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"Frontiera di Pagine Magazine on Line" Rivista di Arte, Letteratura, Poesia, Filosofia, Psicoanalisi, ... Lo sguardo poetico vive sempre di un’esperienza di confine. Ma è allo stesso tempo un modo ragionevole di conoscere il mondo, di esplorarne gli anfratti. Un fenomeno umano che si lascia sorprendere e invita a un viaggio e a una meta. La pagina scritta è il segno di una tensione a ciò che compie, al dato dell’esistenza. Attraverso questo strumento conoscitivo e antropologico, ciò che desta la nostra attenzione è sì un’esperienza di confine, spesso fratturata, ma è, per dirla con le parole di Luzi: un atto di “onore” per la realtà. L’esperienza del limite non appartiene solo al poeta in quanto tale, ma è caratteristica precipua di ogni esperienza umana. L’io ha bisogno del tu per completarsi e mettersi in relazione, e che possa, in qualche modo, vincere questa mancanza. Un qualcosa che poggia sull’oltre e che sia riconoscimento di una domanda. Un dono, un appiglio, un gancio. Oltre all’esperienza di stupore e di obbedienza devota, per dirla alla Auden, ciò che ridesta lo sguardo, con i gomiti appoggiati all’orizzonte, ci sono due termini decisivi per ogni esperienza poetica e letteraria: memoria e visione. Due atti coniugati al presente per raccogliere il reale. Si scrive ricordando, come messa a fuoco della memoria. Intesa nel suo significato di azione viva, per inseguire ciò che non si sa. Inseguimento duro che non si inventa. Un ricordo che non ricorda, scriveva Piero Bigongiari, per cercare la fodera di ciò che c’è e vederla, appunto. In questo passaggio di rubrica si scoprirà ciò che alimenta il respiro, in una narrazione presente, un abbraccio di occhi tra sangue e respiro, come uomini veri e liberi.

Il dettato amoroso di Edmund Spenser

di Andrea Galgano                                         20 ottobre 2013

Poesia moderna

pdf 96 (23) 20 10 2013 IL DETTATO AMOROSO DI EDMUND SPENSER

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Edmund Spenser (1552-1599) rappresenta una traccia ambiziosa nell’epoca elisabettiana. Di lui si è detto che fosse “il nuovo poeta” o “il poeta dei poeti”, secondo le definizioni di epoca romantica, ma, sicuramente, fu colui che meglio incarnò lo spirito della sua epoca e che riuscì a fondere le diverse anime della letteratura a lui coeva, nell’alto esempio di scrittura, nel fitto fondo petrarchesco e nel suo discorso d’amore che si attesta sulle prossimità ultime.

Nonostante la controversa, per molti aspetti, carriera politica, segnata dalla fedeltà al trono d’Inghilterra e dalla vicinanza a lord Arthur Gray, responsabile dell’eccidio di seimila cattolici, la sua vocazione fu preminentemente poetica, al servizio della forma e dell’espressione. Essere “poeta dei poeti” significa percorrere non solo la tradizione (Chaucer e le sue possibilità dialogiche, oltre che Petrarca), ma anche definire la soglia di visione di autori che a lui e alle sue famose stanze (un’ottava ariostesca con un alessandrino finale) hanno guardato, come Keats, Shelley, Byron, fino a Tennyson.

La sua Faerie Queene rappresenta la prima visione epica che l’Inghilterra abbia avuto, come programmatica, visionaria e irriducibile celebrazione della Vergine che veglia sull’Impero britannico, e un omaggio eroico alla Corona sulla scorta dell’Eneide. «è un poema cavalleresco», scrive Luca Manini, perché i suoi protagonisti sono cavalieri erranti che si muovono in un territorio indefinito, a tratti coincidente con l’antica Bretagna, e in cui il tempo e lo spazio rispondono a istanze fantastiche».

Doveva includere dodici libri, ma ne riuscì a scrivere solo sei e un settimo incompiuto. Dodici come le virtù aristoteliche (Santità, Temperanza, Castità, Amicizia, Giustizia, Cortesia), canonizzate cristianamente da San Tommaso d’Aquino. Ogni libro è suddiviso in dodici canti e, recuperando l’impianto virgiliano attraverso l’exemplum e l’iniziazione di un gentiluomo alla gentile disciplina, testimonia l’ascensione al trono della regina. Protagoniste, pertanto sono, una principessa cristiana che si chiama Una e la sua avversaria, Duessa. Attorno a loro una schiera di più di duecento personaggi, sotto il comando, da una parte del negromante Arcimago e dall’altra, del Cavaliere della Rossa Croce che affronta e sconfigge Errore, dalle cui viscere oltre a «rane ributtanti e rospi senza occhi», contiene anche libri e documenti. In alto, la regina Gloriana, sovrana di virtù e specchio morale, che abita nella Terra Fatata e che si aggira nel poema come una sorta di sfondo menzionato in dissolvenza.

E, infatti, lo scopo del poema, come scrive Spenser, è quello di «formare un gentiluomo o una persona nobile nella disciplina della virtù», come forma in divenire, come erranza di un mondo caduto inafferrabile e ininterpretabile, come, ad esempio, avviene nell’immagine di Arthegall: «E subito le fu porto allo sguardo un bel cavaliere, armato di tutto punto, con la scintillante visiera sollevata, sotto la quale appariva un volto virile, che faceva tremare i nemici e invitava gli amici a stringere con lui tranquille tregue; era pari al volto di Febo quando questi, ad oriente, si leva tra due ombrose montagne; era pieno di dignità nella persona, e ancor di più lo pareva per la grazia eroica e il portamento fiero. Sul cimiero aveva un segugio accucciato, e l’armatura sembrava di foggia antica, straordinariamente solida e massiccia, tutta tempestata d’oro; v’era scritto, in lettere antiche: Le armi di Achille che Arthegall a sé vinse. Sullo scudo dai sette strati portava un piccolo ermellino incoronato, che, con la candida pelliccia, risaltava sul campo azzurro».

La descrizione delle scene, filtrate attraverso la finzione storica e il riflesso, come in questo caso, porta al dettato poetico una struttura armonica e musicale di realtà e di ombra, che fa di quest’opera un grande orizzonte epico, in un flusso senza fine e in una prospettiva di meraviglia e varietà. Basti pensare alle storie meravigliose di Belfebe e di Amoretta, all’amore di Florimell per Marinell o ancora al matrimonio del Tamigi e del Medway.

Afferma Thomas P. Roche, jr: «è mia congettura che Spenser vide nelle oscillazioni della storia tra Elisabetta e Leicester la possibilità di un poema epico inglese che ancora non era stato scritto, con Elisabetta come Gloriana e Leicester come Artù. Sarebbe stata un’ottima mossa politica ed economica, e sarebbe stato completato prima che Elisabetta e Leicester fossero regina e re. Ma, naturalmente, le cose non andarono così».

Il passato mitico e il presente tendono ad unirsi in una unità fiabesca che mira a una funzione storica, per accreditare la piena veridicità della vicenda arturiana. Gli autori che lo hanno preceduto condensano, nella loro arte, la storia e la via di Spenser, attraverso le deviazioni, e il complesso impianto strutturale, il gesto sovraccarico di emblemi e arazzi, si spinge alla creazione di un poema cavalleresco, in cui i cavalieri, britannici e fatati, abitano il tempo irreale e immaginifico dello spazio, come epica trasmutata, percussione eroica e cristiana e lotta.

Scrive Luca Manini: «Spenser è l’osservatore consapevole della varietà infinita delle vicende umane, della natura come inesausta generatrice, del passaggio inevitabile, e irrefrenabile, dalla generazione al decadimento e alla sparizione; è il poeta della transitorietà delle umane cose, delle virgiliane lacrimae rerum, dell’incerto confine tra essere e apparire, della maschera e della metamorfosi; è l’artista sorretto da un mai esaurito anelito alla stabilità delle cose, stabilità impossibile qui, sulla terra,e possibile solo in una dimensione ultraterrena; e se passiamo a chiederci cosa affascinò Spenser nei poemi di Ariosto e Tasso, dobbiamo dare risposte diverse […]».

Il finto disordine ariostesco, se da un lato non permette una unidirezionalità di visione, dall’altro impone una netta partecipazione alla creaturalità, al suo limite indicibile, all’inseguimento del suo compimento e allo spostamento della piena realizzazione della sua sfuggente e inafferrabile felicità.

La precarietà umana abita il mondo ariostesco come tematica di rapporto e acuto stridore di stabilità, dai comportamenti, ai gesti, ai codici, fino alla frattura e al contrasto dell’ideale e perfetto mondo cavalleresco e la realtà mutevole del presente.

Il pieno ordine tassiano richiamava, invece, alla «storia della nascita dell’unità» (specie nel rapporto conflittuale tra l’Uno, Sommo Bene, e la mutevolezza del creato, in Spenser quasi una ferita), alla discreta ed evidente linea narrativa, con le strutture logiche, teleologiche e, non ultime, teologiche, la coincidentia oppositorum, e la fede come riconoscimento di una presenza che svela e “fa” il mondo: il Cavaliere della Rossa Croce (san Giorgio d’Inghilterra) che, come Goffredo combatte per liberare Gerusalemme, si muove per liberare la terra di Una da un drago demoniaco, finendo, dopo incidenti erranze, per liberare i genitori di Una o Sir Guyon che tenta di distruggere il Giardino del Piacere, quasi alciniano archetipo di Circe, dove vive Acrasia, la maga lussuriosa contenuta nel fato potente della sua bellezza e simbolo dell’intemperanza o Arthegall che libera il regno di Irena dal gigante Grantorto, compongono il sentiero di una redenta e finale meta, approdo che disegna ed è funzionale al disegno simbolico, narrativo ed allegorico del poema.

L’allegoria continua che permane, come accostamento di temi e di stile, e la volontà di rendere esemplare ogni episodio, invita il lettore a prender coscienza di un atto poetico che possa formare, educare e infine scuotere nell’intimo: «Io sono l’uomo la cui Musa, un tempo, indossò, come il momento le dettava, le umili vesti di un pastore, e al quale ora è imposto un compito che non sento mio: mutare le zampogne in trombe severe e cantare le nobili gesta di cavalieri e dame; troppo a lungo, nel silenzio, ha dormito la loro fama, e ora la sacra Musa invita me, che non ne sono degno, a diffonderla tra i suoi seguaci; guerre feroci e fedeli amori saranno materia e esempio del mio canto».

Commenta Manini: «Come in Ariosto, Spenser unisce le lezioni marziali del ciclo carolingio con l’amore del ciclo arturiano, ma egli qualifica gli amori di cui canterà con l’aggettivo “fedeli”,e, nel nono verso che aggiunge all’ottava italiana, usa il verbo moralize, ovvero rendere morale ed esemplare le storie che narrerà, introducendo un piano assente in Ariosto, e sottolineando la propria volontà di trasmettere, mediante la composizione del poema, un messaggio chiaramente diretto all’educazione del lettore».

L’erranza dei cavalieri, i quali deviano la loro rotta in spazi angusti e labirintici (foreste, imi, caverne, spelonche) e vittime di peccati ed errori, tende sempre a una finale ricostituzione unitaria e singola di redenzione ed elezione, in una lotta strenua ed estrema che unisce integrità fisica e integrità morale.

Nel canto III del libro VI, il protagonista Calidore, modello di cortesia, finisce per trovarsi in un luogo pastorale, deviando dal suo compito che è quello di distruggere la Bestia Berciante (Blatant Beast), vera allegoria della calunnia, che un giorno si libererà, pervertendo di nuovo la verità, creando, nuovamente, disordine, disomogeneità e degenerazione. Nella contrapposizione e caratterizzazione positive e negative di vita attiva e contemplativa, egli si arrampica sul monte Acidale, sacro a Venere, dove assiste, non visto, alla danza delle ninfe accompagnate dal pifferaio Colin Clout, (controfigura e alter ego di Spenser). Appena uscito dal nascondiglio, Calidore interrompe l’incantesimo, mettendo in fuga le damigelle.

Colina dice all’eroe che le tre donne che compongono il cerchio, circondate dalle fanciulle, sono le tre Grazie, le quali porgono doni per il corpo e la mente (offrire, accettare e infine restituire i benefici), mentre la donna al centro del cerchio simboleggia l’Amore, in una sorta di quadratura armonica e cosmica, richiamata dalla poesia. Ecco la trama di Spenser che riluce nei contrasti: il dicibile e l’indicibile, l’informe o il difforme che alla forma piena, lo smisurato alla contorsione malvagia.

L’uomo ha il compito, pertanto, di leggere il mondo, osservarlo, guardarlo, indagarlo e rivelando la propria lettura, può giudicarlo. Ogni evento, stratificato e complesso, ama svelarsi in una fantasia data, impastata con il reale, fucinata in forme sempre nuove.

In Spenser, sembra non affermarsi l’ironia ariostesca, anzi, la precisa linearità della sua espressione conferisce una serietà continuata e dottrinaria e una moralizzazione estesa.

La sequela ad Ariosto e Tasso permette di affermare, con maggiore vigoria, l’impeto dell’ambiguità immaginifica. L’immagine è lo specchio della sua anima, apparentemente artificiosa, ma intimo richiamo e sentiero di una tensione che non si risolve nel concetto, ma lo amplia e lo fa vivere, mettendosi al suo servizio, come colore della parola e delizia di stanza, evocatrici di emblemi e simboli. L’inganno di Duessa ai danni del Cavaliere della Rossa Croce si incastona in un groviglio di dubbi, spiriti e false immagini, come quando egli si imbatte in un albero nel quale vive lo spirito di Fradubbio, il quale narra del suo abbaglio dinanzi all’apparenza splendente della maga e di come lei lo abbia poi tramutato in albero, dopo essersi reso conto della verità. Il cavaliere segue il racconto di Fradubbio e Duessa, come signum della sua erranza cieca, del suo asservimento sensuale e della mancata distinzione, mescolata e non cosciente, tra falso e reale, dal momento in cui egli ha abbandonato Una, la Verità, e si è abbandonato ai piaceri di una donna duplice.

Ma la salvezza non appartiene alla singola volontà dei personaggi, bensì a qualcosa di superiore che è in grado di ridare vita e fortezza di spirito, come purificazione redentrice e nuovo battesimo.

In aggiunta alla formidabile proliferazione di vicende e intrico di personaggi fanno la loro comparsa i Mutability Cantos (1609), i canti della fuggevole e negativa Mutevolezza «che esige d’esser sovrana degli dei e degli uomini», ma alla quale non appartiene la consistenza ontologica, costretta ad appoggiarsi al suo contrario come presupposto.

Luca Manini, facendo riferimento al passaggio della Mutevolezza e all’episodio di Una che cavalca assieme al cavaliere della Rossa Croce (Asinus portans mysteria), scorge una stretta vicinanza alla Cabala del cavallo pegaseo di Giordano Bruno e afferma che però: «Al di là di queste suggestioni, però, ampio resta il divario tra la visione cosmologica e teleologica di Bruno e di Spenser, né Spenser avrebbe potuto fare propria l’idea di una natura e di un universo che fossero uno e infinito; per lui, la visione del mondo naturale della caducità e della peribilità si accompagna alla credenza di un perfetto e immobile (e distinto) mondo divino, meta finale dell’uomo».

Nel transito e nelle soste dei canti, Spenser compone la sua umanità in cerca di verità. Mai arresa impara a convivere con il limite, la caduta, il peccato e l’errore, ridisegnando, nella prospettiva del mondo incaduto, la sua coltre immobile che sosta, in una eterna attesa e promessa, fino alla visione dell’eterno bene.

Gli Amoretti, una raccolta di 89 sonetti dedicati a Elizabeth Boyle sua seconda moglie, rappresentano un canzoniere cristallino e netto allo stesso tempo, che vive di giustapposizioni ed echi precisi, non solo nella dicitura del nome Elizabeth, facilmente sovrapponibile, ma anche nella ipostasi amorosa, vista nella parabola non finita e cadenzata del ritmo delle stagioni.

Il dettato amoroso di Spenser, tende ad allontanarsi dalla secreta ironia di Astrophil and Stella di Sidney, giungendo, attraverso i suoi cupidi verbali, a una liquidità armonica e corposa, attraverso un personale intreccio di sostanza vissuta e trama del mondo («the lesson that the Lord us taught») e fusione di agape ed eros.

La caducità delle cose non tocca l’amore e la fama, perché esse sembrano proporre una meta immortale ed infinita. L’amore che guarda l’intensità del suo teatro, che nella sua innata fragilità sospesa, come l’arte, si fa terreno quando aspira al cielo, come unione acuta e imperitura.

Elizabeth rappresenta l’esito di una fusione ideale e carnale, come Stella polare di una firmamento acceso, in cui egli «parla di lei non a lei» (Giorgio Melchiori) e molto vicina all’eco del Cantico dei Cantici, si appropria del passaggio sensuale della verità, come fulgore e risveglio del tempo: «Venendo a baciare le sue labbra (tale grazia ho trovato) / mi sembrava di sentire l’odore di un giardino di dolci fiori».

Il suo io vive attraverso la voce dell’amata, in un dialogo di anime che si impregnano del verso fluido e armonioso dell’esistenza, come incanto e la delizia, marriage poem che abbraccia la realtà e che passa nella cruna del frammento e della riconciliazione. L’io si salva perché ama e anticipa l’eternità, con il suo movimento di archi sottesi: «Io scrissi, un giorno, il suo nome sulla spiaggia / ma vennero le onde a cancellarlo; / lo scrissi di nuovo, con l’altra mano; / ma vanne la marea a depredare le mie fatiche. “Uomo sciocco – mi disse Lei – che tenti invano / d’immortalare una cosa mortale: / poiché io stessa perirò allo stesso modo, / e persino il mio nome sarà cancellato”. “No – risposi – lascia che siano le cose meschine / a morire e farsi polvere; tu che invece vivrai nella gloria: / i miei versi terneranno le tue rare virtù / e scriveranno nei cieli il tuo nome glorioso. / E nei cieli, mentre la morte abbatterà il mondo intero, / vivrà il nostro amore, rinnovano un’altra vita».

Il canzoniere ha calma torrenziale e intimo prodigio. Conosce la bellezza sovrana e la rapsodia delle figure, la pace e la pena di un unico sospiro, di un unico bisbiglio donato alle porte del tempo.

 

spenser e., La regina delle fate, a cura di Luca Mainini, Bompiani, Milano 2012.

id., Amoretti, La Vita Felice, Milano 2003.

bertinetti p., Storia della Letteratura inglese. Dalle origini al Settecento, vol.I, Einaudi, Torino 2000.

manini l., Dal caos al cosmos: il canzoniere di Edmund Spenser, Bulzoni, Roma 2006.

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Andrea Galgano 20-10-2013 Il dettato amoroso di Edmund Spenser

Nozione e tipologie di stalking: da una recente sentenza della Corte di Cassazione

stalking_162532di Emanuele Mascolo   18 ottobre 2013

Lo stalking, ovvero gli atti persecutori di un soggetto verso altri, che causano la compromissione della vita quotidiana, sono penalmente rilevanti nel nostro ordinamento ai sensi dell’art. 612bis, c.p.

Questo reato è stato con D.L. 23/02/2009, n.11, convertito in L. 23 aprile 23/04/2009, n. 38.

La littera legis dell’art. 612bis, c.p., è la seguente: “salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque reiteratamente, con qualunque mezzo, minaccia o molesta taluno in modo tale da infliggergli un grave disagio psichico ovvero da determinare un giustificato timore per la sicurezza personale propria o di una persona vicina o comunque da pregiudicare in maniera rilevante il suo modo di vivere, è punito, a querela della persona offesa, con la reclusione da sei mesi a quattro anni”.

Ma quante tipologie di stalking ci sono?

In base ad una statistica comportamentale dello stolker possiamo distinguere:

1)                 il “risentito“: si tratta di solito di un ex-partner che desidera vendicarsi per la rottura della relazione sentimentale causata, a suo avviso, da motivi ingiusti;

2)                 il “bisognoso d’affetto”: agisce soprattutto nell’ambito di rapporti professionali particolarmente stretti come quello tra il paziente e lo psicoterapeuta. In questi casi i molestatori fraintendono l’empatia e l’offerta di aiuto come segno di un interesse sentimentale. Spesso il rifiuto dell’altro viene negato e reinterpretato sviluppando la convinzione che egli abbia bisogno di superare qualche difficoltà psicologica o concreta e che prima o poi riconoscerà l’inevitabilità del rapporto amoroso proposto;

3)                 è il “corteggiatore incompetente” che manifesta una condotta basata su una scarsa abilità relazionale e si traduce in comportamenti opprimenti ed esplicitamente invadenti.;

4)                 il “respinto” che manifesta comportamenti persecutori in reazione ad un rifiuto. Questo tipo di stalker è ambivalente perché oscilla tra due desideri contrapposti: da una parte desidera ristabilire la relazione mentre dall’altra vuole solo vendicarsi per l’abbandono subito.

5)                 il “predatore” è uno stalker  che ambisce ad avere rapporti sessuali con una vittima che può essere pedinata, inseguita e spaventata. La paura, infatti, eccita questo tipo di molestatore che prova un senso di potere nel pianificare la caccia alla “preda”. Questo genere di stalking può colpire anche bambini e può essere agito anche da persone con disturbi psicopatologici di tipo sessuale come pedofili o feticisti.

Il reato previsto dall’art. 612bis del codice penale viene punito a querela della persona offesa, con termine per la proposizione della querela di 6 mesi. Può, tuttavia, procedersi d’ufficio, quando il fatto viene commesso nei confronti di un minore di età oppure di una persona con disabilità (L. n. 104/1992) nonché quando il fatto viene connesso con altro delitto per cui debba procedersi d’ufficio.

È, altresì, procedibile d’ufficio quando il soggetto sia stato ammonito ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 8 del D.L. n. 11/2009, convertito in L. n. 38/2009, secondo cui fino a quando non viene proposta querela per il reato di stalking la persona offesa ha facoltà di esporre i fatti all’autorità di pubblica sicurezza, avanzando richiesta al questore di ammonimento nei confronti dell’autore della condotta.

Affinchè sussista lo stolking, il soggetto che mette in atto tali condotte (detto stalker) deve farlo in modo ripetuto, – chiunque reiteratamente – sostiene la norma, ciò però secondo la Giurisprudenza ormai consolidata, non coincide necessariamente con l’abitudine a compiere determinati atti e quindi l’abitualità non sempre configura la reiterazione del reato.

Infatti, una recente sentenza della Corte di Cassazione, Sezione V penale, n. 20993/2013 sostiene che si deve “ intendere per alterazione delle proprie abitudini di vita, ogni mutamento significativo e protratto per un apprezzabile lasso di tempo dell’ordinaria gestione della vita quotidiana, indotto nella vittima, come nel caso in esame, dalla condotta persecutoria altrui (quali la utilizzazione di percorsi diversi rispetto a quelli usuali per i propri spostamenti; la modificazione degli orari per lo svolgimento di certe attività o la cessazione di attività abitualmente svolte; il distacco degli apparecchi telefonici negli orari notturni et similia), finalizzato ad evitare l’ingerenza nella propria vita privata del molestatore. Trattandosi di reato abituale di evento, è sufficiente ad integrare l’elemento soggettivo il dolo generico, quindi la volontà di porre in essere le condotte di minaccia o di molestia, con la consapevolezza della idoneità delle medesime alla produzione di uno degli eventi alternativamente necessari per l’integrazione della fattispecie legale e delle conseguenze che ne sono derivate sullo stile di vita della persona offesa.

Invece, come affermato da una dottrina condivisibile non occorre una rappresentazione anticipata del risultato finale, ma, piuttosto, la costante consapevolezza, nello sviluppo progressivo della situazione, dei precedenti attacchi e dell’apporto che ciascuno di essi arreca all’interesse protetto, insita nella perdurante aggressione da parte del ricorrente della sfera privata della persona offesa.

Lo stalking è punito anche se commesso tramite i mezzi di comunicazione all’avanguardia come sms,email, facebook: sono i così detti cyberstalking. Se tali attività comportano una molestia rientrano nella fattispecie dell’art. 612bis c.p.

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Lo stalking si configura anche in caso di reciproche moleste tra vittima e reo.

7 gennaio 2013

Una recente sentenza della Corte di Cassazione, la n. 45648 del 14 novembre 2013, rifacendosi ad un precedente giurisprudenziale, ha chiarito come “ la reciprocità dei comportamenti molesti non esclude la configurabilità del delitto di atti persecutori, incombendo, in tale ipotesi, sul giudice un più accurato onere di motivazione in ordine alla sussistenza dell’evento di danno, ossia dello stato d’ansia o di paura della presunta persona offesa, del suo effettivo timore per l’incolumità propria o di persone ad essa vicine o della necessità del mutamento delle abitudini di vita.”

Inoltre ha chiarito che,  alla base di tale decisione milita la considerazione che il reato di cui si discute prevede eventi alternativi la realizzazione di ciascuno dei quali è idonea ad integrarlo: deve trattarsi di un comportamento reiteratamente minaccioso o, comunque, molesto dell’agente dal quale derivi per il destinatario della molestia o minaccia (reiterata), quale ulteriore evento dannoso, un perdurante stato d’ansia o di paura, oppure un fondato timore dello stesso per l’incolumità propria o di soggetti vicini, oppure, ancora, il mutamento necessitato delle proprie abitudini di vita. Ciò comporta la necessità di una indagine approfondita volta ad accertare in quali termini tali condotte “persecutorie” vengano poste in essere ed in quale contesto esse originino e si sviluppino: di guisa che se tali condotte maturino in un ambito di litigiosità tra due soggetti che evoca una posizione di sostanziale parità, non può parlarsi di condotta persecutoria nei termini richiesti dalla fattispecie astratta la quale si riferisce invece ad una posizione sbilanciata della vittima rispetto all’autore dei comportamenti intimidatori o vessatori.

Il termine reciprocità – secondo la Corte di Cassazione -, non vale, dunque, ad escludere in radice la possibilità della rilevanza penale delle condotte come persecutorie ex art. 612 bis c.p., occorrendo che venga valutato con maggiore attenzione ed oculatezza, quale conseguenza del comportamento di ciascuno, lo stato d’ansia o di paura della presunta persona offesa, o il suo effettivo timore per l’incolumità propria o di persone a lei vicine o la necessità del mutamento delle abitudini di vita. Deve, in ultima analisi, verificarsi se, nel caso della reciprocità degli atti minacciosi, vi sia una posizione di ingiustificata predominanza di uno dei due contendenti, tale da consentire di qualificarne le iniziative minacciose e moleste come atti di natura persecutoria e le reazioni della vittima come esplicazione di un meccanismo di difesa volto a sopraffare la paura. Né può dirsi che la reazione della vittima comporti, comunque, l’assenza dell’evento richiesto dalla norma incriminatrice, non potendosi accettare l’idea di una vittima inerme alla merce del suo molestatore ed incapace di reagire. Anzi non è neanche da escludere che una situazione di stress o ansia possa generare reazioni incontrollate della vittima anche nei riguardi del proprio aggressore. Il reato in parola si configura come reato di evento in contrapposizione al reato di minaccia di cui all’art. 612 cod. pen. qualificato come reato di pericolo, pur costituendo la minaccia elemento costitutivo comune ad entrambe le fattispecie.”

 

Ausonio,Claudiano,Rutilio Namaziano: La vela obliqua della latinità

di Andrea Galgano                                         12 ottobre 2013

Poesia Latina

pdf Ausonio, Claudiano, Rutilio Namaziano: La vela obliqua della latinità

Ausonius

Le corti imperiali della seconda metà del IV secolo portano il nido di una interessante produzione poetica. La presenza di un pubblico importante e colto, la possibilità di una intensa carriera poetica dopo un carme ben composto, l’interesse suscitato dall’imperatore e dalla sua famiglia che nella pagina degli autori potevano diffondere la loro ideologia soprattutto ai ceti dominanti, rappresentavano, per i poeti e gli scrittori del tempo, una decisiva visibilità espressiva.

Uomini di ogni estrazione, dall’otium dei ricchi signori, fino a rispettabili maestri di scuola o uomini viandanti, componevano in modo variegato, intrisi di tradizione e vicinanza ai classici e fermi nell’immagine di Augusto, imperatore illuminato e uomo di pace.

Decimo Magno Ausonio (Burdigala, odierna Bordeaux, ca. 310- dopo il 393), insegnante di retorica prima a Tolosa e poi nella città di origine per trent’anni, amico e corrispondente di Simmaco, fu il più celebre tra i grammatici di Gallia, percorse una splendida carriera di onori.

Fu chiamato nel 365 dall’imperatore Valentiniano I alla corte di Treviri come precettore di Graziano che, quando fu imperatore, lo volle questore del palazzo imperiale, prefetto per Gallia, Italia e Africa, e console per l’anno 379. Morto Graziano nel 383, si ritirò nella sua città. L’imperatore Teodosio (379-395) lo considerava al pari dei grandi letterati dell’età augustea, chiamandolo parens (padre).

Scrive Luca Canali: «Intanto il Cristianesimo pervadeva la società, entrava nelle corti, conquistava gli imperatori, ma con ciò stesso si snaturava, diveniva lassista, a volte si corrompeva, perdeva lo slancio evangelico, si faceva opzione opportunistica per la carriera, o peggio, come scrisse impietosamente Salviano, il retore gallico fattosi poi monaco rigorista, si abbrutiva in «ricettacolo di tutti i vizi», «contro i quali ci si scaglia in pubblico per poi praticarli in privato». All’interno del cristianesimo la crisi morale – prima ancora di quella teologica e intellettuale delle eresie – spinge al monachesimo ascetico “grandi intellettuali” come Paolino da Nola, che ripudierà l’intera sua formazione culturale classica, mentre san Girolamo continuerà a coltivare la tradizione letteraria latina ma sentendosi dolorosamente “diviso” fra Cristo e Cicerone»

L’anima cristiana di Ausonio era imbevuta di ispirazione profana. La sua abbondantissima produzione, dai Versus Paschales, chiusa degli Epigrammi, fino all’Ephemeris, ai Parentalia, all’artificio del Technopaegnion, alle sofferenze d’amore del Cupido cruciatus o alla Bissula e alla Mosella, e la tensione poetica verso la tradizione, a lui precedente, rappresentano lo sfondo di una intensa ispirazione, concentrata sul lavorio verbale e sulla polimetria, che danno vita a un accentuato e un virtuosistico sperimentalismo di carte affastellate.

La transizione tra il mondo antico e quello tardo medioevale, già percorso dai barbari, segna in lui un vortice prezioso e debole, il limite del vissuto che, però, ha sempre bisogno di riflettersi in sfoggio retorico, misura, spregiudicatezza.

L’originalità del suo gesto, ricolmo di interessanti forme grafiche, assume su di sé il domino della lingua, l’originalità dell’espediente che scoperchia la tradizione, per assumere freschezza di ombre e ambiguità di apparenze.

Bissula è il nome privato e intimo dell’amore, «forse la prima figura germanica vista da vicino, senza deformazioni prospettiche», come scrive Francesco Arnaldi, che si unisce all’amore «per i suoi e per la sua terra fanno di Ausonio un romantico provinciale, in cui, se è vano cercare una grande arte, il lettore attento può sempre trovare una vena di sentimento poetico. Di fronte a questo, merita appena d’essere rilevato il fatto che dalle svariatissime produzioni poetiche di Ausonio, noi possiamo farci una chiara idea delle opere dei neoterici, poeti latini del sec. II che amavano dire di ogni argomento in versi rari. E se c’è nell’ammirazione per Ausonio dei suoi protettori e nel suo cattedratico orgoglio molta ingenuità da Medioevo, noi oggi possiamo, pur sorridendo, comprendere quell’entusiasmo».

Uno schizzo, un bozzetto e un invito a decretarne la bellezza, l’incarnazione racchiusa di un volto che si apre e si svela: «Né cera né colore possono rappresentare il volto di Bissula / la sua nativa bellezza non si presta agli artifici della pittura. / Vermiglio e bianco possono riprodurre altre fanciulle: / la mano del pittore non conosce la proporzione giusta dei toni per rendere il volto. E dunque, pittore, / mescola alla porpora della rosa una vena di giglio, / e quel chiaro color d’ari che ne verrà, quello sia il colore del suo viso».

Ma è nel poemetto Mosella (satura odeporica, epibaterion, encomio, epillio o idillio, ecfrasis?) che Ausonio offre la sua visione narrativa e descrittiva: «egli sa giocare come pochi con le ombre capovolte, con i riflessi trascoloranti degli alberi nelle acque dei fiumi, con le brevi e rapide composizioni sui sessi incerti o doppi e incompleti nella loro castrante duplicità, gli innamoramenti impossibili e mortali, le disperazioni inconsolabili risolte in autodistruzioni liberatorie». Il grande fiume che nasce sui Vosgi, si getta nel Reno e sulle cui rive si sporgeva la capitale Treviri (Trier) è un transito di freschezza, in cui il paesaggio arioso e libero, dove Satiri e Ninfe abbandonano il loro corpo alla danza tattile nella canicola solitaria.

Pur nella abbondante misura retorica, l’ispirazione è levità che si poggia sulla limpidità, sulla pienezza dei vigneti e dei declivi e sull’ariosità del cielo.

Aveva trascorso molti anni a Treviri, lì aveva svolto la funzione di precettore al figlio dell’imperatore Valentiniano e alla Mosella porge il suo canto mai sfiorito, come passo di danza inattesa e dipinto di suono: «Salve, o fiume elogiato per i campi che ti costeggiano / lodato per i tuoi coloni; / a te i Belgi sono debitori delle mura degne della sede imperiale, / i cui colli sono coltivati a vigneti dal succo fragrante, / o fiume verdissimo che scorri fra le rive erbose! (vv.23-26).

I riflessi sono ombre ricolme e piene: «quando il glauco fiume riflette l’ombra dei colli e sembra / che le sue acque frondeggino e nella corrente siano piantati tralci di vite. / Quale colore nei flutti quando Vespero sospinge le sue tarde / ombre e soffonde la Mosella del verde dei monti! / Gli interi gioghi nuotano negli increspati movimenti dell’acqua / trema l’immagine dei pampini e i grappoli sembrano più turgidi / nelle vitree onde. / l’illuso battelliere conta le verdi viti, / quel battelliere che sulla barca scavata in un tronco d’albero oscilla / sulle acque in mezzo alla corrente là dove il profilo d’un colle / si confonde col fiume, e il fiume intreccia fra lori i confini delle ombre (vv.189-199)».

È una freschezza flessibile ed evocatrice che cadenza il ritmo vitale, come il pescatore che si curva e i cui ami spazzano frotte di pesci impigliati nei nodi delle maglie e sentono la ferita mortale delle esche.

L’angolatura prospettica condensa tutte le possibili intensità visuali, che riuniscono mondo umano e mondo vegetale e animale, come vivente trama e sbocco poetico, come navigazione fanciulla e stuporosa verso i rapimenti dei transiti, l’affetto dei paesaggi, l’incontro.

L’abbandono, che pur ama frequentare la catalogazione erudita, deve abbracciare l’evasione crepuscolare, la metafora maestosa e serena del fischio del tempo, dell’ironia, del battito lieve e non ancora rassegnato. Qui la sua forza e la sua perdita, come il limite di un ristoro momentaneo.

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La poesia di Claudio Claudiano (370-404 d.C.) è erranza itinerante. Nato ad Alessandria d’Egitto, attivo alla corte d’Occidente dopo Ausonio, celebra il suo imperatore, all’interno dell’amministrazione imperiale (fu tribunus et notarius). Egli, giunto dall’Egitto, bilingue scaltrito di cultura greca, come una voce lontana che disegna la romanità, si trova nel quadro della celebrazione di Roma e di Stilicone (De bello Gildonico, De consulatu Stilichonis, De bello Gothico, così come le lodi alla benefattrice Serena, moglie di Stilicone), in uno di quei scrinia, tempio di decisioni segrete e di fedeltà incrollabili. Si trasferì poi a Milano, entrando nelle grazie di Onorio, imperatore di Occidente.

L’esametro dei panegirici, delle invettive, contro Rufino ed Eutropio, dei poemi storici e mitologici, degli epitalami, dei carmi in greco (la Gigantomachia tanto cercata da Poliziano nelle sue missive a Bembo) è la sua coltre prigioniera che inquadra il tempo, tenta di sforarlo, scompaginarlo, viverlo.

«Il genio di Claudiano», scrive Laura Micozzi, «è allusivo, assimilativo e consapevole; la sua poesia non è certo “ingenua”, ma fondata piuttosto sul lucido governo della tradizione precedente. Il suo stile è un raffinato prodotto di riflesso, saturo di esperienze culturali, fedele all’egemonia dei modelli della grande poesia latina. Tutta la cultura pagana del tardo impero tende del resto a coltivare una letteratura colta, nata nel laboratorio di poeti professionisti (che all’occorrenza si guadagnano da vivere, anche come maestri ed insegnanti), e lo studio dei classici dà in quel periodo frutti rilevanti anche nella lettura e nell’interpretazione dei testi».

«Il primo e più inquietante dei poeti moderni» che suona l’ultima fanfara incompiuta all’Impero, come scrisse Coleridge, getta le sue carte sul tavolo e sono i segni virgiliani e ovidiani di un a Christi nomine alienus (Agostino).

Oltre alla Gigantomachia, anche il De raptu Proserpinae, che narra il mito di Prosèrpina, rapita, nel caldo lussureggiante della Sicilia, da Ade, dio degli inferi, che la sposa nell’Erebo e Demetra, la madre della fanciulla, si mette sulle sue tracce.

I dibattiti sulla datazione dell’opera hanno aperto scenari di composizione che prediligono ora la storia a danno del mito o viceversa, ma di sicuro la sua stesura ha aperto una posizione privilegiata di una elisione e di un enigma. Un fatto di letteratura che racchiude l’inclusione di motivi antichi, varia i modelli, colloca suggestioni nuove.

Dall’invocazione solenne della prima scena, ai sogni e presagi premonitori, la fedeltà alla memoria poetica è un tratto saliente e un gradiente di espressività, che riflette la precarietà del presente con le angosce, le riflessioni, gli sguardi opachi: «I destrieri del rapitore, signore dell’abisso, e le stelle, incalzate dall’ansare del occhio tenario, e il talamo cinto di tenebra di Giunone infernale: questo mi spinge a svelare con l’audacia del canto la mente che trabocca. Fatevi indietro profani! Già il furore divino mi ha sgombrato dal petto ogni senso umano e il cuore è colmo dell’ispirazione di Febo» (vv.1-6).

La scomposizione di elementi diversi, la coerenza, la decadenza che scompagina il testo si afferma in Claudiano, come accensione molteplice di figura.

La scena isolata che profuma splendente, che afferma i dettagli e contorsioni verbali, porta dentro il sentore della perdita, dell’ossessione frequente e infine della lacerazione che indugia, come una irruzione di tempo sparpagliato e cialtrone.

La narrazione dilatata del rapimento si appende al mondo e ne esplora le rifrazioni, i segni sparsi e «come l’Achille staziano, il suo Plutone sperimenta infatti l’amore (non la guerra), e l’eros introduce una dinamica nuova nella caratterizzazione del personaggio, che nei modelli aveva una fisionomia piuttosto stereotipata» (Laura Micozzi).

L’etica mitologica rimane incompiuta, pur cercando di colmare i vuoti del distacco e del tempo lontano della tradizione, per finire nell’ultimo scrigno di una civiltà in declino.

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Nella stessa atmosfera culturale è immerso il poeta gallico Claudio Rutilio Namaziano, altissimo dignitario dell’Impero d’Occidente e praefectus urbi nel 414, di famiglia illustre e pagano convinto.

Quando nel 410, c’era stato il sacco di Roma, compiuto per tre dai Goti di Alarico, queste popolazioni erano risalite in Provenza e in Aquitania, saccheggiando e devastando, il poeta si vide costretto a ritornare in Gallia per sovrintendere alle necessarie riparazioni delle sue terre.

Lo storico Camille Jullian scrive: «[…] Che cos’erano diventati quei templi, quelle terme, quei teatri rurali, dove nei luoghi di fiera o di pellegrinaggio della Gallia romana, da tre secoli si erano distribuiti tanti piaceri e accumulate tante ricchezze? Senza dubbio non erano più che resti di muri a metà calcinati, e non serviranno più che a rifornire di pietre o di marmi i villaggi vicini, il giorno in cui questi si potranno ricostruire. […] Sui colli vicini alle sorgenti, al riparo di boschi profondi, molte ricche villae erano crollate, e nessuno pensava di utilizzarne i resti. A poco a poco la foresta si avvicinava ad essi: essa finirà, poiché nessuno le oppone resistenza, con il ricoprire queste vestigia miserevoli e far sparire e dimenticare sotto le sue fronde rinnovate i ricordi della ricchezza e delle calamità romane».

Il viaggio autunnale di Rutilio Namaziano per mare verso la Gallia, dal porto di Augusto ad Ostia, costeggiando le rive del Tirreno fino a Luni, alla foce del Magra, si avvale di brevi tappe e brevi scali in località in cui egli ne approfitta per descrivere luoghi e ricordare amici celebrandoli, lanciare invettive contro gli avversari e i nemici.

Le sfiorenti rovine occupano gli occhi, come commenta Alessandro Fo: «Il mondo che Rutilio ritrae è quello di un’Italia ferita dalle scorribande barbariche, in cui singole località destano memorie storiche o mitologiche, e più spesso offrono l’occasione di segnalare il passaggio o la presenza di amici e nemici. Gli amici sono nobili esponenti di quella aristocrazia senatoria in cui Rutilio ravvisa ancora il baluardo dell’antico valore romano. I nemici sono avversari politici o ideologici: famoso è il suo attacco allo stile di vita monastico, praticato nelle isole di Capraia e Gorgona, davanti alle quali si trova a passare. Rutilio appare fermamente arroccato nel paganesimo della tradizione: vede in Roma personificata una dea, accenna con sguardo partecipe ai culti di Osiride, mentre per il suo poemetto, se si esclude l’aggressione ai monaci, il cristianesimo – di recente assurto a religione ufficiale dell’impero – non sembra neppure figurare nei registri dell’esistenza».

Lo spopolamento, la rovina morale e la distruzione (Ambrogio dirà che gli edifici in rovina «semirutarum urbium cadavera», sono cadaveri di città semidistrutte) di luoghi come Castro Nuovo o Alsio e Pirgi, in passato fiorite d’oro, o Populonia distrutta dal tempo, non portano la resa di un’affezione a Roma, alla quale innalza il fervore di un inno di fede e resurrezione assorta, come proclamazione di un’antica gloria che vale anche per il presente: «fecisti patriam diversis genti bus unam» o ancora «Urbem fecisti quod prius orbis erat».

I monaci che fuggono la luce, rintanati nell’angustia degli occhi e degli spazi, rappresentano, per lui, la coltre di una umanità rinnegata, responsabili del declino dell’Impero.

Un mondo chiuso sottratto al presente rattrappito in una nostalgia che frequenta le ferite e le devastazioni e persino sulla fuga in una illusione antica prigioniera di una sottrazione civile evidente, aleggia l’ombra del multiforme Stilicone, colui che ha aperto le porte dell’Italia ad Alarico e Ataulfo.

il viaggio di un viaggio, condensato nelle divagazioni, nelle chiose, nella trama non sempre fertile dei giorni, apre il suo exitus finale a un tempo che si appropria di esistente e inesistente, come fragile membrana di una promessa irrisolta.

Alessandro Fo, analizzando la complessità dello sguardo rutiliano, commenta ancora: «Oscilla fra dolente constatazione degli insulti del tempo e un ottimismo propositivo fondato sulla fiducia nell’eternità di Roma e nella capacità ricostruttiva dei Romani – da quella dei cittadini che, sotto gli auspici di Costanzo hanno ricostruito Albingaunum a quella di chi, come lui stesso, si accinge a provvedere di persona al restauro dei propri beni.»

La necessità di ritornare alle proprie terre, distrutte dai barbari, rapporta il testo al gemito di una franta umanità, che nel diletto, strappa il mantello della Fortuna e si attesta al tradizionalismo celebrativo: «è tempo di costruire, dopo feroci incendi, su fondi laceri / anche soltanto casette di pastori. / Che se le stesse fonti, anzi, dare voce, / se i nostri arbusti potessero parlare, / con giusti pianti mi stringerebbero mentre tardo / mettendo al mio desiderio le vele».

Il desiderio di vele ama sostare sulla morbida delicatezza del ritratto velato e viandante, come il porto di Centocelle, la rugiada dell’alba sulla porpora, il riflesso della costa sull’orlo dei flutti, l’aurora secca di saline, il nembo tagliato: «La prima luce brillò rugiadosa nel cielo purpureo: / tendiamo le vele inclinate in una piega obliqua. / Per un tratto evitiamo il fondale basso lungo le foci del Mignone: / anguste imboccature vi agitano onde infide. / quindi avvistiamo i tetti sparpagliati di Gravisca, / oppressa spesso in estate, da odore di palude, / ma i dintorni boscosi verdeggiano di fitte foreste / e sull’orlo del mare tremola l’ombra dei pini. / Scorgiamo le antiche rovine, senza alcuna custodia, / e le squallide mura di Cosa abbandonata. / Quasi ci si vergogna a rivelare, in mezzo a cose serie, la ragione / ridicola della disfatta, però mi spiace mascherare il riso (vv.277-288)».

ausonio, La Mosella e altre poesie, Mondadori, Milano 2011.

arnaldi f., Dopo Costantino, Mariotti Pacini, Pisa 1927.

claudiano, Il rapimento di Proserpina, Mondadori, Milano 2013.

id., De bello Gothico, Pàtron, Bologna 1979.

conte g.b.- pianezzola e., Il libro della letteratura latina. La storia e i testi, Milano, Le Monnier 2000.

jullian c., Histoire de la Gaulle, vol. VII, Hachette, Bruxelles 1964.

lana i., Letteratura latina. Disegno storico della civiltà letteraria di Roma e del mondo romano, D’Anna, Messina-Firenze 1983.

paratore e., La letteratura latina dell’età imperiale, Firenze, Sansoni 1959.

prenner a., Quattro studi su Claudiano, Loffredo, Napoli 2003.

rutilio namaziano, Il ritorno, Aragno, Roma 2011.

scafoglio g., Intertestualità e contaminazione dei generi letterari nella Mosella di Ausonio, in «L’Antiquité Classique», 68, 1999.  

 

Tribunale UE: bandi di concorso in tutte le lingue

SSSS-bandiera-Europa

di Emanuele Mascolo    6 ottobre 2013

Con ricorso al Tribunale UE, L’Italia ha denunciato una discriminazione nella pubblicazione di alcuni bandi nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea (GUUE), scritti solamente in lingua inglese, francese e tedesca.

Il riscorso è stato accolto dal Tribunale UE, sezione V, che ha riconosciuto tale discriminazione, dando ragione all’Italia e pronunciandosi sulla questione con la sentenza n. T- 126/09 del 12/0972013.

In particolare, la questione ha riguardato i bandi pubblicati il 14 gennaio 2009 riguardanti i concorsi generali EPSO/AD/144/09, nel settore della pubblica sanità, EPSO/AD/145/09, nel settore della sicurezza alimentare (politica e legislazione), EPSO/AD/146/09, nel settore della sicurezza alimentare (audit, ispezione e valutazione), per la costituzione di un elenco di riserva per l’assunzione di amministratori (AD 5) aventi cittadinanza bulgara, cipriota, estone, ungherese, lettone, lituana, maltese, polacca, rumena, slovacca, slovena e ceca, pubblicati nelle versioni tedesca, inglese e francese della Gazzetta ufficiale dell’Unione Europea.

Nel ricorso, l’Italia, deduceva la violazione degli articoli 1, 4, 5 e 6 del regolamento n. 1, del Consiglio, del 15 aprile 1958, che stabilisce il regime linguistico della Comunità economica europea, degli articoli 12 CE, 39 CE e 290 CE, dell’articolo 1, paragrafi 2 e 3, dell’allegato III dello Statuto dei funzionari delle Comunità europee, dell’articolo 22 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata il 7 dicembre 2000 a Nizza, dei principi di non discriminazione, di motivazione, del multilinguismo, di tutela del legittimo affidamento e di proporzionalità, nonché uno sviamento di potere.

Pertanto, a sostegno del suo ricorso, argomentava due motivi: il primo attinente alla pubblicazione dei bandi di concorso controversi in sole tre lingue ed il secondo attinente alla limitazione a tre lingue per le comunicazioni con l’Ufficio europeo di selezione del personale (EPSO) e per le prove dei concorsi.

Quanto al primo motivo, sosteneva che i bandi di concorso avrebbero dovuto essere pubblicati in tutte le lingue ufficiali, facendo valere che la Commissione non avrebbe potuto limitare la scelta dei candidati a sole tre lingue per le loro comunicazioni, con l’EPSO e per le prove dei concorsi, infine durante l’udienza, ha sollevato il problema degli effetti di tale annullamento sugli elenchi di riserva risultanti dai concorsi. Successivamente, rispondendo ad un quesito del Tribunale, la Commissione ha precisato che tali elenchi erano stati prorogati fino al 31 dicembre 2013.

Per ciascun motivo il Tribunale Europeo ha motivato la sua decisione come segue:  “ ai sensi dell’articolo 1 dell’allegato III dello Statuto, il bando di concorso viene emanato dall’autorità avente il potere di nomina dell’istituzione che organizza il concorso stesso, previa consultazione della commissione paritetica, e deve specificare un certo numero di informazioni riguardanti la procedura di selezione. A seguito della decisione 2002/620/CE del Parlamento europeo, del Consiglio, della Commissione, della Corte di giustizia, della Corte dei conti, del Comitato economico e sociale, del Comitato delle regioni e del Mediatore, del 25 luglio 2002, che istituisce l’Ufficio di selezione del personale delle Comunità europee, i poteri di selezione conferiti segnatamente da tale allegato alle autorità che hanno il potere di nomina delle istituzioni firmatarie della decisione stessa sono esercitati dall’EPSO.

 Orbene, conformemente all’articolo 1, paragrafo 2, dell’allegato III dello Statuto, il quale stabilisce specificamente che, per i concorsi generali, deve essere pubblicato un bando di concorso nella Gazzetta ufficiale, in combinato disposto con l’articolo 5 del regolamento n. 1, il quale dispone che la Gazzetta ufficiale è pubblicata in tutte le lingue ufficiali, i bandi di concorso devono essere pubblicati integralmente in tutte le lingue ufficiali.

Poiché tali disposizioni non prevedono alcuna eccezione, non si può considerare, nel caso di specie, che l’avviso sintetico, pubblicato nella Gazzetta ufficiale in tutte le lingue lo stesso giorno, ha posto rimedio all’omessa pubblicazione integrale nella suddetta Gazzetta ufficiale dei bandi di concorso controversi in tutte le lingue ufficiali.

Ad ogni modo, anche se l’avviso sintetico conteneva un certo numero di informazioni relative ai concorsi, partendo dalla premessa che i cittadini dell’Unione leggano la Gazzetta ufficiale, in mancanza di pubblicazione nella loro lingua materna, nella loro seconda lingua e che tale lingua sia una delle lingue ufficiali dell’Unione, un potenziale candidato la cui seconda lingua non fosse una delle lingue in cui erano stati pubblicati integralmente i bandi di concorso controversi avrebbe dovuto procurarsi la Gazzetta ufficiale in una di tali lingue e leggere i bandi in tale lingua prima di decidere se presentare la propria candidatura a uno dei concorsi.

Un candidato siffatto era svantaggiato rispetto ad un candidato la cui seconda lingua fosse una delle tre lingue nelle quali i bandi di concorso controversi erano stati pubblicati integralmente, sia sotto il profilo della corretta comprensione di tali bandi sia relativamente al termine per preparare ed inviare una candidatura a tali concorsi.

Tale svantaggio è la conseguenza della diversità di trattamento a motivo della lingua, – vietata dall’articolo 21 della Carta dei diritti fondamentali e dall’articolo 1 quinquies, paragrafo 1, dello Statuto, – generata dalla pubblicazione di cui trattasi. Tale articolo 1 quinquies dello Statuto prescrive, al paragrafo 6, che, nel rispetto del principio di non discriminazione e del principio di proporzionalità, ogni limitazione di tali principi deve essere oggettivamente giustificata e deve rispondere a obiettivi legittimi di interesse generale nel quadro della politica del personale..

Ne consegue che la prassi di pubblicazione limitata non rispetta il principio di proporzionalità e configura pertanto una discriminazione fondata sulla lingua, vietata dall’articolo 1 quinquies dello Statuto.

Di conseguenza, nel caso di specie, la pubblicazione completa dei bandi di concorso controversi nelle sole lingue tedesca, inglese e francese non rispetta il suddetto principio di proporzionalità e configura una discriminazione siffatta, cui la pubblicazione dell’avviso sintetico non ha potuto porre rimedio.

 In terzo luogo, deriva da quanto precede che non può, comunque, essere accolto l’argomento della Commissione, secondo cui incombe alla Repubblica italiana dimostrare che la pubblicazione nella Gazzetta ufficiale dei bandi di concorso controversi in sole tre lingue ha impedito a tutti i cittadini dell’Unione di prendere conoscenza della loro esistenza in condizioni di parità e non discriminatorie.

 Il Tribunale considera che, al fine di preservare il legittimo affidamento dei candidati prescelti, occorre non mettere in discussione i suddetti elenchi di riserva.”

 

 

L’inconscio della scrittura. Andrea Galgano – Irene Battaglini, Frontiera di pagine, Roma, Aracne, 2013

L’inconscio della scrittura. Andrea Galgano ­– Irene Battaglini, Frontiera di pagine, Roma, Aracne, 2013 

recensione di Giuseppe Panella

Frontiera di Pagine5 ottobre 2013

Fin dalle sue origini, la psicoanalisi si è cimentata con la letteratura e con l’arte, provandosi a dare una serie di risposte agli stessi interrogativi che la critica letteraria si pone da sempre.

Una lunga serie di analisi freudiane al riguardo costituiscono un corpus impressionante di tentativi di spiegare, attraverso l’interrogazione dell’inconscio, del perché un’opera d’arte sia nata così e abbia assunto proprio l’assetto formale che ad essa risulta necessario e consapevolmente più adeguato ad esprimere le esigenze dell’artista che l’ha realizzata.

Il caso rappresentato dal saggio di Freud sul Mosè di Michelangelo del 1914 (ma anonimo e poi riconosciuto solo nel 1924) è al riguardo esemplare: l’atteggiamento e la postura del profeta biblico sono la spia, la traccia manifesta della volontà di Michelangelo di spiegarne il comportamento successivo e l’atteggiamento umano di collera che lo contraddistinguono.

La raccolta degli scritti di Irene Battaglini e di Andrea Galgano, simbolicamente intitolata Frontiera di pagine, vuole disporsi teoricamente sul discrimine esistente tra critica d’arte ed esercizio psicoanalitico e cercare di utilizzare entrambe per raggiungere il risultato voluto: la ricostruzione del percorso di un’artista importante e significativo e lo svelamento del segreto contenuto nelle sue opere in modo tale da far esplodere tutta la potenza dell’inconscio che in esse si dispiega.

Nell’Introduzione, firmata da entrambi gli autori, si può conoscere esaurientemente lo scopo che essi si sono prefissi con questa loro raccolta:

<<La scrittura impone l’esperienza di un viaggio e di un possibile approdo che richiedono la speranza come messa alla prova, scuotimento, tocco, abbandono e dono delle responsabilità. E’ il gesto della beatitudine e della ferita che ogni volta si annunciano e si impongono a cogliere il nome che plasma la realtà, e che sconvolge misure strette, destando il suono di un’attenzione. La parola che “squadri da ogni lato l’animo nostro informe”, direbbe Montale, ha un limite sfarzoso e doloroso: toccare il sigillo rinnovato delle cose e non riuscire a sagomare tutta la realtà. E’ il limite passionale e fragile della condizione umana, la luce che si incide in solchi di tela e strappi di fogli, nei chiaroscuri dove non si esiliano le ombre[1]>>.

 L’esperienza della letteratura rappresenta <<abitare l’inizio delle cose>> – affermano i due autori citando uno splendido saggio della scrittrice statunitense Flannery O’ Connor (Natura e scopo della narrativa, contenuto in Nel territorio del diavolo. Sul mistero dello scrivere) -, scrivere significa agire sui sensi del lettore, motivarli e permettergli di andare al fondo del reale, nella sua concreta reviviscenza effettuale, nel suo esplicito definire il mondo e dargli un nuovo perimetro, una nuova sagomatura. Scrivere significa rifare la realtà attraverso una ri-forma dell’apparato percettivo sia di chi scrive sia di chi legge, sia dell’autore che del “suo” lettore (esplicito ma anche “implicito” – se si deve prestar fede alle analisi semiologiche di Umberto Eco).

L’interesse principale di Irene Battaglini è rivolto alla pittura, in primo luogo a quegli scienziati come Eric R. Kandel, Premio Nobel per la medicina nel 2000 per i suoi studi sulla conservazione della memoria, che ha dedicato a pittori della Grande Vienna di inizio Novecento (Gustave Klimt, Oscar Kokoschka, Egon Schiele) ed anche a pensatori e scrittori come Freud, Arthur Schnitzler o Friedrich Nietzsche, un saggio di grande rilevanza teorica in cui cerca di ritrovare nei meandri ancora oscuri della mente il senso profondo della loro luminosità.

Ma, dopo il neurologo Kandel, fanno la loro apparizione il grande pittore pugliese De Nittis e le sue rappresentazioni della Roma postunitaria, Giorgio Morandi e il senso inesprimibile delle sue “bottiglie” e dei suoi cortili, le notti ebraico-orientali di Marc Chagall, il velo impalpabile dei quadri di Gaetano Previati, il movimento “panico”di Henri Matisse con la danza primigenia dei suoi semidei “impaludati nella natura” (p. 57), i colli eleganti e invalicabili delle donne di Amedeo Modigliani, il mondo notturno e falsamente realistico bensì stilizzato ed erratico di Edward Hopper (si pensi al suo quadro più noto, Nighthawk oppure a Morning Sun che la Battaglini analizza con grande finezza), il “mare di nebbia” di David Caspar Friedrich e il suo Viandante, icona vivente del Sublime, per finire con Il Calvario di Pieter Bruegel il Vecchio, la materia tormentata della spiritualità religiosa di William Congdon, i colori aspri e sanguigni di Renato Guttuso e i disegni dechirichiani ed inquietanti dello scrittore Dino Buzzati.

Lo spazio che Andrea Galgano si ritaglia è molto ampio ed è, quindi, impossibile ripercorrerlo tutto nello spazio di una nota di recensione: il critico letterario parte di “profumi della trasparenza” di Saffo per passare attraverso Catullo e l’amore impossibile per Lesbia, l’elegia tormentata di Tibullo e Properzio, i Tristia di Ovidio, la vertiginosa archeologia del poema dedicato a Beowulf, la saga sanguinosa e poetica dei Nibelunghi, Perceval le Gaulois di Chretien de Troyes e la sua innocente ricerca dell’innocenza perduta tramite la cerca del Santo Graal, Maria di Francia e i suoi Lais, Geoffrey Chaucer e i suoi Canterbury Tales di ispirazione boccacciana, la sequenza di vita e morte del Ragno Amore di John Donne, il Dolce Stil Novo di Guido Cavalcanti, Luis de Camões e i viaggi di scoperta di Vasco da Gama, il teatro sacro (e profano) di Jean Racine, la Notte oscura Juan de la Cruz e il suo tormento spirituale, la squillante ritmicità dei poemi di Fjodor Tjutčev (che furono straordinariamente tradotti un tempo da Tommaso Landolfi), la narrativa inquietante e “inesauribile” di Charles Dickens…

E ancora, scivolando sempre più verso il Novecento, la “camera chiusa” di Emily Dickinson, la poesia “barbara” e l’amore passionale (e segreto) di Giosuè Carducci, il mondo del “sottosuolo” dell’anima di Renè de Chateaubriand, la di speranza ricerca di certezze di Heinrich von Kleist e la sua crisi kantiana culminata nell’amore di Penthesilea per Achille, la teratomorfa poetica angoscia di Isidore Ducasse (falso) conte di Lautrèamont e le sue creazioni allucinate e perverse, e poi ancora The tempest di William Shakespeare (chiunque egli sia stato) e il mondo provvidenzialistico di Alessandro Manzoni fino alla lirica narratività di Thomas Hardy, al “canto fioco” di Marceline Desbordes-Valmore per culminare nella poesia (e nella vita) errante di Arthur Rimbaud.

Il percorso di Galgano attraversa tutta la grande cultura letteraria del Novecento, quella che egli definisce giustamente Il fuoco della contemporaneità dall’appena scomparso Àlvaro Mutis a Thonas Stearns Eliot, da Joseph Conrad a Flannery O’ Connor, da Harold Pinter a Guillaume Apollinaire, dal Premio Nobel Tomas Tranströmer, da John Cheever a Sherwood Anderson per dedicare poi un nutrito paragrafo all’amata Flannery O’ Connor.

Le analisi di Galgano sono brevi ma preziose nella loro minuta ed esauriente concisività: poche frasi, qualche citazione e una manciata di giudizi critici che bastano a definire l’essenza profonda della poesia o della narrativa di autori studiati a profusione e sui quali sono stati spesi tempo e versati fiumi d’inchiostro in maniera straordinaria (e talvolta fin troppo dispersiva).

Galgano riassume il loro mondo con brevi tratti di penna e ne mette in progressione “ritratti in piedi” suggestivi e calzanti, puntando su particolari significativi piuttosto che cercare una compiutezza che sarebbe impossibile, se non nociva per la comprensione del personaggio studiato.

Nel testo dedicato a Flannery O’ Connor, Galgano ha accenti di forte pathos (ma criticamente motivato e fondato sulla natura delle opere realizzate dalla scrittrice americana):

<<E’ sempre un mondo in continua creazione, ricolmo di promesse, un abisso di ombra – basti pensare a La schiena di Parker -, in cui spesso la visio Dei è piena, soggiace non già ad un’intuizione spirituale ma a un dato di realtà, raccolto in modo anagogico. Lo spirituale anzi diventa materia, il tragico cristiano si evidenzia appieno, come strumento conoscitivo e lente della realtà. Solo nella Grazia si scopre il destino. In essa si ritrova quella salvezza, che dall’esterno interviene con dirompente misericordia a rendere più uomo l’uomo (Un brav’uomo è difficile da trovare) e rende la fede un atto ragionevole di apertura libera. Il campo di Flannery O’ Connor è la pagina umana, vista nel suo effimero e nella sua debolezza, ma è anticamera concreta e terribile appoggiata al cielo>>.[2]

 Con accenti certamente diversi ma con la stessa passione di ricerca Irene Battaglini aveva scritto di Edward Hopper e della sua ricerca pittorica:

<<Il realismo di Hopper è di fatto “o-sceno”: il grande artista americano intendeva far parlare quella fenomenologia della parola che si rappresenta nel suo silenzio, e che si dà a volte all’uomo anche contro la sua volontà. Un sogno, una chiamata, un insight. Ogni esperienza di certezza è preclusa a coloro che indagano la realtà in rapporto alla sua rappresentazione. Occorre abbandonare i manuali, le scale quantitative, le misure di falsificazione e quell’orgoglioso ricorso al regno delle cose probabili, quando si tenta di dirimere la controversia tra possibile e impossibile, tra vero e falso. Nel divario tra le due ali di una farfalla non si registra alcuna probabilità, piuttosto si osserva il movimento preciso: la serena accettazione dell’ala di avere una compagna gemella e irraggiungibile, speculare e vitale. Edward Hopper ha fatto esperienza di sé e viaggio iniziatici nella dimensione conoscitiva della luce che invade lo spazio, indagando con coerenza sperimentalista il piano dei piccoli infiniti che si affastellano sulla tela>>.[3]

 Per entrambi, dunque, l’analisi critica non è disgiunta dalla ricerca letteraria e la volontà di usare la parola non soltanto per spiegare o analizzare ma soprattutto per dire una verità che solo arte e letteratura sono in grado di far comprendere appieno e di utilizzare in tutta la sua interezza ermeneutica.



[1] Andrea Galgano – Irene Battaglini, Introduzione a Frontiera di pagine, Roma, Aracne, 2013, p. 17.

[2] Andrea Galgano – Irene Battaglini, Frontiera di pagine cit., p. 264.

[3] Andrea Galgano – Irene Battaglini, Frontiera di pagine cit., p. 71.

 

Il gesto in piena di Cy Twombly

di Irene Battaglini

Prato, 30 settembre 2013

Cy Twombly

 

«Art is the triumph over chaos». John Cheever,  The Stories of John Cheever (1978)

articolo in pdf  IL GESTO IN PIENA DI CY TWOMBLY

 
 
 
 

The Four Seasons, Spring, Summer, Autumn and Winter, 1993-1994, Cy Twombly 2The Four Seasons, Spring, Summer, Autumn and Winter, 1993-1994, Cy Twombly 3The Four Seasons, Spring, Summer, Autumn and Winter, 1993-1994, Cy Twombly

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

The Four Seasons, Spring, Summer, Autumn and Winter, 1993-1994, Cy Twombly 4

The Four Seasons: Spring, Summer, Autumn, and Winter. 1993-94, Synthetic polymer paint, oil, house paint, pencil and crayon on four canvases

L’arte di Cy Twombly è un grido sull’America. Un richiamo di sangue e di cieli densi di fiori che si rompono in un boato crespo di farfalle contaminate. La sua pittura è un fiotto che rompe gli argini dell’armonia, è un soffio che imprime voli per mete non raggiunte, non possibili. La pittura di Twombly (Virginia, 1928-Italia 2011), esprime il fallimento delle utopie moderniste. Illeggibile, incoerente, improbabile. Eppure è vera e bellissima. Bisogna capire come sia stato possibile creare questa unione violenta e irreversibile, come un aereo in velocissima precipitazione che prende fuoco sulla coda, e nell’atto di avvolgersi su di sé diventa una stella cometa. Quadri di una straordinaria epifania cromatica, di luce che esplode. In cui segni, colori e forme sono gli strumenti dell’agrimensore in un pianeta desertico di cui scongiura l’imminente deflagrazione. Sono il canto e la preghiera di un ultimo uomo verso Dio i cui occhi, che per dirla con McCarthy, un altro americano dignitario della più alta contemporaneità, «tradivano non disperazione, ma soltanto quell’insondabile, profonda solitudine che è l’impronta più tipica di questo mondo». (da Oltre il confine)

Tutta l’arte di Cy Twombly (pittore, incisore, disegnatore, scultore) è notte inoltrata che deflagra nell’aurora, è il “linguaggio dimenticato” di Erich Fromm su una lavagna stridente, è ardesia che si sbriciola a creare forme improbabili, è gemmazione di scarabocchi di luce bruciante dalle forme svelte, come le braccia di un nuotatore esperto che farfugliano nell’abisso e che nell’inconscio tumulto non smarriscono – nello smarrirsi – l’eleganza di quanto hanno appreso.

Il “quadro” deciso da Cy Twombly è una forma concreta di non-pittura, è una decisione spasmodica di andare verso la crisi linguistica e di immergersi in questo spasmo come all’imbocco della neoplasia che ha corroso velocemente l’universo percettivo del cui declino siamo attori, costretti alla visione monoculare della realtà dell’emarginazione o alla confusione conglobante e regressiva dei social-network. È una pittura di voci che si affollano ad un crocevia, dove è obbligato a stare l’artista contemporaneo che deve organizzare e riorganizzare continuamente immagini, metafore e rappresentazioni nella stanza della propria coscienza, che si affligge del proprio paradosso esistenziale, per dover essere nello stesso tempo figlio e dio, creatura e creatore.

Cy Twombly sembra aderire, per far fronte allo stress della devastante mitologia unilaterale del mondo contemporaneo, ad una tradizione “anticreativa”, come se il suo atelier fosse una prestigiosa accademia in cui lo scranno più alto è perennemente disabitato. La sua originalità è così potente che deve per forza nascondersi a se stesso, per capire qualche cosa della sua stessa talentuosa e indisciplinata arte del segno. La tecnica che lo vuole maestro nello sfocare la linea del contorno dal disegno è l’espressione di una strategia di attacco ai fianchi dell’ortodossia, è un modo per dire che l’infante è più indipendente del dio e più arrogante, più violento, più demoniaco. Del resto, il desiderio di unione deve essere spostato in una fuga in avanti verso la dimora della perfezione, verso la quale il puer muove con incessanti cadute e inappagato desiderio.

La proiezione sul futuro, su quello che sarebbe stato un disegno di Cy Twombly se egli ci avesse donato le forme belle del suo immane talento pittorico a detrimento della sua scelta di uomo autentico che decide di farsi scenario del mito della luce del mondo post-industriale, comincia già a costellarsi nel controverso ambiente del ventre materno dell’espressionismo, in cui nascono le sue prime opere, non in ordine ad una casualità, ma ad un divenire in prospettiva mitica del dramma della propria vita lacerata in cui segno e disegno, contorno e ombra, sono scissi eppure appaiati in un affiancamento in cui sembrano alloggiare danzatori solitari. Dice Adolf Guggenbühl-Craig nel libro Il bene del male. Paradossi del senso comune (Moretti&Vitali, 1998, pp. 27 e 28):

«Abbiamo [quindi] a che fare con due tradizioni: da un lato la creatività viene fatta oggetto di ammirazione, dall’altra essa viene ritenuta un attributo esclusivo di Dio e, per quanto riguarda gli uomini, la si considera soltanto una forma di hybris, di tracotanza. Sia quel che sia, con la creatività noi giungiamo faccia a faccia con Dio. E che cosa succede con l’indipedenza? Sicuramente possiamo ritenere che l’unico essere davvero indipendente in questo mondo sia Dio. Per definizione Dio è indipendente da tutto e da tutti, e tutto è dipendente da lui. Egli è l’inizio e la fine, alfa e omega del creato; […]. Noi stessi cerchiamo di raggiungere questo tipo di divinità, cadiamo vittima del complesso di Dio».

La prospettiva mitica fu, per Twombly, forza e sembianza, significato e bellezza. Il pittore amava nutrirsene, e fare dei suoi disegni “veicoli per contenuti letterari”,[i] dai quali cercava di liberare le figure.

L’opera di Twombly, se fosse tutta ordinata su piani paralleli, mostrerebbe una morfologia simile ad una stratificazione geologica intra-psichica in cui sembrano essersi fissati i marcatori del processo alchemico. Gli esordi, agli inizi degli anni ’50, sono connotati dall’influenza di Kline e Paul Klee, e sono prevalentemente pennellate gestuali-espressioniste, in un originale e morbido intreccio di tratti, parole, numeri e porzioni (“frazioni”) di oggetti. È molto attratto dall’Italia, dove si stabilisce definitivamente nel 1960, anno in cui allestisce la prima mostra alla Galleria di Leo Castelli.

Leda and the Swan, 1962, Cy TwomblyGli anni ’60 sono caratterizzati dai cosiddetti “Quadri della Lavagna”, opere di grande dimensioni in cui usava la tecnica calligrafica dei graffiti su sfondi solidi di colore grigio, marrone o bianco (una tecnica a metà tra la pittura e l’incisione), in cui la scrittura viene svestita del suo ruolo comunicativo e trasferita nel campo semantico del gesto, fino a costellare appieno l’action painting, ricco di citazioni come Leda e il cigno (1962, fig.1) o la famosa battaglia di Lepanto. In questo periodo, che è estremamente proficuo, comincia a creare le sue prime sculture astratte, le quali, sebbene varie nella forma e nel materiale, erano sempre ricoperte di pittura bianca. Twombly utilizzerà (e sarà scultore di quest’arte povera per tutta la vita) materiale preso a prestito dal fabbro, dal maniscalco, dal falegname, per dare altezza a forme semplici dalla struttura assemblata, a ricordare l’arte dei mastri antichi nel forgiare gli strumenti del lavoro: un omaggio alle cose, che si liberano della condizione di oggetti utili (come le lettere e la parola scritta) per diventare il simbolo del proprio servilismo: l’oggetto svilito dalla sua destinazione strumentale diventa un soggetto di bellezza silenziosa e perenne, come  in un processo di mummificazione, in cui gesso, vernice, legno, cartone, metallo, carta, stoffa, spago, matite, diventano elementi del lavoro manuale che, ricoperti di vernice bianca e opaca, subiscono l’ultimo trattamento immortale.

Nella metà degli anni ’70 Twombly realizza opere “multistrato”, vere e proprie creature che rappresentano la piena realizzazione del suo repertorio anticonvenzionale, costruite assemblando il collage di fogli ad altri media pittorici.

Gli spazi “vuoti” sono il collante necessario al dipanarsi di una creatività splendente, che attinge spietatamente alla linguistica, piratandone i sistemi di base. Il segno diventa “lemma” e spesso è contratto in un calco filologico: come se un bambino geniale avesse la capacità improvvisa di comunicare attraverso un linguaggio in cui verbo e immagine convergono in una bocca vulcanica fatta di meraviglie e di delicatezze, che vengono alla luce con estrema cura, a  volte con riferimenti geografici, come la serie dei quadri Bolsena (il lago vulcanico vicino a Viterbo).

Apollodoro from the portfolio Six Latin Writers and Poets, 1976-76, Cy TwomblyIn questi lavori, gli elementi grafici si fondono con forza tecnica sempre più rilevante in una sorta di dissoluzione vorticosa, di totale imprendibilità, ma sono talvolta caratterizzati da un nitore fantasmatico, come una sorta di alfabeto decifrabile dalla perizia di pochi eletti, come ad esempio in Apollodoro, (fig. 2), fino a raggiungere negli anni ’90 l’acme estetico di eleganti esemplari floreali che in qualche modo lo ricongiungono, in una sorta di re-unione con il principio, ai Fauve che ne connotarono gli inizi del percorso mezzo secolo prima, nel periodo americano, in cui fu della scuola dei grandi Robert Rauschenberg e Jasper Johns.

Un esempio folgorante è quello delle Quattro Stagioni, giganteschi pannelli che sembrano dimorare tra lo spazio scenico e quello architettonico, in una sorta di danza dei colori che si raccordano in chiazze in perenne tentativo di scendere verso il basso, trattenute contro la tela da invisibili fili, come mani che tentano di mitigare l’urlo di una dea di bellezza arcaica, maestra delle pitture rupestri.

L’ interno delle tavole è carico di una fortissima tensione, di una conflittualità invadente e di una cripticità linguistica che rimanda alla costante alternanza tra violenza e silenzio, tra sessualità e gioco, tra luce e fondale, in un rapporto emotivamente coinvolgente con lo spettatore: al quale non è difficile desiderare di balzare dentro il quadro e affondare gli occhi in quel coacervo di colore.

I fiori sono, in alcuni lavori, vere e proprie esplosioni e non è un caso se appartengono all’ultima parte del viaggio pittorico di Twombly. Artista ricchissimo e avido, così viene descritto, non fu mai collocato dalla critica americana nella Pop Art; questa sua ostinata originalità stilistica fu la sua fortuna: i suoi quadri sono valutati milioni di dollari e ambiti dai maggiori galleristi.

Non essendo “schematico”, si può solo ripercorrere a ritroso il suo progetto e intercettarne alcune coordinate, con una visione dall’interno, che sembra l’unica via percorribile, proprio come farebbe quello spettatore curioso e invadente. E tornando a quel processo alchemico stigmatizzato nella geologia delle opere, non è difficile individuare un alternarsi di strati di bianco, di rosso, di nero. La qualità dinamica dell’opera di Twombly si interseca con quella statica di depositaria del messaggio, è quindi un’opera magistrale che separa l’oro dal fango, e aggiunge un’aura di mistero e di sapienza, per quella inusuale competenza del maestro a rendere coscienti e ricchi sia il nero che il rosso l’uno dell’altro, stretti al confine tra il simbolico e l’astratto, uniti dall’invisibile catena dell’espressione del colore in piena luce, che sembra poter dire tutto, ma che di fatto rimanda sempre ad altro in un infinito specchio di rappresentazioni.

La catalogazione in “espressionismo”, infatti, è sempre relativizzante, perché non fa altro che dire continuamente che sotto l’espressione c’è una volontà di manifestare, di dire, di esprimere. Il messaggio “espresso” da Twombly è ancora totalmente indecifrato. Un’idea, un desiderio, di destituire il mito restituendo al sogno gli eroi e le anfore di un tempo passato.


 

 

 

Lo spasmo di Alexandr Blok

di Andrea Galgano                                         26 settembre 2013

Poesia Contemporanea

pdf Lo spasmo di  Alexandr Blok

blok 2

 

 

 

 

 

 

«Aleksàndr Aleksàandrovič Blok è la figura più cospicua di quella generazione di simbolisti russi che percepirono in modo spasmodico il rombo sotterraneo degli avvenimenti, la crisi della cultura borghese, l’approssimarsi della tempesta. Maturati sul limitare di due epoche, con tutta l’irrequietezza di chi vive sul limitare di due epoche, con tutta l’irrequietezza di chi vive su un’incerta striscia di confine, i giovani simbolisti respinsero il positivismo, le formule naturalistiche, i vezzi dei decadenti in nome di concezioni messianiche, di teorie religiose che appagassero la loro brama di grandi rivolgimenti» (Angelo M. Ripellino).

La poesia di Alexandr Blok (1880-1921) è uno spasmo sottile di confine, come un sisma che si impossessa dell’aura mistica e della profezia. La smania che condensa gli anni febbrili di San Pietroburgo attesta, sin da subito, la sua fascinazione, come avverrà ne i Ricordi di Alexandr Blok, scritti da Andrèj Bèlyj, altro grande emarginato della letteratura di quel tempo.

C’è una sorta di veggenza viandante e rivelatrice nella sua persona, un abbaglio di coltre che promana dalla sua vertigine, come annota Massimo Barili, in un articolo tratto dalla rivista «Il Club degli Autori» del febbraio 2012: «La stessa opera di Aleksandr Blok rappresenta, in fin dei conti, una sorta di diario lirico che diventa specchio fedele delle sue visioni, delle sofferte e tumultuose metamorfosi, dei suoi mutamenti esistenziali e del dramma interiore dopo l’accertamento del crollo della figura della mistica amante, della donna che poi aveva sposato, e della successiva presa d’atto dell’assenza della Bellissima Dama, che aveva ispirato le sue prime poesie, sostituendola con l’immagine terrena e tremendamente mondana della figura di una donna “sconosciuta”, che si aggira nei locali tra gli ubriachi, pronta a offrire anche lei una “rivelazione mistica-estatica” ma di tutt’altro genere. E, poi, nell’ultima stagione della sua vita, anche la figura della “sconosciuta” verrà sostituita con l’amore per la propria Terra, per la Madre Russia, che vivrà il periodo drammatico e sanguinoso della rivoluzione».

L’inizio patriarcale e sereno delle sue prime liriche, raccolte in Ante lucem (1898-1900), afferma la potenza dell’infanzia trascorsa a San Pietroburgo e tra i tigli e le iridi di Ŝachmatovo, dove l’inizio di quella visione nel cielo di geroglifici, intagliava brume, profilava scenari boreali, languiva nei paesaggi, come scrive Pasternak:

«[…] E quando in questo regno dell’artificiosità ormai solidamente affermata, ma di cui nessuno più si accorge, qualcuno apre la bocca non per inclinazione alle belle lettere, ma perché sa e vuole dire qualcosa, questo fatto produce l’impressione di un mutamento improvviso, come se i portoni si spalancassero di colpo e irrompesse il frastuono della vita che si svolge di fuori, come se non fosse un uomo a dar notizia di ciò che avviene nella città, ma la città stessa parlasse di sé per bocca di un uomo. Così, per Blok, tale fu la sua parola, solitaria, pura, come di fanciullo, tale la forza della sua creazione. Sembrava che la novità stessa, spontaneamente, da sé si fosse disposta sul foglio stampato, e che i versi non fossero stati scritti e composti da nessuno. Sembrava che la pagina non fosse rigata dai versi sul vento e sulle pozzanghere, sui fanali e sulle stelle, ma che fanali e pozzanghere fossero loro a increspare, come bava di vento, la superficie della rivista e solcarla di umide, possenti tracce».

La membrana dell’orizzonte impalpabile compone la distesa sonnolenta e fluttuante del paesaggio, un fruscio di fronde mitiche, una burla inseminata di terra: «Penso che, se la voce si tacesse, / mi sarebbe difficile il respiro, / e il cavallo, sbuffando, crollerebbe / sulla strada, e non potrei arrivare! / Pigre e pesanti nuotano le nuvole, / e la foresta languida mi attornia. / Il mio cammino è lungo, faticoso, / ma la canzone amica mi accompagna».

Le visioni cerulee condensano lo sguardo in una sorta di erotismo mistico, una speranza messianica che incontra l’Eterno femminino, in una gracile attesa di sogno veemente, in una vivezza di invocazione e richiamo.

La bianca foresta dei simboli è il bagliore dell’arte che «vede l’incendio rovinoso della vita», come un argonauta di chimere lontane e voce sparsa nel vento dell’inverno o nel crepuscolo delle primavere, nell’alba che «spilla come un rosso fantasma».

Il baluginio della Bellissima Dama che scintilla di rosse lampade diviene il soggetto di una litania densa e stratificata. Assomiglia alle nebbie fugaci e perenni di una ingemmata fiaba antica che indizia il suo avvento, scrive l’amore nei diari, fa esplodere le sue fiamme.

Scrive ancora Barile: «Blok si muove, all’inizio del suo cammino, come a ricercare l’estasi rivelatrice in un mondo irrisolto, in una vita che può essere oscura e pericolosa, in una dimensione nella quale immergersi e avvertire l’approssimarsi della tempesta. Nel flusso della realtà, cosparsa di mistero e tragicità, si può aprire una porta invisibile che conduce alla sostanza stessa dell’esistere, cercando di possederla attraverso una mistica visione, grazie ad un incanto metafisico. Il vortice dell’esistenza vede dissolvere la patina superficiale che vela ogni cosa e tutto ciò permette, come fosse iniziazione dei misteri, di penetrare nelle zone più segrete ed inconoscibili. L’illuminazione lirica, nella sua forma estatica, elimina la banalità della superficialità quotidiana e introduce alla radice dell’esistenza pura, come a vivere l’ebbrezza suprema».

L’ineffabile percezione dell’esperienza, la vaghezza e indefinitezza dei passaggi, trova in Blok, la fiamma dell’ornato indefinibile, del folclore, della linea che ripercorre le strade, i boschi, le chiese, i campi.

L’accenno preciso del colore, fa risultare, pertanto, «un universo largo e ipnotico, una creazione contrattile e senza contorni, che palpita in ogni sua fibra per la spasmodica attesa di impossibili eventi» (Angelo M. Ripellino).

L’anima atemporale di Ljuba-femminino è un vortice di austerità patriarcale, un nastro che compone l’universo e si fa incontro impenetrabile. Ma gli occhi randagi di Blok hanno già solcato lo sperdimento della città, gli umiliati e offesi che la abitano, la notte nei buchi e le tenebre di luce. La lacerazione e la frattura iniziano a propagare nell’anima.

Blok frequenta i salotti letterari, da quello di Zinaida Gippius fino a quello di Ivànov e Gorodeckij descrive il poeta prima della declamazione: «Nella sua lunga prefettizia, con la morbida cravatta annodata in maniera raffinatamente negligente, con l’aureola dei capelli oro cinerino, egli era romanticamente bello allora, nell’anno 1906-07. Si avvicinava lentamente al tavolino con le candele, sfiorava tutti con occhi di pietra ed egli stesso si faceva di pietra, finché il silenzio non diventava assoluto. E si metteva a recitare, tenendo la strofa tormentosamente bene e rallentando appena il tempo nelle rime. Egli incantava con la sua lettura e quando terminava la poesia, senza cambiare voce, improvvisamente, sembrava sempre che il godimento fosse terminato troppo presto e fosse necessario ascoltare ancora».

Il travaglio di un’epoca, l’illusoria liberazione nei fumi dell’alcool, sostengono lo spaesamento di una congiunzione di esilio.

La nuova figura femminile che compare all’orizzonte ha tratti netti ed è tempesta di giorni febbrili. Dal suo occhio, radicato e suburbano, Blok delinea nuovi contorni:

 «Si è dunque compiuto: il mio mondo magico è diventato l’arena delle mie azioni personali, il mio “teatro anatomico” o teatro dei burattini, dove io stesso svolgo un ruolo insieme alle mie mirabili marionette (ecce homo!). La spada d’oro si è spenta, i mondi color lilla mi hanno irrorato il cuore. Il mio cuore è un oceano, tutto in esso è ugualmente magico: non distinguo la vita, il sogno e la morte, questo mondo e gli altri mondi (attimo, fermati!). […] La vita è diventata arte, ho fatto gli esorcismi e dinnanzi a me è sorto infine ciò che io (personalmente) chiamo la “Sconosciuta”: una bellezza-marionetta, uno spettro azzurro, un prodigio terrestre. Questo è il coronamento dell’antitesi. E dura a lungo la leggiadra,  alata meraviglia dinnanzi alla mia creazione. I violini la glorificano nel loro linguaggio. La Sconosciuta. Non è affatto semplicemente una dama in una veste nera con piume di struzzo sul cappello. È una lega diabolica di molti mondi, principalmente azzurri e lilla. […] È una creazione dell’arte. Per me è un fatto compiuto. Sto dinnanzi alla creazione della mia arte e non so cosa fare. Detto diversamente, cosa fare con questi mondi, cosa fare della propria vita, che d’ora in poi è diventata arte, perché accanto a me vive la mia creazione – né viva, né mor-ta, uno spettro azzurro. Vedo chiaramente “il lampo fra le sopracciglia delle nubi” di Bacco (“Eros” di VjaC. Ivanov), chiaramente distinguo la madreperla delle ali (Vrubel’ — “Il demone”, “La principessa-cigno”) o sento il fruscio delle sete (“La sconosciuta”). Ma tutto è uno spettro».

È il solco inguainato di azzurro, una voragine di tempi lontani. Inizia persino a comparire l’’immagine paludosa, principio di colore viola, letargo di guerrieri e fiammelle palustri.

Il sogno-grido dell’azzurro è violino sbandato di una stella caduta. La Sconosciuta diviene il ponte di un abbaglio che inclina e oscilla.

Commenta Angelo M. Ripellino: «la Violetta Notturna è la Bellissima Dama, non più miraggio di teologali lontananze, ma fantasma ipnotico che germina dalle paludi; il giovane scaldo, irrigidito in una torpida adorazione, è un sosia, un riflesso del poeta ingolfato in un culto sterile e ozioso; e i guerrieri del seguito arieggiano agli “Argonauti”».

Il pianto e il grido addosso, cullati nel vento dell’alba, dei tripudi dell’esilio confuso e impalpabile, intuisce un doppio mondo che evoca e adombra specchiamenti e riflessi.

L’altrove lontano e negato risuona il suo fondo catturato. Da ora in poi la coltre cittadina di Blok è rappresentata dai postriboli, dalle bettole, dallo spolvero delle nebbie, dove le prostitute raccontano l’aura della loro parabola.

Pietroburgo è rossastra, striata di sangue e vermiglia: «La nostra realtà trascorre in un rosso chiarore. I giorni son sempre più rumorosi di gridi, di rosse bandiere sventolanti; a sera la città, assopitasi un attimo, è insanguinata dal crepuscolo. Di notte il rosso canta sugli abiti, sulle guance, sulle labbra delle donne da conio. Solo la pallida mattina scaccia l’ultima tinta dai volti emaciati» (Tempi calamitosi, 1906).

I rossi crepuscoli sfuggono nelle notti bianche, nelle raffiche inondate della Nevà, come atmosfera palustre, singhiozzo di alberi e goccia sui contorni.

Anche l’impegno nel teatro (La baracca dei saltimbanchi, I dodici) testimonia uno sguardo che accarezza i precipizi, nel racconto di un drappello di dodici guardie rosse che pattugliano la città, prima dell’arrivo di Cristo.

La durezza della rivoluzione raccoglie una voragine di giostre che sfarina voli,colora veleni e distrugge: «Striscia da me come serpe strisciante, / assordami nella sorda mezzanotte, / con le labbra languide tormentami, / soffocami con la treccia nera».

Scrive Ripellino: «L’umor nero di Blok non è una propensione letteraria, un abito esteriore, ma il basso continuo, la fosca filigrana della sua vita, giorni e notti, giorni e notti. Incalzato dall’ansia di ramingare, di perdersi negli angoli abietti e remoti della periferia cittadina, egli va alla ventura, girando per le squallide strade fiancheggiate da lerci abituri, alla luce di lampioni che vacillano nella nebbia».

La luce è raminga come lo spasmo. Una metafisica del non essere che racchiude un universo oscuro senza fanali, in cui lo sguardo scorre nel mondo terribile e randagio, come il vischio di una genesi rifiutata. Rende spazio al gioiello scuro di una creaturalità dolente, sconsolata e magmatica, in cui il singhiozzo del tempo si addensa, laddove il deserto rapina la sua figura malferma.

È nella linea malferma che egli scova il fondale dell’esistere, la caligine nel vuoto, il velo evaso della nebbia che termina nel tormento.

blok a., Poesie, introduzione di Angelo M. Ripellino, Guanda, Milano 2000.

id., I dodici, Marsilio, Venezia 1995.

bazzarelli e., Invito alla lettura di Aleksandr Blok, Mursia, Milano, 1986

berberova n., Un figlio degli anni terribili. Vita di Aleksandr Blok, Guanda, Milano 2004.

böhmig m., Analisi di una poesia: Neznakomka di Alexandr Blok, in «Europa Orientalis», 10, 1991.

etkind e., La poetica di Blok, in Storia della letteratura russa, III. Il Novecento. I. Dal decadentismo all’avanguardia, Einaudi, Torino 1989.

tynjanov j., Blok, in j.tynjanov, Avanguardia e tradizione, Laterza, Bari 1968.

L’epica di John Steinbeck

di Andrea Galgano                                         21 settembre 2013

Letteratura Contemporanea

pdf L’epica di John Steinbeck

Steinbeck J.

La lettura di John Steinbeck (1902-1968), nel nostro Paese, è passata dalle mani di Cesare Pavese che tradusse nel 1938, Uomini e topi, uscito in America un anno prima, Elio Vittorini con Pian della Tortilla (1935) nel 1940, e come commenta Fernanda Pivano:

«sono stati questi i due libri a rappresentare la Narrativa Proletaria o della Depressione proposta da Franklin Delano Roosevelt come un modello di scrittura comprensibile alle masse e come una scelta di tematiche ispirate alla tragedia economica degli anni Trenta e alla sua umanità disperata. Proprio il contrario dell’ umanità proposta dal trionfalismo fascista, con diffidenza di chi a quel trionfalismo non credeva. I due libri erano arrivati in un’ Italia dominata dalla prosa d’ arte di allora, totalmente ignara della Narrativa Proletaria, e avevano accostato alcuni di noi a quelle tematiche e soprattutto a quel linguaggio. Era prevedibile che venissero disprezzati dai nostri critici come «picareschi e folkloristici» e che le nostre autorità governative li permettessero perché davano dell’ America un ritratto di devastazione utile per la loro propaganda. Così Uomini e topi era diventato per alcuni di noi una specie di metafora; del suo valore letterario aveva parlato prima la Francia quando Maurice Coindreau aveva indicato il libro come “modello di virtuosismo nel dosaggio delle sue componenti”». (da “Corriere della Sera” 24 febbraio 2002).

La scrittura iniziale di Uomini e topi era stata, per Steinbeck, un tentativo (e un esperimento) di scrivere un libro per bambini, come testimonia questa lettera del febbraio 1936: «Voglio ricreare un mondo infantile, non di fate e di giganti, ma di colori più chiari di quanto lo siano per gli adulti, di sapori più acuti, e degli strani sensi di angoscia che a momenti sopraffanno i bambini. Bisogna essere molto onesti e molto umili per scrivere per i bambini».

La scenografia rada delle battute, in un linguaggio che tocca la solitudine frustrata degli uomini, conquista la parabola dei rapporti nomadi tra George Milton e il gigante Small ritardato mentale. Entrambi sognano un luogo che non sia viaggio nomade di braccianti: un ranch dove poter allevare conigli.

È un luogo-sogno che diventa quasi rattrappito, nell’immagine di un destino sostanzialmente negativo che proclama la sua irrealizzabile tensione alla felicità. Quando scoppia la tragedia (il gigante Small uccide la moglie di un suo compagno di lavoro) e George, per salvarlo lo uccide:

«La violenza di queste morti fa risultare ironico l’ambiente pastorale del libro e suggerisce anche l’ immagine della “violenza che nasce dalla violenza” esplosa nelle coscienze molti decenni dopo e proposta qui con grande anticipo sui tempi. Il suo contenuto e il suo linguaggio erano già innovativi in America […] Il fascino era alimentato anche dal populismo insito nel New Deal del presidente Roosevelt che ispirava le denunce di ingiustizie sociali e invece esaltava la vita semplice, l’ansia per un’esistenza libera fino a essere nomade, le speranze nate con i primi scioperi. Gli scrittori americani del clima di Roosevelt costituivano dunque l’ antitesi alla nostra autarchia culturale e alla nostra cultura ufficiale; a volte i nostri giovani cercavano ingenuamente in quegli scrittori gli aspetti di un’ energia «primitiva» tale da evadere da una civiltà corrotta, tale da proporre un ritorno all’ innocenza» (Fernanda Pivano).

La solitudine, l’incomunicabilità, la legge del più forte caratterizzano un ambiente che non ha la pietas, come cardine di vita, come sostiene giustamente Massimo Migliorati. La violenza che richiama la violenza ha la scintilla del contatto fisico, che provoca una sorta di reazione a catena.

L’introduzione del male nella scena, scrive Massimo Migliorati: «viene sottilmente introdotto dall’autore anche attraverso la presenza, debolmente occultata, di un animale, il serpente, icona classica dei valori negativi di chiara provenienza giudaico-biblica. Sia nella prima che nella sesta parte infatti una biscia scivola nell’acqua dell’ansa del fiume. Il male è dunque intorno a noi, celato anche nell’ingenuità apparente della natura. Anche questo sembra essere un messaggio codificato dall’autore».

La tendenza di Steinbeck alla simbologia archetipica, dapprima il ciclo arturiano, poi le coincidenze religiose (una accennata insistenza sulla vita di Cristo come sfondo simbolico dei personaggi) e bibliche (Al Dio sconosciuto), come afferma Peter Lisca, sottolineando delle forti coincidenze, in Furore, tra la vicenda dei Joad e l’esodo ebreo in Egitto.

John Fontenrose approfondisce questi passaggi rapportando le vicende narrate nel romanzo con gli echi dell’Antico e del Nuovo Testamento e con le vicende dell’Esodo, e persino La valle dell’Eden presenterebbe lo scontro tra due fratelli, sul calco di Caino e Abele, reinterpretato psicoanaliticamente:

«The Oklahoma land company is at once monster, Leviathan, and Pharaoh oppressing the tenant farmers, who are equally monster’s prey and Israelites. The California land companies are Canaanites, Pharisees, Roman government, and the dominant organism of an ecological community. The family organism are forced to join together into a larger collective organism; the Hebrews’ immigration and sufferings weld them into a united nation; the poor and oppressed receive a Messiah, who teaches them a unity in the Oversoul. The Joads are equally a family unit, the twelve tribes of Israel, and the twelve disciples. Casy and Tom are both Moses and Jesus as leaders of the people and guiding organs in the new collective organism».

The Grapes of Wrath (1939) tradotto in italiano con Furore, ma letteralmente I grappoli dell’ira o forse I frutti dell’ira, rappresenta, nella scrittura di Steinbeck, una dilatata prospettiva a cogliere la vita, gli usi e i costumi della California rurale, quella che egli ha vissuto e toccato sin dalla sua infanzia a Salinas e Monterrey.

La terribile e dolorosa migrazione dei cosiddetti “Okies”, i contadini dell’Oklahoma, i quali vengono cacciati dalle loro terre e dalle forze unite alla crisi, come le banche, la siccità e l’agricoltura divenuta meccanizzata: le trattrici sostituiscono il lavoro dell’uomo, la miseria viene sfruttata poi dalle banche che non concedono prestiti e confiscano i terreni:

«Queste cose andarono perdute, e i raccolti cominciarono a venire valutati in termini di dollari, e la terra in termini di capitale più interessi. E i prodotti cominciarono a essere comprati e venduti prima delle semine. E allora le annate cattive, la siccità, le inondazioni, non furono più considerate come catastrofe, ma semplicemente come diminuzioni di profitto. E l’amore di quegli esseri umani risultò come intisichito dalla febbre del denaro, e la fierezza della stirpe si disintegrò in interessi; così che tutta quella popolazione risultò di individui che non erano più coloni, ma piccoli commercianti, o piccoli industriali, obbligati a vendere prima di produrre. E quelli fra essi che non si rivelarono bravi commercianti, perdettero i loro poderi che vennero assorbiti da chi invece si rivelò bravo commerciante. Per quanto bravo coltivatore, per quanto affezionato al suo campo, chi non era bravo commerciante non poteva mantenere le proprie posizioni. Così, col passare del tempo, i poderi passarono tutti in mano ad uomini d’affari, e andarono aumentando sempre di proporzioni, ma diminuendo di numero».

La Route 66 diviene, pertanto, la traccia di un avvicinamento frastagliato di carovane verso il «il paese del latte e del miele» in cerca non solo di vita, ma di un modo per vivere, e dove si narra di distese infinite di piante da frutto rigogliose e possibilità di lavoro, come un miraggio e un confine di oasi: «E finalmente apparvero all’orizzonte le guglie frastagliate del muro occidentale dell’ Arizona […] e quando venne il giorno, i Joad videro finalmente, nella sottostante pianura, il fiume Colorado […] Il babbo esclamò: “Eccoci! Ci siamo! Siamo in California!”. Tutti si voltarono indietro per guardare i maestosi bastioni dell’Arizona che si lasciavano alle spalle».

La tensione dinamica della famiglia non conosce stasi. Anzi è percorsa da un incessante nomadismo, un vagabondaggio ai margini, dalle disgrazie e dagli incidenti, quali, dapprima, la scomparsa dei nonni assorbiti dalla stanchezza e dall’amarezza, poi dal babbo e dall’apatico sbruffone John.

Ma anche su Al, fratello di Tom, Rosa Tea incinta e in viaggio con il marito inaffidabile Connie e i due bambini pestiferi, Ruth e Winfield, la storia sconvolgerà i segni, sorretti solo dal calore-quercia della madre.

L’unione del sangue accompagna la lealtà e la solidarietà verso gli altri migranti. L’indizio dell’esistenza familiare, permeato dalla impotenza e dal disprezzo degli uomini del posto, trova salvezza solo nella condizione evoluta di una famiglia umana allargata, segnata da rabbia, rassegnazione e furore, e costituita da una profonda e radicata forza morale e dalla dignità.

La sconfitta di una famiglia non conclude una rinascita. La coscienza del libro è nella amicizia dello scrittore con Tom Collins, l’uomo che gli aveva rivelato la sottotraccia del mondo agricolo, con i braccianti lavoratori a giornata, organizzati dalla Resettlement Administration.

Scriverà Steinbeck, che «senza Tom, non avrei potuto cogliere tutti i particolari, e i particolari sono tutto» e senza sua moglie Carol che ne diteggerà le battute, il romanzo sarebbe stato impossibile.

Il pensiero non teleologico (is-thinking) che si dipana nelle domande «come?» o «cosa?» e non «perché?» non sfocia nel nonsense, ma svapora l’onniscienza per celebrare dialoghi minimi, ridurre differenze e spostare le rotte:«Mamma non hai dei brutti presentimenti? Non ti fa paura, andare in un posto che non conosci?” Gli occhi della mamma si fecero pensosi ma dolci. “Paura? Un poco. Ma poco. Non voglio pensare, preferisco aspettare. Quel che ci sarà da fare lo farò”».

Se i paisanos di Pian della Tortilla (1935) e di Vicolo Cannery (1945) hanno conosciuto il ritmo picaresco e drammatico delle loro azioni («La parola è un simbolo e un piacere che succhia uomini e scene, piante, fabbriche e cani pechinesi. Allora la Cosa diventa la Parola e poi ritorna la Cosa, ma ordita e intessuta fino a formare un fantastico disegno. La Parola succhia il Vicolo Cannery, lo digerisce e lo espelle, e il Vicolo ha assunto lo scintillio del verde mondo e dei mari che riflettono il cielo»), come sagome estreme, l’odissea raminga della famiglia Joad, su un camion sgangherato alla ricerca di uno spazio, un gancio o un appiglio dove poter vivere, rappresenta la ripetizione delle antiche migrazioni dei pionieri verso i territori della frontiera.

Lo sgretolamento familiare che man mano si volge allo «sfacelo» concorre al dispiegamento del paesaggio, muto e desolato, degli scorci.

Furore è una tragica scena teatrale, dove i tendaggi del sipario, offerti dai passaggi di stato (Arkansas, Texas, New Mexico, Arizona), servono a introdurre, solcare e, infine, scavare l’atmosfera fragile dei personaggi, come ha sostenuto la studiosa francese Claude-Edmonde Magny, avvalorando l’ipotesi di uno stretto avvicinamento della pagina alla macchina da presa.

I personaggi emergono nella loro dura fertilità epica e vengono messi a fuoco da Steinbeck, come catalizzatori di una tensione di lotta (I pascoli del cielo) in cui la polifonica coralità acquista segno e vigore. L’esilio nomade segna la vita anche quando la felicità viene sfiorata, anche quando il suo progressivo avvenimento pare collocarsi nelle vicende umane.

L’epilogo del romanzo  è drammatico: la meta agognata e brulicante, il sogno, pieno di riscatto, di una vita migliore, si infrange senza requie: Tom uccide, durante uno sciopero, il poliziotto che aveva ucciso Casy, un’inondazione inghiotte ogni cosa e infine, Rosa Tea, abbandonata dal marito, partorisce un bimbo morto, finendo per allattare, dopo il parto, un uomo sfinito dalla fame: «Per un minuto Rosa Tea continuò a sedere nel silenzio frusciante del fienile. Poi si alzò faticosamente in piedi aggiustandosi la coperta attorno al corpo, si diresse a passi lenti verso l’angolo e stette qualche secondo a contemplare la faccia smunta e gli occhi fissi, allucinati. Poi lentamente si sdraiò accanto a lui. L’uomo scosse lentamente la testa in segno di rifiuto. Rosa Tea sollevò un lembo della coperta e si denudò il petto. “Su, prendete” disse. Gli si fece più vicino e gli passò una mano sotto la testa. “Qui, qui, così”. Con la mano gli sosteneva la testa e le sue dita lo carezzavano delicatamente tra i capelli. Ella si guardava attorno, e le sue labbra sorridevano, misteriosamente».

La fuga è il giaciglio di occhi stanchi, la deriva che pur avendo una meta precisa, e densa di attese, cade nella miseria, ma non pone fine a un cerchio inconcludente, bensì, come la linea retta della Route 66, compie il suo sforzo fino all’ultimo.

Nel suo romanzo Steinbeck dà voce al disorientamento e alla sfiducia che segnarono profondamente la coscienza americana dopo la Crisi del ‘29: la fine dell’ “american dream”, del cieco ottimismo nel futuro e nell’opportunità per chiunque di raggiungere il benessere e la felicità.

Lo scontento totale ed estremo che permea ogni personaggio di Steinbeck, non ha però linee di nichilismo o rassegnata solidificazione del nulla.

La narrativa militante,come specchio della sua produzione, scritta nel pieno dell’epoca del New Deal, non ha nella propaganda il suo punto di forza, ma solo nel valore lucente della dignità, nella lotta per il bene comune, essa riluce.

Quando scriverà L’inverno del nostro scontento (1961), la nitidezza limpida di Ethan Allen Hawley, uomo del Long Island, che cerca di vivere con l’altezza dei suoi valori, finendo poi per soccombere alle pressioni esterne, fino a compiere dei reati, in nome del guadagno, soggiace all’estremità di una disumanità opulenta.

I raggiri, le trame nascoste e le deviazioni umane per impossessarsi di un terreno, secondo il nuovo piano urbanistico, e accrescere le sue ricchezze, sono portati al massimo.

Il degrado morale, l’estremizzazione del capitalismo, rappresentato da un commesso che cerca di impossessarsi della terra, sconvolge la lucidità che era stata di Furore, accompagnando la discesa verso un dis-valore che diventa connotativo. L’onestà e la pace di un commesso vengono sconvolte da un elemento perturbatore che induce a un edonistico soddisfacimento, come accade in questo brusco passaggio de I Pascoli del Cielo: «Una lunga valle si stendeva entro un anello di colline che la proteggevano dalla nebbia e dai venti. Disseminata di querce, era coperta di verde pastura e formicolava di cervi. Al cospetto di tanta bellezza il caporale si sentì commosso […] “Madre di Dio!” mormorò. “Questi sono i verdi pascoli del Cielo ai quali il Signore ci conduce!” Poco dopo, vicino alle venti famiglie con dieci piccole fattorie, che vivevano in pace, si trovava la fattoria Battle, disgraziata e incolta e sulla quale pareva esserci una sorta di maledizione «dicevano che la fattoria Battle era maledetta e i loro bambini dicevano che era stregata».

Storie di fattorie stregate e di bambini che vogliono distruggerle, di famiglie che tentano di abitarle, fronteggiando ogni maledizione, per rivivere e rigenerasi assieme, come impastati dall’arsura dei luoghi, di sacerdoti che sognano una casa nella Valle e di polvere sui mercanti bricconi, come Edward Wicks detto lo Scroccone, mandati finalmente a vivere dignitosamente altrove, dopo aver portato il peso e lo spavento di una figlia bellissima e tragica.

La diversità che compone il mosaico di un sogno infranto, l’anima di una terra senza frutto, il sentiero di un grumo di ossessione di sopravvivenza, vivono l’acuto sentimento perenne di un solco umbratile che impone la vita: «Nell’Ovest, se una famiglia è vissuta per due generazioni in una casa, viene considerata come una famiglia di pionieri. Al rispetto che si ha per essa si accompagna un certo disprezzo per la vecchia casa. Ma poche case vecchie esistono nell’Ovest. Gli americani non riescono a star fermi molto a lungo in un posto. Presto o tardi bisogna bene che cambino».

Il piccolo Tularecito, ritrovato tra i cespugli da Pancho, bracciante di Franklin Gomez, dopo le sbronze di Monterey, che è solito disegnare figure di animali sull’arenaria, da tutti considerato un piccolo diavolo, impossibilitato a integrarsi a scuola e nel tessuto sociale, finirà per essere consegnato al manicomio criminale di Napa, o, ancora, la storia di donne belle e tragiche come Helen van Deventer, orfana a quindici anni, vedova a venticinque, madre di una figlia ribelle, la cui vita «si svolgeva sotto il peso di un sentimento acuto e perenne di tragedia.[…] Sembrava ch’essa avesse bisogno di tragedia per vivere e il destino non la lasciava insoddisfatta, gliene procurava».

Figure come Junius Maltby e di suo figlio Robert Louis, detto Robbie, i quali vivono in una sorta di imperturbabile universo, salvo poi fuggire da San Francisco e dalla vita impiegatizia per ritrovare la pace nei Pascoli, nonostante il suo matrimonio poco felice, l’ozio e la crescita, sotto l’ossessione di Stevenson, del suo bambino.

Uomini in fuga, scontenti e affranti, vittime della loro diversità, scolpita nelle porte del tempo, della loro terra promessa di sogno e giustizia, della loro pace sconvolta dall’esilio, dal randagismo, dall’anima inquieta della loro vita.

Il realismo epico di Steinbeck soggiorna in questa quotidianità vissuta e sofferta, penetrata nella piccolezza immensa dell’uomo, in un repertorio in cui anche il più minuto dettaglio contribuisce alla storia universale. L’umanità oppressa, marginale e sconfitta, trova attenzione in un appassionante affresco, con le vene delle mani, aperte.

 

steinbeck j., Furore, Bompiani, Milano 2001.

id., Uomini e topi, Bompiani, Milano 2012.

id., L’inverno del nostro scontento, Bompiani, Milano 2011.

id., I pascoli del cielo, Bompiani, Milano 2011.

id., Al Dio sconosciuto, Bompiani, Milano 2011.

id., Vicolo Cannery, Bompiani, Milano 2012.

fontenrose j., John Steinbeck. An introduction and interpretation, Holt Rinehart and Wiston, New York 1963.

garnero f., Invito alla lettura di Steinbeck, Mursia, Milano 1999. 

magny c.e., Steinbeck, or the Limits of the Impersonal Novel, Ungar, New York 1972.

migliorati m., “Uomini e topi” di John Steinbeck o dell’impossibile redenzione, in piras t. (a cura di), Gli scrittori italiani e la Bibbia. Atti del convegno di Portogruaro, 21-22 ottobre 2009, EUT Edizioni Università di Trieste, Trieste 2011, pp. 231-241.

 

Psicodinamica del Sé nelle relazioni interpersonali Ricerca, patologia, intervento, a cura di Irene Battaglini

Recensione di Maria Assunta Parsani

9788854851979

In questo volume sono raccolti i contributi, tratti dalle relazioni degli italiani che hanno partecipato al 16° Congresso Internazionale della World Association for Dynamic Psychiatry, congiuntamente al 19° Simposio Internazionale della Deutschen Akademie fur Psychoanalyse presso l’Ospedale psichiatrico della Ludwig-Maximilians-Universitat a Monaco dal 21 al 25 marzo 2011. 

Ne è scaturita una linea di pensiero frutto di orientamenti terapeutici e teorici diversi quali quello psicoanalitico e cognitivo, psicofisiologico e neuropsicologico, fino alla psicologia analitica attraverso l’espressione di un linguaggio immaginale della Firenze del ‘300, che è andata a comporre un’immagine del Sé variegata e poliedrica, ma soprattutto una espressione della formazione dell’identità individuale data dall’ ”Essere” in movimento nell’universo della psiche.

Si delinea ad apertura della raccolta, nell’intervento di ALFREDO ANANIA, la ricerca dell’identità culturale legata al Sé storico, all’inconscio collettivo contemporaneo, al senso della Polis e allo spirito loci, che rintraccia le origini del Sé individuale non solo nell’origine psico-ontogenetica, dalle sue matrici relazionali, ma anche psico-filogenetica derivante dalle matrici culturali che sono inconsciamente presenti in tutte le persone. La trasmissioni culturale delle proprie produzioni simboliche consente, attraverso l’impulso alla libera interpretazione, di trascendere la realtà materiale ed essere investita dal senso oscuro, ma universalmente significativo, che ci conduce alla ideazione di modelli di ricerca originali e all’incontro e allo studio reciproco tra diverse appartenenze culturali. L’inconscio si configura come una macchina del tempo che, ogni volta dà luogo a un qualcosa di nuovo, mai ripetitivo.

Proprio attraverso l’utilizzo della macchina del tempo IRENE BATTAGLINI ed EZIO BENELLI, tracciano le linee guida dell’esperienza del Sé attraverso il pensiero immaginale, focalizzando il tema centrale dell’ermeneutica delle immagini sulla soggettività che richiama alla centralità autonoma del Sé nel linguaggio dell’arte, in un moto dialettico con il Sé di chi fruisce. La soggettività all’interno dell’intersoggettività diviene un luogo non concluso tra due soggettività e a esse solo appartiene, come la fiamma blu – nera, descritta da Hillman, attira le cose e le consuma, mentre il biancore continua a fiammeggiare al di sopra. Da ciò scaturiscono la relazione profonda e il contatto ctonio con il mondo e il legame con il numinoso, l’opus alchemico che mira all’integrazione, per giungere alla realizzazione del Sé che si manifesta nella meta ideale del percorso ideativo. Il processo circolare di relazione che va dal tutto alle parti e viceversa, conduce a un continuo scambio tra le cose che modificano il complesso del sapere. Si traccia attraverso il pensiero di Jung, la declinazione numinosa del Sé e diviene guida sulle interrogazioni rivolte alle prime immagini che hanno ispirato Giotto di Bondone e Dante Alighieri con la codifica di linguaggi generativi di storia e di civiltà. Gli autori individuano nella ricerca, un viaggio verso gli inferi che deve prevedere sia una mappa, sia un’ipotesi di ritorno e di salvezza. La mente immaginale determina un confronto ed anche una sovrapposizione tra l’immagine originale e la risultante del lavoro immaginale, per cui ne deriva non solo la formazione di un nuovo mosaico, ma molto più probabilmente la ricostruzione di un mosaico danneggiato, che attraverso uno sguardo affinato reca alla luce frammenti dispersi e nascosti. Scaturisce da queste riflessioni il perché della Psicologia e dell’arte insieme. L’arte come strumento per una più diretta connessione con ciò che non conosciamo a livello razionale, in cui si fa spazio la domanda di come l’ermeneutica del mondo immaginale possa essere d’aiuto alla comprensione dell’opera d’arte. Gli autori, seguendo Hillman nella sua apertura al mondo immaginale, tracciano il legame con Firenze e l’Italia, la nascita della prima conferenza di Eranos, il primo commento della favola di Amore e Psiche, in cui la tensione genera una psicologia dell’arte che diventa parola dell’anima. Lo studio psicologico è l’umile tramite tra il mondo interno dell’analizzando e il mondo interno del mondo. E all’anima è assegnata la funzione di “intermedio” di tutte le cose, senza essere né corporea né visibile, essa è dominatrice dei corpi.

Ricorrendo ancora all’arte e alle sue possibilità esplicative, VITTORIO BIOTTI individua nella Trilogia di Bion un progetto teatrale che richiede un confronto sui grandi temi dell’individualità, la sua formazione, le sue dinamiche, cercando risposte nei grandi lavori del periodo classico e nel contrappunto del periodo americano. In Bion, citando F. Di Paola, si ritrova la necessità e l’anticipazione della necessità di porsi di fronte ad una nuova nascita.             

Attraverso l’analisi delle varie teorie ad approccio biologico, evoluzionistico, psicosociale, cognitivo DAVIDE DETTORE evidenzia come alla costituzione dell’identità di genere contribuiscano sia i fattori biologici, ma anche le componenti sociali, culturali e cognitive. Questi fattori insieme concorrono a strutturare un complesso di elementi schematici che sono alla base del concetto di identità di genere, non necessariamente  limitato alle categorie dicotomiche di maschio e femmina. Emerge ancora una volta prepotente il Sistema del Sé, nel modello evolutivo concettualizzato nell’ottica cognitivista di Doorn e coll. in cui i concetti di identità di genere sarebbero compresi e più validamente comprensibili. Secondo tale impostazione, il Sé può essere considerato come un sistema cognitivo di controllo composto da un sistema dominante  (“master self”) che si mantiene in relazione e in comunicazione con una serie di sottosistemi subordinati, operanti ciascuno in parallelo rispetto agli altri e quindi autonomi, indipendenti e influenzati dal sistema del Sé che a sua volta li influenza. L’espressione dell’identità di genere di un individuo sarebbe in stretta connessione con la predominanza dell’uno o dell’altro sistema, ma anche con l’intensità, con la frequenza e con le occasioni in cui l’uno o l’altro si esprime. Si costituisce una visione del Sé relazionale, multiplo e discontinuo, organizzato differentemente dalla versione del Sé dominate. Il complesso modello è paragonato dall’autore alla teoria di Liben e Bigler, evidenziando le differenze individuali strettamente connesse al “modello di vita personale” e alla storia dell’individuo, nella costituzione dello specifico dell’identità di genere che amplia lo stereotipo culturale.

Partendo dalla considerazione che la psicoterapia rappresenta un trattamento di prima scelta per i disturbi mentali gravi, inclusi i disturbi di personalità, ROBERTO DI RUBBO, ELENA SOGARO e SEFANO PALLANTI presentano un case report relativo alla Psicoterapia psicodinamica Comunicativa Evolutiva di Gruppo (PPCE-G) in cui viene illustrato il Modello Comunicativo Evolutivo, basato sulla teoria della complessità per la terapia di pazienti con disturbo mentale grave in un setting ambulatoriale. La Psicoterapia illustrata mantiene al centro dell’impostazione le libere associazioni e le dinamiche mentali inconsce, mentre i terapeuti focalizzano l’attenzione su tutti i processi connessi con l’esperienza delle difficoltà nelle relazioni e nelle patologie di personalità del paziente. Nell’analisi dell’iter terapeutico si evidenzia come il cambiamento dei sintomi sia strettamente legato ai cambiamenti del senso dell’identità personale e delle dinamiche interpersonali dell’identità, ponendo l’accento sulla funzione della struttura inconscia della “Frontiera Personale” che deriva dall’acquisizione dei principi relazionali di organizzazione più adattivi. Quest’ultima essendo inconscia cattura l’attenzione del terapeuta, il quale a sua volta si esprime attraverso un comportamento inconscio e l’approccio comunicativo evolutivo stimola il terapeuta a prestare attenzione alla narrazione dei pazienti e a rimanere nella posizione di Condizione Necessaria e non usurpare la posizione dei protagonisti. Ciò stimola la creazione di compliance. Il PPCE-G sembra fornire nel feed back interpersonale benefici sia per l’alleanza terapeutica sia per il senso d’identità personale.

MARIA FEDI sceglie, invece, di seguire il percorso degli eroi Edipo e Ulisse, nei quali s’intravede la ricerca del Sé che ci appartiene perché, afferma Freud: ” Deve esistere nel nostro intimo una voce pronta a riconoscere la forza coattiva del destino di Edipo ”e attraverso un parallelismo che conduce tramite il mito all’archetipo e alla forza dell’anima disvela, come nelle parole di Hillman la nostra psicologia del profondo in vesti antiche. Nel viaggio psicoanalitico, attraverso il metodo l’uomo si rivela, racconta la propria storia e attraverso l’incontro con l’anima e nel fare anima consente al molteplice di divenire materia psichica, di entrare nell’universo personale dove è possibile la formazione del simbolo. L’incontro con l’anima, afferma l’autrice, come avvenne per gli antichi eroi, ci guida alla scoperta di una dimensione interiore, riconoscendo la storia dei molti e dei molti nella nostra storia.

Come in un’oasi poetica che tanto si addice al fare anima, ANDREA GALGANO, traccia alcune linee del divenire nella poesia di Eugenio Montale: la morte della sorella Marianna, l’incontro con Anna degli Uberti e successivamente a Firenze Drusilla Tanzi che diverrà sua moglie. In queste figure femminili descritte nei versi del poeta, l’autore ravvisa la luminosità della memoria, il suo riflesso nel tempo. E ancora, dopo l’incontro con Irma Brandeis il divenire prigioniero del complesso di Edipo, rende il poeta “vile e contraddittorio”, mentre nei versi a lei dedicati trasluce la miracolosità dell’istante e sulle tracce del mito Ovidiano si intravede la figura di Clizia, la quale persa la speranza di poter riconquistare l’amore si trasformò in girasole. Fino a giungere all’incontro con Maria Luisa Spaziani, anch’essa sua ispiratrice che conduce Montale a vivere nel limbo di ciò che è a-sessuato, nella paura del vissuto. L’amore platonico che contraddistingue il rapporto del poeta con Laura Papi connota la stagione di buio di un individuo, che afferma l’autore, non si innesta nel vivere. Si dipingono così la ricerca dell’eros nell’eterno femminino e l’impossibilità di sublimarlo.             

Di eros si occupa anche LINA ISARDI, partendo dalle origini della sessuologia, con i suoi autori, fino alla storia più recente in cui la salute sessuale è vista come un’integrazione di aspetti somatici, intellettivi, motivazionali e sociali. Il formarsi dell’”identità sessuale”, costrutto multidimensionale composto dal sesso biologico, dall’identità di genere, dal ruolo di genere e dall’orientamento sessuale è un processo nel quale il sesso biologico, i valori culturali e quelli personali annessi alla sessualità influenzano la percezione di sé e i comportamenti del bambino, che come individuo prende coscienza della propria identità sessuale tra i diciotto mesi e i tre anni. L’autrice evidenzia la sessualità come elemento fondamentale della vita i cui disturbi coinvolgono tre aspetti: l’atto sessuale, l’identità che ci riconosciamo, le nostre fantasie sessuali e il viverla in modo soddisfacente è essenziale per mantenere una buona salute mentale. I disturbi sessuali sono fonte di sofferenza, ma esiste la possibilità di curarli. L’autrice presenta un caso clinico che partendo da un presunto conflitto d’identità risulta essere, dopo il trattamento, ansia da prestazione e si risolve positivamente.

La tesi centrale di ANNA MARIA LOIACONO tende a sottrarre il concetto di personalità “come se” alla psicopatologia, nell’ambito della quale H. Deutsch lo sviluppa, portandolo nell’ambito della normalità e sulla scia concettualmente di Paul Roazen, arriva nel cuore del lavoro analitico. Ivi scorge analisti esperti spesso portatori di valori conformisti e si domanda: “In che misura il conformismo psicoanalitico è “il come sé” collettivo del nostro mestiere?” Non possedendo una risposta, sulle orme di Fromm, dichiara che pur non sapendo cosa fare ha molte certezze su quello che la nostra storia ci ha insegnato a non fare, per non riprodurre storie senza memoria.

VOLFANGO LUSETTI esamina l’uomo e l’utilizzo di tre forze fondamentali: la nutrizione-predazione, la socialità- comunicazione e infine la riproduzione di tipo sessuato. La predazione è neutralizzata dapprima dalla sessualità e poi dalla socialità e sembra svolgere un ruolo di motore sociale. Tre aspetti sono individuati circa le radici biologiche della violenza umana: il primo tema riguarda il conflitto morale e insanabile, che sembra intercorrere tra le generazioni e in particolare tra padri e figli. Un secondo tema sulla radice della violenza è quello inerente alla natura degli strumenti antipredatori (la sessualità perenne e i codici simbolici di base). Il terzo tema ha per oggetto il fallimento degli strumenti antipredatori che come un campanello d’allarme, afferma l’autore, richiama l’attenzione all’albero della vita da cui proveniamo, cioè alle radici del male cannibalico-predatorio che ci tormenta perché proprio esso è ciò che ha formato la nostra vita.

L’analisi della costruzione della realtà, a partire da William James, per proseguire con C.H. Cooley, G.H. Mead, fino a Fromm è analizzata da CATERINA MARTELLI E LORENZA TOSARELLI, sottolineando in quest’ultimo la convergenza tra il sociale e lo psicologico, descrivendone le interazioni che sono alla base della costruzione della personalità. Passando da Matte Blanco e il suo inconscio strutturale, fino all’inconscio implicito, agente attivo nella formazione dell’Identità, si delinea la presenza di strutture inconsce nella nostra mente non conciliabili, ma responsabili della vita emotiva. La psicoterapia, affermano le autrici, è in grado di modificare il substrato neurobiologico e attraverso interrogativi, quale la modalità di contattare l’inconscio implicito e il ruolo del Corpo nel processo di cura, cercano nella modalità terapeutica l’essenza della conoscenza implicita, dirigendo la loro attenzione sull’Expression Primitive, che propone una semplicità espressiva in relazione con l’altro. Si apre in tal modo uno spazio vitale dell’Identità, non bloccato dall’angoscia e dai sentimenti di disregolazione, che consente una maggiore espressione di Sé.

GIOVANNA NICASO, esamina la problematica concernente, i pazienti affetti da DP e in particolare evidenzia la prevalenza di DBP nelle persone giovani e la dis-regolazione emotiva che produrrebbe le difficoltà manifestate nel funzionamento interpersonale e nello sviluppo di uno stabile senso di sé. In quest’ambito di osservazione clinica riporta l’esperienza di ricerca-azione nell’ambito dell’ASL di Grosseto, che ha proposto la realizzazione di un gruppo di supervisione sistematica dei casi clinici in trattamento esaminando venticinque casi di DBP, di cui tre casi sono stati dei drop-out, tre casi hanno avuto un esito negativo, non ci sono stati casi di suicidio. In conclusione i 4/5 dei risultati del campione non sono ritenuti disprezzabile  e ciò apre le porte alla speranza di poter realizzare l’estensione del modello ad altri  soggetti in trattamento.

Con un taglio decisamente spirituale IRENE NOTARBARTOLO, richiama l’esigenza di approfondire una nuova dimensione nelle relazioni interpersonali vissute dall’uomo nel formarsi dell’identità. Considera la dimensione spirituale altrettanto sostanziale rispetto ad altre quali quelle corporee, fisiche e mentali, rilevando come la psiconeuroendocrinologia (PNEI), abbia recentemente rivolto a tale dimensione la sua attenzione e nel parallelismo con il network evidenzi nel sistema uomo la possibilità di azione terapeutica tramite tecniche spirituali.  L’autrice integra il pensiero di Fromm indicando come più proficuo un modello di uomo in quattro dimensioni (corporea, psichica, intellettiva e infine spirituale), attraverso di esso sarebbe infatti possibile una migliore comprensione delle relazioni, che spesso frenata da interpretazioni riduttive attua una vera e propria “fuga dalla libertà” del pensiero contemporaneo.

GIUSEPPE ROMBOLA’ CORSINI e ALESSIO BARABUFFI pongono l’accento sula necessità che lo psicologo dello sport non debba necessariamente essere uno psicoanalista, bensì un esperto in psicologia dinamica. Attraverso l’analisi della domanda, gli autori evidenziano la richiesta iniziale di un intervento focale dettato dall’esigenza dello sportivo di ottenere una produttività immediata, che talvolta muta in richiesta d’intervento analitico, tramite cui emerge il formarsi della pratica dello sport come forma privilegiata del manifestarsi del mondo interno. Queste osservazioni sono utilizzate al fine di ricostruire la storia e l’elaborazione dell’agire sportivo collettivo, rintracciando in esso l’elaborazione del conflitto psichico a partire dalle origini mitico-rituali e sacro-sacrificali. L’evoluzione di questo passaggio è tracciata dall’esperienza traumatica originaria sublimata nello sport, in cui gli oggetti-meta delle pulsioni aggressive, sono sostituiti con oggetti-meta socialmente accettati e di conseguenza conducendo all’elaborazione del trauma. Mentre l’aggressivo cerca la vendetta rispetto al proprio passato insoddisfacente, il combattente lotta per il futuro e il vero sportivo allontana l’aggressività volendo essere un combattente. Percorrendo un lungo tragitto, l’atleta neutralizza, tramite le regole, gli impulsi aggressivi e giunge attraverso un processo dinamico a una sublimazione che si plasma nell’interazione con l’ambiente. Si esalta l’importanza dello sport per l’elaborazione del conflitto psichico mettendo in luce il valore delle conoscenze di psicologia dinamica per chi opera all’interno di questo contesto.    

Il caso clinico presentato da DANIELA ROSSETTI esamina il percorso compiuto da una donna, che dopo aver perso, la madre attraversa una fase di congelamento e di coartazione affettiva. Lo scongelamento che nel processo terapeutico avviene, consente la ripresa di un cammino alla ricerca della propria identità personale. Partendo dalla premessa che non è possibile in  alcun  modo cambiare il nostro passato, l’autrice ci indica la strada compiuta per un cambiamento di noi stessi, per “riparare i guasti” e riacquisire la nostra integrità perduta. Con lo sguardo che conduce alla conoscenza ravvicinata del nostro passato memorizzato nel nostro corpo, avviene l’accostamento alla coscienza. Al fine di avviare la trasformazione che muta le vittime inconsapevoli in individui responsabili e la conoscenza della propria storia guida alla convivenza con essa.

L’importanza del nesso tra emozione e memoria è evidenziata da MARIA PIA VIGGIANO, TESSA MARZI e STEFANIA RIGHI. Attraverso una migliore comprensione dei fenomeni che legano le emozioni ai processi di codifica della memoria, le autrici evidenziano la possibilità di una miglior comprensione di disturbi quali l’ansia, la depressione, e il disturbo post traumatico da stress, in cui un’eccessiva sensibilità dell’amigdala crea uno squilibrio nella regolazione  delle emozioni. Il lavoro approfondisce la definizione a livello temporale dei processi sottostanti al riconoscimento di un volto che durate la fase di codifica della memoria, manifesta una determinata emozione. L’interazione tra emozione, percezione e memoria è sottolineata al fine di porre in risalto quando le emozioni rese manifeste dalle espressioni hanno un ruolo chiave nei processi cognitivi, per giungere alla comprensione dell’esatto decorso del processo temporale utilizzato dai processi di codifica delle emozioni e alle implicazioni nell’ambito della sfera emozionale affettiva. L’utilizzo della tecnica degli ERP pone in risalto in che misura il processo di memoria possa essere influenzato dall’emotività espressa dal volto ed esamina come la particolare espressione emotiva influenza i processi di recupero, a partire dagli stati più precoci dell’elaborazione, nella ricerca che alcuni stimoli hanno nell’adattamento all’ambiente. I volti che esprimono paura elicitano risposte elettrofisiologiche più ampie e più rapide. Il significato funzionale di questa differenza potrebbe essere rintracciato, secondo le autrici, nel fatto che una situazione di pericolo richiede una risposta più immediata.

Come afferma Irene Battaglini: ”La posizione centrale del Sé in tutta la psicologia trova in questo volume lo spazio per un respiro ampio che intende sfiorare il tempo di un Umanesimo mai estinto”.

Maria Assunta Parsani

AA.VV. Psicodinamica   del  Sé nelle  relazioni  interpersonali

Ricerca, patologia, intervento

Atti del XVI Congresso mondiale di Psichiatria Dinamica (Monaco di Baviera, 21-25 marzo 2011)

A cura di Irene Battaglini, Aracne, Roma 2012.

La Scuola secondo Franco Bruschi, psicologo

Recensione di Gabriele Anastasio

La psicologia della scuola, di Franco BruschiLa Psicologia a Scuola, di Franco Bruschi

Il mondo della scuola è stato oggetto, negli ultimi anni, di profonde trasformazioni. Più di altri ambienti ha risentito dei cambiamenti sociali, di politiche inadeguate, di tagli di risorse che ne hanno stravolto il senso e l’organizzazione. La scuola, oggi, non è più solo un luogo di insegnamento e di educazione, ma è divenuta luogo di accoglienza, di integrazione, di sostegno sociale e, nello stesso tempo, è stata oggetto di attacchi principalmente politici ed economici che ne hanno minato la validità e l’efficacia.

In questo contesto, prima ancora che luogo di insegnamento, la scuola è il punto di incontro tra bambini sempre più relegati in mondi virtuali, genitori che, in molti casi, non sanno o non hanno la possibilità di svolgere adeguatamente il loro ruolo, e insegnanti e personale ausiliario gravati di mille compiti che ne limitano il compito di educatori. È facile capire come, in un contesto del genere, la figura dello psicologo possa rivestire un ruolo importante di aiuto e, infatti, molte scuole hanno previsto la presenza di tale professionalità al loro interno, ma con modi e risorse molto diverse da contesto a contesto. Anche per gli psicologi non è semplice entrare in questo mondo, per vari motivi.

Esce, finalmente, nella collana L’Immaginale della casa editrice Aracne, il libro La psicologia a scuola, scritto dal dott. Franco Bruschi con il contributo di Paola Carboncini e Eloisa Tonci. Si tratta di un libro importante, nato dall’esperienza trentennale dell’autore nelle scuole.

I pregi del volume sono, a nostro avviso, molteplici.

Innanzitutto viene fatto chiarezza sui compiti e le funzioni dello psicologo all’interno della scuola. Non è una cosa da poco, perché, sebbene da molti anni, come detto, lo psicologo scolastico esista nei fatti, ufficialmente non esiste una figura specialistica riconosciuta. Questo comporta che spesso il professionista che si trova ad operare in questo ambito non ha riferimenti precisi su come muoversi; da qui deriva una grande disparità di interventi nei vari istituti scolastici che, a loro volta, si preoccupano di organizzare un servizio di cui non sempre conoscono le effettive potenzialità, e finiscono per sfruttarlo male o, addirittura, rischiano di creare le condizioni che ne impediscono il funzionamento. Anche i ragazzi e le famiglie, inoltre, non sempre sono adeguatamente informati e tendono così a non rivolgersi ad uno specialista che potrebbe fornire loro un aiuto importante.

Con un linguaggio chiaro, il volume del dott. Bruschi precisa le competenze, le funzioni e anche i limiti che lo psicologo deve osservare nel suo lavoro all’interno di una scuola. Allo stesso modo, con uno sguardo a tutto tondo, indica quali sono le condizioni necessarie perché l’intervento dello psicologo abbia efficacia, non solo relativamente alle capacità di chi svolge questo ruolo, ma anche relativamente agli spazi, alle risorse e ai contributi della scuola stessa e delle famiglie.

L’altro grande pregio del libro è quello di partire dalla pratica. L’autore accompagna il lettore a scoprire l’opera dello psicologo scolastico attraverso la presentazione di situazioni reali, analizzando, di volta in volta, il problema, il contesto e il piano di intervento. Anche le indicazioni teoriche, con importanti riferimenti alla teoria psicoanalitica, nascono come conseguenza dei casi trattati, facendo capire come la pratica sia il punto di partenza che pone le domande a cui la teoria deve trovare le risposte e non il contrario, come purtroppo spesso accade.

Consigliamo vivamente la lettura di questo libro, non solo agli psicologi che intendono lavorare (o che già lavorano) nella scuola; ma anche agli insegnanti, agli educatori, ai dirigenti, ai genitori e a tutti coloro che, a vario titolo, frequentano questo mondo caotico e meraviglioso. Fornirà loro una guida preziosa per comprendere fino in fondo quali possano essere gli effettivi vantaggi di un servizio che operi in piena sinergia con il contesto che lo ospita.

Gabriele Anastasio