressa dall’aria …” (Jesi, 1989)

Per altro, questa di Jesi appare come una interpretazione, dotta, sottile. Mentre, dal punto di vista simbolico, doveva essere più facilmente colta la legge del contrappasso che, appunto, trovava una puntuale applicazione anche nel supplizio riservato al rapinatore. La valenza simbolica del laccio, da questo punto, è esplicita. Chi tiene legato a sé un altro, appunto attraverso un laccio, esercita su di lui un potere. Un potere che ne condiziona lo status. E’ arcinoto il potere che Cristo ha conferito a Pietro, il principe degli Apostoli:”E io dico a te, che tu sei Pietro e sopra questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non prevarranno contro di essa. E a te darò le chiavi del regno dè cieli: e qualunque cosa avrai legata sopra la terra, sarà legata anche nei cieli: e qualunque cosa avrai sciolta sopra la terra, sarà sciolta anche ne’ cieli ” (Matteo, XVI,19).

La corda utilizzata per l’impiccagione aveva un grande valore simbolico, specie per le Compagnie di Giustizia ed in particolare per la loro opera di “conforto”, ossia di assistenza e soccorso spirituale prestato ai condannati a morte, svolta sostanzialmente a partire dal XIV secolo in poi.  Molte di queste confraternite avevano l’usanza di custodire la corda usata per l’impiccagione che veniva bruciata – forse ritualmente – in occasione della ricorrenza del santo patrono. Santi patroni con un background culturale coerente alla funzione dei confortatori, come San Giovanni decollato a Siena; o Santa Maria della Morte a Bologna  (Prosperi, 1982).

E per restare sempre nell’ambito dell’immaginario simbolico come non sottolineare la forma della forca che doveva evocare, negli spettatori, l’idea di un orribile mostro pronto ad ingoiare nelle proprie fauci il condannato? Ancora nel Buon Governo di Lorenzetti c’è l’immagine di un impiccato, che per altro pende da una forca semplicissima, composta da due pali verticali uniti da uno ritto sul quale, appunto è effigiato, con le mani legate e le vesti svolazzanti, il suppliziato. Un angelo, l’angelo della Securitas, dalle belle forme muliebri la sorregge con la mano sinistra, mentre con la destra esibisce un cartiglio dalla scritta quanto mai eloquente. “Senza paura ognuomo franco Camini. E lavorando semini ciascuno. Mentre che tal Comuno. Manterra questa dona i Signoria. Chel alevata arei ogni balia.” Un manifesto esemplare, di facilissima comprensione.

Morte a maliardi, facitrici, streghe

Infine il più grave peccato, quello legato al mondo, oscuro, della magia. Bernardino  degli Albizzeschi nelle sue prediche sul Campo di Siena del 1417 ammonisce: “… el sicondo peccato che discende da la superbia, si è il peccato de li incanti e di indivinamenti, e per questo peccato Iddio manda spesso fragelli a le città” (B. degli Albizzeschi, 1989).  Opera “di quelle indiavolate maledette”: quelle “indiavolate maledette”, prima maliarde o facitrici, dalla fine del XIV secolo saranno sempre più spesso appellate streghe. Strega rimanda al latino striga, al greco striks, e indica il rapace notturno che affonda i propri tremendi artigli nelle carni degli sventurati per dilaniarle senza pietà e succhiarne avidamente il sangue. “E però dico”, continua indomabile Bernardino, “che là dove se ne può trovare niuna che sia incantatrice o maliarda, o incantatori o streghe, fate che tutte siene messe in esterminio per tale modo che se ne perdi il seme; ch’io vi prometto che se non se ne fa un poco di sacrificio a Dio, voi ne vedrete vendetta ancora grandissima sopra a le vostre case, e sopra a la vostra città … Sapete perché io temo più di voi che di niuno altro luogo? Perché mai non fu in luogo né in paese, che tanti e tante ne fussero, quanti ne so’ in questo vescovado.” (XXXV, 88)

La pena per chi si macchia di crimini tanto gravi, allora non può essere che la morte, come attestato dalla vicenda di Marta, moglie di Ranuccio muratore, strega e maliarda, messa al rogo nel 1446  – due anni dopo la morte di  Bernardino –  per ordine dell’inquisitore senese. La tragica vicenda di Marta è ricordata anche da Sigismondo Tizio nelle Historiae, dove racconta che la donna, riconosciuta colpevole di maleficio “veluti ex mulieribus una que se credunt cum Diana et Herodiade noctu equitare, que strige nuncupantur, cum falsa sit omnia in visione, ut comperuimus et legimus, illusiones huiusmodi patiantur, incendio consumpta est”. Diana è la regina delle streghe, che si riunivano, appunto, nella compagnia di Diana; Erodiade o Aradia sua figlia. Il lapidario “incendio consumpta est” costituisce un sigillo ammonitore di quella orribile storia (Ceppari, 1999).

L’episodio più raccapricciante ritrovato tra le carte della Inquisizione senese riguarda un frate aretino, fra Sisto da Verze, al secolo Serafino di Filippo Bazini, eremita agostiniano di ascendenza lombarda, accusato di necromanzia, avendo evocato il demonio. Si tratta per altro di una vicenda che già attiene all’età moderna – essendosi svolta nel 1541 – ma secondo canoni e modalità propri di quello che, convenzionalmente, viene chiamato Medio Evo. L’operazione di magia, magia nera, era stata possibile perché il frate aveva rapito ed ucciso una piccola mendicante che poi aveva smembrato in più parti, conservandone il cuore ed il grasso che, insieme al sangue di due malfattori giustiziati ed all’olio consacrato per la cresima, erano stati utilizzati “per costregnere il diavolo” (Ceppari, 2003).

Il processo fu condotto da un Tribunale laico, i c.d. Otto di Guardia, dopo aver richiesto ed ottenuto “per l’honor di Dio e benessere di questa nostra città” la grazia di godere della autorità necessaria “per mezo delle quale possiamo liberamente dar quel castigo a questo vitioso frate”. Il procedimento, conclusosi nel marzo del 1541, comminò la morte per Frate Sisto, stabilendo che l’esecuzione avvenisse nel Campo di Siena, il centro della città: l’uomo era moribondo, sfinito dagli interrogatori, da almeno due tentativi di suicidio e dal lungo digiuno. Nel centro della Piazza, era pronta la catasta di legna per il rogo. Ma Sisto non morì per il rogo perché fu strozzato dal boia che, dopo il primo, inutile tentativo, riuscì ad appenderlo, fino alla morte, ad una colonna. Assolto il suo compito, il boia appiccò il fuoco alla legna e le fiamme avvolsero quel corpo ormai esanime.Nel rogo furono gettati i libri di magia e la saccuccia che conteneva tutto il complesso armamentario del necromante.  Fin dal 1197 il re Pietro II d’Aragona aveva disposto che, nel suo regno, agli eretici fosse comminata la pena del rogo. Il IV concilio Lateranense (1215, can. 3) avrebbe confermato le precedenti disposizioni  stabilendo che “… gli eretici condannati siano abbandonati alle potestà secolari o ai loro balivi per essere puniti con pene adeguate …” E che “i chierici siano prima degradati della loro dignità …”Perché il rogo e non la decapitazione o l’impiccagione? In omaggio, ancora una volta, alla legge del contrappasso. Colui che, con le sue azioni ed il suo pensiero, aveva infettato l’ecumene doveva essere disperso, affinchè scomparisse ogni traccia della sue “eretica pravità” e fossero così purificati i luoghi dove aveva operato. Consumptus sit …

Preti e liturgie

E’ nota la tripartizione funzionale della società medievale, secondo l’organizzazione della società romana a suo tempo individuata da G. Dumezil  (Dumezil, 1955). Tre sono le componenti di questa società, gli oratores, i bellatores, i laboratores, ossia quelli che pregano, quelli che combattono, quelli che producono. Si tratta di ordini fra loro distinti nell’ambito dei quali il clero esercita la propria supremazia gerarchica. Inizialmente questo dominio compete ai monaci ma, con l’avvento delle città e la decadenza del feudalesimo, passa saldamente nelle mani del clero secolare e, più ancora, quando compaiono, ossia agli inizi del XIII secolo, degli Ordini Mendicanti. L’”organizzazione” dei funerali a Siena – come in qualunque altra città medievale – rispecchia fedelmente questa “egemonia” clericale.

Questa preminenza del clero si sostanzia in almeno tre diversi momenti:

A)    La liturgia, dove è sempre presente – come minimo – un sacerdote che officia la messa, “con intenzioni particolari a seconda che si trattasse di un uomo o di una donna, di un frate o di un canonico” (Corsi, 2003);

B)    Le celebrazioni post mortem, secunda, septima, nona et annualis, che segnava il definitivo distacco del morto e la fine della vedovanza (Turrini, 2003): si trattava cioè di una scansione di tempi sia “magici”, in quanto relativi al definitivo distacco dell’anima dal corpo; sia civili, in quanto la donna riacquisiva la capacità generatrice;

C)    L’ incameramento di (lucrosi) lasciti che servivano ad impinguare i già cospicui patrimoni del clero, tanto più frequenti dopo l’invenzione del Purgatorio.

Mors atra

Si è detto che la durata della vita dell’Uomo medievale è breve, falcidiata, come è da patologie di ogni genere, in larga parte dovute alla assenza di adeguate tutele igieniche e dall’altissima mortalità infantile. La situazione è ulteriormente aggravata dalla diffusione di epidemie che, proprio con la rinascita delle città, con lo sviluppo di  economie mercantili – e quindi scambistiche –  e con rapporti sempre più frequenti col Medio Oriente, espongono l’intero ecumene cristiano al rischio di contagi. Il più terribile di questi, una devastante pandemia di pestilenza colpì Siena – e molte altre città mercantili del bacino occidentale del Mediterraneo – nel 1348. Una malattia terribile, che viaggiava con gli opportunisti alimentari, i topi, sempre a contatto con l’uomo, le cui pulci, attraverso il bacillo Yersinia pestis trasmettevano l’agente patogeno. La pandemia si era scatenata  dopo che, sul finire del secolo XIII, un cambiamento climatico, noto come “piccola glaciazione”, aveva ulteriormente contribuito a spingere i roditori nelle città, alla ricerca di cibo. Era quello il tempo della morte nera, ossia della mors atra (letter. morte atroce) con la quale i cronisti danesi e svedesi del XIV secolo, colpiti dalla straordinaria virulenza del morbo, designavano la peste bubbonica.

Giovanni Villani raccontò nella sua Cronica quanto avvenne in quei tempi spaventosi. “E la detta mortalità fu predetta dinanzi per maestri di strologia, dicendo che quando fu il solstizio vernale, cioè quando il sole entrò nel principio dell’Ariete del mese di marzo passato, l’ascendente che ffu nel detto sostizio fu il segno della Vergine, e ‘l suo signore, cioè il pianeto di Mercurio, si trovò nel segno dell’Ariete nella ottava casa, ch’è casa che significa morte; e se non che il pianeto di Giove, ch’è fortunato e di vita, si ritrovò col detto Mercurio nella detta casa e segno, la mortalità sarebbe stata infinita, se fosse piaciuto a Dio. Ma noi dovemo credere … che Idio promette le dette pestilenze e ll’altre a’ popoli, cittadi e paesi per punizione de’ peccati, e non solamente per corsi di stelle, ma … quando vuole, fa accordare il corso delle stelle al suo giudicio … “(Villani, 1991)

La peste è punizione divina: il suo implacabile arrivo è “annunciato” dagli astri.

E non sonavano Campane, e non si piangeva persona, fusse di che danno si volesse, che quasi ogni persona aspettava la morte; e per sì fatto modo andava la cosa, che la gente non credeva, che nissuno ne rimanesse, e molti huomini credevano, e dicevano: questo è fine Mondo …” “Non si trovava chi seppellisse né per denari né per amicitia et quelli della casa propri li portava meglio che potea a la fossa senza prete, né offitio alcuno, né si sonava la campana. E in molti luoghi in Siena si fè grandi fosse et cupe per la moltitudine su morti … et ognuno gittava in quelle fosse e si cuprivono a suolo a suolo … e anco furo’ di quelli che furo’ sì mal cuperti di terra che li cani ne trainavano et mangiavano di molto corpo per la città, et non era alcuno che piangiesse alcuno morto”. Così Agnolo di Tura detto il Grasso, calzolaio, che nell’orrenda carneficina avrebbe perso cinque figli da lui stesso seppelliti, racconta ai posteri , nella “Cronaca senese”, come la città visse il tragico evento.

Il contagio era giunto a Siena da un’altra repubblica, marinara questa volta, Pisa: colpì la città per sette lunghissimi mesi, dall’aprile all’ottobre del 1348. Quella “grande mortalità, la maggiore e la più oscura, la più horribile” che la città abbia mai visto, avrebbe causato, a detta di Agnolo, il decesso di circa 80.000 buoni cristiani … Il numero è probabilmente esagerato, dal momento che gli storici propendono per circa 50.000 vittime a fronte di una popolazione di circa 80.000 “anime”. Morirono moltissimi artisti – tra i quali i fratelli Ambrogio e Pietro Lorenzetti – e le attività economiche, le relazioni sociali, le pratiche culturali subirono un lungo stop che provocò di fatto, per almeno una generazione, un grave stato di involuzione e di regresso causa prima del ritardo con cui fiorì compiutamente quella che sarebbe stata la straordinaria stagione dell’Umanesimo e del Rinascimento

 Corpi santi

C’è, infine, almeno un altro aspetto di grande rilevanza connesso alla dimensione della morte, ossia il “trattamento” delle reliquie dei santi. “Poiché dal fatto che alcuni espongono le  reliquie dei  santi per venderle, si è spesso presa occasione per detrarre la religione cristiana, perché ciò non  avvenga in futuro, col presente decreto stabiliamo che le reliquie antiche da ora in poi non siano messe in mostra fuori del reliquiario, né siano poste in vendita. Quelle nuove nessuno si azzardi a venerarle, prima che siano state  approvate dall’autorità del  Romano Pontefice. Per l’avvenire i prelati non permettano che chi va nelle loro chiese per venerare le reliquie  sia ingannato con discorsi fantastici o falsi documenti, come si usa fare in moltissimi luoghi per lucro”. Così stabiliva il LXII capitolo del IV Concilio Lateranense tenutosi dall’11 al 30 novembre 1215 per volontà di Innocenzo III, grande teologo e grandissimo giurista, approvatore della Regola di San Francesco e tutore di Federico II. La disposizione impartita faceva intendere bene le preoccupazioni della Chiesa – o almeno della sua parte più consapevole – non solo per il commercio delle reliquie, ma anche per l’uso che se ne faceva: sì che il richiamo a “discorsi fantastici” ovvero a “falsi documenti” fa chiaramente pensare ad un tipo di venerazione che tratta le reliquie stesse come potenti talismani, in grado di proteggere quei devoti cristiani che avevano la possibilità di vederle o, ancora meglio, di toccarle.

“La reliquia è, nella storia del patronato, materia e al tempo stesso segno della protezione elargita dal santo. La continuità del patrocinio ha il suo sigillo materiale nella presenza delle reliquie del santo che la comunità custodisce come un prezioso presidio, garanzia della presenza protettiva e della potenza taumaturgica del suo campione celeste”. Una vera e propria forma di “sacralizzazione del territorio” che, basti pensare al culto barese di San Nicola o a quello veneziano di San Marco, contribuisce alla formazione della identità di un popolo (Niola, 2007). A Siena questo tipo di culto è praticato verso Sant’Ansano, il battista della città, un romano di agiata famiglia (gli Anicii?), che sarebbe approdato sulle sponde dell’Arbia a metà del III° secolo.

Per altro a Siena la devozione cittadina si manifesta non verso uno, ma verso quattro santi diversi. Si tratta dei protettori, Ansano, Crescenzio, Savino e Vittore – tutti santi molto antichi, tutti martiri – il culto dei quali ammonta almeno all’XI secolo, come testimonia la loro collocazione nel presbiterio della cattedrale. Eppure, la “sanzione ufficiale della loro funzione civica sarà, almeno per l’iconografia, solo con la Maestà di Simone Martini del 1315 nel Palazzo pubblico”(Argenziano, 2003). Una operazione non solo devozionale, dal momento che coincide col definitivo impianto di una salda società borghese con forti esigenze identitarie, così sanzionate.

Credenze private e tracce di fede

Nonostante questo “tardivo” riconoscimento civico esistono testimonianze dell’attaccamento dei senesi verso “cadaveri eccellenti” con (presunti) poteri taumaturgici e in qualche modo collegati alla loro città. Così si spiegano  i contrasti con gli aretini per il possesso del corpo di Ansano, il (mitico) battista di Siena fino al 1107 interamente conservato ad Arezzo, e quindi, dopo lunghe trattative, “opportunamente” smembrato: il corpo a Siena e la testa ad Arezzo (Scorza Barcellona, 1991). La “popolarità” del santo era da attribuirsi, verosimilmente, alla sua capacità taumaturgica, che si estrinsecava attraverso l’acqua salutare – per la cute, l’intestino ed i polmoni – sgorgante nel luogo del suo martirio, dal nome evocativo di “Dofana” forse ricalcato sul latino duo fana, o forse riferimento al dio Faunus, spesso connesso a luoghi e sorgenti da cui emanano vapori di zolfo …

La testimonianza più rilevante di culto riservato alle reliquie di santi a Siena è comunque quella della testa e del dito di Caterina Benincasa, la santa dell’Oca. Appena tre anni dopo la sua morte, avvenuta a Roma nel 1380, il fedele Raimondo da Capua aprì il suo sepolcro in Santa Maria sopra Minerva e ne staccò i due resti oggi conservati a Siena, nella basilica di san Domenico. Fece bene perché “del suo corpo” rimasto a Roma “non resta molto”, in quanto “il sepolcro è stato saccheggiato nei secoli per ricavarne reliquie disseminate tra Roma, Firenze, Siena, Salerno” (Cattabiani, 1993). E’ evidente il motivo di questa pratica: si ritiene che, attraverso quelle reliquie, sia possibile ottenere l’intercessione della grazia da parte della Santa. Una vera e propria operazione border line tra fede e magia … 

Domenicani contro

E’ curiosa la circostanza che Caterina, santa legata al Terz’Ordine Domenicano, si sia in qualche modo “formata” nello stesso ambiente di un illustre maestro come l’inglese Riccardo di Knapwell. Magister ad Oxford, autore, nel 1285, della “Quaestio disputata de unitate formae” nella quale si sosteneva una discutibile (per i tempi) tesi antropologica: ossia “il ruolo decisivo dell’anima nella costituzione dell’identità personale.” Giacchè l’anima agisce “come forma” e poiché non è “concepibile un’attività formale senza un supporto materiale … l’anima, oltre ad avere attività intellettuali, identificava il corpo della persona …” (Santi, 2003).

Le conseguenze di queste affermazioni così dissonanti rispetto al comune sentire dell’epoca erano molto pesanti: solo con la forma data dall’anima il corpo era tale e quindi il corpo privo dell’anima non era altro che materia destinata alla putrefazione ed alla dissoluzione. “Ridiculum videtur quod propter solam materiam quae remanet post mortem debeat corpus mortuum tradi sepolturi in loco sacro”. Ossia è ridicolo che per la sola materia che rimane dopo la morte il corpo inanimato sia sepolto in un luogo sacro. E questo valeva anche per i corpi dei santi, giacchè i corpi autentici, quelli animati non sono sulla terra … Erano posizioni riprese da San Tommaso, ma non bastarono a risparmiare Riccardo dalla scomunica …

In fine, la filosofia di Cecco, ovvero inno gioioso alla vita

S’i’ fosse foco, ardere’ il mondo;
s’i’ fosse vento, lo tempestarei;
s’i’ fosse acqua, i’ l’annegherei;
s’i’ fosse Dio, mandereil en profondo;
s’i’ fosse papa, serei allor giocondo,
ché tutti ‘ cristiani embrigarei;
s’i’ fosse ‘mperator, sa’ che farei?
a tutti mozzarei lo capo a tondo.
S’i’ fosse morte, andarei da mio padre;
s’i’ fosse vita, fuggirei da lui:
similemente faria da mi’ madre
.
S’i’ fosse Cecco com’i’ sono e fui,
torrei le donne giovani e leggiadre:
le vecchie e laide lasserei altrui.
 (Cecco Angiolieri, S’i’ fosse foco)

BIBLIOGRAFIA

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Il FEMMINICIDIO. Excursus storico, giuridico e dottrinale.

FEMMINICIDIOdi Emanuele Mascolo

2 novembre 2013

 I PARTE

Da più parte si sente parlare in quest’ultimo periodo, della legge recentemente varata in Italia, riguardo il femminicidio.

La nuova legge, come si evince dal testo pubblicato in G.U. n. 191/2013, è stato emanato in quanto si è “ritenuto che il susseguirsi di eventi di gravissima efferatezza in danno di donne e il conseguente allarme sociale che ne è derivato rendono necessari interventi urgenti volti a inasprire, per finalità dissuasive, il trattamento punitivo degli autori di tali fatti, introducendo, in determinati casi, misure di prevenzione finalizzate alla anticipata tutela delle donne e di ogni vittima di violenza domestica; considerato, altresì, necessario affiancare con urgenza ai predetti interventi misure di carattere preventivo da realizzare mediante la predisposizione di un piano di azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere, che contenga azioni strutturate e condivise, in ambito sociale, educativo, formativo e informativo per garantire una maggiore e piena tutela alle vittime; ravvisata la necessità di intervenire con ulteriori misure urgenti per alimentare il circuito virtuoso tra sicurezza, legalità e sviluppo a sostegno del tessuto economico-produttivo, nonchè per sostenere adeguati livelli di efficienza del comparto sicurezza e difesa; ravvisata, altresì, la necessià di introdurre disposizioni urgenti in materia di ordine e sicurezza pubblica a tutela di attivita’ di particolare rilievo strategico, nonchè per garantire soggetti deboli, quali anziani e minori, e in particolare questi ultimi per quanto attiene all’accesso agli strumenti informatici e telematici, in modo che ne possano usufruire in condizione di maggiore sicurezza e senza pregiudizio della loro integrità psico-fisica“.

Ma prima di analizzare il testo, cerchiamo di fare un excursus Giurisprudenziale e Dottrinale sul femminicidio in Italia.

Il termine femminicidio, innanzitutto indica tutti quei casi di omicidio, in cui un uomo, per vari motivi, uccide una donna. Di solito i soggetti sono in relazione affettiva tra loro (moglie/marito o rapporto extra coniugale) e val la pena rimarcare come il femminicidio sia un fenomeno sociale. In quanto  fenomeno di rilevanza globale, infatti, il termine indica, in generale, una violenza fatta ad una donna in quanto tale, ma è altresì vero che non in tutti i casi di donne uccise, si può parlare di femminicidio.

Non è facile risalire alle sue origini in Italia, poichè  a livello istituzionale i dati non vengono raccolti con sistematicità e se è possibile rinvenire qualche dato positivo, il merito è dei centri antiviolenza, costituiti solo dal 2005.

Se consideriamo la Giurisprudenza internazionale, nel 2009 è stato riconosciuto come crimine di Stato dalla Corte Interamericana.

In quello stesso anno, in Italia si muovono alcune riforme al codice penale circa le violenze in genere, ma sulle stesse è intervenuta la Corte Costituzionale con Sentenza n. 265/2010 dichiarandone l’illegittimità costituzionale ex artt. 3, 13, co.1, 27, co.2, della Costituzione, poichè, secondo la Corte,”la disposizione oggetto di scrutinio trova collocazione nell’ambito della disciplina codicistica delle misure cautelari personali, in particolare di quelle coercitive (artt. 272-286-bis), tutte consistenti nella privazione – in varie qualità, modalità e tempi – della libertà personale dell’indagato o dell’imputato durante il procedimento e prima comunque del giudizio definitivo sulla sua responsabilità. In ragione di questi caratteri, i limiti di legittimità costituzionale di dette misure, a fronte del principio di inviolabilità della libertà personale (art. 13, primo comma, Cost.), sono espressi – oltre che dalla riserva di legge, che esige la tipizzazione dei casi e dei modi, nonché dei tempi di limitazione di tale libertà, e dalla riserva di giurisdizione, che esige sempre un atto motivato del giudice (art. 13, secondo e quinto comma, Cost.) – anche e soprattutto, per quanto qui rileva, dalla presunzione di non colpevolezza (art. 27, secondo comma, Cost.), in forza della quale l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. L’antinomia tra tale presunzione e l’espressa previsione, da parte della stessa Carta costituzionale, di una detenzione ante iudicium (art. 13, quinto comma) è, in effetti, solo apparente: giacché è proprio la prima a segnare, in negativo, i confini di ammissibilità della seconda. Affinché le restrizioni della libertà personale dell’indagato o imputato nel corso del procedimento siano compatibili con la presunzione di non colpevolezza è necessario che esse assumano connotazioni nitidamente differenziate da quelle della pena, irrogabile solo dopo l’accertamento definitivo della responsabilità: e ciò, ancorché si tratti di misure – nella loro specie più gravi – ad essa corrispondenti sul piano del contenuto afflittivo. Il principio enunciato dall’art. 27, secondo comma, Cost. rappresenta, in altre parole, uno sbarramento insuperabile ad ogni ipotesi di assimilazione della coercizione processuale penale alla coercizione propria del diritto penale sostanziale, malgrado gli elementi che le accomunano.

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