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L’Italia di Charles Wright

di Andrea Galgano 11 febbraio 2017

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charles-wrightNon una parola s’è mai dissolta in gloria, non una.
Continuiamo a mandarle in alto, comunque,
così come il sole piove giù.

Charles Wright

La antologia di Charles Wright (1935), Poeta laureato e unanimemente considerato uno dei più grandi poeti americani, Italia, edita da Donzelli, a cura di Moira Egan e Damiano Abeni, non è un intervallo solo rammemorativo. Non vi è decorazione o celebrazione inusitate, bensì piuttosto il richiamo a una profonda passione epica, all’incisione salutare della fisicità dei luoghi, alla loro umbratile consistenza che diviene intreccio che rivela ciò che è nascosto, attraverso il legame incarnato e la profondità contemplativa.

È un’attitudine meditativa e spirituale a raccordare la vertigine e la struttura del verso, in cui la vertebra prospettica non è l’occasione ma il tempio dello sguardo, il respiro che affiora dalla percezione e dal fiato. Possedere questa vista significa, in definitiva, corrodere ogni forma pittoresca, affermando la bellezza del movimento e dei segni cronologici, pedinando l’inquieto permeare dello strazio arrestato, fissandone, infine, i contorni nel gesto che diventa ferita e tenerezza.

Essi nascono sin da quando nel 1959 egli, soldato americano, di stanza a Verona (nella patria di Catullo dove «i fiori schiusi scorrono / verso ponente nel vento che soffia verso ponente») o quando si troverà a Sirmione, sfiorata in un bellissimo notturno: «Le erbacce si sono infoltite nei frutteti e le foglie pendono inascoltate sotto le arcate […] Accordi sparuti da un liuto spettrale, è vero, scendono talora sulle ali dello stesso vento alpino che come un pastore continua a guidare le piccole onde sulla sponda […]»), tocca lo spazio fondativo della poesia e la lingua che ristruttura il mondo, leggendo una raccolta di Ezra Pound, «padre dal sangue freddo della luce».

Venezia è smarginata e intrisa di splendore, in cui la luce segreta della laguna si veste di respiri posati sulle palpebre all’infinito: «Questa è la strada dove abita Pound, / un vicolo cieco / di anfratti catarrosi e pietra sbrecciata, / al cui imbocco le acque / si adunano, i gabbiani stridono; / qui dentro – muto, immoto – egli aspetta, / cernendo gli affretti freddi del sangue» (Omaggio a Ezra Pound).

Attraverso lo studio e l’epifanico magistero di Dante («Dante ti fa pensare seriamente alla vita. Ti costringe a volere una tua vita, a impiegarla nel modo migliore. La sua poesia è un grande modello platonico di vita e arte»), la traduzione di Eugenio Montale e l’«angelo lirico» Dino Campana («la tua bocca è la porta azzurra da cui passo, / la lampada accesa, la tavola apparecchiata»), egli ricompone la lettura fonematica e conclusiva dell’Italia, che nelle note dei notturni, riporta il buio delle scaglie e dell’avviluppo abissale della luce persa e leggera: «Firenze. Un vortice, una bocca, / vertiginoso alveare… / Notturno / Firenze, gola verticillata, / un sibilo d’ali che si chiudono / il fiume tortuoso in fiamme, / acqua come scaglie nella vampa del fuoco…».

O ancora la trasparenza monastica di San Miniato, dove i bordi acquei «lappano l’orlo della notte», apre la chiglia nera in cui «i nostri corpi bruciano come lampioni, / le ossa sonagli in mano alla morte sotto il fuoco lunare».

Una lettura interiore che esplora la sua geografia visionaria, attraverso la distanza generativa della fisica di un mondo che si porge e si sporge nei sospiri della trascendenza, «dentro la stessa pelle della lingua», come «una necessità interiore» e una «haeccitas», nei flussi di voce, nelle preghiere-fulgori e nei salmi di luce, fino al cielo delle ali bagnate come fenditure:

«E quando, quella sera, una pioggia esagerata per la stagione (grandine che risuona dilacerante sui limoni) picchiò sul movimento lento della baia, in agosto, infestando la tenebra con un querulo biancore, egli si ritirò nella stanza del seminterrato sotto la casa, a studiare i diversi aspetti dell’acqua, le navi in improvviso contrappunto sulle scale ascendenti del mare, e ad aspettare l’irruzione, al di là delle colline infeconde del suo cervello, dei soldati di bronzo, il lievito del lampo dei loro coltelli». (Temporale).

Caterina Ricciardi afferma:

«I sacred places italiani, i sacred landscapes della sua America dei caribù, dell’Appalachia e del Blue Ridge, visibile dalla collina del Monticello di Jefferson a Charlottesville, sono la haeccitas che respira nello «stile» di Wright, anche nel rovescio genialmente sovversivo della voce orfica i Campana. Ma tutto avviluppato nella lingua, e dentro la sua (di Wright) «pelle», tutto interiorizzato verso l’espressione devozionale tesa alla trascendenza, all’oltre dell’hic et nunc, perché i monumenti dell’ «intelletto che non invecchia», quelli dell’arte (e della natura, se nessuno la distuba) sono eterni».

Il ricordo, per Wright, è la distillata e calibrata radiazione che illumina ciò che c’è. La frammentazione apparente gli serve per affrescare la pagina, alzare le immagini dove cade la luce, e dove l’ora orfica, che sbanda sull’acqua, si ritrae distendendosi.

Scrive Roberto Galaverni:

«Si tratta di un poeta mai acquiescente, ma mosso invece da inquietudini radicali, di natura esistenziale e insieme metafisica, che fa reagire volta a volta con l’occasione particolare. Wright è a caccia del proprio destino, niente di meno. Attraverso un intreccio di piani sequenza e di continui dislivelli temporali («ricordo», dice tante volte), in cui accanto alle percezioni dirette tanto spazio hanno la riflessione e il giudizio, si rivolge ai luoghi come a una costellazione da interrogare in vista di un orientamento, di una consistenza, più generalmente della propria identità personale».

Sono le vene familiari che esplorano la compagine sapienziale del suo gesto, l’indirizzo confessato delle penombre (Ricordando San Zeno), il sigillo orfano oltre il guanto della finestra, quando i propri accordi spezzati, in uno sfilato noumeno di striature d’aria, avranno il sostegno del sole e della tregua sdraiata dell’indicibile.

La lunga nota è la sua trafittura musicale, l’istantanea tradotta di un rapporto ricolmo che forgia gratitudine e chiede l’oscillazione dell’ immaginazione e della misura, rilasciando poi tracce, ricordi, significati di onde e buio purpureo e inscritto, boccioli di luna allontanati e luci diverse nell’intarsio del cielo.

Moira Egan e Damiano Abeni, nella Postfazione, si soffermano sul legame dei testi con i luoghi, sia come lascito e sia come concrezione trascendente, finendo per  includere il bordo dell’infinito, la sua maestà e la sua suggestione che spreme ogni chiarore e punto di fuga: «Wright ricerca costantemente la trascendenza nel quotidiano, e sa trovare il sublime negli angoli più bui e nascosti del nostro mondo, rendendolo in una musica che- senza farcelo pesare – spesso parla di se stessa e del modo in cui viene costruita» (p. 345).

È la Venezia che si stende come seta «sull’orlo del mare e del cielo notturno, / albescente alla luna», la Milano, nitida e asciutta del ’59, dove i viali finiscono in lotti non edificati o Roma, smalto ocra al tramonto su via Giulia, come quando «ricade la luce dalle finestre affacciate a oriente sulle sedie di vimini»:

«A Garda, su Punta San Vigilio, il lago / a primavera è come il mare, / vento che smuove le foglie d’ulivo come sciamo di pescetti di palude sotto i vigneti, / flusso e riflusso del tramonto oltre Sirmione, / voce piatta delle acque / Che ri-raccontano la propria storia, ininterrottamente, come per scaricarsi / di una colpa non dimenticata, / e non alleviata / sotto la consolatrice mano del buio, / le nubi su Bardolino che dragano il cielo in cerca dei corpi / morti di chi si rifiuta di risorgere, / con le vestaglie arancione e i corsetti fiammeggianti che rotolano lungo le colline, / vento notturno ormai tra gli ulivi, / nessun suono se non vento dal nulla / sotto le stanche stelle italiane…».

Il suo nodo dispiega la figura con una densità indomita, unisce tutto gli elementi della realtà, fornendo una visione elencata e potente di ultimità («E le iridescenti bluse di luce che indossano gli alberi. / E i cerchi-sutra degli aironi guardabuoi che ruotano via oltre i piovaschi. / E le marimba chiodate dell’alba che scuotono i loro amuleti… / Presto sarà ora della lunga passeggiata sotto terra verso il mare»).

O questo ritratto prezioso e tragico che affiora, indissolubilmente, come un oggetto d’arte:

«I fiori d’arancio hanno lasciato cadere le loro trame / sul pavimento di pietra del cuore / più di una volta / tra le stelle di ieri sera e le stelle di ieri sera. / E I Preludi hanno lasciato i loro anelli / sul gesso bianco delle pareti. / E l’armonica ha suonato e suonato. / E adesso, sotto gli alberi da frutto, / gli ulivi argento e poi non argento, il vento / dentro loro e poi no, il vecchio / seduto nel sole calante, / del tutto rilassato su una sedia nel sole che cala, foglie smosse dal vento. /  Il mondo non è niente per lui. / E la musica non è niente per lui, né il sole di mezzogiorno. / Solo il vento importa. / Solo il vento quando si muove nel lucore di latta delle foglie. / E i fiori d’arancio, / sparsi come poesie sulle pietre levigate» (Paesaggio con figura seduta e ulivi).

I colpi di attenzione di Wright sono, invece, autoritratti tra i nomi diretti: «Madonna dell’Ortolo. San Giorgio, arco e pietra. / Le pendici collinari alte sul Piave. / Luoghi e cose che mi hanno colpito, Walt, / In Italia. A piedi, Gran Catalogatore, vent’anni e passa fa. / San Zeno e il Caffè Dante. Il sedile di Catullo. […] Sulla tomba di John Keats / scende la sera invernale, dall’abito senza stelle e bordato di ghiaccio, / puri respiri di coloro che risorgono dai morti. / Dino Campana, Arthur Rimbaud. / Hart Crane e Emily Dickinson. Lo Château Nero», o lagune in cui, nell’immagine dantesca, il sigillo delle labbra dilavate incontra l’acqua limpida, brillando nelle stelle fisse come una fiamma astrale, o come la lingua perduta del ricordo di Hart Crane diviene la matita di pioggia e l’orologio che si ripiega nel petto.

Questa forza attesta il rinvenimento dello «spiritus loci abitante lo spazio italiano e, più tardi, dei paesaggi delle sue origini, stabilendo una continuità di sguardo fra mondi diversi, cosa che non fa di lui un semplice poeta “del viaggio” e della notazione diaristica ma una mente inseguita da una quête metafisica, anche quando si ferma a osservare «insetti luminosi» o a commentare un dipinto» (Caterina Ricciardi).

Come se ci fosse una fine indecifrabile al linguaggio che conosce la meraviglia stupita dell’altezza immobile e della dura eternità:

«Parlo della quiete, il riserbo / di un centrotavola di porcellana, un vaso lacrimale, una brocca. / Parlo dello spazio, che ha una sola faccia, / inesaudita, lasciata a essiccare. / Parlo della tempera, della forma, del vuoto / a cui questi oggetti stanno di sentinella, e da cui scaturiscono. / Parlo del peccato, goccia rossa, goccia bianca, / della sua deformazione e curvatura, che è azzurra. / Parlo di bottiglie, di rovina, / e di quello che usiamo per illuminare la tenebra, e del perché …» (Morandi).

O ancora: «Ora senza stelle, senza Madonne, Morandi / pare arcanamente confortato dall’assenza di conforto, / una cosa giusta al posto giusto, / paesaggio sussunto, linguaggio sussunto, l’ombra di Dio / liquida e indiscernibile» (Giorgio Morandi e il blues del parlare dell’eternità).

Scrive Irene Battaglini:

«La poetica di Morandi si inscrive nella lirica di Wright alla stregua di una “esperienza non formulata”[1], il cui senso si traduce alla coscienza non soltanto interpretandolo come la negazione di un’ Ombra pantoclastica, ma anche come un ground zero in cui gli oggetti verticalizzati sono posti in assetto orizzontale – in una tela, come al suo interno a costituirla come scena interiore del Sé e non come scena di natura morta, quindi non su una tela come un qualsiasi dipinto – si frappongono come scudo alla confusione di un mondo arcaico e inesplorabile, nel rispetto dei tempi di quegli oggetti, gravidi di nostalgia e struggimento, oggetti che vanno a costituire l’orizzonte di una cultura greca, dotata di forma con infinite qualità tonali, contro cui la confusione si frange inesorabilmente incontrando il limite di un logos che non si esperisce mai a sufficienza.

I vasi e le bottiglie dalla composta postura ieratica, si fanno simbolo di una pulsione di morte naturale, una poetica dell’ovvietà contro l’angoscia, come principio di sospensione di ogni stimolo negativo: e perciò la natura morta si traduce still life, poiché la pulsione di morte naturale in Morandi altro non è che l’opaco fondo biancastro delle ampie campiture di appoggio, che è più luttuoso e controsole di un pozzo atro, ma che per la sua stessa caratteristica si rifà ad un modello generale della mente umana in cui il lutto è un processo che attacca il fondo della psiche ma che sempre si situa dentro la vita. Il simbolico di Morandi non vive per se stesso, ma per qualcos’altro, e trova non solo eco ma anche segno ad esempio in Wright, poiché è il segno di quella fusione di orizzonti di cui parla Donnel Stern, tra ieri e oggi, tra memoria e inganno».

La ricerca di Wright è una voce lavoratissima e senza disfacimenti. Affronta il segreto della realtà risuonando di dolcezza struggente e di visione. Per cui anche la cesellatura fonetica, l’aria ironica, il dolore disperso come carta bruciata, le parole «su quella croce in cemento», la memoria compìta che raddoppia la dislocazione dei luoghi, non spezzano né disperdono la gioia tenuta.

Mantova, sperduta di nuvole e parole smemorate e intagliate, «Metà del cielo colmo di pioggia, metà no / canne spinte dall’acqua a restare immobili, / il fiume che scende in piena ma senza tracimare, / tutto capovolto, / il cielo a riposo sotto i piedi. / Parole, ma chi si ricorda? / Che parole sanno il cielo, le nuvole? / Sulla parete della residenza estiva, / dove lo lasciò Giulio Romano, / il leone beve sulla sponda del fiume, e gli alberi accudiscono», i giorni italiani nei grembi dell’Adriatico, le infinite gallerie, le incisioni di Vicenza e il Palladio acuiscono un processo di gloria memoriale, dove le impronte delle forme vivono di associazioni mentali splendenti che eccedono ogni natura temporale. Tutto si muta in questa giacenza di illuminazione irradiante. In Wright, la rievocazione è un incombenza composita, una soglia che affranca le miglia della sua inner vision «che raduna la luce come fa il vetro», facendole ricomparire e ritrarsi nel loro isolato raccoglimento, attraverso «l’oscura allegoria dell’anima / nella luce bianca dell’eternità»:

«Certe sere, quando le stelle emettono i loro segnali in codice come bande rivali, / e la nebbia scende a distendersi cauta come una sposa novella / sui gradoni degli alberi / che salgono dal mare / e il lampione che attrae zanzare comincia a rapprendersi / come una crosta sulla foglia di palma e sul falso pepe, / e il profumo delle giunchiglie / aleggia come un giardino di giugno / sul tavolo in cucina, / Scuderi chiama ad alta voce il mio nome / mentre salgo i sei piani verso la sua stanza / e mi ripresento sulla soglia, / elettrico e redivivo nel mondo della luce […]» (Giorni Italiani).

È la parola dipinta (si pensi ai grumi di tempera e ai cambiamenti cromatici di Roma, vissuta in una veste celeste) sui vortici di acqua di Pavese («I tuoi occhi saranno parole vane, un silenzio / che vedrai nel chinarti verso lo specchio / ogni giorno, / l’unico sguardo che ha per chiunque») o le riscritture di Leopardi, vissute e amate nei suoi interminati spazi che risuonano come vento («l’oceano senza orizzonte che manda segnali, / comincio a esumare dal marmo / interminati spazi, oltre, / silenzi così immensi da risuonare come vento») nei nascondimenti di mezzogiorno («Lo so che sei lassù, nascosto dietro la luce del mezzogiorno / e il cristallo dello spazio.»), nei passi delle stelle voltate alla luna, con la sua vita unita allo sguardo del cielo («Mezzogiorno, e tu sei di nuovo lì sull’altra faccia del cielo. / Due aquiloni hanno fatto il nido nella gonna secca / della palma / e graffiano la loro voce come unghie / sulle finestre dell’aria»):

«Se sei diventato un’idea eterna / che rifiuta ogni investitura nei nostri stracci rosa, / saggio al di là di corpo e forma, / o se dispensi altrove l’ostia di un diverso sole / in uno degli altri eteri, / da quaggiù / dove i nostri anni hanno fauci onnivore,  / ascolta ciò che dicono queste parole di uno che ti ricorda […] Non volevo dire altro. / Pensami di tanto in tanto, come io penso a te / quando la luna è una zecca dorata nel cielo estivo / gonfia di luce: / tu sei parte delle mie parti del discorso. / Pensami di tanto in tanto. Io penserò a te».

Annota Gianni Montieri:

«Questa è la grande capacità di Wright nel suo racconto di mezzo secolo d’Italia, di mostrare e lasciare campo alla nostra immaginazione, di accendere i ricordi e di destare curiosità. Wright è poeta che conosce a fondo il nostro paese per averci vissuto, averci soggiornato a più riprese. Lo conosce perché lo ama e, questo è evidente, lo ha amato da subito. Qui non leggiamo solo del paesaggio, delle colline, dei laghi o delle città. I versi di Wright ci portano da Verona a Mantova, da Milano all’Umbria, da Venezia a Positano, eppure non si limitano, naturalmente, a descrivere un luogo, ma dicono che il luogo è di chi lo sa guardare, il luogo è fatto delle opere d’arte che ospita, il luogo è la gente che passeggia e lavora, il luogo sono gli inverni e le estati, sono i profumi che avvertiamo fortissimi. I luoghi di Wright sono ponti di dialogo con i pittori e i poeti che lo hanno preceduto. I luoghi sono Pound, sono Leopardi, sono Morandi, sono Oscar Wilde, sono Dino Campana, sono Cesare Pavese. I luoghi di Wright siamo noi, ed è stupendo che ce li mostri come se fosse la prima volta uno che chiameremmo, sbagliando: straniero».

La nominanza esuberante come inconoscibile supplica e la sceneggiatura dell’impossibile trama che legano i luoghi alla smisurata esistenza e, allo stesso tempo, alla loro calibratura immaginifica. Le parole vivono la loro scena, anche quando sono disfatte o sperdute, e celebrano, indomite, la vocazione della realtà a farsi confine dell’essere e vita insorta, come accade in un testo sul suo pellegrinaggio ad Arquà, sospesa dimora di Petrarca: «Passo fantasma di stanza in stanza e cerco in ogni modo / di riamalgamare tutto ciò che continua a mancare, / di ricomporre ancora / gli arazzi e i focolari invernali, / le lunghe passeggiate e la solitudine / prima che i danni della storia e una fama malintesa / scompaginino tutto tranne il mero nome e uno schema di rime».

Questa insurrezione mobilita gli interstizi del dicibile come un gesto di attesa ascoltata e concentrata, dove la luce porge il suo diario, filtrando ciò che l’io genera, «come incastonato per caso nel ricordo, / incandescente e tenuto stretto».

L’ascolto e la fuga nella radice della rosa, in una limpidità di gioia, rivendicano un’ampiezza nuda che riportano la nascita delle cose all’indecifrato segreto dell’esistere e al gremito gemito del linguaggio, per risplendere e non abbagliare, poiché «tutto arriva fermarsi»:

«Dal mio balcone, l’azzurro intenso del sotto-cielo, / zaffireo e anodino, / fa da fondale alla corona della Madonna. / Più tardi, un lembo arcuato di nube, / come la scia di un jet o la coda di una cometa, vi volteggia più sopra, / anello medievale di Paradiso. / Oggi è di nuovo lo stesso azzurro, azzurro di redenzione / sul quale, tra i filari di vite, / il verde abbraccia forte la terra. / Non ancora, pare dire, oh, non ancora».

In un luminoso diario della notte, Wright ripone la sua ricerca assoluta come profondità affamata e nomade: «La notte assoluta si ritrae. / Brezze dure gelano sotto le mie palpebre. / La luna, corno di mica stampigliato, / risponde per me nelle arterie delle querce. / Desidero ardentemente acqua limpida, il silenzio / del rischio e dello splendore profondo, / la quiete dentro la solitudine. / Voglio la sua goccia sul labbro, la sua fredda impresa» (Diario della notte II).

Il forte e lucente abbraccio alla vita presente, che si sporge dai dettagli, è l’incommensurabile ampiezza di un abisso chiaro, dove persino l’oscurità è visibile, catturata dall’alone di ogni cosa dorata che lambisce il “tempio”, per dare significazione al reale (non solo le grandi città ma anche l’indocile provincia), per infrangere le cose e accoglierle, persino nei negativi di attrito, diventando stupore di vertigine: «Là fuori non c’è altro che luce, / disse l’artista mancato / con ragione, come al solito, a metà: / c’è anche un nonnulla di buio, lo sanno tutti, su entrambi i lati di entrambi gli orizzonti, / prescritto e in dipingibile, / che ci tocca i polpastrelli, in qualsiasi direzione decidiamo di saltare» (Vite degli artisti).

Le parole della poesia inseguono il dialogo inesauribile che scopre i netti recessi, i nessi, le scoperchiate miniature della realtà, non per possederle ma per perpetuare il senso di una leggera  gratuità che trasfigura la molteplicità in nitore e nostalgia azzima, bisogno ultimo e alternativa vitale disegnata dalle stelle.

L’aggregazione delle immagini si espongono nei ritmi che tratteggiano l’ombra disvelata e i lunghi fili del visibile nell’invisibile, ordinati in una sorta bellezza difficile:

«Ascolta, la memoria ha il cuore duro e la testa tenera. / Qualsiasi luce l’occhio veda, il cuore ripete buio, buio, buio. / Nulla è mai perso, dissi una volta. / Non era vero, / lo so adesso, con il passato che è un nascondiglio / oltre ogni possibilità di ricordo e recupero, a dispetto del nostro / desiderio e della nostra diligenza. / Quello che è andato è andato, / e si posa come gusci di riccio di mare sotto la palpebra della memoria, / giù nella tenebra dove non si muove nulla, / nulla tranne il cuore / quel pesce senza occhi, portato da correnti lente, invisibili / sotto un gioco della campana di isole azzurre dove, in superficie, / un giovanotto dallo spirito intatto riunisce alcuni amici / su un frangiflutti al sole / Poi uno di loro tira fuori una macchina fotografica».

Scrivono Moira Egan e Damiano Abeni nella Postfazione:

«Il filosofo-poeta degli Appalachi ha passato una vita a tradurre i segni del tempo e della natura in parole: parlando di noi stessi descrive la sensazione del caldo del sole sulla pelle, gli interminati viaggi delle nubi, la musica dell’acqua, le masse imponenti dei monti in poesie disegnate con la grazia di un calligrafo orientale, venate di metafore fini e sorprendenti. Al cuore delle sue poesie, spesso interpretabili come discorsi sull’ars poetica, c’è il tentativo di governare il linguaggio come mezzo per poter governare la vita, perpetuare il ricordo, sopportare la nostalgia, sempre nella speranza di trovare parole che non siano effimere» (p. 343).

La lingua, che definisce l’umano, non ha solo l’urgenza di dire ma spinge alla contemplazione e alla sacertà di ciò che si annuncia, che occorre conoscere e poi raschiare e cancellare, per raggiungere la nitidezza oggettuale, il carattere della sua floridezza, del suo raggio di fiamma e, infine, del suo tessuto cicatriziale. La grazia oscura del mondo, allora, è il territorio su cui lasciare il segno, per diventare mattino.

 

[1] “Oggi siamo particolarmente interessati all’emergere del senso di un’esperienza che prima non aveva significato, e sempre meno interessati a quella che Bollas ha efficacemente definito «la decodificazione psicoanalitica ufficiale» “ (Donnel Stern, in: Hoffman I. ,1998, p. 48).

6aefdee8c121fc9ec95d3c4ab9d0194a_w600_h_mw_mh_cs_cx_cyWRIGHT C., Italia, a cura di Moira Egan e Damiano Abeni, Donzelli, Roma 2016, pp. 160, Euro 18,50.

WRIGHT C., Italia, a cura di Moira Egan e Damiano Abeni, Donzelli, Roma 2016.

Italia sua, in “La Voce di Romagna”, 18 gennaio 2017.

BATTAGLINI I., Commentari e Lezioni di Psicologia dell’Arte, Scuola di Psicoterapia Erich Fromm, Prato 2017.

BRULLO D., L’avventura di Charles Wright l’ex soldato americano che rubò la poesia a Pound, in “Libero”, 31 gennaio 2017.

GALAVERNI R., C’è un americano in Italia ma, attenti, non è un turista, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 15 gennaio 2017.

GALGANO A., Il viaggio inciso di Charles Wright, (https://www.polimniaprofessioni.com/rivista/il-viaggio-inciso-di-charles-wright/), 4 gennaio 2014.

Hoffman I. (1998), Rituale e spontaneità in psicoanalisi, Atrolabio, Roma 2000.

McCLATCHY J. D., Charles Wright, The Art of Poetry, no. 41, Winter 1989.

MONTIERI G., Una frase lunga un libro #87: Charles Wright, Italia (https://poetarumsilva.com/2017/01/25/wright-italia/), 25 gennaio 2017.

RICCIARDI C., Wright. Luoghi e cose che mi hanno colpito in Italia, in “Alias – Il Manifesto”, 5 febbraio 2017.

STERN D. B., L’esperienza non formulate. Dalla dissociazione all’immaginazione in psicoanalisi, Edizioni Del Cerro, Pisa 2007.

I cieli celesti di Claudio Damiani

di Andrea Galgano 2 gennaio 2017

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presente nella Bibliografia critica su www.claudiodamiani.it

claudio-damianiLa nuova silloge di Claudio Damiani (1957), uno dei maggiori poeti italiani, Cieli celesti, edita da Fazi, è una popolata emersione di dettagli e incontri, visualità splendente e cromature di fondi.

Ma se l’eco dell’antica tradizione poetica, che si prolunga fino ad Orazio, passando per Leopardi, Pascoli e Caproni, non ama rinserrarsi in una racchiusa condensazione di voce, la poesia di Damiani è una domanda di incontro. Domanda tersa e piovuta come l’ambientazione azzurra, che pur prendendo l’accento dalla coltre intensa di Beppe Salvia, trasla il suo apice attraverso una profonda creaturalità e una estremità limpida che rafforzano la sua scaturigine nella pacatezza e nella origine.

La domanda elementare di Damiani, allora, si fonde in tutta la sua peculiare destinazione nella contemplazione del cielo vivo, nel segreto riflesso del tempo e nelle trame del vivente che lanciano il loro indefesso dialogo con il reale e la sua impossibile smarginatura:

«Riverso sul lettino in terrazzo / guardo il cielo azzurro, / azzurro di un azzurro fitto, / pieno, come più mani di azzurro. / Come siete lontani stelle e pianeti / dell’universo, quando potremo mai incontrarci, / come, creature vive e intelligenti, uomini / come noi, sparsi come siamo tutti / in uno spazio tanto grande? / Così adesso restiamo noi qui, pensando di essere soli / perché anche il tempo è tanto lungo, come lo spazio. / Vi pensiamo però, esserci cari, e ci sarà un tempo / in cui ci incontreremo».

Roberto Galaverni afferma:

«Damiani s’interroga sulle ragioni del suo idillio appena increspato da qualche nube e ombra lieve. Il che significa che sta riflettendo anche sulla necessità stessa della sua poesia o anche, almeno agli occhi di un critico di poca fede, sulla sua plausibilità. Il registro espressivo e i referenti in ogni caso restano sostanzialmente gli stessi elementi basici e situazioni elementari per un lessico altrettanto basico ed elementare. Ecco allora: creatura, vita, cuore, terra, aria, cielo, azzurro, prato, sole, luna, stelle, universo, amore, e poi gli animali, le rondini, i passerotti, il gatto. Damiani prova a rendere ragione della realtà di quello a cui sempre ha guardato: la nuda e semplice presenza della vita al di sotto o, che è lo stesso, al di là della storia, delle faccende quotidiane, dell’impegno per dirottare su chissà quali strade il nostro destino».

Lo sguardo, che celebra e contempla, congiunge e domanda, destina e si immerge, diventa l’orma basilare di un approdo di chiarità (il monte Soratte, ad esempio, fissato in tutta la sua cosmica apparizione di millenni e limiti umani come cicatrici) e di un respiro che ha bisogno del prosimetro della realtà per intensificare la lingua e il suo cuore luminoso: «L’aria tenera della tua bocca / la respiro a pieni polmoni, / ti respiro dentro nel corpo / fin dentro l’anima, cielo».

O ancora come un ascolto o un amore, la nitida limpidezza diviene presenza, natura pensante e universo, in cui la giuntura umana che è chiamata a scoprire la vita e la vivezza, l’esistenza e il suo germoglio, la sua angolazione e il suo mistero, persino la sua ironia:

«Stamattina il cielo era azzurro, con nuvole / ora è completamente grigio, coperto. / Il cielo coperto è meno bello / non tanto perché è buio / e dà una sensazione di freddo / ma perché copre, appunto, il cielo. / La sensazione è quella di una cappa, di un muro / che ti separa dal cielo. / Se solo pensassimo, se riflettessimo un attimo / che oltre quella cappa, oltre quel muro / il cielo azzurro risplende / con tutte le stelle e lo spazio / forse saremmo meno / meteoropatici».

Il mistero dell’esistente, quindi, è grazia di danza improvvisa. Il tocco delle cose, come la fisica di Luzi, restituisce il dono epifanico atteso, in cui la conversazione è il profumo del verso, la corsa del tempo, il mondo che si sporge. La dettagliata cifra dell’essere è sempre nominazione:

«C’era un prato verde verde / con cielo azzurro e sole, / aria fredda e erba verde e grassa, / primi di aprile, mattina, / vento di tramontana /  e un pastore con dietro / tutte le pecore, ferme / per attraversare. Passo con la macchina / e dietro di me attraversano le pecore. / Quando ritorno, dopo dieci minuti, / le pecore stavano riattraversando. / E tu, luna, stavi guardando, / tu che ti muovi con passo lento di danza, / grande sfera aerea innamorata della terra, / te che pure, un giorno, nascesti / partorita dalle stelle, / forse una costola della terra, / forse nascesti dall’unione / di tanti piccoli corpi, / crescesti come una bambina e diventasti / questa ballerina meravigliosa che si muove con grazia / ammirata da tutti, che balla tutta la notte».

Il territorio poetico di Damiani (e il suo paesaggio appenninico), non è una frazione idillica e nascosta, lambisce la realtà non solo con l’immediata riflessione luminosa ma è attraverso l’ apertura e l’incontro che l’inatteso avviene: «Sai quegli scienziati caparbi / che ripetono all’infinito l’esperimento / con una pazienza disumana? / E proprio quando stavano per desistere, / proprio quando stavano, sfiduciati, per lasciare perdere / quella pietra si illuminò di luce azzurra».

Solo così il dipinto del mondo si innerva nel processo segreto di epistemologia e stupore: «Sono in terrazzo, sdraiato / vedo il cielo azzurro, / a un tratto vedo alcune rondini, / sono arrivate, è primavera».

Lo stupore è la sua forma di conoscenza che si increspa e si concede in ogni invocazione e proposta che richiama il piccolo spazio di una porzione di sole o di una tenerezza d’aria che consegna baci celesti da prendere e voci lontane: «Prendo il sole come un albero / nel mio piccolo spazio, il mio terrazzo, / prendo la mia porzione di sole / piccola ma per me enorme, / non comparabile con nessuna cosa, / e col sole prendo quest’aria tenera / la respiro tutta / e non ne lascio niente. / Prendo i tuoi baci, cielo / e non ne rifiuto nessuno. / E le chiacchiere degli uccelli / mi sono care, e le voci, / lontane, degli umani».

O ancora, attraverso una vigile attesa che ricostituisce la genesi di ogni tempo da rincorrere come un respiro che, come in ogni densità d’istante, bacia l’aria: «Questo cielo, come sarebbe difficile / spennellarlo, voglio dire dipingerlo, / sarebbe un’opera difficilissima / e invece ecco, apri la finestra / e te lo ritrovi qui, bell’e fatto. / […] Ma tu tesoro mio puoi non credere in quello che vuoi / ma un universo e miliardi di anni / ti sembra poco?».

La poesia di Damiani  si nutre dell’accortezza generativa delle cose che si apre all’infinito, alla limpidezza, al «gorgogliare sommesso / dell’acqua». Sono le stesse cose a parlare a rivelarsi in un momento di naturalezza imprevedibile e generosa, che pur perdendosi, dà vita in una gioia fresca:

«Caro Sole, tu ogni giorno / non so quante tonnellate di materia perdi / e anch’io, ogni giorno, perdo qualcosa, / ogni giorno perdiamo un giorno / ma quando sarà finito il tuo tempo / si potrà dire di te: è stata una stella generosa, / per tutto il tempo ha illuminato e scaldato / i corpi intorno, senza fermarsi mai / dando tutto il possibile di sé, / sempre al massimo delle sue possibilità, / tutto quello che poteva fare l’ha fatto / e tutti sempre l’hanno ringraziato / e l’hanno adorato, l’hanno benedetto / e nella sua lunga vita lui ha sempre gioito / della riconoscenza di tutti».

Le sue epifanie, i suoi balzi avvolti e i suoi avamposti soli dove «il sole ci bacia e la brezza / ci vellica le guance, / il vento muove le nostre pagine / e i nostri giorni volano», le ombre celate e ritrovate che vivono nelle uniche sproporzioni («è notte, vedo il cielo nero / senza stelle, e così nero lo sento / e così grande, così grande / e penso a quando era piccolo / che avrei potuto tenerlo / in una mano, / e quasi mi viene da piangere / a pensare che poi sarebbe diventato così grande / e con tante terre e tanti soli / e infiniti animali e infiniti uomini / di infinite razze, che dopo tanto errare / si sarebbero sempre più avvicinati, / si sarebbero alla fine ritrovati»), e i suoi crinali splendenti e intensi («[…] ma ora, senti come è tenera l’aria / tiepida e fresca del cielo notturno / e viene un odore di fiori di acacia / e di biancospino. / E senti il cuore mio come batte / e senti il tuo, e c’è qualcuno / che chiede di entrare, anzi è entrato / e cammina dopo di noi»), i cambi d’aria e lo scioglimento degli elementi (aria, luce, acqua), nelle infinite variazioni della vita degli alberi, procedono in una metafisica dichiarativa e ragionativa che gemma nei semi sul tracciato.

Con l’infinitamente piccolo e le grandezze, egli evoca e rievoca la sua appartenenza («[…] siamo un numero molto grande / che può far paura, nel nostro numero è Dio / in qualche modo, e un valore molto piccolo / è ciò che è nostro e solo nostro di individui, / il valore individuale potremmo dire / che, in quanto piccolo, è però un valore / che nullifica ogni nichilismo, / che dà a te, amore mio, e a me / un’unicità che ci fa divini»), ed è da essa che si esprime, appieno, la libertà e il suo legame con la comunità e con tutto ciò che c’è, come un tenue miracolo di unione prossima:

«Dolce cielo celeste / dipinto di azzurro tenero / e voi verdi monti e voi / valli e boschi, nuvole / che là, verso l’orizzonte / navigate lente, e tu sole vicino / al tramonto che spandi questa luce / d’oro nell’aria, e ogni cosa fai tiepida / del tuo calore, e tu aria che muovi / i miei capelli e spiri sulle mie / guance e le pagine volti dispettosa / del quaderno ove scrivo… / state insieme, vi date come la mano / contenti di essere uniti, / di essere l’uno all’altro / indispensabili, di essere insieme / questo miracolo che vedo».

Roberto Galaverni afferma: «Le questioni sono ancora una volta le più elementari, spesso riprese non a caso dalla filosofia presocratica: fissità e mutamento, il senso (detto come direzione) della natura, il rapporto tra il singolo e la comunità, tra la vita individuale e le ere, il retaggio antropologico e soprattutto il tempo, che costituisce il filo conduttore del libro».

La trincea del vivente, le pause degli istanti e i semi di luce, i mondi abitati e inabitati dalla vita, le lontananze dipinti e i cieli notturni aprono crepe nelle evidenze del tempo e della realtà, negli spari insonni, nelle armature a difesa della propria nudità fonda (come in Svegliarsi in una notte del 2012…), dove l’amore annulla ogni paura e smarrimento sgranato.

Damiani cesella le sue immagini senza lentezza ma quasi per deposito granulare. Da una singola immagine che sembra annullarsi, compare un ulteriore dettaglio o una nuova esistenza che porge il suo singolare sussulto di sacertà, di forma, di oblio e di luce.

Silvio Perrella scrive:

 «Damiani è un asincrono; non ama stare al passo con i tempi; o piuttosto cerca nei tempi il Tempo, quell’atomo di vita che collega gli uni agli altri. e non solo in orizzontale, ma anche in verticale. ed ecco che vien fuori una verticale come questa, dove si sale e si scende sulle scale del tempo, e lo si fa in un attimo di dormiveglia, pensando a quel che pensano tutti, ma pensandolo dentro l’unicità del nostro corpo singolare, e sentendo il risveglio degli altri, il loro stesso girarsi tra le lenzuola del cosmo».

Attraverso l’ode, il pensiero sorgivo, la tenerezza dell’essere, la speculazione filosofica e l’ironia, Damiani compone la sua trama e il suo segno, annotando le vibrazioni piccolissime e le concitazioni dei ronzii. È la sua obbedienza alla realtà a rendere ragione alla poesia, che si nutre di ciò che vive e muore, che insegue il tempo passato e presente ed accade in silenzio come una luce bianca. La caducità è uno splendore lucente e la coltre di ogni limite possibile ma immenso, allo stesso tempo, dove il nostro schianto lucente e assaporato si compie:

«Siamo caduchi, siamo quelli che cadono / sul campo di battaglia della vita. / Ci falcia il tempo, che ci insegue in ogni momento / dopo averci partorito, / ci tiene il fiato sul collo / e non ci lascia respirare. / Se ci fermiamo un momento / lui passa e noi lo stiamo a guardare / come dalla spalletta di un ponte / ma ci divora dentro. / Che cosa succederà domani / tu non lo puoi sapere /  per questo sei nelle sue mani / e non ti puoi liberare. / Siamo caduchi, siamo quelli che cadono, / cadiamo come le mosche, / quando nasciamo ce l’abbiamo scritto in fronte / che cadiamo, / ma non ce ne vergogniamo / anzi camminiamo a fronte alta / con la nostra morte nel cuore. / Non siamo soli, siamo tanti, / siamo un esercito immenso, / marciamo insieme, spinti dal tempo / con questa croce sul cuore. (Canzone dei caduchi)

La pienezza vivente è uno sguardo e una carezza d’amore, come nostalgia di realtà e mortalità, canto pazzo che non si ferma, relazione di nascita e morte insieme, e vita che vince la morte in una moderna Arcadia:

 «E questo canto, amore mio, di cicale / sotto il sole di luglio, in una campagna italiana / cielo azzurro e poche nuvole, piccole, / odore forte di rosmarino e ginestre / e questo canto pazzo che non si ferma / nel’aria bianca bruciata / e noi, io e te, sotto questi pini / alziamo i calici e brindiamo, silenziosi, / tu vestita come una dea, con lunghe ciocche annodate / e perle tra i capelli, / là sulla collina il nostro capanno di legno / e giù lo scoglio dove passo tutte le notti / a piangere guardando il mare».

Le nostre lontananze, la tiepida aria di giugno, solitaria e fresca, quasi come un fiore strappato, richiamano l’attraversamento del tempo e la sua unione di tutti i tempi nel tempo, in una serie di passi e punti di osservazione investigati:

«Ma adesso questo cielo e questo fresco sulla pelle / quest’aria pulita e queste poche nuvole / e questo chiacchiericcio di uccelli / e uccellini nei nidi, come un brusio, / in questo tardo pomeriggio di giugno / dove tutto sembra finito, e all’inizio, / e questo rumore di camion lontani / tra le voci degli uccelli, / rumori di un tempo che è questo tempo preciso / e tutti i tempi, insieme, / come se quest’aria tiepida, mite / li attraversasse tutti i tempi, li unisse».

Il transito dei nostri passaggi lascia la musica che resta come essenza vibrata e come intima e congiunta proprietà dell’essere. È il nostro andirivieni, la nostra prima linea, i rumori delle cose lontane, che recano in grembo il senso dell’ultimità conciliata di un mistero disciolto nel suo scorrimento azzurro e nella sua trasparenza:

«Lascia che sia, lascia che sia / non lo contrastare, / alla fine è questo cielo della sera / quello che resta, i rumori delle cose lontane / e questo colore pallido e luminoso insieme / acceso e bruno nello stesso tempo. / Alla fine quello che resta sono i rumori / delle cose lontane, che fanno i dolci, che passano, / alla fine quello che resta è il nostro passare, / essere passati e dover ancora passare, / questo rumore di fondo come il mormorio di un ruscello / o un chiacchiericcio sommesso, che ti concilia il sonno».

cieli-celesti-light-1-671x1024-671x1024Damiani C., Cieli celesti, Fazi, Roma 2016, pp. 164, Euro 18.

 Damiani C., Cieli celesti, Fazi, Roma 2016.

  • La difficile facilità. Appunti per un laboratorio di poesia, Lantana Editore, Roma 2016.

Galaverni R., Le buone cose di semplice gusto, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 20 novembre 2016.

Langone C., Nel tempo del Natale profanato leggo le ultime poesie di Claudio Damiani, in “Il Foglio”, 21 dicembre 2016.

Gnerre A., Il laboratorio difficile e facile di Damiani, (https://www.rivistaclandestino.com/il-laboratorio-difficile-e-facile-di-damiani-di-a-gnerre/), 4 dicembre 2016.

Lombardi L., Tempo, Spazio, Terra. Damiani contempla, in “Il Tempo”, 19 dicembre 2016.

Perrella S., Svegliarsi in una notte del 2012…, in “Il Mattino”, 9 novembre 2016.

Il caso clinico di Anna O. in un contesto di neurocircuiti studiati con neuroimagine

di Nikos Makris, MD, PhD

Associate Professor of Psychiatry & Neurology, Harvard Medical School

15 novembre 2016

leggi in pdf Nikos Makris – Il caso clinico di Anna O. in un contesto di neurocircuiti studiati con neuroimagine

makris-nikos-140514Premessa Storica e Culturale

Nella traiettoria evolutiva che ha condotto alla definizione come un’ entita’ neuropsichiatrica, la sindrome da conversione (conversion syndrome) ha avuto varie denominazioni, dalla originale isteria (hysteria) della medicina ippocratica (Hurst LC: Freud and the great neurosis: discussion paper. J R Soc Med 1983; 76:57–61) e degli anni di Charcot (Charcot JM: Leçons du mardi á la Salpêtrière: policliniques, 1887–1888. Paris, Bureaux du Prográes Mâedical, 1887) e Janet (Janet P: The major symptoms of hysteria; fifteen lectures given in the Medical School of Harvard University. New York, Macmillan, 1907) a cavallo dei secoli 19 e 20, alla isteria da conversione (conversion hysteria) di Freud (Breuer J, Freud S: Studies on hysteria. London, Hogarth Press, 1956), fino all’ attuale termine di Functional Neurological Disorder (FND) (DSM 5.0 APA 2013) . Quest’ ultimo termine e’ tratto dal Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM-5) (Stone J, LaFrance WC Jr, Levenson JL, et al: Issues for DSM-5: Conversion disorder. Am J Psychiatry 2010; 167:626– 627). Bisogna precisare che FND e sindrome da conversione si usano come sinonimi nella letteratura neuropsichiatrica attuale. Nell’ ontologia propria del termine “isteria da conversione”, Freud rispecchiava principalmente la natura patogenetica della condizione patologica, vale a dire il concetto meccanistico che l’ idea affettiva si converte in un fenomeno fisico.

Perche’ lo studio di FND o sindrome da conversione e’ importante attualmente e perche’ merita una particolare attenzione la rielaborazione del caso di Anna O.?

FND e’ tuttora nel limite fra psichiatria e neurologia, in una zona poco definita delle neuroscienze. Anche se esiste una dibattito riguardo l’ incidenza e la prevalenza del FND, si e’ documentato che da 30 a 60% di nuovi pazienti in cliniche neurologiche presentano dei sintomi non interpretabili. Questa e’ una prevalenza alta (Carson AJ, Ringbauer B, Stone J, McKenzie L, Warlow C, Sharpe M (2000); J. Neurol. Neurosurg. Psychiatr. 68 (2): 207–10; Carson AJ, Best S, Postma K, et al: The outcome of neurology outpatients with medically unexplained symptoms: a prospective cohort study. J Neurol Neurosurg Psychiatry 2003; 74:897–900). Inoltre, si e’ documentato che negli Stati Uniti l’ incidenza di nuovi casi diagnosticati e’ 22 per 100.000 persone annualmente (Stefánsson JG, Messina JA, Meyerowitz S (1976). “Hysterical neurosis, conversion type: clinical and epidemiological considerations”. Acta Psychiatr Scand. 53 (2): 119–38) e si stima che nella popollazione generale siano tra 0.11% e 0.5% di soggetti con FDN (Tollison, C. David; Satterthwaite, John R.; Tollison, Joseph W. (2002-01-01); Lippincott Williams & Wilkins). L’ enorme sviluppo della tecnologia medica in generale e dei calcolatori in particolare, ha cambiato il nostro modo di percepire la natura ed a influenzato profondamente il modo con il quale pensiamo e ci comportiamo. In questo, relativamente recente cambio del paradigma scientifico e culturale (paradigm shift) e’ riapparsa concretamente la possibilta’ di investigare la psiche ed in particolare l’ inconscio applicando tecnologie nuove, specialmente la neuroimagine, e nello stesso tempo sviluppare ulteriormente delle tecnologie gia’ esistenti, come ad esempio la eletroencefalografia (EEG). Il caso di Anna O. come presentato da Joseph Breuer (Breuer J, Freud S: Studies on hysteria. London, Hogarth Press, 1956), e’ uno dei casi meglio descritti nella storia della neuropsichiatria seguendo una metodologia medica tradizionale che inizia dall’ analisi con una precisa e dettagliata desrizione della fenomenologia della paziente basata su anamnesi, esame neurologico ed valutazione psichiatrica, cercando di formulare una interpretazione patogenetica e, possibilmente, anche eziologica della condizione patologica. Una volta acquisita una chiara e comprensiva imagine clinica della paziente Breuer ha applicato il trattamento catartico sotto ipnosi ed a valutato e descritto in dettaglio le manifestazioni fenomenologiche della paziente come funzione del tempo. Dopo i due anni del decorso e risoluzione della sintomatologia della sua paziente, Breur a identificato dei fattori patogenetici della condizione patologica ed a concluso che il metodo terapeutico applicato, cioe’ il metodo catartico, e’ efficace. La ricchezza nei dettagli e la chiarezza della descrizione dei sintomi ed anche della loro evoluzione temporale, fa il caso di Anna O. un’ ottimo esempio per la interpretazione dei sintomi in un relazione alle ipotesi attuali che fanno riferimento ai neurocircuiti coinvolti. E’ intuitivo che casi di FND possono correntemente essere studiati usando metodi di neuroimagine (An Integrative Neurocircuit Perspective on Psychogenic Nonepileptic Seizures and Functional Movement Disorders: Neural Functional Unawareness; David Perez et al.; Clinical EEG and Neuroscience 1-12 @ EEG and Clinical Neuroscience Society (ECNS) 2014 (Review)).

Presentazione del caso clinico di Anna O. dal Dr. Joseph Breuer (Sigmund Freud and Joseph Breuer: Studies on hysteria. Penguin Classics/Penguin Books, 2004)

Anamnesi Il soggetto Anna O. era una persona completamente sana sia cognitivamente che emozionalmente prima della manifestazione dei primi sintomi. Aveva una leggera eredita’ di neuropatia ed alcuni casi di psicosi erano successi solo in relativi distanti. Una cosa importante e’ che Anna O. si trovava spesso in uno stato oniroide (day dreaming) durante la sua quotidianita’.

Sintomatologia Nei due anni trascorsi dall’ apparizione dei primi sintomi di Anna O. fino alla loro completa risoluzione (Giugno 1880 – Giugno 1882) sono state osservate le seguenti caratteristiche fenomenologiche cardinali:

L’esistenza di un secodo stato di coscienza era un elemento cardinale il quale inizialmente sembrava come una assenza passaggera o stato oniroide temporaneo, pero’ eventualmente si e’ strutturato come uno stato di doppia coscienza.

Specifici sintomi sono stati come segue, vale a dire disturbi della funzione del linguaggio a livello di produzione, con paraphasie e perdita della capacita’ di esprimersi nella lingua natia (cioe’ in Tedesco) che pero’ si e’ sostituita con la capacita’ di esprimersi in eccelente Inglese, paralisi del braccio destro con eventuale perdita della sensibilita’ somatosensoriale (anesthesia). Altri sintomi transitori sono apparsi come disturbi visivi e uditori, allucinazioni visive, delle contratture muscolari, tosse e disturbi della nutrizione.

Patogenesi Questa condizione sembra dovuta a due fattori principali, cioe’ al surplus di vivacita’ (energia vitale) del sogetto e la sua tendenza a trovarsi in uno stato oniroide (day dreaming) nella sua vita quotidiana.

Descrizione del metodo terapeutico applicato (“catarsi”) Durante ipnosi, I sintomi della condizione della paziente sono stai discussi tra il terapeuta e la paziente. Come risultato, I sintomi sono stati eliminati.

Fra arte e scienza

Anche se il metodo di Breuer, che e’ stato usato eventualmente anche da Freud nei suoi studi clinici, è efficace nel risolvere i sintomi isterici, la questione dei suoi fondamenti scientifici rimane aperta. E questo e’ principalmente perche’ non e’ stato chiarito il suo meccanismo d’ azione. Freud stesso ha affermato che I casi da lui illustrati sembrano come “delle novelle”, vale a dire tra arte e scienza riflettendo l’ essenza della natura della medicina (Sigmund Freud and Joseph Breuer: Studies on hysteria. Penguin Classics/Penguin Books, 2004).

Il modello dei sistemi biologici e dei neurocircuiti come endofenotipi nelle neuroscienze del comportamento e la loro importanza nella Psichiatria contemporanea Nel paradigma delle neuroscienze del comportamento attuali, i sistemi biologici che nel cervello sono rappresentati dai neurocircuiti sono considerati come l’ endofenotipo, espressione intermedia tra il genoma ed il comportamento (Gottesman II, Gould TD: The endophenotype concept in psychiatry: etymology and strategic intentions. Am J Psychiatry 2003; 160:636–645)(Hyman SE, Nestler EJ: The Molecular Foundations of Psychiatry. Washinton, American Psychiatric Press, 1993)(Breiter HC, Gasic GP, Makris N: Imaging the neural systems for motivated behavior and their dysfunction in neuropsychiatric illness; in Deiboeck TS, Kersh JY (eds): Complex Systems Science in Biomedicine. Heidelberg, Springer, 2006)(Towards Conceptualizing a Neural Systems-Based Anatomy of Attention- Deficit/Hyperactivity Disorder; Nikos Makris, Joseph Biederman, Michael C. Monuteaux, Larry J. Seid man; Dev Neurosci 2009;31:36–49).

Le varie funzioni cognitive, come il linguaggio, l’ attenzione, la memoria, la funzione esecutiva, l’ abilita’ visuospaziale oppure affettive, come la paura o la gioia ed anche le funzioni autonomiche, come la termoregolazione o la regolazione della pressione sanguinea, vengono prodotte e processate da neurocircuiti specifici.

Questo concetto sta’ rivoluzionando la definizione di malattia mentale e di conseguenza la Psichiatria contemporanea. In effetti, stiamo affrontando le malattie mentali come malattie del cervello ed in particolare di neurocircuiti specifici per determinate funzioni. Questi circuiti cerebrali e funzioni o dominii comportamentali possono essere alterati in diversi disordini psichiatrici. Per esempio la funzione o dominio di attenzione e’ alterato nel disturbo depressivo maggiore, la schizophrenia ed il disturbo bipolare. In base a questi concetti si e’ formulato il modello RDoC (Research Domain Criteria) che rappresenta un nuovo paradigma nella psichiatria attuale. A scopo illustrativo segue un esempio del modello RDoC.

immagine1L’ introduzione di questi nuovi concetti hanno influenzato profondamente anche il campo psicoanalitico ed hanno contribuito nella fondazione della Neuropsichoanalisi (Jaak Panksepp and Mark Solms; Trends in Cognitive Sciences; 2012). In breve, la neuropsichoanalisi e’ nata negli anni 1990 per riconciliare la prospettiva psicoanalitica con quella neuroscientifica nello studio della mente. Si considera necessario di basarsi su circuiti neuronali i quali processano eventi mental soggettivi come intenzionalita’ o agentivita’ (self-agency) (Jaak Panksepp and Mark Solms; Trends in Cognitive Sciences; 2012).

Studi attuali in soggetti diagnosticati con FDN (sindrome da conversione) e uso di neuroimagine

Il caso di Anna O. pare un caso esemplare per tracciare un trait d’ union tra il pensamento psicoanalitico tradizionale e la visione moderna basata sul modello dei neurocircuiti. Possiamo illustrare questo indirizzo di indagine utilizzando lavori pubblicati recentemente che hanno investigato due gruppi di sintomi in soggetti diagnosticati con FDN (syndrome da conversione), specificamente la disturbi funzionali motori e somatosensoriali unilaterali.

Ho scelto due lavori rappresentativi del gruppo di David Perez come segue. Nel primo lavoro utilzzando risonanza magnetica funzionale (fMRI) Perez el al. hanno studiato la connettivita’ funzionale in pazienti con crisi convulsive psicogeniche non-epilletiche (psychogenic nonepileptic seizures (PNES)) o disturbi funzionali motori (functional movement disorders (FMD)) (An Integrative Neurocircuit Perspective on Psychogenic Nonepileptic Seizures and Functional Movement Disorders: Neural Functional Unawareness; David Perez et al.; Clinical EEG and Neuroscience 1-12 @ EEG and Clinical Neuroscience Society (ECNS) 2014 (Review)).

immagine2

Riportano alterazioni funzionali in regioni importanti per processamento di emozioni, regulation, and awareness (perigenual anterior cingulate cortex/ventromedial prefrontal cortex [vmPFC], insula, amygdala [AMG]), controllo cognitivo (dorsolateral prefrontal cortex [dlPFC], dorsal anterior cingulate cortex, inferior frontal gyrus [IFG]), self-referential processing (temporoparietal junction [TPJ]/posterior cingulate cortex [PCC]/precuneus [Pr]), and motor planning (supplementary motor area [SMA]). Particolarmente importanti sembrano i neurocircuiti che coinvolgono il giro del cingolo anteriore, l’ insula, l’ amygdala e la corteccia dorsolaterale prefrontale.

Questi neurocircuiti vengono elaborati ulteriormente nel successivo lavoro come si vede nelle figure allegate (Motor and Somatosensory Conversion Disorder: A Functional Unawareness Syndrome? David L. Perez, M.D. Arthur J. Barsky, M.D.
Kirk Daffner, M.D.
David A. Silbersweig, M.D. J Neuropsychiatry Clin Neurosci 24:2, Spring 2012)

immagine3immagine4Dysfunction in the perigenual anterior cingulate cortex (pACC) and its subcortical connections (including reciprocal cingulate–amygdalar connections) results preferentially in impaired motivated behavior, motor control, and/or affect regulation. Dysfunction in posterior parietal cortex (PCC) and its subcortical connections results preferentially in impaired spatial and perceptual awareness, including aberrant forward modeling, motor intention awareness, and/or self-agency. Reciprocal cortico–cortical connections among the pACC, PCC, and the dorsolateral prefrontal cortex (dlPFC) facilitate interactions between awareness and intentional, cognitive control circuits. VM: ventromedial; DL: dorsolateral; NA: nucleus accumbens; VA: ventral anterior; LP: lateral posterior; MD: mediodorsal; LDM: lateral dorsomedial; V: ventral; A: amygdala.

Reciprocal connections are outlined among the perigenual anterior cingulate cortex (pACC), subgenual ACC (sgACC), orbitofrontal cortex (OFC), dorsolateral prefrontal cortex (dlPFC), insula, amygdala (A), and hypothalamus (H). Parallel ACC, dlPFC and OFC prefrontal-subcortical pathways (not shown) also require more exploration in the context of studies probing affective regulation in patients with functional neurological disorder (FND).

Conclusione

Il caso clinico di Anna O. in cui il metodo catartico fu applicato efficacemente nel trattamento delle sindromi da conversione, oltre al valore storico offre una descrizione fenomenologica di formidabile ricchezza e che puo’ servire come substratto per testare delle ipotesi di studi utilizzando metodi attuali di neuroimaging.

Una parte che ancora manca e’ la comprensione dei meccanismi neurobiologici che governano questo disturbo e rimane anche da chiarire il meccanismo d’ azione del trattamento psicoterapeutico.

Un’ approccio di ricerca come quello adottato in questo studio e che ha come scopo la identificazione dei neurocircuiti che stano alla base di sintomi specifici nei disturbi neurologici funzionali (FND) potrebbe condurre verso una più precisa definizione dell’ endofenotipo (biomarker) della sindrome da conversione e di conseguenza creare il ponte necessario tra il fenotipo comportamentale ed il genotipo di FND.

 

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Systems biology/neurocircuitry acts as an interface between the behavior/environment and genome/epigenome.

 

 

Miguel Hernández: l’assenza verticale

di Andrea Galgano 1 luglio 2016

leggi in pdf Miguel Hernández. L’assenza verticale

Miguel Hernández: l’assenza verticale

La poesia di Miguel Hernández[1] (1910-1942) rastrema il fondo della naturalezza più insolita, si appropria, attraverso un linguaggio annunciato e tellurico[2], del fondale raffermo dell’essere, cadenzando in un battito luminoso, la frequenza di una spezzatura ferita e di un gemito indomito. Affermare la potenza e l’abbandono di questa lucentezza in disparte, contadina e popolare, significa siglare un quaderno di guerriglia e superficie che ritorna all’origine incantata di un’appartenenza.

Se, dapprima, la centralità lessicale si dirige attraverso un ripristino agreste e materico di gioventù e ardore frammentato, successivamente il gesto poetico finisce per levitare «a favore di una riflessione che assume i caratteri soffusi di un accadimento interiore, dove s’impongono le presenze familiari della moglie e del figlio, uniche note positive di conforto e speranza. Il richiamo ossessivo di Josefina, come pure l’evocazione gioiosa del figlio, uniche note positive di conforto e speranza[3]».

La dilatazione dell’esistenza si afferma in una dizione autobiografica affamata ed intensa che attraverso la fatica, la desperanza, il lavoro e il sudore, pedinano lo scranno del futuro, del sangue destinato e della vita in attesa.

Giovanni Darconza, infatti, scrive:

Due le battaglie combattute da Hernández nel corso della sua vita. La prima contro le truppe franchiste e, più tardi, contro la prima fase della dittatura. In questa prima battaglia Hernández soldato è stato sconfitto e imprigionato. Ma anche rinchiuso fra solide sbarre troverà il coraggio di ripetere incessantemente: «Ata duro a ese hombre: no le atarás el alma». Sconfitto nel corpo ma mai nell’anima, nonostante le disgrazie e le sofferenze patite, lo spirito eroico del poeta di Orihuela conserverà fino all’ultimo la speranza di un futuro migliore se non per lui, almeno per il figlio nato all’inizio della contesa, e che Hernández riuscirà a vedere solo in poche occasioni. La seconda battaglia combattuta da Hernández fu molto più dura e insidiosa. Una battaglia più universale, che richiama alle armi tutti gli uomini di ogni nazione e fazione, e non è ristretta unicamente ad un preciso ambito geografico (la Spagna) né ad un determinato contesto storico (la guerra civile). Una battaglia combattuta contro nemici molto più infidi e pericolosi di Franco: il tempo e l’oblio. In questa seconda guerra Hernández è uscito alla fine vincitore[4].

La declinazione dell’assenza, celebrata nell’autobiografia intima[5] e quotidiana di Cancionero y romancero de ausencias[6], vive in un doppio eccesso: vita nella morte e morte[7], come limite e dolore ascensionale, nella vita, sviluppando l’estremità lessicale attraverso una ellittica e occulta trasposizione semantica che muove l’individualità nella storia collettiva[8] del mondo.

La singolarità è l’accesso dell’umano all’universale. L’animata traslazione lessicale, che tocca ogni spostamento metrico ed espressivo, nutre la sua poesia dionisiaca che spinge alla conversione della forza cosmica in passione “installata” nella punta del destino, come sostiene José Antonio Serrano Segura[9].

La verticalità dell’assenza, pertanto, coinvolge anche la cromatura sensuale della creaturalità femminile, vissuta attraverso lo spostamento metaforico dell’impossibile e dell’ inconcepibile[10]. È la ripetizione di una stanza che ricorda lo struggimento e la distanza degli occhi, della voce, del fiato, del corpo, della bocca e del raggio fragile e fatale che non termina, come qualcosa che tutto assomma e ingloba nel suo bene perduto e nel suo tatto in esilio[11].

Esiste un lungo posto di respiri scheggiati dalla mancanza ripetuta e della violenta rigenerazione: «Assenza ovunque vedo: / i tuoi occhi la riflettono / Assenza ovunque ascolto: / la tua voce suona a tempo. / Assenza ovunque aspiro: / il tuo fiato odora d’erba. / Assenza ovunque tocco: / il tuo corpo si svuota. / Assenza ovunque provo: / la tua bocca mi esilia. / Assenza ovunque sento: / assenza, assenza, assenza».

Laddove la fumosa condensazione del presente e del futuro eleva ogni minaccia funerea, Hernández ripone la sorgente del cuore dell’altro nel ventre[12], riconducendo, come afferma Gabriele Morelli, «il sesso alla sua centralità, secondo una concezione sacra e primitiva appresa dalla natura durante la sua esperienza di pastore[13]».

La musica sensoriale si concreta in una gravitazione percezione soffusa, nel porto confortato del presente, contro ogni lontana e indistinta confusione di fugacità, contro ogni oscurità che affiora dalle profondità rare e vane, per attestarsi nella salvazione amorosa e nello svelamento erotico: «Meno il tuo ventre, / tutto è confuso. / Meno il tuo ventre, / tutto è futuro, / vano, passato / sterile, oscuro. / Meno il tuo ventre, / tutto è insicuro, / tutto è ultimo, / polvere e nulla. / Meno il tuo ventre / tutto è oscuro. / Meno il tuo ventre / chiaro e profondo».

La densa costellazione gravida della distanza fa raccogliere all’universo la promanata storia di dense risonanze e gravitazioni, come commenta María Ortega Máñez:

Le parole si affilano come per cogliere la lacerazione del sentimento: da una parte il disamore, espresso con violenza dal giovane poeta, da un’altra parte l’amore, che muove sempre in Hernández da una realtà concreta, quella fisica. Le liriche amorose posteriori a El rayo que no cesa, ispirate quasi tutte dalla moglie Josefina Manresa[14], esprimono la gioia dell’unione con la disperazione della lontananza. Presente o assente, il corpo c’è, emanando una sensualità naturale, predicando l’essenziale materialità di ogni cosa […] Il corpo è infatti talmente integrato nell’amore e nella vita, che certe volte viene esaltato, facendogli assumere una dimensione mistica. In Io non voglio altra luce che il tuo corpo davanti al mio il corpo della donna irradia la luce che illumina il mondo e dà senso all’esistenza del poeta. Corpo e anima, desiderio e trascendenza fanno un tutto senza fessure, cosmico[15].

Il troncamento del tempo ha lampi nel petto che percorrono la nera prospettiva del viaggio, la mutilazione scura  e spezzata che entra addosso nella vita recisa in guerra e nella sospensione infranta: «Ogni volta più presente. / Come se un lampo veloce / ti portasse nel mio petto. / Come un lento, lento / lampo. / Ogni volta più assente. / Come se un treno lontano / percorresse il mio corpo. / Come se una nave nera, / nera».

Scrive Giuseppe Conte:

Miguel Hernández compose versi che sono abitati dal senso dell’assenza ma anche da amore, grazia, innocenza, e da immagini che saldano la condizione privata del poeta a quella delle forze della natura e del cosmo. Se la storia è il regno dell’orrore, il poeta, anche quando compie scelte militanti, vive in un regno antagonista, dove hanno voce il canto di un popolo e il canto del mondo, le visioni, i sogni, il balenare delle immagini più ardite[16].

Spesso la mutilazione si esprime attraverso una disorganica posizione di dettagli che uniscono grido e ferita, morte e ferita, strada e cuore cinereo. L’isotopia del poeta di Alicante è una gradazione di terra riarsa e desertica, come se fosse un urlo di bocca in disparte.

Nel territorio straniero che appartiene ai cani, il cuore resiste ancora in tutta la sua fertile lucentezza e dolcezza, come fulmine fecondo. È l’esito di una astralità sofferta che si espone e, allo stesso tempo, ritrae un mondo dialettico e complesso: «Bocche di rabbia. / Occhi in agguato. / Cani ululanti. / Cani e poi cani. / Tutto deserto. / Tutto riarso. / I corpi e i campi, / i corpi e i corpi. / Che brutta strada, / che cinereo / il tuo cuore, / fertile e dolce!».

La forma dell’assenza diviene suono ferito e specchio disabitato. Come se la voce fosse cinta da un grido speciale di camere solitarie e di foto aride nel vento, ancora una volta, cinereo: «Un vento cinereo / grida nella stanza / dove lei gridava / cingendo la mia voce. / Camera solitaria, / con il suono ferito / del vento cinereo / che grida tutt’intorno. / Specchio disabitato / Intimorita panca / contro l’arida foto, / letto senza calore».

La tragedia che compone il dramma delle terra è una appartenenza e una condanna, al tempo stesso. Concepire la segregata e irrigata Alicante, il lavoro contadino, il combattimento ultimo significa proporre la gemma di un dissotterramento che si espone alla luce, destinare l’inesorabilità alla maternità del principio e della fine alla soglia partoriente, così come alla penetrazione materiale che genera e rigenera il suo eterno ritorno e il suo sangue remoto[17].

Hernández avverte in modo inesauribile e preponderante il dolore della ferita sconvolta. In questo destino di dramma, di fame e di mancanza, la paternità e la dinamica affettiva esprimono una gioia tragica, come scrive ancora María Ortega Máñez:

Il sangue figura questa volontà di vita, è animo per chi combatte; ma allo stesso tempo, si tratta di sangue solamente quando lo si perde, quando si è prossimi alla morte, per le ferite o per la malattia. […] Sembrerebbe quasi che il sangue tracci questo vincolo fra vita e lotta di cui si nutre il tragico. E come il tragico, il sangue a volte si rovescia in gioia: l’immagine del sangue che sgorga si associa al germogliare dei fiori, alla primavera[18].

La disperata vitalità, espressa nei versi in cella, in cui egli legge la lettera della moglie che gli racconta di mangiare pane e cipolla e che il figlioletto inizia a mostrare i primi denti, determina la lacerazione disperata e splendente di una tensione luminosa. Un gorgo di parallele escoriazioni e veglie amorose. La cipolla è la fame, «il ridere è libertà, che «mette le ali», mentre i denti sono un’arma, «cinque minute ferocie». Il bimbo ride, sazio ed ignaro della triste circostanza: ecco la gioia tragica che vince l’abbattimento[19]»:

Nella culla della fame / il mio bimbo stava. / Con sangue di cipolla / lui si allattava. / Ma il tuo sangue, / brina di zucchero, / cipolla e fame. / Una donna bruna, / dissolta in luna, / si versa filo a filo / sopra la culla. / Ridi, bambino, / che ti porterò la luna / quando ne avrai bisogno. / Allodola della casa, / ridi molto. / Il riso nei tuoi occhi / è la luce del mondo. / Ridi tanto, / che la mia anima udendoti / vinca lo spazio. / Il tuo riso mi libera, / mi mette le ali. / Solitudine mi toglie, / carcere mi strappa. / Bocca che vola, / cuore che sulle tue labbra / manda scintille. / Il tuo riso è la spada / più vittoriosa. / Vincitore dei fiori e delle allodole. / Rivale del sole, / futuro delle mie ossa / e del mio amore[20].

O come l’immagine della guerra che tronca e uccide il campo dell’esistere, il grido-tremore delle madri, sollevando la fiamma dell’odio, chiudendo le porte all’amore, nelle bocche giunte come pugni, negli occhi spumati nel nero, per scomparire nell’ansia dilatata di un inganno di frontiere: «Il sangue percorre il mondo, / imprigionato, deluso. / I fiori si dissolvono / divorati dall’erba. / Ansia d’uccidere invade / la profondità dei gigli. / Ogni corpo desidera / di congiungersi ai metalli, / accoppiarsi, possedersi / in un modo terribile. / Scomparire: regna l’ansia / generale, dilatata. / Un fantasma di stendardi, / una chimerica bandiera, / un mito di patrie: un grave, / inganno di frontiere».

Lo strenuo combattimento con il cielo disanimato, l’aiuto contro il vuoto, il corpo ferito e insanguinato divengono la terra di corpi, soli e aurore da desiderare, un frammento d’ombra, un soffio sulla fronte spessa, un ventre di archi, dove ricercare il canzoniere del ventre remoto che possa offrire alla rarefatta, trasparente ed immediata coltre umana l’accensione dell’inciampo tra le nubi e la remota consistenza delle soglie.

In un germoglio abraso che cerca di rinvigorire, attraverso il suo appello, l’anima costernata delle disgrazie e delle passioni, l’incanto del corpo è luce sopravvivente, il pozzo, la palma ascendono ogni sradicamento e ogni congedo[21].

«Il pozzo e l’alta palma / affondano nel tuo corpo / abitato da ascendenze», scrive nel suo lungo romanzo di sperdute folate e ferite, rischiando la materialità per farsi primitivo vortice e anima affacciata sul corpo: «Non affacciarti / alla finestra, / che non c’è nulla in questa casa. / Affacciati alla mia anima. / Non affacciarti / al cimitero, / che non c’è nulla tra queste ossa. / Affacciati al mio corpo».

Lo sguardo della contemplazione unisce poli opposti, condensando il bacio in un angolo di corone e terra da inseguire fino allo zenit di ogni sguardo calato e vissuto. In essa si compie il silenzio delle distanze, l’accensione del ricordo, l’ombra solare, il silenzio delle fiamme e il freddo vestito dove arde il sangue e l’immagine rotta: «Di quell’amore mio, / che resta nell’aria? / Solo un freddo vestito / dove arse il sangue».

La primordialità tragica di Hernández trabocca in tutta il suo luminoso offuscamento, in tutta la sua lacerazione e smania fisica. Torna a baciare l’oggetto amato come uno schianto di precipizi ed eredità sprofondate, vissute in solitudine[22]: «Io tornerò a baciarti, / tornerò, cado, sprofondo, / mentre scendono i secoli / nei precipizi profondi / come ardente nevicata / di baci e innamorati. / Bocca che hai dissotterrato / con la tua lingua il mattino / più lucente. Tre parole, / tre fuochi hai ereditato: / vita, morte, amore. Sono là / sulle tue labbra impressi».

È l’esagerata e provvida sfrontatezza amorosa che spazza l’abisso e lo abita, gemendo nella materia controluce. La sfiorata trasparenza perfetta dell’alba del corpo che annuncia la vetta e il ponente dei fantasmi, sulla fronte, sulla bocca dell’elegia disperata e trasognata e, allo stesso tempo, feconda di lontananze dorate e neri sorsi di erbe scure: «Corpo chiaro, bruno di colore fecondante. / Erba nera l’origine; / erba nera le tempie. / Nero sorso sono gli occhi, lo sguardo lontano. / Giorno azzurro. Notte chiara. Ombra chiara che giungi. / Non voglio altra luce che la tua ombra dorata, / là dove germogliano anelli di un’erba scura. / Nel mio sangue, dal tuo corpo fedelmente acceso, / per sempre è la notte: per sempre è il giorno».

La rivelazione inedita del mondo sfiora e concentra la sostanza essenziale dell’essere e adunano, come afferma María Ortega Máñez:

questa realtà materiale – questa senziente carne aleteante –, catturano poderosamente tutta la vita intorno. Hernández mira al suolo che calpestano gli uomini, alla terra che solca l’aratro, allo scenario reale della vita e della morte, e questa realtà essenziale, fatta di «braccianti», «sudore», «cipolla», «bacio», «sangue», «fiato», impone le sue leggi. Forse è la ricerca di questa autenticità che rende la sua poesia così necessaria. […] La lingua di Hernández è tessuta con questo rude amore per la materia, travagliata da un’attrazione spasmodica per le cose[23].

Ecco cosa avviene in Il pesce più vecchio del fiume:

Il pesce più vecchio del fiume, / avendo egli accumulato / tanta saggezza, viveva / brillantemente oscuro. / E l’acqua gli sorrideva. / E tanto oscuro diventò / (per nulla l’acqua lo svaga) / che, dopo tanto pensare, / prese la strada del mare, / che poi è quella della morte. / Tu hai riso presso il fiume, / bimbo solare. E quel giorno, / il pesce più vecchio del fiume / si tolse il cupo sembiante. / E l’acqua ti sorrideva[24].

Lo sperpero di amore e disamore scandaglia presenze e assenze in una interruzione spasmodica[25]. La smisuratezza del dolore e del taglio umano, la demarcazione compagna dell’anima, il sentiero tacito delle viscere sdoppiano gli ampi gesti della vita e della morte, delle parti scure e fiammeggianti, del sorriso arrogante di fronte la pena e, infine, di tutto il ciglio della vita trascorsa.

Il vissuto è una riemersione di albe e tinte compiute che rappresentano l’inesausta ripetizione, la sofferta antitesi e la pronuncia chiusa di ciò che sbalestra l’intimo («Naufragi percorsero, / più profondi ogni volta / nei corpi, nelle braccia. / Inseguiti, sommersi / da un’enorme distesa / di ricordi e di lune, / di novembre e di marzo, / sbattuti si videro / come polvere lieve: / sbattuti si videro, / però sempre abbracciati») o come l’aia, conforto che accoglie il bacio dopo lo sparo sul monte.

In Figlio della luce e dell’ombra, l’intreccio primordiale dell’amore ha acme trascendente e visionarietà primitiva. L’immagine della donna amata trasfigura la forgiata ombra del potere lunare e femminile, e nella notte che getta la sua ansia avida di potere ed incanto, ella appare in tutto il chiarore notturno, nella vetta dei mattini e dei tramonti.

È il sordo incendio di scontri che abitano le palpitazioni dell’ombra, l’anima vagante, il nido chiuso che spinge verso la luce nascente, l’abbraccio e i baci-lampi, le bocche addosso e il letargo della terra commossa, fino al figlio che nasce dalle oscurità lucenti come semina di astri. Tutto culmina nella nascita dello zenit siderale, un abbraccio nuziale dentro il tempo che accomuna dolore e rigenerazione per tenere la vita in un abbandono di tenerezza, «vita, che grazie alla forza dell’amore, si eleva a trascendenza della carne liberata dal peso e dall’involucro di origine animale. In questa intensa rappresentazione della nascita, di concezione panica e lucreziana, è riflessa l’esperienza giovanile di Hernández vissuta nella conduzione del gregge familiare[26]»:

Vuole che ci gettiamo tu ed io sulle lenzuola, / tu ed io sulla luna, tu ed io sulla vita. / Vuole che noi bruciamo fondendo nella gola, / con tutto il firmamento, la terra commossa. / Il figlio è nell’ombra che accumula stelle, / amore e midollo, luna e lucenti oscurità. / Germoglia dalle sue indolenze e dalle sue cavità, / e dalle solitarie e spente città. / Il figlio è nell’ombra: dall’ombra è sorto, / e al suo nascere infondono gli astri una semina, / un succo latteo, un flusso di caldi battiti, / che spingerà le sue ossa al sogno e alla donna. / L’ombra sta muovendo le sue forze siderali, /  distende l’ombra le sue tenebre stellate, / e investe le coppie e le rende nuziali. / Tu sei la notte, sposa. Io sono il mezzogiorno[27].

La donna poi si avvolge nell’albore di un mattino cosmico. L’alba e il sole pronti a incontrarsi in una penombra socchiusa. Il corpo, ancora una volta, è il territorio dell’anima vibrata al centro della luce, la notte sembra addensarsi e scomparire in questa ora solenne, dove esplodono gli orologi e dove il ventre sta per annunciare la vita nel suo trono luminoso di panni e ombre.

Il cuore affiora nel respiro della nascita imminente, tacendo l’amore nel fiato di ciò che è addormentato e desto: «Non t’amo in te sola: t’amo nella tua gente / e in ciò che dal tuo ventre discenderà domani. / Poiché l’umana specie ho avuto in retaggio, / la famiglia del figlio sarà la specie umana. / Con l’amore sopra, addormentati e desti, / continueremo a baciarci nel figlio profondo. / e nel nostro bacio si baciano i nostri morti, / si baciano i più antichi abitanti del mondo».

La sposa e il figlio rappresentano la gemmazione vibrata di un tempo cosmico che rigenera e ridesta il tessuto sottile del mondo. Il miracolo dell’esistere e del vivente aggiungono la fragilità dolce della tenerezza alla epifania corporea e femminile della donna e all’impeto umbratile e ricolmo della venuta del figlio.

Tutto il tempo poetico concorre a un inseguimento di concretezza e nascita, per cui il tempo del rigoglio diventa alveare di latte e spuma, dolcezza di sangue, fecondità femminile in cui “seppellirsi” e diventare frammento indissolubile[28].

Afferma Gabriele Morelli:

Hernández canta ed esalta il corpo della donna che ha generato, descrive i seni materni come sorgenti che «lottano e si incalzano con bianche effusioni»; sente correre nelle sue vene «un rumore di latte, di piena, di nozze accanto a te, percorsa da flutti sonori». Teso sul suo corpo, ausculta il mistero della vita che nasce, ne descrive le profonde e riposte manifestazioni. I versi, ricchi di simboli e aromi della natura mediterranea, celebrano la sposa ed ancor più il corpo della madre che, dopo l’impeto d’amore, si apre al figlio[29].

Nelle prigioni, nei trasferimenti, nell’occlusione del mondo, nella malattia drammatica che lo conduce alla morte come un’ombra precipitata, il poeta avverte il potere della luce sepolta e di un’ombra senza fine: non esiste cielo o stelle, nemmeno stelle o corpi tangibili, l’aria non ha volo, ma solo la sommità di un lungo lutto di segni violacei e denti assetati di colore.

Tutto è mancante e soffocato nelle dense tenebre, senza trovare l’orma del giorno nei pugni serrati e nella lotta oscura di battiti sordi. È la lacerata promessa di un grido irradiato fino alla fine, come accade in Eterna Ombra (Eterna sombra):

Solo il fulgore dei pugni serrati, / lo splendore dei denti che scrutano. / I denti ed i pugni da tutti i lati. / Più delle mani, i monti si abbracciano. / Oscura è la lotta senza sete di domani. / E che distanza di battiti sordi! / Io sono un carcere con una finestra / su un immenso deserto di ruggiti. / Sono un’aperta finestra che ascolta, / dove vedo tenebrosa la vita. / Ma c’è un raggio di sole nella lotta / che lascia per sempre l’ombra sconfitta[30].

L’estrema lotta che si radica nella stanza interiore di Hernández si muove attraverso una duplicità di fronti, la capacità di soffrire, il presente della morte da un lato («Noi poeti siamo il vento del popolo: nasciamo per passare soffiati via attraverso i suoi pori e per condurre i suoi occhi e i suoi sentimenti verso le cime più belle. Oggi, questo oggi di passione, di vita, di morte, ci spinge in un modo imponente a te, a me, ad alcuni, verso il popolo. Il popolo attende i poeti con l’orecchio e l’anima stesi ai piedi di ogni secolo[31]»), e la carnale dilatazione della dismisura[32] dell’amore dall’altro, spaesando la memoria selvatica e segnando una feritoia di speranza che si spalanca verso una puntualità, sostiene Vicente Aleixandre,

[…] che potremmo definire del cuore: chi ne avesse avuto bisogno nel momento della sofferenza o della tristezza, lo avrebbe trovato al momento giusto. Silenziosamente, offriva la sua gentilezza e compagnia, e la sua parola veritiera, a volte una sola, creava un clima fraterno, l’atmosfera dell’intesa,  su cui la mente che soffre poteva riposare, respirare. Lui, nonostante i tratti duri, aveva la delicatezza infinita di chi non è soltanto veggente, ma ha un’anima grande. La sua pianta sulla terra non era l’albero che dà ombra e frescura. Per le sue qualità umane avrebbe potuto più di tutti i suoi simili, così affascinante nella sua naturalezza[33] (traduzione inedita di Irene Battaglini).

 

Bibliografia

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  • Poesie, a cura di Dario Puccini, Feltrinelli, Milano 1962.

 

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[1] Cfr. Hernández M., Obra escogida, prólogo de Arturo del Hoyo, Aguilar, Madrid 1962; Poesias completas, edición de Agustín Sánchez, Vidal, Madrid, Aguilar 1979; Poesie, a cura di Dario Puccini, Feltrinelli, Milano 1962.

[2] Cfr. Díez de Revenga, Miguel Hernández en la Estética del las Vanguardias y el 27, Universidad de Murcia, (http://www.miguelhernandezvirtual.es/new/files/07fcojav.pdf).

[3] Morelli G., Miguel Hernández: La vita, l’amore e la morte, in HernÁndez M., Canzoniere e romanzero di assenze, a cura di Gabriele Morelli, Passigli, Bagno a Ripoli (Fi) 2014, p.7.

[4] Darconza G., La poetica dell’assenza nei versi di guerra di Miguel Hernández, in «Linguæ & – Rivista di lingue e culture moderne», 2, 2006, pp. 57-58.

[5] Cfr.Pérez Bazo J., Síntesis ética y estética de Miguel Hernández: Cancionero y romancero de ausencias, en Aa.Vv., Miguel Hernández. Cincuenta años después, T. II, Alicante – Elche – Orihuela, Comisión de Homenaje a Miguel Hernández 1993, pp.623-633.

[6] Hernández M., Cancionero y romancero de ausencias, edición de Josè Carlos Rovira, Lumen, Barcelona 1978, Alicante 1985;  Canzoniere e romanzero di assenze, a cura di Gabriele Morelli, Passigli, Bagno a Ripoli (Fi) 2014.

[7] Pazos Barrera J., La poesía de Cancionero y romancero de ausencias, in Aa.Vv., Homenaje a Miguel Hernández,  Embajada de España, Quito Ecuador, Ecuador 1993, p. 168.

[8] Rovira J. C., Cancionero y romancero de ausencias de Miguel Hernández: Aproximación crítica, Alicante, Instituto de Estudios Alicantinos 1976, p. 27.

[9] Cfr. Serrano Segura A., La obra poética de Miguel Hernández (http://jaserrano.nom.es/mhdez/).

[10] Rovira J. C., Léxico y creación poética en Miguel Hernández. (estudio del uso de un vocabulario), Biblioteca Virtual Miguel de Cervantes, Alicante 2000, p.133.

[11] Cfr. González Landa M.C., Estudio del Cancionero y romancero de ausencias de Miguel Hernández, Caja de Ahorros Provincial de Alicante, Alicante 1992.

[12] Nel suo memoriale Pablo Neruda scrive: «[Miguel] mi narrava quanto fosse impressionante poggiare il suo orecchio sul ventre delle capre addormentate. Così ascoltava  il rumore del latte che giungeva alle mammelle, il rumore segreto che nessuno tranne quel poeta di capre, ha potuto ascoltare», in Neruda P., Confieso que he vivido, Einaudi, Torino, 1998, p.151.

[13] Morelli G., cit., p.18.

[14] Manresa J., Recuerdos de la vida de Miguel Hernández, Colección nuestro Mundo nº 4, Serie:  Arte y cultura, 2ª Edición corregida y aumentada, Ediciones de la Torre, Madrid 1981.

[15] MÁñez M. O., Miguel Hernández. La circostanza e il tragico, in «L’ospite ingrato» (http://www.ospiteingrato.unisi.it/miguel-hernandez-la-circostanza-e-il-tragico/), 30 dicembre 2009, p.10.

[16] Conte G., La luce dei versi nel buio della prigione, in “Il Giornale”, 18 febbraio 2015.

[17] Cfr. Cano Ballesta J., La poesía de Miguel Hernández, Gredos, Madrid 1971.

[18] MÁñez M. O., cit., p.8.

[19] Id., cit., p.8.

[20] HernÁndez M., Canzoniere e romanzero di assenze, cit., p.147.

[21] Cfr. Zamora G., Miguel Hernández, poeta (1910-1942), El Grifón, Madrid 1955.

[22] Cfr. Zardoya C., Miguel Hernández (1910 – 1942). Vida y Obra – Bibliografía – Antología, Hispanic Institute in the United States, New York 1955, p. 76.

[23] MÁñez M. O., cit., p.6.

[24] HernÁndez M., Canzoniere e romanzero di assenze, cit., p.187.

[25] Cfr. Pérez Nereida L., Vivencia, emoción y mito en la poesía de Miguel Hernández, Universidad de Nueva York, Nueva York 1985.

[26] Morelli G., cit., p. 15.

[27] HernÁndez M., Canzoniere e romanzero di assenze, cit., p.101.

[28] Cfr. Recio Mir A., La última estación poética de Miguel Hernández: símbolos y sentidos, en Aa.Vv., Miguel Hernández. Cincuenta años después, T. II, Alicante – Elche – Orihuela, Comisión de Homenaje a Miguel Hernández 1993, pp. 647-653.

[29] Morelli G., cit., p.17.

[30] Hernández M.,

[31] Id., Dedica del suo libro Viento del pueblo a Vicente Aleixandre.

[32] Balcells J. M., Miguel Hernández, corazón desmesurado, Dirosa, Barcelona 1975, p.202.

[33] Aleixandre V., Los encuentros, Espasa-Calpe, Madrid 1985, p. 194.

The Violent narcissistic identification: a psychodynamic process

di  Federico Tagliatti 16 maggio 2016

leggi in pdf The violent narcissistic identification

TagliattiI would like you to picture what the psychodynamic paths of violence explains within the narcissistic personality disorder. Starting by comparing the concepts of violence and aggression, then carrying out the functions of violence within the relational world of the narcissist and how these are used by means of projective identification and the role he play in the consulting room.
In order to clarify the water, the use I’m doing of the “violence” term, is strictly psychological and not referred to any fiscal behavior.

The aggressive type is a person controlling his impulses and acts only when forced and therefore becomes, for internal or external necessity, violent. Aggression is a natural tendency that has more to do with the instinctive apparatus without necessarily becoming violence. In fact, when an aggressiveness creates determination and creativity, we are dealing with a person’s adaptive function, something that allows the individual to maintain physical and mental stability.
Violence, however, is an interpersonal expressive form resulting from aggressiveness. As the main feature, the violence has the goal of physical or emotional injury of other people, which is why it may be a very interesting element for dynamic Understanding of narcissistic personality disorders.
We know that the forms of violence can be extremely varied but, the one I would like to analyze now, is the one that develops in narcissistic people and, in particular, the forms that can be seen within the analytic space. (I am not speaking of physical violence?)
Projective identification is a valuable interpersonal psychological process for seeing the dynamics of aggressive material within the subject, especially if the person is suffering from narcissistic
personality disorder. Path Ogden was one of the last interpreters and researchers who have examined the subject of projective identification. According to him, this is primarily a defense, but at the same time a way of communication, a primitive form of object relation, as well as a route to psychological change. We also know that the content of projective identification relates very closely to transference / countertransference dynamics (although there would be important distinctions to make) which are significantly important for the conducting of any analysis, in other words, projective identification is a mechanism that can allow us, probably, more than any other, to access and to understand narcissistic aggressive currents.
The aggressiveness that I intend to analyze is expressed by three different main channels. Each of these allows the subject to compensate for internal tension; therefore the aggressiveness is nothing more than a way that is unconsciously “selected” and its purpose is to bring the internal tension to a sustainable level for the subject, in order to avoid an unpleasant condition (Freud).
This view derives from classical theory; it reminds us that the object, in this perspective, is considered useful to play the role of “target” or for “giving expression to internal energies”.

According to H.Kohut (1971) the etiology of narcissistic disorder is a traumatic failure of the empathetic function of the mother and the negative effect of the development of the idealization processes; of course these traumatic failures cause an evolutionary arrest, and an endless search for an idealized self-object. The NPD, according to Kohut, could be a psychoanalytic diagnostic category based the transference, which reflects the patient’s effort to maintain self-cohesion. He called it the first “mirror” by relating it to the efforts made by the patient to capture any signal of admiration in the maternal gaze, and now transferred to the analyst. The other form of narcissistic transference Kohut describes is “idealizing” and consists in giving to the analyst such exaggerated values as to border on perfection.

From a structural point of view, according to Kernberg, the main differences between a narcissistic personality and other forms of character disorders, are the differences in operation of the ego ideal. Normally, the idealized images of the parental figures are condensed into a structure called the “ego ideal” along with idealized parts of themselves.
This process is then edited by the integration of a more realistic understanding of parental demands. However, in the narcissistic personality, this early fusion of the self with the ego ideal, with the subsequent devaluation of external objects and self image objects acts to protect the Self from primitive conflicts of an oral character and frustration (O.Kernberg , 1975).

In other words, the ego acquires a kind of omnipotence that should have been rightfully frustrated. To better these intolerable sensations, the narcissist, basically organizes his life as a network of
“satellites of nourishment” from which he draws the material he needs.
This network, which will represent an object to brag about like a collection of precious toys, will be powered by his denigrating and demeaning character behaviors and thoughts that in any case will
head to a common denominator: aggression. Violence in the sense of his devaluation of the other will be the glue between the narcissist and these same people from whom he is nourished in the sense that they admire him.
The devaluation of others and the emptying of the internal world of object representations, are among the causes that contribute to the lack of a normal self-esteem and that determine a strong inability to empathize with other people. It follows that the need to control others, while looking in every way to squeeze as much admiration from others as possible, is essential to compensate for the sense of inner vacuum.
In the relational world, the narcissist is constantly developing relationships of dependence on himself, and this operation’s main work is violence itself in the sense that I have been discussing it. Without this, such relationships never would form. The narcissist is an infallible hound tracking down admiring others. The narcissist is able to choose the right people who will drive him along his (emotional) and professional life.

wounds

I introduce now a metaphorical not original representation to express the image of an important psychological mechanism that helps us to deepen some passages of this argument. I will use the term “wound” to indicate a malfunction in the structure of the analyst’s self.
The analysis of an analyst also has the aim to dissolve the “particles” of life which have not been absorbed in the course of individual development. Of course, the result of the analysis itself, may achieve different outcomes and what we certainly
all hope, is that these knots are positively reshaped offering to the analyst important equipment that he cannot ignore when dealing with certain personality disorders. In the case of the narcissistic disorder, expecting a total transformation of these undigested parts is a utopian perspective, even in the best case. What we really have to aspire to, is that the particles are sufficiently absorbed to become scar tissue rather than wounds, that means, brittle structural parts
through which the link with the patient can become infected. What suggests the entrance of aggressive material through the analyst’s “wounds”?
The image of a wound, only serves to give us an idea of how pathogens that may come into contact with the body are not only of a bacterial or viral order, but also in the form of unconscious communication, so even the aggressive material, coming into contact with wounds, causes the body to mount a defense. The consequent defenses of the therapist would be interpreted by the patient as a rejection and fear; eventually these feelings would come back to the patient dangerously reshuffled with its originally projected material.

In the consulting room

What happens in the consulting room is often an amplification of wounds. The narcissistic patient will feel the highly unbalanced relationship since Its structure allows him to mount a relational attack. If in this case the analyst is sufficiently free of “wounds”, a “constructive metabolic process” of “aggressive fragments” projected by the patient can occur.
As we know, one of the dynamics underlying the narcissistic disorder is precisely the need to acquire, via other people, a kind of admiration that could be described as “higher quality” or unconditional. An admiration that performs the function of real nourishment.
It is also important that this admiration has a definite quality to the narcissist, he will be able to choose it on the basis of his taste and his own personal experience comparing people who have qualities to offer him. Moreover, this admiration should be able to match the fantastic expectations developed by the narcissist. Then it will be considered more valuable and therefore sought carefully.
The specific relational qualities sought by the narcissist in the other, if obtained in the consulting room, would lead to an extremely disappointing outcome for the results of an analysis.
In fact, even within a therapeutic relationship, the narcissist will go testing the waters in search of what interests him more. I will try to show how he can get it.
In the consulting room, the patient is able to establish a relationship through projective identification.
The self representations and devaluing the object are split and projected. In this case we therefore expect a kind of transfer of primitive object relations and then defensive actions characteristics of the stages preceding object constancy.
This function can be conducted in the right direction, but depends largely on the ability to “feel” of the analyst.
Projective identification always keeps its main function of defense, that is a process through which the subject can exclude parts of the self that are frightening or irreconcilable. The therapeutic relationship can go back to being a primitive form of object relationship allowing the patient to relate to a separate part object.
In this case it is very important that the analyst has largely solved these aggressive cores closely linked to its internal objects (or parts thereof), otherwise, these “blind spots” of the analytical process will progressively widen to compromise the entire operation of the analytical process.
Through what we call reinternalisation (considered by Ogden the third and final phase through which projective identification develops), we can create structural change within the individual self
through active modification of the Self links with objects, thus favoring a decrease in libido investment in the ego ideal.
This is done through work of feelings and emotions against which the person is struggling. Part of the projection means that these feelings are grafted into a host who can process them and return them in an entirely different way. None of this happens through a person actually seen as separate, but through the self projected into another, and by maintaining contacts with him as though he were someone else (Steiner,1993). The patient’s omnipotent defenses are constantly used to secure his confidence and his needs. In this way, the analyst finds himself continually threatened by devaluing aggressions of his worthlessness and the patient’s lack of sense of the whole process.
We now take a step in a different direction and try to understand what are the normal flows of expressive violence, because what we are trying to do is to have a clearer perspective on the pattern of narcissistic violence. We have seen that aggression is a principle instinctively present in all people. This can take different forms of expression, including violence, but the violence of which we speak, fundamentally, can move in directions that convey it either inside or outside the individual.
In case of aggression directed at themselves, the target of aggressive attacks are those internal objects that are not integrated with the rest of the self and have thus remained detached, completely incomprehensible and inappropriate for the functioning of the rest of the structure of personality.
To obtain displacement instead of violence, the involvement of projective identification is important.
In all its forms, violence implies the presence of a victim, and then of a target on which the “aggressive fragments” are to be projected. As I said, these fragments may be driven out only under certain structural conditions: the personality is one of the consequences of the development of the self that provides a vector to vent aggression. Unconscious management of the metabolic pathways of aggressive fragments may take different forms.
The combinations of psychological factors behind aggressive behavior are potentially infinite, but one can, from my point of view, recognize three channels of aggressiveness that I will describe.

The aggression management channels

1 The aggression management through the first channel, takes place within the individual by means of fantasized aggression against those objects experienced as irreconcilable and dangerous. This is a management that could be called healthy because the individual is automous in the management of the static produced by the environment in which he lives. Thus, he does not need to borrow that skill from others, as does the narcissist.

Aggression may be fantasized and managed in this way only through a computer-like system that is part of human cognition (?) in ways entirely self-sufficient.
Just as in childhood developmental stages described by Klein, the adult maintains the ability to attack his own thinking through aggressive Fantasy.
This implies the presence of a pre-existing structure of the self sufficiently able to handle this type of material, a metabolic apparatus capable of tension reduction through imagination. In this way, the aggressive material is in a sense “attacked” by the imaginative function to obtain the reduction of the strong internal tension that this would continue to exert otherwise.
For example, observing the work of M. Klein, we know how the baby plays is a function necessary for the understanding of many elements of the reality that surrounds him. The acquisition of the “as
if” structure takes shape in the years in which play takes the place of actually providing the child a real artificial experimental laboratory where the endless internal realities are merged with the various ingredients of the external reality. The alloys that will come out as a result of the early years of play, and then interaction with the surrounding environment. This will be the same material with which the child plays, literally building structure. Play is one of the child’s ways to project out of more or less animated objects, a whole series of aggressive hypotheses that must be tested before using on human subjects.
During growth, the individual works with aspects of aggression that can be, through fantasy, deposited in another person, so that he does not notice that he had lost the connection both with himself and with the other person (T .Ogden p22).
The acquisition of this information allows the child to integrate new information with previous information obtained “in his laboratory” -. This experiential aspect is developed in every individual, either through experience from the environment, which through fantasy, freely attacks the objects that make up his inner world. What, for structural causes of the Self, cannot be processed internally, automatically reaches the level of inner sublimation or external action.

2 In the second channel, the aggressiveness is not able to find a way so that the drives can be processed in an appropriate manner, because the structures that should be developed within the Self do not exist, or are not sufficiently developed to allow reduction of tension.
In this case, both the real experiences and those imagined contribute in creating a state of tension that cannot be relieved due to the lack of mental structures that enable sublimation, which in turn, brings comfort.

It is important to remember that violence is almost always the basis of the trauma, and one of the consequences of the trauma is a deficiency in the formation of the Self structures able to manage an attack, so that’s why childhoods spent in violent environments, in our case we use the term “denigrating violence”, are the reason some individuals are incapable of creating interpersonal relationships based on love and affection.

3 In the third channel violence is ousted projective identification. This mental function is developed by the individual to get rid of emotions that do not fit in the object relations of the person’s system, they are expelled as “aggressive splinters” to settle in a host organism through his wounds. At this point it is important for the narcissist to play all the cards at his disposal so that he can establish a lasting relationship with the person hosting his projections. In this way, the experience can translate into unconditional admiration. Ogden identifies this step in projective identification with the term “interpersonal pressure”.
Managing the transference aspects of a therapeutic relationship linked to narcissistic dynamics is perhaps one of the most complex realities that we face in the space of a psychoanalysis.
Freud, based on the economic model that emphasized the importance of mental energy and instinctual investments, had come to the conclusion that patients suffering from narcissistic disorder were not analyzable because they could not develop the typical features of the transference neurosis. Many narcissistic patients appear in fact not involved for a long time with the analyst, contrary to what happens in neurotic patients. Only recently have clinicians understood that the apparent lack of transference of these patients is the characteristic transference itself. (Brenner, 1982)
This professional challenge is made even more complex if there are unresolved narcissistic nuclei in the analyst.
The analyst’s useful role in the consulting room may be at risk if he was not previously able to address and resolve sufficiently his own narcissistic issues.
The importance of solving the narcissistic aspects present in the analyst is the basis of his future ability to feel empathically, and empathy is one of those tools undeniably recognized as fundamental, so that we could call it essential for the smooth conduct of therapy. For the narcissist
it is extremely difficult, almost impossible, to relate to others with a positive empathy. However, he badly needs the positive empathy of the analyst. I do not think it is correct to say that the narcissistic patient is free of empathic tools. It is more appropriate to emphasize that empathy is one of the narcissist’s abilities, enabling him to experience the emotional state of those who come into contact with him, but the use that he makes of this information is solely and entirely in his favor.
So, it is quite normal to expect aggressive behavior of the devaluing type at first, in a session as well as in any relationship of his extra-analytic life.
Devaluations are certainly the behaviors which the narcissist knows best and benefits from. Devaluations that protect his satisfaction and survival, are nothing more than projections from aggressive splinters of which I spoke earlier.
The “patient request” in the narcissistic analytical framework is to have a certification of his grandeur, you are to restore cracked tools that allowed him to create and maintain the network of nourishment.
The screened material can enter the therapist through two roads:
1. Through the access route he has developed through clinical experience.
What the analyst needs to do is to handle the projected material via his own skills, to produce constructive change.
2. Through the “wounds” I mentioned above, genetically previous to his own analysis but that the analysis has not been able to suture in an adequate manner.

conclusions

The analyst’s ability to “feel” what can be a role or a thought that does not belong to him, and having developed the functional capacity for empathy in his analytical role is the basis for the recognition of the aggressive material projected by the narcissistic patient. Through the ability of this analytical sensing, we can more clearly trace the movements of aggression in both the intrapsychic dynamics of the person, and the interpersonal.
In the interpersonal reality of people with NPD, aggression has a well-defined communicative function, so it is necessary for therapists to recognize, intensity, nature and origin to untie themselves from the usual defensive reactions that would be raised. We also need to ask ourselves how we can get intimately in touch with this flow of important information, how to use it, and what tools we need to be able to investigate them and especially how to sharpen them.
We have seen that encouraging the development of the empathic ability of the analyst may be a condition that can make the difference between a success or a failure of the treatment, and perhaps this aspect needs to be deepened and made more and more receptive. you can accomplish this only in the analyt’s personal analysis time.
This may allow the analyst to isolate the expressive paths of violence within the consulting room maintaining a restraining-processing position of the projected material meaning that the analyst does not force to own the projected material. It is useless to get rid of a hot potato that we can not handle.

References

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• Bion, W.R. (1963). Elements of Psycho-Analysis. London: Heinemann.
• Bion, W.R. (2013). Attacks on Linking. Psychoanal Q., 82:285-300.
• Talamo, P.B. (1997). Bion: A Freudian Innovator. Brit. J. Psychother., 14:47-59.
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78:279-293.

Downtown: 180 poems about American and Canadian cities

Downtown on www.aracneeditrice.it

Catalogo delle Biblioteche

8930 copertina-page-001“Downtown” is a detailed journey of poetry and art across the United States of America and Canada, in all their variety and charm. Geography of the large landscapes, great cities, the freedom of the places that host the sky, shape the existence and define the living space of the human condition. Andrea Galgano’s poetic trip, enhanced by Irene Battaglini’s pictorial osmosis, who, through her paintings, gives breath into the verses touching them, is the sign of a surprise and astonishment that fascinate.
The work consists of four “quadrants” in which pour two hundred poems, divided by twenty pictorial tables with informal and expressionist matrix. Polychromy and power of light, looking in every city brushed or crossed, give back sensitivity and penetrate with force and power of expression in the magma of the texts that intertwine perfectly, renewing it, the endless fascination of America, crossing of oxymoron and beauty.

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NYC Serenade, particolare
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Miami, sera
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Chicago’s storm, la nebbia della memoria
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Mississippi, New Orleans, 2005
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La luce bandita, Los Angeles

 

Rassegna stampa

Recensione a Downtown di Maria Pia Di Blasio, Le Cronache Lucane, 17.02.2016

Recensione a Downtown di Maria Pia Di Blasio, Le Cronache Lucane, 17.02.2016

 

 

 

 

 

 

 

 

Intervista di Virginia Cortese su Controsenso Basilicata, 20.02.2016

Intervista di Virginia Cortese su Controsenso Basilicata, 20.02.2016

 

 

 

 

 

 

 

Intervista di Emanuele Pesarini, Dowtown: Il viaggio poetico di Andrea Galgano alla ri-scoperta del continente americano

Andrea Galgano su www.talentilucani.it

TG7 Basilicata

Recensione di Samuele Liscio su Retroguardia 2.0

Recensione di Samuele Liscio su La Poesia e lo Spirito

Recensione di Samuele Liscio su Paperblog

Articolo di Francesco Potenza su La Gazzetta del Mezzogiorno, 31 marzo 2016

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Articolo di Francesco Potenza su “La Gazzetta del Mezzogiorno”, 31 marzo 2016

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Downtown on La presenza di Erato

Notiziario CDP Pistoia, marzo-aprile 2016

recensione di Angelo Parisi  Downtown: l’urgenza della Verità e il giardino segreto svelato

Brooklyn Bridge, rubrica: Versi DiVersi a cura di Antonetta Carrabs su Ora, 20 gennaio 2017 (2 febbraio 2017) tiratura 100mila copie

Ambrosia e Poesia. Il blog di Antonetta Carrabs – VERSI DIVERSI rubrica di poesia di Antonetta Carrabs su ORA

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Brooklyn Bridge, Rubrica Versi DiVersi, a cura di Antonetta Carrabs, Ora, (20 gennaio 2017), 2 febbraio 2017

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Motel California – Andrea Galgano

WTC – Andrea Galgano

Florida- Andrea Galgano

Presentazioni

Potenza, 6 febbraio 2016

Comune di Potenza

6.02.2016 DOWNTOWN POTENZA

 

Il Quotidiano della Basilicata, 3.02.2016-page-001

 

 

 

 

 

 

 

Il Quotidiano, 3.02.2016

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Il Quotidiano della Basilicata, 4.02.2016

Il Quotidiano della Basilicata, 5.02.2016

 

 

 

 

 

 

Il Quotidiano della Basilicata, 5.02.2016

Il Quotidiano della Basilicata 6.02.2016

 

 

 

 

 

 

Il Quotidiano della Basilicata 6.02.2016

Controsenso Basilicata 6.02.2016

 

 

 

 

 

Controsenso Basilicata 6.02.2016

In Arte 9.02.2016

 

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Prato, 18 febbraio 2016

Polo Psicodinamiche, poesie e colori Made In Usa

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Lettura “Versi Nudi- Concerto di Parole”, Potenza, Cibò, 8 novembre 2016

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I cristalli fluidi di Kandinsky

di Irene Battaglini 25 dicembre 2015

leggi in pdf I cristalli fluidi di Vassily Kandinsky

Io sono consapevole di un mondo che si estende infinitamente nello spazio, e che è stato soggetto ad un infinito divenire nel tempo. Esserne consapevole significa anzitutto che trovo il mondo immediatamente e visivamente dinanzi a me, che lo esperisco. Grazie alle diverse modalità della percezione sensibile, al vedere, al toccare, all’udire, le cose corporee sono qui per me. […] La realtà la trovo come esistente e la assumo esistente, così come mi si offre. Qualunque nostro dubbio o ripudio di dati del mondo naturale non modifica affatto la tesi generale dell’atteggiamento naturale.

Edmund Husserl

Io sono io e la mia circostanza.

José Ortega y Gasset

 KANDINSKY BABY PORTRAIT

Il profilo cromatico e la rimozione della figura classica nell’opera pittorica di Vassily Kandinsky[1] sovrastano in termini di notorietà il suo spessore di poeta, esteta, filosofo e psicologo dell’arte. Fu uno studioso raffinato, che mise a fuoco numerosi esempi di come la psicologia dell’arte possa essere considerata una scienza a tutto tondo, postulando la nascita di una vera e propria “Scienza dell’Arte”[2]. I suoi scritti più noti, come Lo spirituale nell’arte, sono stati ampiamente analizzati e molti esegeti hanno apprezzato la vastità, l’acuzia e l’originalità del portato critico di Vassily Kandinsky.

La psicologia dell’arte ha un suo proprio spazio, dotato di ricche elaborazioni, negli scritti e nelle opere di Kandinsky, ad esempio in riferimento alla dinamica scomposizione-ricomposizione, in cui la Gestalt sembra il frutto di un ribaltamento, una reversibilità della figura postulata da Rubin (1921)[3], ovvero la misura propria dell’intelligenza fluida del russo non applicata unicamente alla forma, come sarebbe intuibile, ma alla sovversione del rapporto tra figura e sfondo, una sovversione fenomenologica dei contenuti e dei colori che divengono invisibili soggetti ricchi di contenuto,  per la via della forma e non solo per la via dello sfondo. È difatti paradossale, a ben pensarci, che a dominare la figura sia lo sfondo, e che siano le variazioni dello sfondo a determinare i rapporti tra le figure, e non già la figura con i suoi confini “di fatto”, a determinarsi. Infatti, il secondo principio della Psicologia della Gestalt[4] enuncia che “una stessa parte del campo percettivo, inserita in due totalità diverse, può assumere caratteristiche diverse”, con il corollario che “una stessa parte del campo percettivo, inserita in due totalità diverse, può assumere caratteristiche diverse”.

Con Kandinsky assistiamo ad una sintesi elegantissima di quella che Kanizsa[5] avrebbe definito una “grammatica del vedere”, frutto di un immane lavoro di cesello del pensiero e delle immagini, a voler sciogliere la cristallizzazione empirista della pittura tradizionale, in cui l’apprendimento è frutto di una stratificazione di esperienze avvenute nella storia passata, evidenziando invece come il tutto delle qualità formali sia più della somma delle parti.

Kandinsky discute empiricamente le leggi della produzione, della fenomenologia e della percezione della forma, e lo fa imbastendo e rimescolando all’infinito i cromatismi geometrici simili ai grafemi di un antenato geniale che si trova a rifrangere la luce attraversando una cascata di cristalli, che fluttuano in un silenzio dormiente di punti muti, in attesa di uno spettatore che dia loro voce, se solo è disposto a spingersi un poco più oltre:

L’opera d’arte si rispecchia sulla superficie della coscienza. Essa sta al di là e si dilegua dalla superficie, senza lasciar traccia, appena scomparso lo stimolo. [Anche in questo caso] c’è una specie di vetro trasparente, ma saldo e duro, che rende impossibile il diretto rapporto interno. Anche qui abbiamo la possibilità di entrare nell’opera, di divenirne parte attiva e di vivere con tutti i sensi la sua pulsazione.[6]

Il movimento desiderante dell’anima di questo pittore russo sembra convergere, al pari di una linea retta che sfugge ad un minaccioso condizionamento cartesiano (come accade in molte delle sue opere in cui sintetizza le coordinate del campo pittorico in una danza di elementi primari che si muovono sul registro dei “principi di unificazione formale”[7]), verso una identità intuitiva, che si costella intorno ai suoi 30 anni:

1896. Risalgono a quest’anno tre eventi decisivi che determineranno una radicale svolta della vita di Kandinskij. A Mosca, a una mostra dedicata agli impressionisti francesi, rimane fortemente colpito dal quadro di Monet I Pagliai che gli fa intravvedere per la prima volta la possibilità di slegare la pittura dal vincolo della rappresentazione; Henri Becquerel scopre la radioattività, la divisibilità dell’atomo, fatto che incrina la fede del giovane Vasilij nella scienza e nella solidità stessa del reale; al Bol’šoj assiste alla rappresentazione del Lohengrin di Richard Wagner, grazie a cui intuisce la corrispondenza tra suono e colore, tra musica e pittura.[8]

Una peculiarità dell’opera di Kandinsky è di non essere connessa alla memoria del passato, ma di costituirne una metamemoria in ordine alle sue scelte e alle sue scoperte:  egli vuole testimoniare una scelta di metodo, non raccontare una storia di oggetti o di persone bensì l’incisione di una «vibrazione spirituale» che aspira a diventare percetto in un rapporto isomorfico tra struttura e sensazione, ed è questa sua predilezione per l’atteggiamento di ricercatore d’azione alla maniera di Kurt Lewin che ne fa un uomo di una psicologia rigorosa, in grado di guardare il mondo con gli occhi di un bambino, da vicinissimo, da lontanissimo, da prospettive insolite, laterali, divergenti, dall’angolazione di una “stanza di Ames”[9], da una sorta di profilo oltre la figura, che fa da sfondo allo sfondo ergendolo a protagonista in un’altalena di orizzonti apparenti, misurando questo universo di microcosmi viventi in base alle catene causali che si offrono alle scienze naturali, in cui i parametri si influenzano reciprocamente sulla scorta dei rapporti interni tra le variabili (che sono gli oggetti fluttuanti nell’universo della tela) che agiscono nel  campo di indagine, che è in definitiva il campo della percezione. In questo gioco dialettico ha pieno campo la facoltà immaginativa in rapporto alla fantasia, come dimensione propria dell’analisi critica delle emozioni dell’arte, suffragata dalla lettura alta che ne dà De Sanctis:

La fantasia è facoltà creatrice, intuitiva e spontanea, è la vera musa, il deus in nobis, che possiede il secreto della vita, e te ne dà l’impressione e il sentimento. L’immaginazione è plastica; ti dà il disegno, ti dà la faccia: “pulchra species, sed cerebrum non habet”;[10] l’immagine è il fine ultimo in cui si adagia. La fantasia lavora al di dentro, e non ti coglie il di fuori, se non come espressione e parola della vita interiore. L’immaginazione è analisi, è più si sforza di ornare, di disegnare, di colorire, più le sfugge il sostanziale, quel tutto insieme, in cui è la vita. La fantasia è sintesi: mira all’essenziale, e di un tratto solo ti suscita le impressioni di persona viva e te ne porge l’immagine. La creatura dell’immaginazione è l’immagine finita in se stessa e opaca; la creatura della fantasia è il “fantasma”, figura abbozzata e trasparente, che si compie nel tuo spirito. L’immaginazione ha molto del meccanico, è comune alla poesia e alla prosa, a’ “sommi” e a’ “mediocri”; la fantasia è essenzialmente organica, ed è privilegio di pochissimi che son detti Poeti.[11]

in ossequio all’enunciato di von Ehrenfels per cui fantasia e intelletto contribuiscono entrambi alla genesi delle qualità formali, grazie all’opera dell’attività psichica che è in grado di integrare le informazioni nei loro rapporti di somiglianza e semplicità[12].

KANDINSKY 2Le ipotesi di apertura di faglie disegnano architetture dagli interni abitati dal futuro (a paventare un esito che trova il suo epigono in Lucio Fontana), le forme dispiegate in piani – a mimare quei volumi di cartoncino pretagliato con cui i bambini in età prescolare apprendono la coerenza strutturale tra piano e profondità, e che ricordano le misteriose veline tratteggiate dalle sarte – comunicano la necessità di difendere la pittura nella sua interezza bidimensionale, nella sua congruenza di argomenti che sono forme, colori, sfondi, punti-linee-superfici (come farà anche Paul Klee), senza mai abdicare ad una posizione di sudditanza tra linguaggi, anzi mettendoli in comunicazione, e diventando noto per i suoi studi di sinestesia. Scriverà a questo proposito lo stesso Kandinsky:

L’opera d’arte consiste di due elementi: – quello interiore, e – quello esteriore.

L’elemento interiore, preso a sé, è l’emozione dell’anima dell’artista, che (al pari del tono musicale concreto di un determinato strumento, che costringe a far vibrare assieme a sé il tono musicale corrispondente di un altro strumento) suscita una vibrazione corrispondente nello spirito di un altro individuo, il ricevente. Allo stesso tempo, dal momento che l’anima è connessa al corpo, essa normalmente può recepire ogni vibrazione solo tramite i sensi, che sono il ponte tra l’immateriale e il materiale (nell’artista) e tra il materiale e l’immateriale (nello spettatore).

Emozione – senso – opera – senso – Emozione.

La vibrazione spirituale dell’artista deve [perciò] trovare, come mezzo d’espressione, una forma materiale atta a essere recepita. Questa forma materiale è il secondo elemento, cioè quello esterno, dell’opera d’arte.

L’opera d’arte è una connessione di interiore e di esteriore, unita indivisibilmente, necessariamente, ineluttabilmente: cioè una connessione di contenuto e forma.

Le forme «casuali», disseminate per il mondo, suscitano una famiglia di emozioni a loro inerente. Questa famiglia è così numerosa ed eterogenea che l’azione delle forme «casuali» (ad esempio, quelle della natura) ci si presenta altrettanto casuale e indefinibile.

Nell’arte, la forma viene definita invariabilmente dal contenuto. Ed è corretta solo quella forma che esprime, materializza conseguentemente un contenuto. […] La forma è l’espressione materiale di un contenuto astratto.[13]

Elementi, quelli sulle tele di Kandinsky, che si inseguono sulla traiettoria animate da vita propria, sorretti da contenuti che si danno in quanto realtà cogente, tangenti all’orizzonte eppure libere, vaganti eppure ancorate, e che si innalzano orgogliosamente vive, univoche, dolcemente galleggianti:

Le altezze e i ritmi dei suoni in continuo mutamento avvolgono gli uomini, salgono turbinosamente e cadono all’improvviso paralizzati. Allo stesso modo i movimenti avvolgono gli uomini, li circondano – un gioco di tratti e linee orizzontali, verticali, che attraverso il movimento si volgono in direzioni diverse, macchie di colore che si ammucchiano e si disperdono, che danno un suono ora alto, ora profondo. [14]

Figure che non chiedono ascolto e nemmeno vogliono dire, “stanno”, e come atto psichico primigenio costituito nella sua stessa “ragione vitale”,[15] umano e riflettente la cosa umana, non si sottraggono alla conoscenza dell’interiorità che si realizza attraverso l’incontro tra «i modi di essere, di apparire, di esistere».[16]  Sostiene Ortega y Gasset (in Il tema del nostro tempo, 1947):

La condizione dell’uomo è, in verità, stupefacente. Non gli viene data né gli è imposta la forma della sua vita come viene imposta all’astro e all’albero la forma del loro essere. L’uomo deve scegliersi in ogni istante la sua. È, per forza, libero.

E dunque le forme del pensiero di Kandinsky, prima ancora di quelle pittoriche, ambiscono a far della necessità visuo-spaziale una condizione essenziale per raggiungere la libertà “per forza”: non forzatamente, ma con la forza generata dalla prigione-crogiuolo del materiale, del concreto, con le sue limitatezze irriducibili.

«Per anni e anni ho cercato di ottenere che gli spettatori passeggiassero nei miei quadri: volevo costringerli a dimenticarsi, a sparire addirittura lì dentro»[17]. Le forme sulla tela, in quella sua pittura che egli stesso ebbe a definire “astratta”, si rincorrono come dadi in un effetto domino a ritroso, costringendo lo spettatore a inciampare in un mondo molteplice, in cui la realtà potesse offrirglisi secondo la sua “prospettiva individuale”[18], quasi travolto da una vertigine di libertà immaginativa, disorientato dal modo in cui egli usa la linea, in qualità di frazione di una retta che protende da e verso infinito, il cui unico stigma identitario è dato dall’intersezione –  dall’ “incontro” cui fa riferimento la fenomenologia di Buytendijk – : sia come soggetto dotato di autonomia, sia come oggetto di confine per arginare il magma della materia cromatica.  L’artista non affronta la pittura, bensì elabora la sua identità di pittore attraverso tre grandi gruppi di opere – “impressioni”, “improvvisazioni” e “composizioni” – che segnano la distanza da un figurativo che non riuscirà più a soddisfare la tensione di Kandinsky verso una ricerca che mai si compie, a sancire la sua adesione ad una eterna modernità, quasi attraccandosi ad un futuro che si sposta di continuo:

È stupenda quell’opera la cui forma esteriore corrisponde perfettamente al suo contenuto interiore (il che, del resto, è un ideale eternamente irraggiungibile). Così la forma dell’opera dell’opera viene definita, in sostanza, dalla sua necessità interiore. Il principio della necessità interiore è in sostanza l’unica legge immutabile dell’arte.[19]

Impressioni sono i quadri nei quali resta visibile l’impressione diretta dell’esteriore; improvvisazioni, quelli nati di getto, dall’interiore dell’artista, e inconsciamente; composizioni quei lavori alla cui costruzione il pittore partecipa, in una sorta di opus contra naturam, attraverso il proprio Io al centro del campo della coscienza, come funzione regolatrice delle forze sottostanti, mondane e spirituali, che agivano in controcampo, in una relazione sovversiva e conflittuale. Dirà egli stesso:

La parola «composizione» mi sembrava sempre emozionante, e mi proponevo poi, come scopo della mia vita, di dipingere una «composizione». Questa parola agiva su di me come una preghiera, mi riempiva di rispetto. Nelle ore di studio mi lasciavo andare e pensavo poco alle case e agli alberi. Tracciavo con la spatola strisce e macchie sulla tela e le lasciavo cantare più forte che potevo. Risuonava in me l’ora crepuscolare di Mosca; avevo davanti agli occhi, nell’atmosfera luminosa di Monaco, la scala satura di colori e di ombre potenti.

FERROVIA A MURNAU, KANDINSKY, 1909

Ne è un chiaro esempio Ferrovia a Murnau (1909, olio su cartone, 36 x 49 cm), denso di tragedia, stupore, con la veemenza di un nero (un nero che Kandinsky userà sempre con la sapienza con cui l’alchimista accosta la nigredo, con prudenza ma con ardore) che serve a creare lo sfondo attraverso gli oggetti in controsole, evidenziando già nel figurativo dei paesaggi la sua conoscenza diretta della legge di Rubin e della scomposizione polinomica in elementi essenziali di una rete formale, in modo che non perda le sue proprietà principali ma sia alleggerita da ogni ridondanza. Recita appunto la legge della Chiusura della Teoria della Gestalt: “Siamo predisposti a fornire le informazioni mancanti per chiudere una figura e distinguerla dal suo fondo. Dunque i margini chiusi o che tendono ad unirsi si impongono come unità figurale su quelli aperti”, o ciò che è lo stesso “Le linee delimitanti una superficie chiusa si percepiscono come unità più facilmente di quelle che non si chiudono, a parità di altre condizioni”.[20]

Non si confonda questo lavoro di sintesi con il loop riduzionistico teorizzato dai Futuristi, indebolito dalla inadeguatezza rappresentativa delle percezioni di origine a-sensoriale[21]. Tra le principali qualità di una ipotetica rete di Gestalten di un’opera d’arte, Kandinsky annovera la qualità intrinseca dell’emozione, che deve risultare non tanto intatta dal lavoro di scomposizione, quanto esaltata, resa stabile e al tempo stesso espressiva, quasi emergesse a propria volta come da uno sfondo (emotivo) che si coagula in una figura più netta: la precipua emozione di una circostanza che riveste di tono affettivo il feedback percettivo del contenuto. Così continuerà Kandinsky nella dolorosa acquiescenza del danno che gli viene inferto dai contemporanei:

E poi, quando ero a casa, mi prendeva una profonda delusione. I colori mi sembravano opachi e piatti e tutto il mio lavoro mi appariva uno sterile sforzo per cogliere il volto della Natura.

Quanto mi parve sorprendente sentir dire che esageravo i colori naturali, che questa esagerazione rendeva incomprensibile la mia pittura e che unica ancora di salvezza era per me imparare a scomporre i colori. I critici di Monaco, che mi si mostrarono in parte molto favorevoli, soprattutto agli inizi, volevano spiegare la mia potenza cromatica con un’influenza bizantina. La critica russa, che quasi senza eccezione mi ingiuriava in termini ben poco diplomatici, sosteneva che ero perduto dall’influenza dell’arte monacense. […] La mia misteriosa predilezione per il nascosto e per il misterioso mi salvò dall’influenza odiosa dell’arte popolare che scoprii sul suo vero terreno, nella sua forma originaria, in occasione del mio viaggio nella provincia di Vologda.[22]

Kandinsky non apprezzò mai i Futuristi, dei quali ebbe a scrivere nel 1915 in una lettera a Walden, che lo incaricherà di organizzare la sezione russa per il primo Salon d’Automne tedesco, nel settembre del 1913 (sezione alla quale i Cubofuturisti sovietici non furono inclusi da Kandinsky):

Ho di nuovo esaminato le tele futuriste nel loro aspetto del disegno […]. Le cose non sono disegnate! I disegni che si trovano sul catalogo futurista sono senza eccezioni superficiali […]. La leggerezza e la gran fretta sono oggi le caratteristiche di molti artisti radicali: è in questo che i futuristi hanno guastato il lato buono delle loro idee.[23]

La scomposizione della forma da cui è attratto Kandinsky, che è la via regia che egli percorre per accedere alla realtà primaria sovvertendo l’ordine classico figura-sfondo è di ordine etico-morale, e soggiace alla psicologia del giudizio di coloro che non intendono applicare i principi scientifici all’arte:

L’opinione dominante fino a oggi, che sarebbe fatale «scomporre» l’arte, perché questa scomposizione porterebbe inevitabilmente alla morte dell’arte, deriva dalla ignara sottovalutazione degli elementi in se stessi e delle loro forze primarie. […]

Il primo problema inevitabile è naturalmente quello degli elementi dell’arte, che sono il materiale da costruzione delle opere e che devono quindi essere diversi per ciascuna arte.

Ora dobbiamo distinguere, prima di tutto, gli elementi primari da altri elementi, cioè gli elementi senza i quali un’opera, in una determinata specie di arte, non può assolutamente nascere.

Gli altri elementi devono essere devono essere denominati elementi secondari.

Nell’uno e nell’altro caso è necessario stabilirne una graduatoria organica.[24]

Le tesi di Kandinsky si sviluppano sulla tela grazie al contributo dominante del colore, al suo valore assoluto come elemento primario della pittura con cui entra in contatto fin da ragazzino, in grado di imprimere alla forma la vibrazione voluta, necessaria, ma prima ancora di coinvolgere tutti i sensi del pittore e di modellare i suoi oggetti ideali attraverso la materia:

Ho ancora presente la mia prima impressione, o meglio, la mia prima meraviglia davanti al colore che usciva dal tubetto. Una pressione del dito e quegli esseri straordinari che si chiamano colori compaiono chiassosi, pomposi, pensosi, sognanti, assorti, profondamente seri, maliziosi, con il sospiro della liberazione, con il suono profondo della sofferenza, con una forza fiduciosa e persistente, con una dolce indulgenza, con caparbio dominio di sé, con l’instabilità e la sensibilità dell’equilibrio. […] [alcuni] giacciono come già vinti, irrigiditi come forze morte o come i ricordi vivi di velleità che il destino non ha portato a maturazione.[25]

Esprime qui un colore quasi scultoreo, che rimanda alla cera plastica di Medardo Rosso, una densità informe che rimane se stessa pur essendo chiaramente sconfitta dal genio dell’impressionista italiano che ne fa volto, maschera, personaggio. Scriveva l’artista di Torino:

Come la pittura anche la scultura ha la possibilità di vibrare in mille spezzature di linee di animarsi per via di sbattimenti d’ombre e di luci, più o meno violenti, d’imprigionarsi misteriosamente in colori caldi e freddi, quantunque la materia ne sia monocroma – ogniqualvolta l’artista sappia calcolare bene il chiaroscuro che è a sua disposizione; di riprodurre in una parola con tutto il loro ambiente proprio e di farceli rivivere.[26]

MOVIMENTO, KANDINSKY, 1935In quadri come Movement (1935, tela di 116 x 89 cm che si trova alla State Tretyakov Gallery di Mosca), le qualità del colore si danno allo spettatore in ogni loro direzione percettiva: vibrazione, vista, movimento, spazialità, … e quasi mimano quella dinamica maieutica con cui la materia “veniva alla luce” durante la sua adolescenza di giovane artista. Colori che «vagabondano lontano dalla loro origine e si materializzano utilmente sulla tela».

Una specie di miracolo della nascita che si perpetua fino a oggi. L’arte non morirà mai finché i critici, gli psicologi e gli artisti impareranno da Kandinsky, o cercheranno di assomigliargli.

KANDINSKY PORTRAIT

[1] Vasilij Vasil’evič Kandinskij, in russo: Василий Васильевич Кандинский, noto anche come Vassily Kandinsky (Mosca, 4 dicembre 1866 – Neuilly-sur-Seine, 13 dicembre 1944).

[2] Wassily Kandinsky (1926), Punto, Linea, Superficie, Adelphi, Milano, 2014, pp. 3-4, pp. 8-14.

[3] Edgar Rubin, psicologo danese che dedicò i suoi studi ai rapporti figura-sfondo e noto per la Coppa dai due profili (1921).

[4] Cfr.: Kurt Koffka (1935), Principi della psicologia della Gestalt, che è l’opera più estesa e sistematica della Teoria della Forma.

[5] Cfr.: Gaetano Kanizsa, Grammatica del vedere. Saggi su percezione e Gestalt. Il Mulino, Bologna 1980.

[6] Wassily Kandinsky (1926), Punto, Linea, Superficie, Adelphi, Milano 2014, p. 4.

[7] Cfr.: Max Wertheimer, le leggi di formazione delle unità fenomeniche nella Psicologia della Gestalt.

[8] Vasilij Kandinskij, Album, Abscondita, Milano 2014, p. 26.

[9] La stanza di Ames è una camera dalla forma distorta in modo tale da creare un’illusione ottica di alterazione della prospettiva, inventata nel 1946 dall’oftalmologo americano Adelbert Ames sulla scorta di una idea di Hermann Helmholtz. Video (link attivo al 23.12.2015).

Per effetto dell’illusione una persona in piedi in un angolo della stanza appare essere un gigante, mentre un’altra persona situata nell’angolo opposto sembra minuscola. L’effetto è così realistico che una persona che cammini da un angolo all’altro sembra ingrandirsi o rimpicciolirsi. La stanza è costruita in modo che vista frontalmente appaia come una normale stanza a forma di parallelepipedo, con due pareti laterali verticali parallele, una parete di fondo, un soffitto ed un pavimento paralleli all’orizzonte, mentre in realtà la pianta della stanza ha forma di trapezio, le pareti sono divergenti ed il pavimento ed il soffitto sono inclinati.

[10] Cfr. Fedro. Significa “Di bell’aspetto ma non ha cervello”.

[11] Francesco De Sanctis, Storia della Letteratura Italiana, Sansoni, Firenze 1965, p. 61.

[12] Il dibattito sul concetto di forma e sulle sue qualità si è aperto con un saggio del 1890 di von Ehrenfels, Gestaltqualitäten , in cui egli introduce la distinzione tra qualità sensibili e qualità formali, attraverso l’esempio della percezione di una melodia: nella melodia le qualità sensibili corrispondono agli stimoli provocati dalle vibrazioni sonore, mentre le qualità formali, come sostiene il francese Guillaume (1937, it. 1963), «sono una percezione dei rapporti tra le vibrazioni».

[13] Vasilij Kandinskij, Soderžanie i forma, Katalog II. Salona Izdebskogo, Odessa 1910-1911. [trad.it. Contenuto e forma, in Testo d’autore e altri scritti, a cura di Cesare G. De Michelis, Abscondita, Milano 2013, pp.13-14]. (corsivi dell’autore).

[14] Wassily Kandinsky (1926), Punto, Linea, Superficie, Adelphi, Milano 2014, pp. 7-8.

[15] Cfr. José Ortega y Gasset: La vita circostanziale a cui allude Ortega è l’accadimento originario per via del quale l’uomo, catapultato fuori di sé, lontano dalla sua intimità, si trova ad esistere fuori di sé, in quell’oggettività delimitata spazialmente e temporalmente che è, per l’appunto, la circostanza. È un rapporto problematico: l’uomo vive le cose circostanziali come a lui straniere, quasi ostili, e deve piegarle ai bisogni del suo vivere. In questa prospettiva, “salvare la circostanza” per salvare noi stessi significa darle un senso, e ciò è il compito della cultura e di quello che ad essa sta a fondamento: la ragione, ma non quella fredda ed astratta del razionalismo, che pretende di dar leggi alla vita; bensì quella che è al servizio della vita, quella cioè che crea teorie che la chiariscano a se stessa e le diano sicurezza. Questa tipologia di ragione viene da Ortega definita – per distinguerla da quella del razionalismo di matrice cartesiana – “ragione vitale”, con un evidente riferimento alla sua internità rispetto alla vita stessa, di cui è strumento. Fonte: filosofico.net/ortega105.htm (link attivo al 23.12.2015).

[16] Cfr. Frederik J.J. Buytendijk, 1967.

[17] Vasilij Kandinskij, Rückblicke, Sturm, Berlino 1913. [trad.it. Sguardi sul passato, a cura di Milena Milani, SE, Milano 1999, p. 27].

[18] Cfr.: José Ortega y Gasset: La verità a cui conduce questa ragione [vitale] non è quella della scienza, ma è quella della vita: a questa tematica, il filosofo spagnolo dedica due saggi, Sensazione, costruzione e intuizione (1913) e Verità e prospettiva (1916). Con lo sguardo rivolto a Leibniz, Ortega si schiera contro ogni teoria che propugni «l’erronea credenza che il punto di vista dell’individuo sia falso», giacché, viceversa, esso è «l’unico da cui il mondo possa essere guardato nella sua verità». Ne consegue che, se la realtà «si offre in prospettive individuali», allora si può dire che ciascuno di noi è assolutamente necessario, insostituibile; non solo ogni singolo, ma addirittura ogni gruppo, ogni specie, poiché ciascuno «è un organo di percezione distinto da tutti gli altri e come un tentacolo che raggiunge frammenti di percezione dell’universo inattingibili da tutti gli altri». Fonte: filosofico.net/ortega105.htm (link attivo al 23.12.2015).

[19] Vasilij Kandinskij, Soderžanie i forma, Katalog II. Salona Izdebskogo, Odessa 1910-1911. [trad.it. Contenuto e forma, in Testo d’autore e altri scritti, a cura di Cesare G. De Michelis, Abscondita, Milano 2013, p. 14]. (corsivi dell’autore).

[20] Cfr. Max Wertheimer, psicologo ceco, uno dei maggiori esponenti della psicologia gestaltistica assieme a Wolfgang Köhler e Kurt Koffka.

[21] Cfr. Vittorio Benussi, psicologo italiano che poco prima della Grande Guerra entrò in polemica con i gestaltisti, in particolare con Kurt Koffka, sviluppando un suo modello della percezione in cui distinse nel rapporto tra percepito e reale il ruolo dei processi di origine sensoriale da quello dei processi di origine a-sensoriale. Con il termine “a-sensoriale” Benussi indicava gli oggetti ideali, le figure gestaltistiche prodotte in base alla percezione, ma non univocamente riducibili ad esse. Benussi sostenne e verificò sperimentalmente che a parità di stimolazione gli oggetti (in particolare le illusioni ottiche come il cubo Necker e le figure vaso/faccia di Rubin) mostrano una possibilità di diversi rendiconti percettivi, una plurivocità e ambiguità gestaltica che non può che essere di origine a-sensoriale, quindi priva di realtà e di origine puramente ideativa.

[22] Vasilij Kandinskij, Rückblicke, Sturm, Berlino 1913. [trad.it. Sguardi sul passato, a cura di Milena Milani, SE, Milano 1999, p. 25].

[23] Stanis Zadora, Dizionario del Futurismo, voce Kandinskij, Vasilij, in Futurismo & Futurismi, a cura di Pontus Hulten, Gruppo Editoriale Bompiani, Fabbri, Sonzogno, Etas S.p.A., Milano 1986, p. 495.

[24] Wassily Kandinsky (1926), Punto, Linea, Superficie, Adelphi, Milano 2014, pp. 8, 12.

[25] Vasilij Kandinskij, Rückblicke, Sturm, Berlino 1913. [trad.it. Sguardi sul passato, a cura di Milena Milani, SE, Milano 1999, p. 31].

[26] Cfr. Medardo Rosso, Scritti e pensieri, 1889-1927, a cura di Elda Fezzi, Turris, 1994 e Scritti sulla scultura, Abscondita, Milano 2003.

 

Open Day 23 settembre 2015, Perchè diventare psicoanalisti oggi?

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Perché diventare psicoanalisti? Una intervista agli Allievi della Scuola di Specializzazione Erich Fromm lo spiega con un invito all’Open Day
di Sara Ginanneschi

Durante le giornate Open la SPEF, apre le porte ai professionisti per presentare il modello teorico, le tecniche utilizzate, le modalità con cui la psicoanalisi di Erich Fromm trova attuazione ai giorni d’oggi.
Le parole” Psicoanalisi” e “Pratica”, “Tecnica”, o tantomeno “Scienza” non si trovano spesso nella stessa frase! Perché la Scuola di Specializzazione Erich Fromm sarebbe diversa?
Gli incontri di Settembre ed Ottobre, si sono focalizzati sull’illustrazione della triade dei gruppi sul quale l’identità della SPEF si fonda e si sostanzia: i gruppi psicodinamici, lo Psicodramma e i gruppi alla Balint.
Oltre alle lezioni teoriche frontali, fondamentali per acquisire un metodo clinico e scientifico, “gli studenti avvertono sempre più il desiderio di un apprendimento dove sia possibile sporcarsi le mani per imparare l’arte del mestiere” suggerisce Laura, al termine del primo anno di studi ed è andando incontro a questa esigenza che la SPEF offre tre tipi di esperienze gruppali: Gruppi di Psicodramma, Gruppi alla Balint e Gruppi Psicodinamici.
Con lo Psicodramma si acquisisce una vera e propria tecnica di intervento che, vissuta prima “sulla propria pelle” diventerà poi fondamentale strumento terapeutico, unico nel suo genere; gli allievi, alternandosi nei ruoli di paziente e di psicoterapeuta, si calano di volta in volta nei panni dell’altro, imparando ad sviluppare e controllare, l’empatia e la risonanza emotiva, fondamentale per il ruolo di psicoterapeuta che andranno a rivestire.
I gruppi alla Balint si configurano invece come momenti di supervisione e confronto alla pari con i colleghi e permettono agli psicoterapeuti in formazione di migliorare la propria professionalità con il confronto diretto con le esperienze degli altri, andando quindi ad arricchire il bagaglio individuale, con quello portato da tutto il gruppo.
I gruppi psicodinamici sono dei gruppi dove gli studenti “mettono a tema il proprio percorso e vissuto personale per guardarsi con gli occhi dell’altro e capire il proprio percorso”. Racconta Giulia al quarto anno di studi. “La scuola è un luogo dove nascono relazioni che vengono analizzate in senso psicodinamico quindi, oltre che vivere l’esperienza dall’interno si sfrutta la possibilità di analizzare la dinamica di una situazione di gruppo reale.”
Le attività di tirocinio sono strettamente supervisionate e come più volte è stato affermato dai colleghi già iscritti, questa condizione è fondamentale per porre le basi di una più completa professionalità direttamente sul campo; con la sicurezza di non essere abbandonati a se stessi e la fiducia crescente nelle proprie capacità di problem solving.
La scelta di diventare psicoanalista o psicoterapeuta deve assolutamente rispecchiare l’idea di ognuno di noi nel futuro e basarsi su una teoria che rispetti il più possibile la forma mentis originaria della persona pur restando sempre aperta a nuove integrazioni.
La SPEF ed il Polo Psicodinamiche hanno inoltre una Rivista on Line, iscritta al Tribunale di Firenze, che, oltre a offrire materiali di approfondimento scientifico è anche strumento per possibili pubblicazioni.
Abbiamo parlato di modello teorico che di Erich Fromm e dei neo-positivisti, che non va a disconoscere il Positivismo Freudiano e l’impostazione relativa alle pulsioni, ma ne rivaluta e integra il nucleo dell’individuo, non più soggetto a impulsi soltanto interni, ma anche esterni, teoria che, con nomi diversi vediamo sposare dalla maggior parte degli orientamenti psicoterapeutici attuali.
È alla luce di questa similitudine che si può affermare che anche la SPEF offre tecniche psicoanalitiche più chiaramente inquadrabili in un piano didattico; lo stesso Erich Fromm parla di regole nella terapia ed anzi, sostiene che queste andrebbero condivise anche col paziente: “con le sole parole non è mai guarito nessuno” e non è pensabile che il paziente resti passivo nella relazione. L’approccio Center to Center risponde poi al quesito circa che tipo di rapporto interpersonale si vada a creare con il paziente: centro con il centro, non Super Io del terapeuta con Io del paziente!
Perché diventare psicoanalisti dunque? Perché è un modello che gode di un’esperienza storica pur restando attuale e moderno, è supportato da studi di efficacia neurobiologici che ne attestano i risultati terapeutici e trova la sua maggiore forza nella relazione interpersonale; È fondamentale il ruolo svolto dal terapeuta nella stessa relazione: non più in una posizione oggettivistica di fronte al transfert, ma alla sua azione all’interno di un modello interpersonale.

Il mito di Facebook. Rapporti tra psicologia, dipendenza e tecnologia

XVII Congresso Mondiale di Psichiatria Dinamica, San Pietroburgo 2014

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Professor Ezio Benelli (Florence, 1947) is Chairman of the Italian Branch for the 17th World Congress of the World Association for Dynamic Psychiatry WADP – XXXth International Symposium of the German Academy for Psychoanalysis (DAP) eV; degree in psychology at the University of Padua and then in Florence who specialized in psychotherapy at the Institute of Psychotherapy HS Sullivan, is actually Psychoanalyst in neo-Freudian, interpersonal and humanistic paradigm. He is currently Director of the School of Psychotherapy Erich Fromm di Prato (recognized by the Italian Ministry of University and Research), for which he is supervisor training analyst; and Professor of Clinical Psychology and Psychoanalysis Theory and Techniques of individual and group. He is President of the International Erich Fromm Foundation, scientific and cultural institution based in Palazzo Vecchio in Florence, and director of the editorial series “L’Immaginale”, for publishing Aracne, Rome. Judge at the Court of Florence for children, and vice president of the Order of Psychologists of Tuscany Region, has now been re-elected councilor of the Order of Psychologists of Tuscany, and regional contact for the Penitentiary Psychology and Criminology. Ezio Benelli is also coordinator of the Center for Mediation and Family Resources at the Polo Psicodinamiche- Training Agency accredited by the Region of Tuscany, site in Prato.

Italian Branch
Chairman Doctor Ezio Benelli, International Foundation Erich Fromm, Florence

Abstract

The article deals the issue of new dependencies: in particular those from Internet and social networks. Having distinguished between “dependent” (dependence from substances) and “addicted” (psychological dependence), the article refers to some neuroscience researches that confirm the empirical data. Then, it is stated how psychodrama, as it is practiced at the Pole Psychodynamics of Prato in Italy, can be an effective and powerful tool also for the treatment of new dependencies and reasons of it are explained. At last, after providing a brief history about the birth of psychodrama and its inventor, J.L. Moreno, the article describes building blocks, basic steps and different ways of interaction of psychodramatic practice.

Summary

The article, first, distinguishes between the concepts and terms of English language “dependent” and “addicted”: in the first case it is an addiction to substances such as alcohol, drugs or tobacco; in the second, addiction is psychological and the subject depends on behaviors, practices and situations, it is the case of the dependence on new technologies and on Internet. Erich Fromm, in his book Escape from freedom, he highlighted how the human beings become slaves to addictions because they can not accept the emptiness, that feeling of “not being”, which lead them to give up the freedom and to isolate more and more from society. Fromm had somehow foreseen practices and effects of new dependencies, those from excessive exposure to Internet and to social networks. And then in the article it is stated that Psychodrama analytical, as is practiced at the Polo Psychodynamic of Prato in Italy, may represent an innovative approach in the treatment of addictions from new technologies. For its being a cure through the action, the dramatic action (and not just through words), for being a group therapy and for being very close to the patient’s daily life, psychodrama, more than others care systems, can achieve stable and lasting outcomes. Subsequently, the article recounts the experience, made in person by the writer in the summer 2013 at the Hotel Byron in Forte dei Marmi (Lucca) in Italy, that is the use of psychodrama in the treatment of psychological dependency. Empirical data and conclusions of this experience are similar to those which have come neuroscientific studies on new dependencies. And in the article are cited two of these studies: that one of Diana Tamir and Jason Mitchell of Harvard University and that one of Dar Meshi at the Freie Institut of Berlin. Then the discourse moves on to analyzing from a historical point of view the birth of psychodrama: its being rooted in some phenomena of the history of theatre and the human and cultural formation of its inventor, Jakob Levi Moreno, an eclectic and complex figure, which has been able to put together and summarized ideas, suggestions, contributions coming from different fields. Then briefly it is mentioned some reworkings of psychodrama practice occurred in the twentieth century and it is underlined that psychodrama has assumed over time not only a therapeutic value, but also educational and social. Finally, it is described basic components of psychodramatic practice: the four key characters (therapist, patient or protagonist, auxiliary-ego, group), the three different steps in which is subdivided the dynamics (warm-up, scene or action, return) and main modalities of interaction (the double, the mirror and the role reversal).

leggi in pdf The Myth of Facebook. Relationship between Psychology, Addiction and Technology

Non sarò io a vincere ma il discorso di cui sono servo.
J. LACAN

Per gli inglesi il termine dipendenza si traduce in due modi. Nel primo: “Dependent”, il soggetto è fisiologicamente dipendente, come avviene per sostanze quali alcool, droga, tabacco; nel secondo: “Addicted”, la dipendenza è psicologica.
Addicted viene dal latino addictio, addicere che vuol dire “rendere schiavo a causa di un debito”.
Quale debito devono pagare i nuovi “dipendenti“? O meglio: quale condizione di inferiorità li porta ad essere dipendenti?
I debiti, va da sé, hanno da sempre condizionato l’essere umano a vivere una condizione d’inferiorità rispetto al proprio debitore, il quale può essere, di volta in volta, rappresentato da una persona, un oggetto, un ideale di comportamento ecc.
Secondo Erich Fromm, il vero problema della società moderna è la mancanza di autonomia: l’uomo dipende patologicamente da un’entità considerata superiore, che lo condiziona ad essere uno schiavo; è un essere mancante che, non potendo accettare la condizione di “assenza” e condividerla con gli altri, ricerca disperatamente qualcosa che possa compensare il proprio vuoto.
Fromm è morto negli anni ’80, quando le nuove dipendenze iniziavano ad essere visibili solo negli USA, ma in questi ultimi anni il fenomeno si è diffuso rapidamente in tutte le nazioni, influenzando velocemente ogni strato sociale, dai giovani agli anziani, dai ricchi ai più poveri.
Nel suo libro Fuga dalla libertà, Fromm evidenziava come il fuggire da se stessi e dagli altri, sentirsi completamente isolati e solitari, porta alla disgregazione mentale.

La questione del “non essere”, del non sentire di avere un’identità, quindi, sfocia e si risolve nell’evasione, nella fuga dalla realtà.
Pensiamo all’isolamento dei dipendenti da internet e dai social network, pensiamo agli acquisti solitari dei compulsive buyer, al giocatore d’azzardo che incatena lo sguardo solo sul risultato del suo gioco.
Questo è quello che appare, ma se approfondiamo il “dipendere da chi e da cosa”, la realtà cambia.
Le new addictions portano le persone ad essere dipendenti da esperienze e situazioni che possono in qualche modo modificare l’umore e le sensazioni; quelle stesse esperienze e situazioni sono costantemente create e favorite dalla nostra società, in quanto sottostanno alle leggi economiche del guadagno ma, rispetto alle dipendenze da sostanze, possiedono, paradossalmente, una caratteristica: rispondono illusoriamente al bisogno profondo di essere parte di… considerati da…
Quando il dipendente accetta di curarsi, accetta anche di riconoscere l’impossibilità di essere ciò che Lacan chiamava “essere il desiderio dell’altro”1, accetta l’angoscia della sua condizione infantile e subordinata, sperimenta il buio, privo di false certezze, di chi non riceve l’approvazione necessaria per sentirsi “necessario”.
Lo Psicodramma Analitico, svolto abitualmente al Polo Psicodinamiche di Prato e praticato anche durante l’estate 2013 presso l’Hotel Byron di Forte dei Marmi, è stato da noi sperimentato anche nelle dipendenze psicologiche, offrendo un innovativo approccio per le new addictions.
Ma che cosa è lo psicodramma? E perché proprio lo psicodramma per la cura delle dipendenze da Internet?
La parola “psicodramma”, formata dal greco antico psiche, cioè anima, e drama, a sua volta proveniente dal verbo drao, draomai che vuol dire agire e rappresentare sulla scena, significa dunque “l’azione della psiche”, o se volete “il teatro della psiche”.
Si può dire che se la psicanalisi di Freud fu definita “la cura attraverso la parola”, lo psicodramma può essere definito come “la cura attraverso l’azione”, l’azione scenica e teatrale.
E con questo ho già dato una definizione di massima dello psicodramma: si tratta essenzialmente di un metodo di cura, una tecnica terapeutica, un sistema per curare i disturbi e i disagi psicologici ed emotivi. Tuttavia lo psicodramma può avere valenze ed utilità non solo terapeutiche, ma anche educative, formative, istruttive, sociali ecc.
Per rimanere nel nostro ambito, lo psicodramma è dunque un metodo di cura che si serve essenzialmente del Teatro per raggiungere i suoi scopi, cioè consiste nella messa in scena diretta, nella rappresentazione, per così dire, “dal vivo” dei conflitti e dei problemi psichici del paziente, al fine di fargli prendere consapevolezza di essi e il più possibile liberarlo dai loro effetti negativi. Nello psicodramma non si parla dei problemi del paziente, ma si agiscono quei problemi, si rappresentano, si dà vita sulla scena all’interiorità del paziente, si conferisce spazio, tempo, corpo, parola e suono reali e materiali a ciò che altrimenti rimarrebbe confinato e rinchiuso dentro la psiche del paziente. In breve: con lo psicodramma si cerca di dare il massimo di oggettività alla soggettività. Il paziente tira fuori da se stesso i suoi vissuti e, con l’aiuto del Terapeuta e del Gruppo, li mette sul palcoscenico e così li rende oggetti, cioè qualcosa fuori da sé, li pone a distanza da se stesso, cominciando quel lavoro di presa di coscienza che è l’inizio di una liberazione.
Altra caratteristica importante: lo psicodramma è una tecnica terapeutica di gruppo. Ed è già molto significativo, a mio avviso, che per combattere l’Io solitario, isolato, solipsistico, disperso, decostruito e frammentato di coloro che sono dipendenti da internet, possa essere utile quella tecnica terapeutica che è una delle più “sociali” che esista, lo psicodramma, appunto. Sociale come lo era e lo è ancora a volte il Teatro. Sociale perché lo psicodramma è possibile solo se esiste un gruppo, una comunità di persone che fa da testimone, da contenitore e da contenuto alla scena psicodrammatica.
A questo punto occorre una precisazione: il teatro che vediamo nello psicodramma non è quello che nella maggior parte dei casi vediamo sui palcoscenici dei teatri: è teatro d’improvvisazione, o se volete il teatro della spontaneità, un teatro, cioè, creato e inventato lì per lì, all’impronta. Nello psicodramma non ci sono copioni scritti da memorizzare e recitare, ma tutto succede momento per momento e tutto può cambiare da un momento all’altro: nello psicodramma si lavora su quello che emerge via via, attimo dopo attimo.
Come è noto, lo psicodramma, nella sua prima forma, è stato messo a punto da Jacob Levi Moreno, medico, psichiatra, sociologo, filosofo, studioso di matematica… una straordinaria figura che ha messo in relazione, con la sua concreta ricerca, discipline e idee diverse e lontane fra loro. Rumeno di nascita, ma proveniente da una famiglia di origine ebraica, Moreno si formò in gioventù nella Vienna di inizio Novecento, una realtà multietnica e multilinguistica, un ambito culturale e artistico vivo e vitalissimo che, si può dire, è alla base della nostra cultura contemporanea. Moreno conobbe Freud, Adler e Schnitzler. Studiò Bergson, Rousseau, Pestalozzi, Nietzsche, Kierkegaard e Marx. E in quegli anni inventò “Il Teatro della Spontaneità” e “Il Giornale Vivente”, forme di teatro di improvvisazione, in cui gli stessi spettatori venivano chiamati a partecipare alla messinscena come personaggi.
Uno dei meriti di Moreno fu anche quello di raccogliere e fare sintesi di una serie di elementi tratti dalla tradizione teatrale, per costruire la sua grande invenzione. Se si guarda, infatti, alla storia del teatro occidentale, molti sono gli elementi che hanno favorito la nascita dello psicodramma. Accenno molto brevemente qui di seguito ad alcuni:

• il concetto di catarsi, cioè l’effetto che, secondo i greci antichi e Aristotele, doveva avere la rappresentazione teatrale sugli spettatori. Catarsi vuol dire purificazione, vale a dire in sostanza la liberazione dalle passioni e dalle emozioni negative;

• il cosiddetto Teatro nel Teatro (chiamato anche Metateatro), cioè quell’artificio drammaturgico che si afferma nel teatro del Rinascimento e che consiste nel dare vita a una rappresentazione teatrale dentro un’altra rappresentazione teatrale. Così, in questa modalità, i personaggi di una commedia o di una tragedia si trovano a essere a loro volta spettatori di un’altra e diversa rappresentazione, e quindi si trovano ad identificarsi più o meno con la rappresentazione a cui assistono, un po’ come succede, appunto, al gruppo nello psicodramma. Un genere di teatro, quello del teatro nel teatro, che ha avuto molta fortuna nel corso dei secolo: pensiamo all’Amleto di Shakespeare fino ai Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello…
• la Commedia dell’Arte, con il suo essere un genere di teatro di improvvisazione, costruito su una struttura di ruoli fissi (le Maschere), può essere considerata un illustre precedente dello psicodramma;
• lo stesso sistema stanislavskijano per la recitazione, perché no? con il suo fare appello alla introspezione psicologica, alla reviviscenza delle emozioni, all’autenticità dell’arte dell’attore, può essere considerato un elemento che ha favorito la nascita dello psicodramma.

Alla metà degli anni Venti Moreno emigra negli Stati Uniti ed è là che mette a punto la sua grande intuizione: la fa diventare una tecnica tearapeutica, una scuola, un apparato teorico, una modalità di ricerca sociale, un metodo formativo ed educativo.
Nel corso del Ventesimo Secolo la tecnica psicodrammatica ha incontrato altri orientamenti e approcci teorico-pratici, dando vita a tanti e diversi modi di praticare e utilizzare l’invenzione moreniana. Particolarmente fecondo è stato l’incontro con la psicoanalisi, e soprattutto con la psicoanalisi neofreudiana che discende da Erich Fromm…

A questo punto una domanda è rimasta sullo sfondo: perché proprio lo psicodramma? Ci sono molte buone ragioni. Per non dilungarmi troppo, mi limito ad indicarne tre:

a) Perché lo psicodramma è un metodo esperienziale, che si basa, cioè, sull’esperienza, sull’azione agita e vissuta. Nello psicodramma l’insight, l’apprendimento, il progresso terapeutico possono avvenire solo se si è agito e rappresentato le dinamiche, i conflitti e i problemi del paziente. Ed è ormai risaputo che l’apprendimento e la consapevolezza attraverso il “fare” sono più durevoli e stabili di quelli attraverso semplicemente il “dire”.

b) Perché lo psicodramma è la tecnica terapeutica che più si avvicina alla cosiddetta vita reale; lo psicodramma è straordinariamente prossimo e affine alle situazioni, alle relazioni, alle dinamiche del paziente nella sua vita di ogni giorno. E quindi più facilmente e direttamente può incidere su di esse.

c) Lo psicodramma è “specchio di vita” non solo per il singolo paziente che mette in scena le sue dinamiche emotive, ma anche per tutto il gruppo partecipante, che può identificarsi in parte o del tutto con le dinamiche del singolo paziente. Il gruppo può mettere in comune esperienze, ricordi, racconti, emozioni che abbiano a che fare con quanto vissuto dal singolo paziente. O per meglio dire: il gruppo entra in risonanza emotiva con il singolo e il singolo, a sua volta, con il gruppo.

Ma torniamo al racconto di quanto abbiamo fatto nell’estate del 2013 all’Hotel Byron di Forte dei Marmi…

I partecipanti venivano sottoposti ad un test di entrata, composto dalle seguenti domande:

1. Vi ritrovate su Facebook più a lungo e più spesso di quanto previsto?
2. Avete rinunciato o ridotto il vostro coinvolgimento in attività sociali, lavorative o ricreative a causa di Facebook?
3. Avete trascurato la famiglia?

4. Avete fatto uno sforzo cosciente, ma senza successo per ridurre l’uso di Facebook?

Attraverso il test volevamo indagare su questa nuova dipendenza, non più su chi usa sostanze quali alcool, eroina o cocaina. Ciò ha creato non pochi problemi sull’efficacia dei criteri diagnostici abitualmente usati per chi fa uso di sostanze: tali criteri, infatti, sono risultati difficilmente adattabili alla dipendenza da un sito di social media.
Interessante fu vedere la trasformazione dell’ “affect facial expression” dei partecipanti quando spiegavano e raccontavano di quanto la funzione “mi piace” sui post pubblicati poteva renderli irritati e ansiosi, se non otteneva il successo auspicato, oppure appagati e soddisfatti se i post ottenevano consensi. Abbiamo notato nei soggetti che partecipavano al gruppo di studio un aumento dell’ansia al pensiero di non poter attuare il web feed.
Abbiamo notato, invece, piacere e gratificazione nei partecipanti al pensiero di parlare di se stessi, di pubblicare proprie foto e nel comunicare i propri pensieri. La nostra indagine empirica ha confermato alcuni studi fatti da ricercatori che hanno utilizzato metodi neuroscientifici.

Diana Tamir e Jason Mitchell ad Harvard,2 hanno sottoposto ad un esperimento di neuroscienze alcuni abituali utilizzatori di Facebook. In una pagina programmata hanno proposto loro tre opzioni: (1) parlare delle proprie opinioni e atteggiamenti; (2) giudicare l’atteggiamento di un’altra persona; (3) rispondere a domande frivole. Durante l’esperimento hanno misurato l’attività cerebrale dei partecipanti. Ogni scelta è stata associata ad un payoff monetario; ciò ha permesso agli scienziati di testare se gli individui sono stati sostanzialmente disposti a dare i soldi per parlare di sé.
In media, i partecipanti hanno perso una media del 17% dei potenziali guadagni per parlare di se stessi! Perché qualcuno dovrebbe rinunciare a dei soldi per fare questo? Ciò non è dissimile dal comportamento di quelle persone che rinunciano alle proprie responsabilità lavorative e familiari, a causa della dipendenza da droga e da gioco. Durante la self-disclosure, questi partecipanti hanno attivato il nucleo accumbens. Il nucleo accumbens è integrato nelle vie del sistema limbico e riceve afferenze dalla corteccia prefrontale e dai neuroni dopamminergici dell’area tegmentale ventrale (regione mediobasale del mesencefalo). Svolge un ruolo di rilievo nei circuiti di rinforzo, legati all’assunzione di sostanze d’abuso, che provocano un aumento della concentrazione di dopammina nella parte esterna del nucleo accumbens; quest’area è coinvolta anche nell’effetto e nella percezione gustativa.
In un secondo studio fatto da Dar Meshi e colleghi presso l’Istituto Freie di Berlino3 si è misurato l’attività cerebrale dei volontari mentre hanno ricevuto molti feedback positivi. La ricerca, simile allo studio di Harvard, ha anche rilevato che in alcuni individui il nucleo accumbens è diventato più attivo quando hanno ricevuto feedback gratificanti. I ricercatori inoltre hanno fatto compilare ai partecipanti un questionario che ha determinato un punteggio “Facebook intensità”, che includeva il numero di amici di Facebook e la quantità di tempo al giorno che si passa su Facebook. (Il punteggio max in questo caso era > 3 ore per giorno). Quando il tempo passato su FB era correlato con un attività piacevole e gratificante, il nucleo accumbens era intensamente più attivo. Da ciò si deduce che le due variabili, tempo passato su FB e attività gratificante, rende il nucleo accumbens intensamente più attivo.

Tutto questo dal punto di vista delle neuroscienze. Ma se riprendiamo il tema del “dipendere da chi e da che cosa”, scopriamo qualcosa di più…
Nessun dipendente da sostanze ritiene che soddisfacendo le proprie necessità sarà più integrato nella società, mentre il “nuovo dipendente”, quando eccede nel comprare, nel lavorare, nel comunicare sul web, etc., pur con un senso di disagio e di colpa per il suo comportamento, spera che “l’altro” possa riconoscerlo proprio nel suo essere come “l’altro”, anche se questo può avvenire attraverso azioni solitarie e compulsioni nascoste. Spera di essere visto diversamente da come lui stesso si vede, spera infine di essere considerato per quello che vorrebbe essere e non per quello che realmente è.
La risposta può arrivare dal computer, dagli oggetti acquistati ed ammirati dal contesto sociale, oppure dalla falsa certezza di vincere ed essere ammirati.
La differenza tra le vecchie e le nuove dipendenze, dunque, si esprime attraverso due poli: l’individuale ed il sociale. L’assunzione di sostanze deve arrecare benessere alla persona, meglio se nessuno vede; le new addictions sottendono alla realizzazione di quel sogno che ci accompagna fin dalla nascita, il già citato lacaniano “essere il desiderio dell’altro”.
Nel gioco psicodrammatico la visione diventa l’elemento fondamentale: il soggetto parlante, cioè il partecipante che esprime se stesso, guarda e viene guardato in una dimensione di verità e di riconoscimento. Il nuovo dipendente, così desideroso di una conferma sociale, si rende conto del suo “non sé”, cioè del non poter diventare qualcosa per qualcuno, attraverso comportamenti distruttivi ed alienanti.
Il gruppo diventa così il contesto nel quale è possibile analizzare le relazioni e le loro implicazioni, le dinamiche e le conseguenti reazioni.
In Francia, Kaes e Anzieu, riprendendo alcuni concetti espressi da K. Lewin e sviluppando le teorie espresse precedentemente dagli altri studiosi che si erano serviti di loro come supporto pedagogico, svolsero un accurato lavoro analitico e proseguirono l’opera di cambiamento della psicoterapia di gruppo. Essi si concentrarono sugli atteggiamenti interni più profondi, sulle istanze inconsce.

Quanto sopra descritto consente di comprendere meglio la funzione che lo psicodramma analitico esercita sui partecipanti. Lo psicodramma contiene in sé due funzioni: una sociopedagogica e l’altra analitica.
Le ragioni che promuovono questa duplicità vengono evidenziate nella collocazione spaziale e nella azione che si svolge nel setting dello psicodramma.
La tecnica utilizzata nello psicodramma è quella di Moreno, pertanto l’azione o il gioco acquistano un valore significativo all’interno della seduta analitica.
Il gioco “diretto”, ossia immediato e guidato dal terapeuta, mette in luce le pulsioni individuali del “qui e ora”, riferite a un contesto e ad una situazione già vissuta nel “là ed allora”.
Lo psicodramma diventa, quindi, il gioco del disvelamento, dove ogni partecipante si riconosce come soggetto non più nascosto, ed il gruppo, inteso come entità altra, rivela continuamente l’inganno di ognuno.
Sempre nello psicodramma avviene la messa in gioco di un accadimento o di una situazione concreta che il soggetto evidenzia durante la seduta.
Per comprendere cosa e come avviene nello psicodramma, conviene ricordare le componenti, la struttura e le modalità fondamentali della tecnica psicodrammatica. Innanzitutto quattro sono i personaggi fondamentali:

Il Direttore o Regista o Psicodrammatista o più semplicemente Terapeuta: cioè colui che conduce il gioco psicodrammatico, colui che consente ai materiali e ai vissuti emotivi dei componenti del gruppo di uscire fuori, colui che cura la messa in scena di quei contenuti emotivi e delle situazioni concrete a essi legati.

Il Paziente o Protagonista: la persona che in un determinato momento è al centro della scena psicodrammatica, la persona che racconta e descrive conflitti e problemi emotivi e di cui si mette in scena una situazione, un evento o un ricordo che è la rappresentazione concreta di quei contenuti emotivi.

L’Io ausiliario: possono essere anche più di uno e sono quei componenti del gruppo chiamati a incarnare sulla scena psicodrammatica i personaggi fondamentali della scena del Protagonista: possono impersonare di volta in volta genitori, mogli, mariti, amanti, figli, colleghi e datori di lavoro, personaggi immaginari ecc.

Il Gruppo: il resto del gruppo che assiste allo psicodramma. Ha le funzioni di testimonianza, accoglienza e sostegno delle emozioni del Protagonista; può identificarsi più o meno con la scena del Protagonista e al finale può condividere le proprie esperienze con quelle del Protagonista.

Lo psicodramma si articola e si svolge in 3 fasi successive:

Riscaldamento: in essa dapprima il Protagonista racconta e descrive liberamente il suo vissuto emotivo, poi, con l’aiuto del Terapeuta e del Gruppo individua un tema, particolarmente importante per il Protagonista, e una situazione concreta legata al tema, che sarà poi oggetto della Scena.

Scena o Azione: consiste nella rappresentazione della situazione concreta precedentemente scelta. E’ interpretata dal Protagonista nel ruolo di se stesso e dai diversi Io Ausiliari che incarnano gli altri personaggi fondamentali della scena.

Discussione o Dibattito o Restituzione: è la fase in cui si interpreta ciò che è venuto fuori in precedenza, è la fase in cui il Gruppo esprime quanto e come è stato coinvolto nella scena del Protagonista, attraverso il racconto di pensieri, emozioni, ricordi, sogni, eventi legati più o meno a quella stessa Scena.

E infine nel corso dello psicodramma possono essere utilizzate le seguenti tre modalità di azione o interazione:

Il Doppio: è quella modalità che consente a un qualunque componente del Gruppo, anche un Io Ausiliario, di dar voce e corpo a emozioni e sentimenti che il Protagonista immagina e prova e che però non riesce ad esprimere. Ha dunque una funzione di chiarificazione e di sostegno.

Lo Specchio: è quella modalità per cui, nel caso il Protagonista abbia difficoltà ad autopresentarsi, un Io Ausiliario può “imitare” lo stesso Protagonista. Egli dunque può vedersi riflesso, come in uno specchio, come gli altri lo vedono.

L’Inversione di ruolo: si può attuare quando il Protagonista è profondamente implicato in una relazione duale. Allora il Protagonista assume il ruolo, la funzione e il posto dell’Altro, si mette “nei panni dell’altro”, calandosi in una nuova realtà e scoprendo emozioni, sentimenti e punti di vista del soggetto con cui è in conflitto e in relazione.

È quasi inutile aggiungere che il tutto avviene in un clima di grande partecipazione emotiva…

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1 J. LACAN: «Il desiderio è sempre il desiderio dell’altro». In Il seminario, vol. I, in Gli scritti tecnici di Freud (1953-1954), traduzione di Giacomo Contri, Einaudi 1978).

2 D. TAMIR and J.P. MITCHELL, Disclosing information about the self is intrinsically rewarding. Department of Psychology, Harvard University, Cambridge, MA, 2012. http://www.pnas.org/content/109/21/8038.full.pdf

3 D. MESHI, C. MORAWETZ, and H. HEEKEREN: Nucleus accumbens response to gains in reputation for the self relative to gains for others predicts social media use, in: Frontiers in Human Neurosience, DOI: 10.3389/fnhum.2013.00439.

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Ezio Benelli, 2014 ezio.benelli@gmail.com

I contenuti di questo articolo sono parte integrante e sono pubblicati in versione tradotta sul Dynamic Psychiatry Intl. Journal, Pinel Verlag Human Psychiatrie, Berlin.
Per gentile concessione della Prof.ssa Maria Ammon, Dap, Berlino, sono stati pubblicati on line in:
Frontiera di Pagine, Prato www.polimniaprofessioni.com/rivista/ e Psicoanalisi Neofreudiana, Prato www.ifefromm.it/rivista.php

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Il narcisismo nell’arte contemporanea. Le implicazioni e le interpretazioni della psicologia dell’arte

XVII Congresso Mondiale di Psichiatria Dinamica, San Pietroburgo 2014

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Doctor Irene Battaglini, graduate degree in organizational psychology at the University of Studies of Florence, CEO & Founder Polo Psicodinamiche & Erich Fromm School of Psychotherapy; International Foundation Erich Fromm (vicepresident); painter and professor of Psychology of Art; Florence. Member of the Order of Psychologists of Tuscany sect. B n. 5305.

Italian Branch
Chairman Doctor Ezio Benelli, International Foundation Erich Fromm, Florence

Abstract

Spreta latet silvis pudibundaque frondibus ora
protegit et solis ex illo vivit in antris;
sed tamen haeret amor crescitque dolore repulsae;
extenuant vigiles corpus miserabile curae
adducitque cutem macies et in aera sucus
corporis omnis abit; vox tantum atque ossa supersunt:
vox manet, ossa ferunt lapidis traxisse figuram.
Inde latet silvis nulloque in monte videtur,
omnibus auditur: sonus est, qui vivit in illa.
Ovidio, Metamorphoseon, book III, vv. 393-401

One of the contributions of the psychology of art lies in illuminating the path that leads to the discovery of the complex dynamics that govern the relationship between Art and Psyche. If the creative process is realized with the presentification tangible or perceptible a work called just “artwork”, by one or more authors, the dynamic psychology does not shirk the task of investigating the links that underlie the psyche of the contemporary authors and their talent. The technique, the need for expression and communication, the body in movement and language, metaphorical thinking and clairvoyance of the artist, are all elements that are included in the largest and most fascinating aesthetic experience, are confronted with the problem of escape of God from the temple: the pursuit of beauty has given way to anxiety over limit, in a pursuit of the artistic act exasperated understood in a phenomenological sense, aesthetic, pragmatic, which inevitably requires the folding of man on himself, plagued by a pervasive feeling vacuum and a serious disqualification of the “Self” in favour of the “Ego”. The psychology of art can make use of “pensiero immaginale”, of the archetypal psychology and of the philosophical investigation to understand the nature social and narcissistic of the contemporary art. Starting from the work of Picasso and Duchamp, passing Cy Twombly, Andy Warhol, Lucio Fontana, we can reflect on how the sharp emotion applied to the coldest contemporary art forms (kinetics art, performance, body art), not is the result of a lust of money, visibility and presenteeism, but the consequence of a certain condition: the narcissistic wound of form in favor of the superegoic and uncontested domain of the mediatic metaphor.

leggi in pdf IL NARCISISMO NELL’ARTE CONTEMPORANEA

Parte I. “L’Architrave e la Foglia”
Premessa metodologica
Il Mito di Narciso e le sue raffigurazioni
Come opera il modello narcisistico

The integrated internal combined object learns from experience in advance of the self and is almost certainly the fountainhead of creative thought and imagination.
DONALD MELTZER, The Claustrum, 1992.

Odio e amore sono differenti aspetti della stessa costellazione emozionale e necessitano di esser esperiti simultaneamente perché siano costruttivi. La chiave dello sviluppo è passione e turbolenza, su di una scala qualitativa, piuttosto che quantitativa – gli incrementi possono essere anche minuscoli. Mentre il concepire le relazioni intime sia nella vita che nell’arte come prive di conflitti, risulta ad un’indebolita, eccessivamente liberale, mentalità “soft umanista”.
MEG HARRIS WILLIAMS, 1986.

La psicoanalisi e tutta la psicologia moderna, senza dimenticare il contributo della sociologia e dell’antropologia, mettono a disposizione teorie e opere interamente spese a favore di una indagine il più possibile ampia ed accurata del mitologema celebrato da Ovidio nelle Metamorfosi. Si racconta di Narciso, bellissimo figlio del dio fluviale Censo e della ninfa Lirope, una delle Oceanine (figlie del titano Oceano e della titanide Teti) la quale interrogò l’indovino Tiresia circa il destino riservato al figlio ed ebbe come risposta una frase che risulterà emblematica: Narciso sarebbe vissuto finché non si fosse conosciuto. Narciso cresce come un bellissimo ragazzo dal cuore arido, pieno di sé, che non ha attenzioni per nessun altro che non sia se stesso. Grazie al suo fascino cattura il cuore di molte fanciulle rifiutandole però duramente. La ninfa Eco fu una di queste, s’innamorò perdutamente di lui dopo averlo incontrato nel bosco dove Narciso era solito andare a caccia, come le altre però venne rifiutata. Eco in seguito a tale delusione si consumò d’amore divenendo un’ombra della quale non rimase altro che la voce. Gli dei colpiti decisero di punire Narciso e incaricarono Nèmesi, dea debita alla distribuzione della giustizia, di punire l’indifferenza da lui dimostrata nei confronti dell’amore di Eco. Così Nèmesi guidò il giovane sulla sponda di una fonte di limpida acqua che nel momento in cui Narciso vi si affacciò gli rese come in uno specchio la sua immagine molto nitida.
Nel vedere il proprio volto riflesso nelle acque della fonte, il giovane Narciso ne è stupefatto tanto da esclamare che dopo aver visto una tale sublime bellezza niente lo avrebbe potuto tenere in vita senza che questa risplendesse continuamente nei propri occhi. Narciso s’innamora così di se stesso. Non trovando le forze per staccarsi dalla propria immagine e consapevole di non poterla mai avere per sé, muore consunto dal dolore. Il mito si conclude con il gesto delle Ninfe che arrivando alla fonte non trovano più il giovane ma al suo posto un fiore bianco e giallo cresciuto come d’incanto, al quale viene poi dato il nome di Narciso.
Non è interessante, dal punto di vista di questo contributo, enumerare le tante raffigurazioni del mito nella pittura classica e nell’arte moderna. Caravaggio con il Narciso del 1597-1599 e Salvador Dalì con le Metamorfosi di Narciso del 1937 costituiscono i poli dirimenti di questo continuum di figure duplicate, la cui nemesi è nella storia di narcisismo espresso dall’infinita serie di autoritratti e di selfie di cui siamo vittime, dai grandi pittori ai più comuni possessori di smartphone.
Tuttavia l’inganno di Narciso ai danni di Eco sta proprio in questo misunderstanding. Egli perpetra in primo luogo il furto dell’idea di amore in termini di proiezione, ancora prima del rapimento dei sensi a favore dell’immagine. L’autoritratto, il selfie sono echi di un suono composto unicamente da figure. Non sono altro che ripiegamenti tecnici di una elaborazione di un oggetto estetico, che può essere costituito dal proprio volto come avere le sembianze di qualsiasi altro oggetto che l’artista o il ritraente sentono incompiuto dentro di sé e che ritraggono nel tentativo mai placato di ridurre il divario tra idea e percezione. L’eco è il processo in cui si esaurisce all’infinito lo scarto tra il suono originario e quello che si arriva a scrivere, a imprimere da qualche parte. Ne consegue che, psicodinamicamente, si è fatta grande confusione tra il problema narcisistico in senso stretto e la necessità di dare un segno ed una forma all’idea di noi stessi e di ciò che amiamo. Inoltre, a carico del mito sta la questione del furto della rappresentazione ai danni della raffigurazione. Narciso ruba da Eco l’unica possibilità di trasformare l’oggetto in relazione oggettuale7. Ed è proprio questa forma di violenta usurpazione che fa di Narciso un mito evidentemente mercuriale: non a caso Robert Graves nel caposaldo I miti greci (85 2; Longanesi, 1986) sostiene che uno dei nomi di Narciso fosse Anteo, appellativo di Dioniso, e che i fiori associati alla figura mitologica fossero il narciso, il giacinto e il fiordaliso: una identità con più sfaccettature, dedita alla meditazione e alla contemplazione, ma in grado di mutare con improvvisi slanci di passione.
La raffigurazione di Narciso in un quadro o in una statua, in un’opera teatrale o in una commedia sono espressioni, più o meno geniali, dell’arte figurativa o narrativa intese nella loro funzione illustrativa. Non è implicito, e naturalmente neppure escluso, infatti, l’accento narcisistico che deve essere considerato come un movimento interno, una dinamica che informa dall’interno il processo creativo e il concept di un’opera: in altre parole, il narcisismo è più che altro una condizione di partenza che viene impressa all’opera, una motivazione intrinseca o ancora meglio il mito che abita l’autore e l’opera, l’archetipo che cavalca una sponda dell’arte, che la fa propria, al qua della volontà dell’artista. Scrive Gilles Deleuze2:

La pittura deve strappare la Figura al figurativo. Bacon evoca due dati stando ai quali pittura non avrebbe con la figurazione o l’illustrazione lo stesso rapporto della pittura moderna. Da un lato la fotografia ha assunto su di sé la funzione illustrativa e documentaria, al punto che la pittura moderna non deve più assolvere a questo compito, che invece spettava ancora alla pittura antica. Dall’altro, la pittura antica era ancora vincolata a certe “possibilità religiose” che davano un senso pittorico alla figurazione, mentre la pittura moderna è un gioco ateo3. Non è sicuro, tuttavia che queste due idee, riprese da Malraux, siano adeguate. […] nella pittura antica il legame tra l’elemento pittorico e il sentimento religioso sembra a sua volta mal definito dall’ipotesi di una funzione figurativa che sarebbe semplicemente santificata dalla fede. […] Non si può certo dire che nella pittura antica fosse il sentimento religioso a sostenere la figurazione: viceversa, esso rendeva possibile la liberazione delle Figure, il sorgere delle Figure al di là di ogni figurazione. Né si può dire che alla pittura moderna, in quanto gioco, sia più facile rinunciare alla figurazione. Anzi, la pittura moderna è invasa, assediata dalle foto e dai cliché che si collocano sulla tela prima ancora che il pittore abbia iniziato il suo lavoro. Si cadrebbe infatti in errore se si credesse che il pittore operi in una superficie bianca e incontaminata. L’intera superficie è fin da subito investita virtualmente da ogni genere di cliché con cui è necessario rompere. E Bacon intende appunto questo quando parla della foto: essa non è una figurazione di ciò che si vede, ma è quanto l’uomo moderno vede. Essa non è dannosa semplicemente perché figurativa, ma perché pretende di regnare sulla vista, dunque sulla pittura. Così, avendo rinunciato al sentimento religioso, ma assediata dalla foto, la pittura moderna, suo malgrado, è in una situazione difficile per rompere con la figurazione, la quale sembrerebbe il suo miserabile dominio esclusivo. Questa difficoltà è attestata dalla pittura astratta: c’è voluta la straordinaria opera della figura astratta per strappare l’arte moderna alla figurazione. Non vi è però un’altra via, più diretta e più sensibile?

Narciso possiede l’immagine di sé come unica via della conoscenza. Egli spicca la melagrana infetta di un doloroso desiderio non di amore, ma di una gnosi della morte e della vita: dell’estremo sacrificio di sé. Guardarsi da fuori, come fosse estraneo a se stesso, o vivere nella limitazione dell’amore che è conoscenza dell’altro come condizione di conoscenza di sé attraverso l’altro? Fa ammenda della possibilità di raffigurare con religiosa aderenza al Vero, al Dio, al Mondo e all’Uomo per restare nel gioco di rimandi della rappresentazione illusoria che è, in definitiva, la sua unica “visione”: il suo orizzonte multiplo, che si moltiplica ad ogni gesto, ad ogni battito di ciglia. E il suo dolore sta nel doversi rapportare a questo orizzonte nel tentativo di scalfirlo e guardarvi dentro come uno scenario di forze anatomiche nel tentativo estremo di restituire sulla tela il mistero che sta dentro la realtà (Bacon); placarne la silenziosa inutilità resa dagli oggetti sviliti del quotidiano e celebrati nella loro immortalità (Warhol), ferire il campo proiettivo come una tela tesa e chiusa (Fontana), combattere contro quella figura che è simulacro e immagine di sé agitandone e sfocandone i contorni come un allievo privo di maestro (Twombly), ma non mai sfiorando la veste degli dei e di una qualche verità esperienziale, oltrepassando la logica della percezione e della sensazione, in un gioco di forze che stanca, che invita al “senza titolo”.
Ci focalizzeremo sull’opera di alcuni grandi pittori e artisti che hanno contribuito a trasformare il comune significato di “pittura”, portandola a qualche cosa di molto complesso che ha un rapporto difensivo o passionale, e qualche volta distruttivo, con la figurazione, e non meramente rappresentativo, ma evidentemente rappresentazionale. L’atteggiamento verso la realtà dell’arte, in questo lavoro, terrà conto del fatto che qualsiasi pittura deriva sia dalla precedente arte sia dalla precedente realtà extra-pittorica, oltre che dalle influenze delle condizioni ambientali, socioculturali, storiche e personali degli autori presi in considerazione: è l’approccio storiografico appreso dalla lezione di Mario Praz con un tematismo che «passa sopra a ogni divario di qualità estetica»4 assumendoci la «responsabilità del raccordo»5: la visione sarà eretica per essere feconda. Il nostro giudizio di valore estetico è separato da ogni analisi positivistica perché passa dall’intuizione, da ogni storia perché presuppone l’universalità dell’arte come dimensione – e non solo come esperienza fortuita mutuata dall’assemblaggio fortunato di percezioni altrimenti caotiche – assiomaticamente fondante della psiche umana.
Quando un processo artistico può definirsi abitato da una connotazione di tipo narcisistico? Si potrebbe dire, con un passaggio letterario, che il narcisismo «non è opera di carne ma di triste iniziazione», come riflette Isabella Inghirami nel Forse che si, forse che no di Gabriele D’Annunzio, a proposito della teoria della dolorosa voluttà incestuosa. Lasciando ad altri approfondimenti gli aspetti psicopatologici del narcisismo, proviamo a metterne a fuoco gli aspetti peculiari alla psicologia dell’arte, tenendo conto del monito di Jung, secondo cui «gli dei sono diventati malattie»6.
Per andare in questa direzione, occorre superare la dicotomia che vede contrapposti l’amore per sé e l’amore per gli altri, e di conseguenza l’amore narcisistico e l’amore oggettuale; non sappiamo quale sia il destino di una possibile cooperazione tra questi due livelli che, nella psicoanalisi di Freud, sembrano in contrapposizione; tuttavia sappiamo che un artista in primo luogo si occupa ed approfondisce tematiche da cui è intimamente toccato, perché ha a che fare con la propria più intima ferita. Kouth afferma che «L’individuo creativo nell’arte o nella scienza, è meno separato psicologicamente dal suo ambiente dell’individuo non creativo: la barriera Io-Tu non è così chiaramente definita […]»8. In altre parole, nella visione di Kouth l’artista rivela un’esperienza narcisistica del mondo, che lo psicoanalista definisce «avventura amorosa col mondo», un modo di cui si abbia dunque un vissuto narcisistico, ovvero una sorta di “inclusione” del mondo nel proprio Sé, che è in definitiva l’oggetto-Sé. L’amore oggettuale, quindi è in pieno concorso per uno sviluppo positivo della personalità dell’artista, in cui il ruolo dell’empatia è determinante a partire proprio dallo sviluppo della funzione estetica. Egli sostiene che

gli oggetti-sé sono oggetti da noi esperiti come parte del nostro Sé; il controllo che ci attendiamo di esercitare su di essi è quindi più vicino al concetto di controllo che un adulto si aspetta di avere sul proprio corpo o sulla propria mente piuttosto che a quello del controllo che si aspetta di avere sugli altri9.

A questo proposito Romolo Rossi e Lisa Attolini del Dipartimento di Neuroscienze, Sezione di Psichiatria, Università di Genova10:

Il termine usato da Freud per descrivere lo stato originario del lattante è «narcisismo primario». Questo stato primario del sé dà luogo, secondo Kouth, a due forme interrelate ma differenziate, centrate rispettivamente sul senso di ammirazione per il sé e sull’immagine idealizzata dell’altro. In un aspetto dell’esperienza di sé ci si aggrappa al sentimento originario di onnipotenza, nell’altro al senso di «beatitudine originaria, potenza, perfezione e bontà» della figura genitoriale. Tuttavia, la difficoltà nella sistemazione del narcisismo è quella di trovare i modi di incanalarlo e indirizzarlo nelle strutture mediatrici del sé, ed è qui che sta la chiave per impiegare efficacemente il senso della propria grandezza. Grandiosità ed idealizzazione sono dimensioni del narcisismo da cui si può partire come forme di narcisismo che si sviluppa con l’integrazione in vari tipi di trasformazioni. La prima di queste trasformazioni da prendere in esame è appunto la creatività. La creatività consiste di per sé in una forma di narcisismo trasformato. I residui delle forme più primitive di narcisismo anche nelle espressioni più avanzate del lavoro scientifico si possono scorgere, in parte, nelle maniere spesso infantili che caratterizzano la persona creativa. Il compito principale della vita è di mantenersi attivamente creativi, e ciò può venire solo dalla capacità di «stare in contatto col bambino che gioca, nel profondo della personalità, di tenersi ben stretti alla freschezza dell’incontro del bambino col mondo». L’empatia è il secondo esempio di narcisismo trasformato proposto da Kouth. L’empatia è la modalità mediante la quale raccogliamo dati psicologici a proposito delle altre persone. In sé l’empatia, che nasce dall’estetica (Einfühlung), ha in origine il significato dell’emozione del fruitore dell’opera l’arte: è ovvio che il termine indica qualcosa che deve essere del tutto a sé rispetto a qualsiasi teoria sistematica esplicativa. Un vissuto interno che è una riedizione con un’antica relazione materna, per esempio, e cioè una situazione propriamente transferale riportandosi alla sistematicità della teoria psicoanalitica, non può essere a rigore considerata empatica. Nonostante ciò, per Kohut, abbastanza contraddit-toriamente, la capacità di empatia nasce dalla nostra fusione originaria con la madre, i cui sentimenti, atti e comportamenti sono parte integrante del sé. Questa empatia primaria con la madre ci prepara a riconoscere il fatto che le esperienze interne fondamentali degli altri sono in larga misura simili alle nostre. Ma è evidente che più che derivare dalla relazione con la madre, questa relazione non è che il primo evento empatico. Il terzo esempio di narcisismo trasformato trattato da Kouth è quello dell’umorismo, che viene affiancato al «narcisismo cosmico». Entrambe a livello più profondo si collegano alla morte.

 

PARTE II. “Signo ergo sum”
Come si esprime il modello narcisistico nelle opere di Andy Warhol, Cy Twombly, Francis Bacon, Lucio Fontana.

La memento mori di Andy Warhol

Andy Warhol 11(Pittsburgh, 1928 – New York, 1987) si avvicina al ritratto con astuzia mercuriale, attraverso una precisissima opera di elusione delle regole pittoriche, tanto è vero che egli non è da tutti considerato un artista nell’accezione classica del termine ma più verosimilmente un fenomeno di tipo socioculturale e mediatico. C’è da dire che “artista” è una parola ambigua e spesso diventa il contenitore per le persone il cui contributo esce dalle cornici delle forme fino a quel momento conosciute. In ogni caso le sue opere sono un elemento centrale nelle dinamiche dell’arte contemporanea e direi della Storia dell’arte più in generale.
L’identità espressa nei ritratti è “passata”, la vita è “trascorsa”, sfiorando quel corpo eletto a simulacro e divenuto oggetto della compravendita dei diritti di servitù per il passaggio di accesi colori stesi “a zona”. Nulla vieta che il patchwork possa produrre coperte che scaldano, ma è complicato fare del patchwork qualche cosa di veramente nuovo, perché si tratta di pezzetti presi qua e là da cose conosciute e consumate. Diventa nuovo se genera un insieme diverso dalle parti di cui è composto, ma non soltanto perché è qualche cosa di più della somma delle parti. Voglio parlare dell’immagine che si costella a partire dal mosaico di elementi accostati che presi singolarmente non alludono al tutto, poiché quel tutto è qualche cosa di nuovo che non sarebbe esistito senza quel preciso modo di mettere insieme le parti e che non dipende tanto dalle parti quanto dall’equazione compositiva che sta nella mente del mosaicista. I colori usati da Warhol sono già conosciuti nel mondo della moda, i volti sono di vite consumate dalla fama, dalla vita, dal successo. Come ha potuto egli arrivare ad un volto completamente nuovo, ad esempio, di Marilyn, senza svilirne l’eleganza e senza utilizzare elementi ulteriori? Probabilmente con la potenziale spinta necrofila di chi deve mantenere in vita ciò che vivo non è. Attraverso l’illusione del venditore. L’illusione tra l’immagine emergente e la sua verità sottostante (che afferisce alla memoria di quel volto nell’immaginario comune) genera uno iato di senso difficilmente catalogabile. Se la forma resta identica (il volto), se il nome resta invariato (ad esempio Marilyn), perché immediatamente ricaviamo l’idea di qualche cosa di completamente diverso, che si proietta nel futuro alla stregua di una icona museale? In altre parole, perché una fotografia semplicissima del volto di Marilyn all’improvviso dovrebbe assomigliare ad un vaso cretese elegantemente decorato, in cui il vaso perde la sua funzione di utensile per addivenire il palco della narrazione di una storia? E che storia racconta il ritratto di Marilyn? Parla di lei o più verosimilmente parla di quello che lei NON è stata?, ovvero racconta quelle cose del suo volto di cui non ci eravamo accorti? La sua bellezza ubertosa viene stravolta a favore della possibilità di consumarla attraverso l’utilizzo del quadro sulla scorta dei bisogni dello spettatore. Esattamente come avrebbe fatto lo spettatore nelle sue fantasie private, ma tuttavia in questo caso alla piena luce, gettate in faccia, eliminando la componente di Ombra, l’elemento “segreto”. La privatezza della proiezione – una sorta di autonomia iconologica che ciascuno di noi coltiva nel proprio dominio psicologico – viene sostituita dalla valenza “sociografica” dell’idea di Marilyn, che si fa oggetto seriale un po’ come un articolo di consumo, un barattolo della Campbell.
Il mondo dell’arte infatti, attraversa a partire dalla Pop Art – e non solo per mano della Pop Art, ma in risposta ad una tensione interna irrisolta –una dinamica regressiva che porta alla dissoluzione della materia nell’opera d’arte. Se Picasso in Europa compie la stessa operazione “ferendo” la figura, e chiudendo pressoché definitivamente il capitolo millenario del dominio della forma, Warhol non ferisce ma, si potrebbe dire ab-usa, usa illecitamente e smodatamente non tanto la forma quanto l’immagine che stabilisce una nominazione: il nostro volto è l’istanza primaria che si collega al nostro nome, ma anche la Brillo Box identifica un mondo, una categoria, e Warhol stravolge non il significato ma la rappresentabilità di quell’istanza.
Decontestualizzare equivale ad estirpare, sradicare, se in gioco è l’identità. Una componente aggressiva che mal si coniuga al tema della spiritualità (ripreso anche da Arthur C. Danto in Quotidianità e sacralità nell’arte di Andy Warhol)12 in cui dovrebbe essere sublimata, canalizzata. L’affettività ne risulta coartata, perversa, autodestruente.

 Infatti il problema è fondazionale, e il critico, a partire dal pretesto della Brillo Box, si trova incagliato in una palude di contraddizioni, che hanno per oggetto principale il tema della Bellezza e i suoi assunti. La riflessione di Danto non si esaurisce all’interno di categorie filosofiche ma tiene conto degli aspetti storici e sociologici, come sostiene Tiziana Andina:

La tesi di Danto, estremamente coerente negli anni, è che il formalismo non colga nel segno nella misura in cui non tiene conto della dimensione storica delle opere. La Brillo Box non avrebbe potuto avere il valore e il significato che ha se, poniamo, Warhol avesse avuto la stessa identica idea nel 1864.13

Ed è il sociologo Howard S. Becker – noto per la “Teoria dell’etichettamento sociale” – a dare sostegno a questa lettura: nell’opera I mondi dell’arte egli propugna una «sociologia del lavoro applicata all’attività artistica» al posto di una «sociologia dell’arte»14.
L’approccio etnografico inaugura quindi il grande fiume delle teorie contestuali. Utilissime, e rischiose: ci allontaniamo dall’urgenza di Danto di trovare una definizione si flessibile, ma universale, senza tempo, di opera d’arte. Il problema quindi si pone come una costante che si sposta continuamente, aprendo ad uno scivolamento relativistico. Una zattera, il cui intreccio porta con sé il background socioculturale del naufrago-inventore, in cui la validazione del processo artistico è definita dalla tenuta di mare della zattera, la cui “bellezza” sarà il frutto dell’apprezzabilità pratica. In altre parole Warhol ridefinisce il “contenuto” dell’opera d’arte a partire da due elementi costitutivi: la “cassetta degli attrezzi” e l’accessibilità agli occhi del mondo.
Tuttavia, questo non è sufficiente a comprendere come, ad un certo punto, si sia dovuto cambiare il modello interpretativo per far fronte alla nuova realtà, connotata dalla destrutturazione della forma e dell’immagine, dalla smaterializzazione, e dall’inclusione delle tecniche più svariate e innovative, negli atelier e nelle scuole, in cui il gesto e l’azione sostituiscono la contemplazione, lo studio, il duro lavoro di bottega. A quale esigenza non tanto dell’artista ma dell’uomo, risponde questo fenomeno? Qual è quell’uomo che non ha più bisogno della forma classica, ma che sente come affine al suo gusto la forma destruente, l’immagine dissonante, l’installazione rarefatta, che si priva dei maestri (e quindi degli allievi) per far posto agli artigiani estetici? Perché la Pop Art non avrebbe una così grande rilevanza se non avesse sradicato la pittura dalla storia. E se non avesse inaugurato la trasformazione del Dna dell’arte il cui sviluppo è oggi ad un intricato crossing-over: un punto di non ritorno, una perdita della tradizione e della conoscenza che, con le nuove generazioni, non sarà possibile recuperare. Ma il nostro occhio deve essere addestrato al disincanto, poiché tutto è in perenne divenire, e nulla di ciò che osserviamo è privo di un suo precipuo inconscio.
La deriva narcisistica che sta alla base della dinamica dissociativa, che tende a separare l’oggetto dal soggetto, offre possibili sponde interpretative non solo di Andy Warhol ma di molta arte contemporanea. Partiamo dal «conflitto estetico» di Donald Meltzer: «Il conflitto estetico è quel conflitto suscitato dalla bellezza del mondo e dalla sua rappresentazione primaria»15; «… la madre bella che si offre agli organi sensitivi… (del bambino)… e il suo interno enigmatico che deve essere costruito attraverso l’immaginazione creativa»16: si tratta di andare a comprendere l’impatto estetico che la “vista” della madre-arte ha sulla psicologia dei figli-artisti. Questa madre sembra come assente, sorda, cieca, taciturna, assorbita dalla sua necessità di generare ed espandersi, mentre all’uomo il grave peso di insegnare, imparare, insegnare, imparare. Migliorare, accendere, pregare, servire, trasferire conoscenza, incendiare città, costruire città, attraversare oceani, essere pronto a salpare ancora. È priva, questa madre-arte, di una “visione” longitudinale del destino dell’uomo-apprendista, tutta protesa com’è a estendersi, a ramificarsi, a decorare tutte le chiese, a ornare le case, a farsi storia, guerra, società, organizzazione, impresa. Il ripiegamento dell’uomo su se stesso, la sua solitudine, si riflettono sulla sua capacità simbolica.
Andy Warhol è l’uomo che esprime appieno la contemporaneità dell’artista privato del conflitto estetico, si muove in una direzione apparentemente caotica. La bellezza della Grande Madre-Arte è estraniante, metamorfica, il suo seno è inafferrabile e forse troppo lontano: la vecchia Europa con le sue cattedrali è inaccessibile, soverchiante di bellezza nelle segrete e nelle catacombe, chiusa a difendersi dalle minacce della guerra. La società “occidentale” diventa la madre presente, che consente l’unica possibile simbolizzazione attraverso la distruzione della bellezza negata. La reciprocità di proiezione tra arte e oggetto dell’arte si costella come unica forma di identità, segnando il destino autoreferenziale e narcisistico dell’arte che seguirà negli anni successivi, in America come in Europa. Warhol sembra utilizzare quindi il potenziale emozionale negativo di dotazione, per neutralizzare l’impatto della bellezza sulla sua fragile e bizzarra struttura polimorfica. Il suo merito è quello di aver reso “accessibile”, come un oggetto sostitutivo, l’inafferrabile. Marilyn, inafferrabile. Detersivi e scatole di minestra, scarpe e poltrone, residui di memoria di una madre-altrove17.

Il gesto in piena di Cy Twombly

L’arte di Cy Twombly18 è un grido sull’America. Un richiamo di sangue e di cieli densi di fiori che si rompono in un boato crespo di farfalle contaminate. La sua pittura è un fiotto che rompe gli argini dell’armonia, è un soffio che imprime voli per mete non raggiunte, non possibili. La pittura di Twombly (Virginia, 1928 ‒ Italia 2011), esprime il fallimento delle utopie moderniste. Illeggibile, incoerente, improbabile. Eppure è vera e bellissima. Bisogna capire come sia stato possibile creare questa unione violenta e irreversibile, come un aereo in velocissima precipitazione che prende fuoco sulla coda, e nell’atto di avvolgersi su di sé diventa una stella cometa.
Quadri di una straordinaria epifania cromatica, di luce che esplode. In cui segni, colori e forme sono gli strumenti dell’agrimensore in un pianeta desertico di cui scongiura l’imminente deflagrazione. Sono il canto e la preghiera di un ultimo uomo verso Dio i cui occhi, che per dirla con Cormac McCarthy, un altro americano dignitario della più alta contemporaneità, «tradivano non disperazione, ma soltanto quell’insondabile, profonda solitudine che è l’impronta più tipica di questo mondo»19.
Tutta l’arte di Cy Twombly (pittore, incisore, disegnatore, scultore) è notte inoltrata che deflagra nell’aurora, è il “linguaggio dimenticato” di Erich Fromm su una lavagna stridente, è ardesia che si sbriciola a creare forme improbabili, è gemmazione di scarabocchi di luce bruciante dalle forme svelte, come le braccia di un nuotatore esperto che farfugliano nell’abisso e che nell’inconscio tumulto non smarriscono – nello smarrirsi – l’eleganza di quanto hanno appreso.
Il “quadro” deciso da Cy Twombly è una forma concreta di non-pittura, è una decisione spasmodica di andare verso la crisi linguistica e di immergersi in questo spasmo come all’imbocco della neoplasia che ha corroso velocemente l’universo percettivo del cui declino siamo attori, costretti alla visione monoculare della realtà dell’emarginazione o alla confusione conglobante e regressiva dei social-network. È una pittura di voci che si affollano ad un crocevia, dove è obbligato a stare l’artista contemporaneo che deve organizzare e riorganizzare continuamente immagini, metafore e rappresentazioni nella stanza della propria coscienza, che si affligge del proprio paradosso esistenziale, per dover essere nello stesso tempo figlio e dio, creatura e creatore.

Cy Twombly sembra aderire, per far fronte allo stress della devastante mitologia unilaterale del mondo contemporaneo, ad una tradizione “anticreativa”, come se il suo atelier fosse una prestigiosa accademia in cui lo scranno più alto è perennemente disabitato. La sua originalità è così potente che deve per forza nascondersi a se stesso, per capire qualche cosa della sua stessa talentuosa e indisciplinata arte del segno. La tecnica che lo vuole maestro nello sfocare la linea del contorno dal disegno è l’espressione di una strategia di attacco ai fianchi dell’ortodossia, è un modo per dire che l’infante è più indipendente del dio e più arrogante, più violento, più demoniaco. Del resto, il desiderio di unione deve essere spostato in una fuga in avanti verso la dimora della perfezione, verso la quale il puer muove con incessanti cadute e inappagato desiderio.
La proiezione sul futuro, su quello che sarebbe stato un disegno di Cy Twombly se egli ci avesse donato le forme belle del suo immane talento pittorico a detrimento della sua scelta di uomo autentico che decide di farsi scenario del mito della luce del mondo post-industriale, comincia già a costellarsi nel controverso ambiente del ventre acido dell’espressionismo, in cui nascono le sue prime opere, non in ordine ad una casualità, ma ad un divenire in prospettiva mitica del dramma della propria vita lacerata in cui segno e disegno, contorno e ombra, sono scissi eppure appaiati in un affiancamento in cui sembrano alloggiare danzatori solitari. Dice lo junghiano Adolf Guggenbühl-Craig:

Abbiamo [quindi] a che fare con due tradizioni: da un lato la creatività viene fatta oggetto di ammirazione, dall’altra essa viene ritenuta un attributo esclusivo di Dio e, per quanto riguarda gli uomini, la si considera soltanto una forma di hybris, di tracotanza. Sia quel che sia, con la creatività noi giungiamo faccia a faccia con Dio. E che cosa succede con l’indipedenza? Sicuramente possiamo ritenere che l’unico essere davvero indipendente in questo mondo sia Dio. Per definizione Dio è indipendente da tutto e da tutti, e tutto è dipendente da lui. Egli è l’inizio e la fine, alfa e omega del creato; […]. Noi stessi cerchiamo di raggiungere questo tipo di divinità, cadiamo vittima del complesso di Dio20.

La prospettiva mitica fu, per Twombly, forza e sembianza, significato e bellezza. Il pittore amava nutrirsene, e fare dei suoi disegni “veicoli per contenuti letterari”, dai quali cercava di liberare le figure.
L’opera di Twombly, se fosse tutta ordinata su piani paralleli, mostrerebbe una morfologia simile ad una stratificazione geologica intra-psichica in cui sembrano essersi fissati i marcatori del processo alchemico. Gli esordi, agli inizi degli anni ’50, sono connotati dall’influenza di Franz Kline e Paul Klee, e sono prevalentemente pennellate gestuali-espressioniste, in un originale e morbido intreccio di tratti, parole, numeri e porzioni (“frazioni“) di oggetti. È molto attratto dall’Italia, dove si stabilisce definitivamente nel 1960, anno in cui allestisce la prima mostra alla Galleria di Leo Castelli.
Gli anni ’60 sono caratterizzati dai cosiddetti Quadri della Lavagna, opere di grande dimensioni in cui usava la tecnica calligrafica dei graffiti su sfondi solidi di colore grigio, marrone o bianco (una tecnica a metà tra la pittura e l’incisione), in cui la scrittura viene svestita del suo ruolo comunicativo e trasferita nel campo semantico del gesto, fino a costellare appieno l’action painting, ricco di citazioni come Leda e il cigno o la famosa Battaglia di Lepanto.
In questo periodo, che è estremamente proficuo, comincia a creare le sue prime sculture astratte, le quali, sebbene varie nella forma e nel materiale, erano sempre ricoperte di pittura bianca. Twombly utilizzerà (e sarà scultore di quest’arte povera per tutta la vita) materiale preso a prestito dal fabbro, dal maniscalco, dal falegname, per dare altezza a forme semplici dalla struttura assemblata, a ricordare l’arte dei mastri antichi nel forgiare gli strumenti del lavoro: un omaggio alle cose, che si liberano della condizione di oggetti utili (come le lettere e la parola scritta) per diventare il simbolo del proprio servilismo: l’oggetto svilito dalla sua destinazione strumentale diventa un soggetto di bellezza silenziosa e perenne, come in un processo di mummificazione, in cui gesso, vernice, legno, cartone, metallo, carta, stoffa, spago, matite, diventano elementi del lavoro manuale che, ricoperti di vernice bianca e opaca, subiscono l’ultimo trattamento immortale.
Nella metà degli anni ’70 Twombly realizza opere “multistrato”, vere e proprie creature che rappresentano la piena realizzazione del suo repertorio anticonvenzionale, costruite assemblando il collage di fogli ad altri media pittorici.

Gli spazi “vuoti” sono il collante necessario al dipanarsi di una creatività splendente, che attinge spietatamente alla linguistica, piratandone i sistemi di base. Il segno diventa “lemma” e spesso è contratto in un calco filologico: come se un bambino geniale avesse la capacità improvvisa di comunicare attraverso un linguaggio in cui verbo e immagine convergono in una bocca vulcanica fatta di meraviglie e di delicatezze, che vengono alla luce con estrema cura, a volte con riferimenti geografici, come la serie dei quadri Bolsena (il lago vulcanico vicino a Viterbo).
In questi lavori, gli elementi grafici si fondono con forza tecnica sempre più rilevante in una sorta di dissoluzione vorticosa, di totale imprendibilità, ma sono talvolta caratterizzati da un nitore fantasmatico, come una sorta di alfabeto decifrabile dalla perizia di pochi eletti, come ad esempio in Apollodoro, fino a raggiungere negli anni ’90 l’acme estetico di eleganti esemplari floreali che in qualche modo lo ricongiungono, in una sorta di re-unione con il principio, ai Fauve che ne connotarono gli inizi del percorso mezzo secolo prima, nel periodo americano, in cui fu della scuola dei grandi Robert Rauschenberg e Jasper Johns.
Un esempio folgorante è quello delle Quattro Stagioni, giganteschi pannelli che sembrano dimorare tra lo spazio scenico e quello architettonico, in una sorta di danza dei colori che si raccordano in chiazze in perenne tentativo di scendere verso il basso, trattenute contro la tela da invisibili fili, come mani che tentano di mitigare l’urlo di una dea di bellezza arcaica, maestra delle pitture rupestri.
L’interno delle tavole è carico di una fortissima tensione, di una conflittualità invadente e di una cripticità linguistica che rimanda alla costante alternanza tra violenza e silenzio, tra sessualità e gioco, tra luce e fondale, in un rapporto emotivamente coinvolgente con lo spettatore: al quale non è difficile desiderare di balzare dentro il quadro e affondare gli occhi in quel coacervo di colore.
I fiori sono, in alcuni lavori, vere e proprie esplosioni e non è un caso se appartengono all’ultima parte del viaggio pittorico di Twombly. Artista ricchissimo e avido, così viene descritto, non fu mai collocato dalla critica americana nella Pop Art; questa sua ostinata originalità stilistica fu la sua fortuna: i suoi quadri sono valutati milioni di dollari e ambiti dai maggiori galleristi.
Non essendo “schematico”, si può solo ripercorrere a ritroso il suo progetto e intercettarne alcune coordinate, con una visione dall’interno, che sembra l’unica via percorribile, proprio come farebbe quello spettatore curioso e invadente. E tornando a quel processo alchemico stigmatizzato nella geologia delle opere, non è difficile individuare un alternarsi di strati di bianco, di rosso, di nero. La qualità dinamica dell’opera di Twombly si interseca con quella statica di depositaria del messaggio, è quindi un’opera magistrale che separa l’oro dal fango, e aggiunge un’aura di mistero e di sapienza, per quella inusuale competenza del maestro a rendere coscienti e ricchi sia il nero che il rosso l’uno dell’altro, stretti al confine tra il simbolico e l’astratto, uniti dall’invisibile catena dell’espressione del colore in piena luce, che sembra poter dire tutto, ma che di fatto rimanda sempre ad altro in un infinito specchio di rappresentazioni.
La catalogazione in “espressionismo”, infatti, è sempre relativizzante, perché non fa altro che dire continuamente che sotto l’espressione c’è una volontà di manifestare, di dire, di esprimere. Il messaggio “espresso” da Twombly è ancora totalmente indecifrato. Un’idea, un desiderio, di destituire il mito restituendo al sogno gli eroi e le anfore di un tempo passato21.

Il dominio della forza e della forma di Francis Bacon

Per me il mistero del dipingere oggi è il come rendere l’apparenza. So che può essere illustrata, so che può essere fotografata. Ma come può essere resa in modo da catturare il suo mistero dentro al mistero della fattura?                            FRANCIS BACON

Francis Bacon (Dublino 1909 – Madrid 1992), in una perfetta corrispondenza con la disamina narcisista, mantiene una posizione isolata rispetto ai suoi contemporanei, pur rivolgendosi all’ambito figurale22. Opera con l’ausilio di fonti diversificate (poesia, dramma, opere di altri autori, fotografia). La critica ha messo in evidenza il rapporto della poetica di Francis Bacon con il nichilismo, l’esistenzialismo, e con il surrealismo, in virtù della risonanza di Bacon con le riflessioni di George Bataille e André Breton. Tuttavia ogni tentativo di avvicinarci a Francis Bacon implica e conchiude il rispecchiamento di parti del nostro Sé. Le sue opere coinvolgono con una forza immane che ha scaturigine nella sua adesione piena e diciamo iper-narcisistica al proprio modo di sentire, vedere e percepire il mondo. Come la morte di un figlio tocca la corda più profonda di una madre (ed Eco, madre-amante mancata, si consuma nella perdita di Narciso, consapevole di non poter mediare per lui l’incontro con il mondo), così il dolore dei suoi volti, dei suoi corpi e dei suo ambienti risuonano nella stanza più profonda di chi vi si accosta. La necessità di esporre la perdita degli oggetti primari nell’arte di Bacon è un’alchimia della vergogna e del ripudio, l’apoteosi della realtà stuprata per evitarne l’immanente collasso; la deformazione come ultima istanza di deflagrazione del riflesso nello stagno, per farne l’unica possibile reificazione, esponente ideale di un Io negativo, di segno opposto al grandioso, che non è censurabile dal Super-Io, perché nasce all’interno, condizionato dalle pulsioni istintuali alla base della struttura psichica: una manifestazione esteriore del funzionamento della carne, una soddisfazione in cui«l’oggetto è importante solo in quanto è invitato a partecipare al piacere narcisistico [del bambino] e quindi a confermarlo»23, sviluppato attraverso un’intelligenza creativa straordinaria, che riesce in qualche modo a rappresentare l’annegamento di Narciso entro se stesso, come una sorta di attaccamento narcisistico all’interno del corpo come appendice dell’immagine di Sé. Questa ricerca radicale è denunciata dallo stesso Bacon, quando afferma: «Io voglio deformare le cose al di là delle apparenze ma allo stesso tempo voglio che la deformazione registri l’apparenza»24. Scriverà Gilles Deleuze25:

In arte, in pittura come in musica, non si tratta di riprodurre o di inventare delle forme, bensì di captare delle forze. È per questa ragione che nessuna arte è figurativa. La celebre formula di Klee: «non rendere il visibile, ma rendere visibile», non significa niente altro. Il compito della pittura si definisce come il tentativo di rendere visibili delle forze che non lo sono. […] E il genio di Cézanne non consiste proprio nell’aver subordinato a questo compito tutti i mezzi della pittura? Rendere visibile la forza di corrugamento delle montagne, la forza di germinazione della mela, la forza termica di un paesaggio… E Van Gogh, non ha forse anch’egli dato espressione a forze sconosciute – la forza inaudita di un seme di girasole? […] Si direbbe che, nella storia della pittura, le Figure di Bacon siano tra le risposte più sorprendenti alla domanda: come rendere visibili forze invisibili? Tale è anche la funzione primordiale delle Figure. […]. È come se forze invisibili schiaffeggiassero la testa dalle angolazioni più svariate. E qui le regioni del volto ripulite, trattate a spazzola, assumono un nuovo significato, poiché evidenziano proprio la zona in cui la forza sta colpendo. In questo senso i problemi di Bacon sono di deformazione, non di trasformazione. La trasformazione della forma può essere astratta o dinamica. Ma la deformazione inerisce sempre al corpo, è statica, si produce nell’immobilità; subordina il movimento alla forza, come pure l’astratto alla Figura. […] Cézanne, a forza di ricondurre la verità al corpo, è forse il primo ad aver prodotto deformazioni senza trasformazione. Anche per questo Bacon è cézanniano: in Bacon come in Cézanne, la deformazione è ottenuta sulla forma in riposo; e al tempo stesso tutto il contorno materiale, la struttura, cominciano a muoversi, «le pareti si contraggono e si spostano, le sedie di chinano oppure si sollevano di un poco, gli abiti si accartocciano come fogli di carta in fiamme» (D.H. Lawrence). […] Le deformazioni di Bacon raramente risultano imposte o forzate, nonostante l’apparenza, non sono mai torture: sono, al contrario, le posizioni più naturali di un corpo che si raccoglie in funzione della forza semplice che si esercita su di lui, voglia di dormire, di vomitare, di voltarsi, di rimanere seduto il più a lungo possibile…

Per Deleuze, Bacon agisce come un rivelatore della forza e del movimento della forza. Individua tre grandi gruppi di forze invisibili in Bacon: le forze di isolamento, le forze di deformazione, le forze di dissipazione. Naturalmente ne enumera molte altre, ad esempio la forza di accoppiamento, la forza del tempo mutevole e la forza del tempo eterno…26
La prospettiva mitica è predominante e la dinamica de-idealizzante applicata alle figure non fa che rinforzare la specularità narcisistica che muove forze arcaiche, alla ricerca di una empatia residuale, attraverso un processo assimilabile a quello che nell’analisi del transfert Kouth chiama «internalizzazioni trasmutanti», volte a mitigare e modificare il Sé grandioso del paziente. Si potrebbe definire questo narcisismo estetico come una fase di conquista dell’autonomia iconologica e iconografica, che definisce «uno speciale campo poetico, una situazione in cui l’arte poteva imboccare la strada dell’emancipazione dai mezzi espressivi ereditati, che in passato avevano servito ai compiti d’illustrazione, interpretazione, documentazione ideologica»28.

Jean-François Lyotard, nella sua analisi critica del “soggetto” nella postmodernità, dedica al rapporto tra arte e figura un saggio fondamentale, Discorso, figura29 del 1971. Svettano, tra tutte le opere, gli autoritratti: si offrono come fianchi animati al nostro sguardo, aprendo alla riflessione sulla creatività divergente e delirante del narcisismo dialettico. Xenia Nibrandt, nel suo lavoro La schiuma dell’inconscio. Un approccio lyotardiano alla deformazione negli autoritratti di Francis Bacon30, sostiene:

La figura umana è il soggetto che «divora l’anima»31 a Bacon, facendolo insistere sui ritratti, degli amici, degli amanti, di sé. Sebbene si possano considerare tutti i suoi dipinti, a suo stesso dire, dei ritratti e anche degli autoritratti – in essi si oggettiva la relazione intima dell’artista, a livello percettivo e reattivo, con il mondo in cui opera –,4 la preoccupazione della presente riflessione è la deformazione cui sono sottoposti gli autoritratti. Nei cinquantadue dipinti individuati sul tema e realizzati tutti, tranne il primo, nella seconda metà del Novecento, Bacon si autorappresenta secondo due modalità: a grandezza quasi naturale, in primissimi piani della testa a malapena contenuti in tele dalle dimensioni 35,5 x 30,5 cm, e a figura intera in formato verticale, che dagli anni settanta in poi si fissa alle misure 198 x 147,5 cm. L’artista predilige il lavoro in serie, forma che lega assieme le immagini dei singoli pannelli e nello stesso tempo conserva la loro autonomia, come indicano anche gli sguardi che non si incrociano mai. Ci sono tre dittici (1970, 1972 e 1977) e quattro studi su un’unica tela (1967), ma la forma preferita è il trittico, adottato quasi esclusivamente per gli autoritratti-teste disposte nei singoli pannelli a volte «come fossero foto segnaletiche, prima un profilo, poi di fronte, poi l’altro profilo» (1967, 1983), altre volte in pose similari (1973, 1974, 1976 e 1980); pochi i trittici a figura intera (1973, 1985-86, 1991). Già il primo autoritratto, risalente al 1930 e scoperto soltanto una decina d’anni fa, mostra una testa scomposta in superfici spigolose e cromaticamente vivaci che, nonostante la chiara influenza del cubismo, prelude già a ciò che sarà la sua maniera più caratteristica di lavorare: «trascinare i lineamenti ora in una direzione ora nell’altra».                                               […] Diversamente agisce la deformazione sulla spazialità che accoglie e a volte circonda gli autoritratti a figura intera. Bacon conserva la rappresentazione dello spazio secondo il sistema prospettico ereditata dal rinascimento, ma la altera. Nei due autoritratti degli anni cinquanta lo spazio si perde nell’oscurità dello sfondo condividendo la sorte con la figura. Un effetto prospettico, perfino un’esasperazione di esso, deriva soltanto dall’ardito scorcio dei piedi, la parte più vicina all’osservatore, presente nella figura del 1956 e da allora in poi in molte altre. La produzione successiva è caratterizzata da una profondità esigua e poco articolata. Più di tutto sortisce un effetto di piattezza, che contraddice la profondità che invece vorrebbe evocare, mentre proietta le figure in avanti, l’uso di dipingere il fondo ad ampie campiture monocrome con colori acrilici puri stesi in maniera uniforme e liscia. Lo spazio può perfino restringersi alla bidimensionalità della tela pittorica posta a modo di parete inclinata (1970), o a evocarlo è sufficiente un riquadro nero sulla tela grezza (1972, trittico del 1991).

Lo spazio fittizio è incrinato e squilibrato ancor di più dall’inserimento di piani bidimensionali che non si integrano nella scena.
Possiamo afferrare, a questo punto, la veste di Narciso mentre sta per inabissarsi nella sua propria immagine, e fare qualche considerazione prima di lasciarlo al proprio destino. Le istanze di disintegrazione sono così evidenti da lasciare interdetto il pensiero, da lasciarlo indietro. Le emozioni si aggrovigliano al limite dei corpi e dei tratti del volto, nel tentativo di aggrapparsi alla vita ultima. Alla necessità di rappresentare si sostituisce la necessità di trovare un linguaggio adeguato ad una minima comprensione che non lasci l’occhio irrigidito ed escluso, unico testimone smarrito di una storia di solitudine, di amori e specchi infranti, di dolore per dover esistere al limitare di uno stagno, di urli inascoltati che si disperdono negli echi delle rovine e delle macerie, in un viaggio ad incontrare l’uomo straniero a se stesso, definitivamente privato all’Altro. Questo linguaggio va formulato, ed è forse il linguaggio del sogno, o gli assomiglia moltissimo. Ancora Xenia Nibrandt33:

La costituzione dell’oggettività va intesa come un «manifestare che nasconde», poiché da forma a una presenza-assenza, sul modello della relazione fort-da osservata da Freud. Il linguaggio riesce a porre il sensibile come oggetto dotato di spessore in quanto simultaneamente lo rende presente (designa) e lo sottrae al suo senso immediato (significa). Ma, per la sua fondamentale proprietà referenziale, riesce a costituire non solo ciò che manifesta-afferma, ma anche ciò che nasconde-nega: nell’esistenza è contenuta e occultata un’inesistenza, al lato invisibile del mondo visibile corrisponde un non mondo – l’inconscio delle pulsioni dispiacevoli che sono state rimosse-negate.

L’ingresso nell’Ade vivificante dell’inconscio apre a digressioni pressoché infinite. Uno dei problemi è che nel sogno, il linguaggio è solo apparentemente destrutturato e caotico, e di fatto ancora viene esercitato un controllo da parte delle istanze super-egoiche, degli archetipi, dai desideri.

Come rileva Deleuze, Bacon ritiene che i tratti asignificanti debbano essere inseriti nell’insieme attraverso un sapiente gioco di contrappesi e al contrario esecra un’estensione indiscriminata degli elementi caotici a tutte le fasi della realizzazione artistica, come nell’action painting, o all’intero quadro, come nella pittura informale34.

Limitiamoci a dire che al Narciso che decide di intraprendere la strada della conoscenza di sé non resta una distruzione immediata e indolore: intraprende in realtà un percorso che è croce e resurrezione, un’onda percettiva la cui costante che passa attraverso il corpo e il volto umano. Narciso Anarca, cui tocca vagare con lo sguardo acceso dal Sé straniero, cui non sa offrire un destino compiuto, privato del senso del tempo, non resta che la caduta incompiuta nel sogno e nel mondo infero, prima di accogliere una cura per la sua ferita narcisistica.

La ferita sul vuoto di Lucio Fontana

Non appena pone il punto, lo spirito è un occhio (lo diventa nell’esperienza come lo era diventato nell’azione).
GEORGES BATAILLE

Un sogno, serve a vedere l’invisibile, e a nascondere il visibile. Una ferita è sicuramente un luogo elettivo per poter accedere al mondo immaginale, e al cuore di quell’ “estetica del male”, per dirla alla Bataille, che assomiglia al rovescio di un ricamo gentile, a quella duplice esazione di verità che si costella ogni volta che il supplemento dell’Io si ritrova ad annaspare nella palude che per Narciso fu stagno e specchio. Che cos’è, quindi, la ferita in un ordine linguistico come quello proposto da Lucio Fontana nei suoi straordinari “tagli“? Più addentro, immagine e parola. E questo cambio di prospettiva si apre come una faglia, non c’è il tempo per tornare a guardare come prima che si spalancasse l’orizzonte sotterraneo.
Orizzonte che è telos e nostos. Perché è scoperta e viaggio e ricordo, è passaggio e visione dal di dentro. Questo è il registro del doppelgänger nel tema del sogno. Ed è metafora. Metafora pura, spaziata, ordini e disordini protoverbali di idee primigenie, embodied cognitions nell’involucro percettivo dei sensi. Nulla vieta di percorrere sentieri riduzionistici in una mappa di digressioni che ci facciano da sponda. La ferita è declinazione, è segno complesso, è morfema in grado di definire un atto linguistico in rapporto a quel che accade, nel modo in cui accade.
Ridurre la produzione creativa (figurativa, astratta, informale ma sempre sperimentale) di Lucio Fontana (Rosario, 1899 – Comabbio, 1968), fondatore del movimento spazialista, ai “buchi” e ai “tagli”, è una evidente caduta stereotipica. Tuttavia non possiamo non tenere conto del fatto evidente che è con questi che viene spesso identificato dal pubblico e dalla critica. Una delle ragioni potrebbe essere proprio la rilevanza psicodinamica del “taglio”, autentico colpo inferto con forza a quella nuda immagine che è una tela senza alcuna voce, senza più eco. Un atto di estrema libertà, che ferisce e che permette di vedere, di valicare, di accedere ad uno spazio nuovo, in cui la tensione formale e immaginativa subisce il contraccolpo del viaggio, dell’esperienza dolorosa: uno spazio che è una nuova annessione a favore della coscienza, una nuova domanda. Francesco Poli35 a proposito dei Concetti spaziali:

Comunemente definiti Tagli, i Concetti spaziali, attese sono i lavori più famosi dell’artista. Sono opere che mettono in gioco, nel modo più essenziale e sostanziale, la natura stessa dell’identità dello spazio pittorico. Attraverso un’azione diretta che si attua in un attimo, l’artista, tagliando la tela con una lama affilata, traccia sulla superficie uno o più segni che aprono letteralmente la via della terza dimensione (la profondità reale), uno spazio “al di là” che mette in moto una carica di energia estetica, nel senso della tensione formale e immaginativa. […] Fontana ha prodotto numerose tele tagliate con caratteristiche variate: con più tagli in sequenze ritmiche; su superfici lisce monocrome o con spessori materici (anche con frammenti di vetro colorato); in gruppi di tele diversamente sagomate e disposte sul muro (I quanta); con interventi su lastre di ottone lucido. Ma forse, per il loro impatto visivo icastico ed essenziale, sono i quadri con solo taglio centrale su fondo monocromo, in particolare bianco, quelli più affascinanti. E lui stesso ha dichiarato: «Conta l’idea. Basta un taglio». Questa operazione artistica è stata interpretata nei modi più diversi. Per esempio: come uno sfregio puramente provocatorio; come una performance gestuale (una sorta di action painting più “incisiva“); come metafora sessuale; e anche, con qualche ragione, come un gesto che ha certe valenze Zen (gli arcieri Zen dicono: «Un colpo. Una vita»).

Un taglio si presta a infinite interpretazioni, si potrebbe obiettare. Il problema potrebbe essere ribaltato in ottica di rinuncia. A che cosa “serve” tagliare una tela, se non a “dire” qualche cosa che diversamente è indicibile? In questo infatti sta il logos di ogni pittura, la sintassi di un’operazione grammaticale altrimenti inutile. Il fuoco della riflessione deve essere, a nostro avviso, la richiesta di «“superamento” di tutti i generi, le forme, le materie e le procedure tradizionali in nome di un’arte nuova, un’arte con intenzioni totalizzanti che comprende materia, suono, movimento, colore in unità di tempo e spazio»36, auspicata da Fontana attraverso il Manifesto Blanco (Buenos Aires, 1946) e sintetizzata nell’integrazione in una «unità fisico-psichica» delle manifestazioni dell’arte, e nel Manifesto tecnico dello spazialismo del 1951, scritto dal solo Fontana. Il solipsismo di questi enunciati, la loro ira di grandioso rifiuto di tutti i codici precedentemente utilizzati dagli artisti, sembra essere l’estrema voce di una necessità di oltrepassare il guado e di annientare la funzione di rispecchiamento, evidenziando una impossibilità di accedere ad una qualche identificazione nei maestri precedenti: l’irreversibile “caduta degli Dei”, profetizzata da Nietzsche agli inizi del Novecento. Se, sempre con Nietzsche, «Tutto ciò che è profondo ha bisogno di una maschera», che cos’è l’implicito di là della tela, quale identità sopraggiunge in quello spazio agognato con veemenza furibonda e graffiante? Forse un nauseabondo vuoto vertiginoso e nullificante, sartriano. Ed è la maschera, la tela, la “cosa ferita”, che acquisisce identità al posto dello spazio desiderato: il desiderante controlla l’oggetto appropriandosene, integrandolo in un luogo inscindibile dall’Io, proprio come avviene nella classica formulazione narcisistica psicodinamica. Marìa Zambrano offre, nello scritto sulla pittura La distruzione delle forme (Buenos Aires, 1945)37, una disamina lucidissima e incantevole, preziosa:

Nella maschera si erge davanti all’uomo l’ambiguo, il demoniaco, il sacro insomma, con quell’ambivalenza che del sacro è caratteristica. Forgiare un volto nell’arte è conseguenza di averlo già forgiato nella mente, è lo specchio e il risultato della decisione di essere uomini e del fatto di aver ormai trovato una nozione, un sapere previo, intorno al consistere dell’uomo. In mancanza di questo, come sarebbe stata possibile la nitida immagine, la semplicità ottenuta da un Fidia, da una scultura che è tutta una definizione? Immagine plastica che è conseguenza della Filosofia, strumento che l’uomo ha forgiato nel momento in cui ha deciso di essere tale. Nel nostro tempo si verifica, tuttavia, un evento strano, dinanzi al quale le persone ancora si scandalizzavano frivolamente, «dando per scontato…»: è l’istante in cui l’arte europea di qualsiasi provenienza si presenta nell’agghiacciante aspetto della distruzione delle forme. […] Era di nuovo la maschera. […] Era l’eclissi del «naturale». Quel naturale che il capriccio di alcuni – questa l’opinione dei più – metteva al bando. Il volto umano, il volto degli uomini e il volto con cui l’umano guardava a se stesso, contemplandosi nel suo specchio rassicurante, scompariva. L’arte, quella della figura e quella della parola, cessava di assolvere questa funzione di equilibrio e di pacificazione che le era stata tacitamente affidata da tanti secoli; rinunciava ad essere la medicina, rimedio e stimolo confortante. Per la prima volta era inquietante a un grado estremo, deprimente in qualche caso. Tornavano a mostrarsi cose che l’umanità non ricordava; un passato remoto lasciato indietro riviveva. Vecchissimi dèi dovettero sorridere, e migliaia di potenze sconfitte dovettero accorrere, leggere, alla chiamata. Ciò che a prima vista appariva, così, era una disintegrazione evocatrice della morte: l’esperienza che abbiamo della vita, è che la morte è ciò che distrugge e disintegra soltanto, e che unicamente essa è capace di far retrocedere il divino processo con cui qualcosa di vivo si genera. La morte è la genesi al contrario, […].

Quale straniamento può pervadere l’artista, dunque l’uomo, che pratica una così netta dissoluzione della forma a favore di una svolta che segni la storia intera dell’arte del ’900, avviandola al suo destino estetico? Alla videoart, alla performance, all’installazione, alla rarefazione della materia? Uno straniamento che è simile al risveglio perpetrato per la via del delirio, del fantasma, dell’illusione.
L’aggressività del gesto espresso in Fontana, non è dissimile dall’aggressività di una vita che tenta di uscire dal magma estatico di una condizione unicamente narcisistica. È un tentativo che persegue la via estetica, in una dinamica eroica, che possiamo “rileggere” ribaltando la tela, esaminandola dal di dentro e dal suo interno, dalla stessa parte da cui Bacon osserva i corpi degli uomini che ritrae. Giovanni Cucci e Andrea Monda, nel saggio L’arazzo rovesciato. L’enigma del male38, enunciano le caratteristiche dell’eroe, che sembra in qualche modo ricalcare il modello:

Percezione di ciò che sta capitando in termini di gravità etica; riconoscimento di un potere a disposizione; urgenza di un intervento da mettere in atto; il coraggio di attuare l’esigenza di giustizia. Inoltre l’eroe avrà l’autotrascendenza come capacità di comprendere l’avvenimento nella sua globalità, rendendo possibile la consapevolezza; e infine la capacità di essere «presenti al presente», la traduzione psicologica della vigilanza evangelica.

Quello spazio “oltre la linea” è la terra di una promessa estetica cui approda l’artista che sente una forte responsabilità, per il compito che gli è stato assegnato: rinnegare i maestri per approdare a una vitalità completamente rinnovata, in un desiderio idealizzante di unità e di unicità. La passione con cui opera è pari soltanto al controllo che gli necessita esercitare per non essere avviluppato dalla sua stessa natura, che è materia al pari di quella terra-madre che deve deturpare, di quella tela grezza su cui ha organizzato i primi segni ancestrali della sua arte. L’arma è affilata, il bordo cruento, lo sguardo aguzzo e pietrificato, saturo.

Parte III. “Di Passione e di Ombra”

Osservazioni Conclusive

Non è forse la massima sventura, quando si lotta contro Dio, quella di non essere vinti?
SIMONE WEIL, L’ombra e la grazia

Art is the triumph over chaos.
JOHN CHEEVER, The Stories of John Cheever, 1978

Alcuni grandi artisti dell’arte moderna hanno utilizzato un sistema simbolico-rappresentativo «importante», facendo ricorso anche al mito, nel tentativo di «comprendere» le dinamiche dell’aggressività, spiegarle, sottoporle ad interrogativo filosofico, psicologico, religioso, etico.

Nell’arte contemporanea l’artista sembra rinunciare alla propria funzione di «mediatore» tra istanze inconsce e realtà oggettiva, talvolta essere privo della forza psichica necessaria a gestire la tensione che è generata dall’essere contemporaneamente «mezzo» e «creatore», rinunciando alla dimensione religiosa e alla posizione filosofica che lo investirebbero oltre le sue possibilità. Il nichilismo del ’900 aggrava la sua condizione di impotenza, che spesso esprime attraverso un passaggio all’azione artistica trasferendo l’«istinto» in un sistema di «tracce» che afferiscono alla sfera concettuale, informale, linguistica. Il linguaggio dell’arte contemporanea tende quindi ad esprimere l’aggressività e la violenza applicando una ferita alla rappresentazione: con Picasso (e Les demoiselles d’Avignon, 1907) crolla il dominio della forma e ha inizio la grande trasformazione delle rappresentazioni, che si trasferiscono nel dominio della metaforizzazione. Impariamo dalla psicologia interpersonale di Romano Biancoli che

la passione di controllare non si placa mai, perché la sicurezza che rincorre svanisce nel momento in cui è afferrata. Volendo agguantare la vita, ci si ritrova padroni solo di uno schema di vita. […] L’efficacia del controllo e la voluttà che esso procura stanno nell’alternarsi ottimale fra stretta della presa e suo allentamento. La passione del controllo si intensifica fino all’affacciarsi della morte e poi si ferma39.

La connotazione fortemente narcisista dell’arte contemporanea rende sempre più improbabili i processi di identificazione che stanno alla base della visione e re-visione della dimensione creativa. L’opera d’arte cede il posto alla performance e all’arte informatizzata e multimediale. La perdita massiva della quota «concreta» che caratterizza questo attuale e complesso «mondo» iper-comunicativo necessità di una risposta da parte dell’Uomo.
L’Io, la Coscienza, necessitano di un campo visivo, relazionale, di movimento e di linguaggio che riportino ad una condizione primaria e primigenia l’espressione concreta del mondo delle rappresentazioni. La società contemporanea ha esploso il rimosso del corpo attraverso una particolare forma di psicodramma che vede protagonista la superficie corporea e il mondo delle relazioni sessuali come unici scenari disponibili al ritorno delle rappresentazioni.
La costellazione di Ombra che si delinea apre ad orizzonti che richiedono amplificazioni dell’analisi della funzione trascendente nella psicologia dell’artista e nelle dinamiche interne all’arte contemporanea. Il narcisismo sociale e individuale, tematiche di una vastità estrema, che mettono timore e tremore.

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1Metamorphoseon libri XV, poema epico in latino scritto tra il 2 e l’8 d.C., libro III.
2 G. DELEUZE, Francis Bacon. La logica della sensazione, pp. 29-31. Quod Libet, Macerata 1995 (ed. originale: Francis Bacon. La logique de la sensation, Éditions de la différence, Parigi 1981).
3 Deleuze si riferisce a Bacon, quando si chiede perché Velàzquez poteva restare tanto vicino alla “figurazione”. E risponde che, da un lato, la foto non esisteva ancora e, dall’altro, la pittura era legata a un sentimento religioso, sia pure vago, in Conversazioni, ovvero La brutalità delle cose: conversazioni con David Sylvester, di Francis Bacon, nei “Quaderni Pier Paolo Pasolini”, Editore Associazione Fondo Pier Paolo Pasolini, 1991, pp. 26-27 (David Sylvester, The Brutality of Fact: Interviews with Francis Bacon 1962-1979). Gilles Deleuze dice inoltre a questo proposito: «E quando Bacon, per parte sua, parla della foto e del rapporto fotografia-pittura, dice qualcosa di molto più profondo», in Francis Bacon Logica della sensazione, op. cit., p. 29.
4 F. ORLANDO, Costanti tematiche, varianti estetiche e precedenti storici, p. XII, saggio introduttivo a M. PRAZ (1930), La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, Bur, RCS, Milano 20092 .
5 Ibidem.
6 C.G. JUNG (1967), Opere Complete, vol. XIII par. 54, p. 47. Ed. italiana a cura di L. AURIGEMMA, Bollati Boringheri, Torino 1966-2007.
7 Nel 1966, nel saggio Forme e trasformazioni del narcisismo, Kohut sostiene che «L’antitesi del narcisismo non è la relazione oggettuale, ma l’amore oggettuale. Una profusione di relazioni oggettuali può occultare l’esperienza narcisistica del mondo oggettuale, mentre l’apparente isolamento può essere lo scenario per una quantità di investimenti oggettuali abituali».
8 H. KOUTH (1957), La ricerca del Sé, Bollati Boringhieri, Torino 2005 (Death in Venice by Thomas Mann. A story about the disintegration of artistic sublimation, Psychoanal Q, n° 26, pp. 206-228).
9 H. KOUTH (1971), Narcisismo e analisi del Sé, trad.it. Bollati Boringhieri, Torino 1976.
10 R. ROSSI, L. ATTOLINI, L’arte del guarire o guarire con l’arte, Revue des Littératures de l’Union Européenne, n. 6, 2007, pp. 73-83. www.rilune.org
11 Tratto da I. BATTAGLINI, La memento mori di Andy Warhol. Frontieradipagine_magazine on line. Polo Psicodinamiche, Prato 2014
12 A. DANTO, Quotidianità e sacralità nell’arte di Andy Warhol, in G. MERCURIO (a cura di), Andy Warhol. Pentiti e non peccare più! (Repent and sin no more!), SkieaMilano, Skira, 2006.

13 T. ANDINA, Arthur Danto. The Abuse of Beauty, 2003, in “2R – Rivista di Recensioni Filosofiche”, vol. 6, 2007.
14 Cfr.: H.S. BECKER, I mondi dell’arte, ed. italiana a cura di M. Sassatelli, Il Mulino, Bologna 2004.
15 D. MELTZER, Sinceridad y otros trabajos, Spartia, Buones Aires, 1997, p. 493.
16 D. MELTZER, M. HARRIS WILLIAMS (1988), The Apprehension of Beauty. The Role of Aesthetic Conflict in Development, Art and Violence. London: The Roland Harris Educational Trust [trad. it. Amore e timore della bellezza: il ruolo del conflitto estetico in sviluppo, l’arte e la violenza. Roma: Borla, 1989].
17 Tratto da I. BATTAGLINI, op. cit., 2014.
18Tratto da I. BATTAGLINI, Il gesto in piena di Cy Twombly, Frontieradipagine_magazine on line. Polo Psicodinamiche, Prato 2013.
19 Cfr.: C. MCCARTHY, Oltre il confine, Einaudi, Torino 2006.
20 A. GUGGENBÜHL-CRAIG, Il bene del male. Paradossi del senso comune, Moretti&Vitali, Bergamo 1998, pp. 27-28.
21 Tratto da I. BATTAGLINI, op. cit., 2013
22 Lyotard adopera la parola “figurale” come sostantivo, e per opporla a “figurativo”. Cfr: J.-F. LYOTARD, Discorso, figura (1971), Edizioni Unicopli, Milano 1988.
23 H. KOHUT, Potere, coraggio e narcisismo: psicologia e scienze umane, Astrolabio, Roma 1986, p. 123.
24 F. BACON, La brutalità delle cose. Conversazioni con David Sylvester, Quaderni Pier Paolo Pasolini, Garzanti, Milano 1991, p. 35.
25 G. DELEUZE, Francis Bacon. La logica della sensazione, pp. 117-125. Quod Libet, Macerata 1995 (ed. originale: Francis Bacon. La logique de la sensation, Éditions de la différence, Parigi 1981).
26 Ibidem.
27 P. MIGONE, il Concetto di Narcisismo, in Il ruolo terapeutico, Psicoterapia e Scienze Umane, 1993, pp. 63-64.
28 K.TEIGE, Il mercato dell’arte, in K. TEIGE, Il mercato dell’arte. L’arte tra capitalismo e rivoluzione, a cura di G. PACINI, Einaudi Torino 1973, p. 12.
29 F. LYOTARD (1971), Discorso, figura, Edizioni Unicopli, Milano 1988.
30 X. NIBRANDT, La schiuma dell’inconscio. Un approccio lyotardiano alla deformazione negli autoritratti di Francis Bacon. Esercizi Filosofici 3, 2008, pp. 72-89.
31 «Per me l’arte è un’ossessione della vita e poiché siamo degli esseri umani, siamo noi il soggetto della nostra ossessione. Poi vengono gli animali e dopo ancora il paesaggio» (F. BACON, in D. SYLVESTER, 1991, p. 49).
32 Il giudizio di R. Alley è riportato, assieme alle circostanze del rinvenimento, nel quotidiano Daily Telegraph, 18 giugno 1998 (at http://www.francis-bacon.cx./newfound/bacon-stewart.html).
33 X. NIBRANDT, Op. cit.
34 G. DELEUZE, Francis Bacon. La logica della sensazione, pp. 184-185. Quod Libet, Macerata 1995 (ed. originale: Francis Bacon. La logique de la sensation, Éditions de la différence, Parigi 1981).
35 F. POLI, Fontana. Spazio e libertà, in “Arte”, mensile di arte, cultura, informazione, Aprile 2014, pp.70-76.
36 Ibidem.
37 M. ZAMBRANO (1945), La distruzione delle forme, in Dire Luce. Scritti sulla pittura, a cura di Carmen Del Valle, Bur, Milano 2013, pp. 49-64.
38 G. CUCCI, A. MONDA, L’arazzo rovesciato. L’enigma del male, Cittadella Editrice, Assisi 2010, pp. 135-136.
39 R. BIANCOLI, Controllo e creatività, Relazioni al convegno “Dalla necrofilia alla biofilia: linee per una psicoanalisi umanistica“, Firenze 1986.

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Irene Battaglini, 2014
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I contenuti di questo articolo sono parte integrante e sono pubblicati in versione tradotta sul Dynamic Psychiatry Intl Journal, Pinel Verlag Human Psychiatrie, Berlin.
Per gentile concessione della Prof.ssa Maria Ammon, Dap, Berlino, sono stati pubblicati on line in:
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