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I sentieri remoti di Umberto Piersanti

di Andrea Galgano 9 giugno 2015

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l’articolo sul sito di Marcos y Marcos editore

umbertopiersantiLa nuova raccolta poetica di Umberto Piersanti (1941), Nel folto dei sentieri, edita da Marcos y Marcos, conferma la sua mitografica percezione immaginativa che cadenza radici e sconfina in una panoramica visionaria intensa e suggestiva. È la tela memoriale che cede al sogno, imporpora i luoghi e lo spazio, nomina la realtà con visione e antichità solenne quasi cadenzata e protetta.
La dimensione temporale acquista, pertanto, un fondo e un folto, come in questo caso, in cui l’incanto, la scoscesa e terribile sua permanenza non si appropria di una remota e perduta affiliazione, ma diventa memoria incandescente in cui, come scrive Alessandro Moscè «[….] le Cesane, gli altipiani a sud di Urbino, le mura cittadine rinascimentali della città ducale del Montefeltro, i fossi, le erbe e il grano scheggiato dai colori dorati, confluiscono nella poetica di Piersanti, che include sempre un tempo remoto che domina la sua valle. Il mondo è animato da storie in cui non si distingue più, volontariamente, la realtà dal sogno, la dimensione per lo più domestica dalla memoria fenomenologica».
Accostandosi e decentrandosi rispetto alla rigogliosa ferialità di Bertolucci, come dice giustamente Moscè, la poesia di Piersanti concentra la rammemorazione labirintica, da un lato, nelle asperità e nel ricolmo dei paesaggi, dall’altro si avvicina a una dimensione di aperta sospensione e mistero aurorale: «e quella forma immensa / di bruno metallo o altro, / materia che trapassa le nubi / e cielo, verso il quadrante / scuro dove s’arresta l’aria / ed ogni luce ha fine, / come sospesi gli alberi / fermi nel lungo volo, / ma sono vere l’erbe / dentro perfette aiuole / che il compasso disegna / senza terra e radici, / senza linfa e sangue».
La poesia conosce la maturazione del tempo in tutte le sue forme, l’eco flebile e tenace di luoghi «che nel tempo assumono un rilievo antropomorfico nelle scene descritte, spesso notturne. Il microcosmo struggente non è mai appesantito da una pena, da una sopportazione. Se la vicina, “odiosamata” Recanati si muove intorno a soggetti e oggetti avviluppanti, Piersanti ama la memoria inviolata e ritrovata come spazio e risonanza. Opera su di sé un’aspra immedesimazione che brulica intorno, non solo raffigurata nella vegetazione, ma vagante nella nebbia di un alterno destino. Questa poetica si dipana dunque da una civiltà e dalla sua conservazione» (Alessandro Moscè).
Questa memoria inviolata diventa il poemetto che matura le pagine, raccoglie l’epica della folgorazione come novità di diario di bordo, dove la genga (l’argilla) racchiude la radura delle colline intorno a Urbino, e la viola d’inverno sgomenta «in questo stesso greppo / stento e scorticato, / un cespo di ciclamini, / il più tenace, riluceva nel gelo / fino a dicembre» e «il dono della nascita permane», scheggiando il non-tempo.
Esiste una invincibilità sotterranea dell’essere in questi panorami di visione assisi e trasognati, laddove l’esattezza luminosa è uno dei mezzi con cui toccare i lembi della realtà e delle stagioni, come improvvisa e felice intrusione: «lì, nella piana immensa / l’acqua affiora ovunque / tra le canne e l’erba, / nel mais fitto / e uguale passi lento, / nessuno nel cammino, / nemmeno un’ombra, / ma il canto delle rane / invade il cielo / e alla terra lo serra / e lo confonde, / di rado, molto di rado, / la voce dei non umani / è la più forte».
Ma ecco che la vita che si richiama e si riaffaccia in tutta la sua lucente povertà splendida: «la vita si riaffaccia, / quella umana, / passa una nave lunga, / con le luci, / e suoni e canti / e voci, tante voci, / ma tu non scorgi i volti / e le vicende, / nascoste le loro vite / osservi, anche tu nascosto / e riparato / già dorme al tuo ritorno / nel castello quella tenera / coppia che t’accolto, / lente le ore / passano precise, / dopo la marmellata con il burro / al grande parco scendi / sopra i muri, / tra i meli e le rose / passi e respiri».
L’impronta colma e irremissibile che tocca le sue vertigini ha cadenze epiche e magia rivelata. Osservazione che partecipa, sfiora la nascosta bellezza del mondo e la sua forza riparata e silente che chiama l’io a comporsi, a destarsi e a dirsi, come scrive Davide Rondoni: «I sentieri conducono tra memoria e futuro in un “aperto” (termine caro ai filosofi delle radure e dei boschi – certo, Heidegger ma qui occorre forse tenersi vicina la Zambrano) in cui la vita ci sgomenta e ridice la propria dura verità. La dice e ridice nell’animale che ghermito dall’aquila, «su per le gole del Furlo», «soffriva sgomento / e moriva in mezzo al cielo». Lo dice la figura del figlio, bloccato in un altro tempo, in sentieri che sembrano non andare da nessuna parte, Jacopo. Lo dicono certe sospensioni analoghe a momenti di grazia delle poesie di Carver, ad esempio, quando i tre, padre madre e figlio così irrefrenabile si fermano un istante intorno a un vaso con dei fiori ed è sera. Il vero della vita, il giusto della vita la poesia lo dice, con voce amara ma piena di incanti, in un Aperto minacciato dall’Assoluto, e in colloquio naturale mai esibito con i poeti che nella lettura del gran mistero della natura hanno messo a fuoco e affinato la loro voce, da Leopardi a Luzi».
La poesia di Piersanti ha l’incantagione solenne di un tempo maturato, solo apparentemente dissolto nel tempo che precede, forse un punto «dove tutto s’imbianca / e trascolora, / è un vento che non sai / da dove viene / e cancella e porta via / ogni figura, / anche il respiro / di quei forti buoi / che entra dentro l’aria e si dissolve / forse c’è un luogo / dove il vento le posa, / dove rimane incisa / ogni figura, / dove non c’’è gesto / e respiro che si perda, / un luogo che sia sbarrato / il tempo per l’eterno / di carne e d’erbe / lo vorrei impastato, / ma sono solo d’aria / le figure / e solo l’aria il tempo non dissolve» e in cui «la morbida estate / dentro noi resta, occhi e mani / riscalda, / il sangue e il cuore».
La geografia definita e nominata, la storia che lascia tracce, la memoria come conato d’essere, impiantano i residui originari dell’io nella contemplazione, nella novità, nelle pagine del passato fattesi abbaglio di sipari insostituibili che preannunciano metamorfosi: «ad altri, remoti / anni, questo muschio / lucente ci riporta, / all’età dei padri, / delle teneri madri / tra gli addobbi azzurri / delle feste, / uno ad uno caduti / lungo gli anni, / ora sono ombre / così spesse e vere, / figure dentro il sangue / che trasale».
La poesia avvicina la frastagliata voce della ferita, le stagioni dissonanti, la scia frantumata del silenzio, in cui la mitezza e la chiarezza del sacro appaiono come limine destinale: «quanta gioia ostinata / dentro ogni bruma, / infanzia tu sei / eterna epifania, / se spesso poi ti punge / con lunga spina / quei fuochi ancora illuminano / la strada».
E poi la figura del figlio Jacopo che alza la delicatezza stremata della sua presenza lieve, in cui «è senza requie il grido / che attraversa queste stanze / nuove / per te disposte / attorno alla tenera erba / chè ti consoli, / ma neppure la guardi e mai ti distendi […]» e «neanche l’acqua / la più chiara e fonda, / le pieghe non allevia / del tuo viso / così perfetto e disegnato / che il tuo male offende ma non piega».
Egli è sulla pista e cammina piano «poi corre, si ferma, / barcolla un poco, / segue la brioche / che hai nella mano, / è il suo vessillo unico e imperioso, / più del suo pianto / è il riso che t’inquieta, / stridulo e assurdo / nessuno lo decifra».
La perdita e l’inaugurazione memoriale si appropriano delle fedeltà alla parola vivente come rivelazione ancestrale (Aspettando l’inverno (su per la gola del Furlo)). Vi è una stanza memoriale segreta e ostinata che non cede, non permane nelle bruciature remote e, ancora una volta, come sospensione lirica di tutta la sua poesia, una estrema epifania che rivela e dischiude: «sì, mi restano / la casa e le figure / nella mia macchia persa / la più lontana, / quell’odore dell’acqua, / di muschio e raganella / verde e bagnato, / l’antico scalzo e biondo / che lento s’incammina / verso le nubi / dopo il ricordo cede, / i fotogrammi tutti / sono bruciati, / ma qualche brano resta […] oggi c’è molta luce / nella macchia, / vengono fuori bisce / al primo raggio, / tra le foglie cammino / intorpidito / come quella lumaca / dentro l’erbe / che il ragazzo toglie / da una scatola buia / e ripenso a quel giorno, / un giorno non come un altro / della vita».
Tutto il diorama di Piersanti possiede la pienezza elementare, in quanto gioia ombrata di elementi. Sono luoghi decifrati che spaziano, paesaggi e quadri in cui «oggi / in questi prati passo con una donna e un figlio, / un figlio che non guarda / e non t’ascolta, / a queste luci e rami / indifferente / abita una contrada senza erbe e fiori / e non c’è nessun altro nella sua strada / ma lui avverte gli evi i più lontani / il tempo che precede alberi e pietre».
Lo stupore del mondo, che crepita nelle erbe, permane e induce trasformazioni, si addentra nell’amore sperduto e adolescente («remota primavera / fatta eterna, / nella corsa degli anni / persa e oscurata, / ma poi ritorna, / a tratti, / e non sai come»), scavato nella dissolta fuga degli anni, nella ricerca del volto eterno, il più fragile e fugace incontro lungo il crepuscolo che si spegne e fa trasalire il sangue: «nel buio che s’annuncia / conviene perdersi, / i sentieri tra i campi / sono infiniti, / la fonte sta ovunque / o in nessun luogo / scendono per i greppi / le rane a balzi, / forse non hanno meta / forse è smarrita, / tu le guardi, / pensi / quant’è dolce / perdere la strada».
Piersanti descrive la sua terra in ogni minuzia lucente e in ogni nomenclatura: la terra appenninica, Urbino, il mare Adriatico rischiarano la loro bellezza interminabile e la loro rigogliosa pienezza. Sono linee di luoghi reinventati e barlumi poematici che spingono arcaicità ancestrali e ritornano alla fonte e dove, le Cesane, luogo-segno vicino a Urbino, riscrivono in ogni istante il loro tempo di stelle rischiarate e mute come tratto di genesi.
L’io che si confonde nella tonalità delle sue figure (padre-figlio-poeta) viene rappresentato nella descrizione del sogno del cavaliere che recupera la scena di un quadro di Raffaello del 1503-1504, il Sogno del cavaliere.
Il cavaliere che sogna, addormentato sullo scudo e vegliato da Virtù e Piacere, «sospeso sugli arcioni / s’allontana / in quella strada bianca / e infinita / tra verdissimi colli, / rade case / e d’umani mattoni / le antiche logge» deve affrontare il proprio cammino: è l’uomo-padre-poeta «nell’Aperto che mi cerchia» che riconosce le sue colline che «salgono in fitta cerchia / fino al Petrano» e un cigno, fugace e chiaro, rimane negli occhi sospeso e fermo «su quella riga / che non passa / dove accende la luce / aria e foglie, / e dietro il promontorio / mai s’avvia».
In quel punto preciso c’è un luogo che attende, come un segnale, la realtà che chiama, come una patria che sta sempre oltre il confine: «ma questa è un’illusione, / la più tenace / che per tante stagioni / t’ha accompagnato, / e sogna il cavaliere / la bianca strada, / un luogo non l’attende, / il suo cammino / un cammino eterno e infinito».

Nel-folto-dei-sentieri_prima-300x480-187x300UMBERTO PIERSANTI, Nel folto dei sentieri, Marcos y Marcos, Milano 2015, pp. 240, euro 17.

PIERSANTI U., Nel folto dei sentieri, Marcos Y Marcos, Milano 2015.
BUTRINI N., Nel folto dei sentieri, camminando nel tempo, in “Il Tempo”, 10 aprile 2015.
DEMI C., Poesia con Umberto Piersanti: nel folto dei sentieri (http://www.altritaliani.net/spip.php?page=article&id_article=2256).
MOSCÈ A., Umberto Piersanti e le selvatiche visioni, (http://poesia.blog.rainews.it/2015/05/05/umberto-piersanti-nel-folto-dei-sentieri/) 5 maggio 2015.
NICCOLINI L., Il poeta Umberto Piersanti presenta “Nel folto dei sentieri”,(http://www.corriereadriatico.it/SPETTACOLI/poeta_umberto_piersanti_libro_nel_folto_dei_sentieri/notizie/1388754.shtml), 2 giugno 2015.
PAZZI R., La formula lirica di Piersanti, in “Il Resto del Carlino”, 10 maggio 2015.
RONDONI D., Fra realtà e visioni la lirica della vita nei versi di Piersanti, in “Avvenire”, 15 maggio 2015.

Le origini di Giancarlo Pontiggia

di Andrea Galgano 7 maggio 2015

leggi in pdf LE ORIGINI DI GIANCARLO PONTIGGIA

giancarlo-pontiggia-1-300x225Nell’introduzione a Origini. Poesie 1998-2010, edito da Interlinea, che raccoglie il corpus poetico di Giancarlo Pontiggia, Carlo Sini scrive che: «[…] un’autobiografia poetica è sempre, per profonda necessità, anche storia della vita e storia della terra, del nome e del senza nome, del travaglio del tempo e della sua eterna salvezza, storia di questo azzurro del cielo che è insieme quello di sempre come quello di un milione di anni fa», e il destino dell’effimero è «nel suo abbraccio con l’incircoscrivibile circolo del mondo, con la verità del più profondo destino, perché «sempre / la vita ha il suo ritorno»: è proprio così è, ogni volta, una volta per sempre».
La poesia e la lingua di Giancarlo Pontiggia «rovista», come scrive Alessandro Moscè, «nelle immagini opache, nel travaglio della memoria, nei guizzi improvvisi di luce, nella simbologia delle ombre che tengono insieme la vita, ogni vita, e che consegnano un eterno ritorno dove la plasticità delle forme si dissolve rapidamente. In ogni testo, rigoroso nella costruzione e nella rastremazione dei vocaboli, il canto si riproduce nel mezzo di un’atmosfera decadente che sfuma e che accoglie un’eco remota, arcaica (una “brunitura arcaizzante”, scrive Massimo Raffaeli)».
Questa rastremazione è il frutto di una remota e intermittente rivelazione del tempo che diviene labirinto di spasimo e ritrovamento, traccia discosta e segno, ferita, appropriazione. L’insorgenza della memoria, se da un lato si impossessa della più feconda germinazione de presente, dall’altro fronteggia la perdita come muto grumo e celamento.
La poesia deve recuperare questo spigolo di ombre lontane e tempo rifratto, come scrive giustamente Roberta Bertozzi: «Pontiggia sente innanzitutto il bisogno di tracciare un confine di dicibilità, un compito, una direttrice espressiva, anche divergendo dal coevo panorama letterario, diviso in quegli anni fra le prove di un’avanguardia ormai fossilizzata nella sua maniera e l’affermarsi di un minimalismo lirico in bilico tra rinascenza orfica e dettato prosastico […]».
La sua nitidezza è esito aureo di pacatezza, ricerca l’armonia riferente e la trasparenza che colori l’opaca fessura della realtà, in cui l’inserto degli affetti e dei ricordi possa tralucere in tutta la sua estrema verbalità.
Sin dalla sua prima raccolta Con parole remote (1998), la stretta esigenza di un recupero memoriale e di uno scrupolo rammemorativo non si nutre soltanto di una insolvente traccia irrecuperabile ma questa rarità di tempo sfogliato «spuma», come annota ancora Alessandro Moscè, «nell’incalzante ombra: una rifrazione, un’anamorfosi che permette di collocarlo solo in una polverosa esistenza di secoli che si raggruppano indistintamente, tra detto e non detto. Un’esistenza irrelata, con una campionatura che fa dell’uomo una comparsa e niente di più. È appunto il tempo, con le sue visitazioni, che risulta un incubo, ma anche uno sprone alla riflessione negli inserti del discorso indiretto. Il comando delle cose è l’estremo sentire del frammento, il responso della classicità di Pontiggia».
Nell’incipit della prima silloge, la disposizione espressiva ripristina la sua metafisica chiaroscurale, intercetta la sacralità del reale, si innerva nelle pieghe del vivente con sottaciuta sequenza recitativa e umbratile: «Vieni ombra / ombra vieni / ombra ombra / vieni oh vieni, buia / Sali tra i gradini, nel tempo […] con ogni doglia, con tutte le furie / con ciò che nell’ombra si sfoglia / con quel che nell’ombra spuma / Ombra vieni / ombra ombra / vieni ombra / nel vento nel vento / nel greve tormento / vieni oh vieni tra i numeri, nel fuoco / diventa canto roco».
La nominazione dell’ombra appare come una incrociata dissolvenza figurata, ruba tregue come un confine mobile, in una oscillazione di fuoco e di buio avito. La fascinazione di Pontiggia si alimenta costeggiando stanze ombrose e riparate, sente la potenza enigmatica del suo pensiero spaesante che si fa meditazione immaginosa e lucente, come scura crepa.
I confini del tempo dei nomi, i segni che si disegnano, il canto non depauperato e visitato, stabiliscono il loro comando e responso, come un limite e frammento stremato di ombre e fiamme: «con queste parole / e non altre / dette nel cuore di un’estate / compiute, ripetute e celate / sopra la terra e in ogni stagione / restituitemi / salvo e incolume / nel senso che do alle mie parole / in quel senso solitario con cui voglio / che vengano dette, / ascoltate e pensate / e per voi / tra i lari delle stanze e dei giardini / tra gli spigoli del mondo».
Queste spigolature di tempo raccolgono le epifanie azzurre, le porosità fuggenti e infrante dell’essere che appare in tutta la sua vivida incisione e mancata decifrazione: «epifania di azzurro / altissimo e fuggente, quando / un tempo appare, compagno / di più forti memorie, / per voi, nel cuore / di un nuovo giugno / di un anno che si infrange contro / il tempo, il secolo, un tempo / che non è più tempo, mentre / alte ombre s’addensano, scure / ombre ombre, in una stazione / del mondo, nella povere / di un antico responso / io, per voi, anno / dopo anno, su un orlo / di stanze fruscianti».
Commenta Roberta Bertozzi: «Il contatto con questa istanza originaria, con questo nodo «remoto», cioè relativo a un sostrato esistenziale e psichico che è riflesso, contingente manifestazione di una più vasta antecedenza, sarà espresso nei versi sempre nella modalità di un’epifania, codificata da tutto un corollario stabile di immagini. Lo sfarzo ceramico dei mesi estivi, la forza chiarificatrice della luce meridiana, il ritaglio spaziale che si gioca fra l’intrico degli ambienti domestici e lo slargo vertiginoso degli esterni – così come il rilievo cromatico degli elementi, solitamente disposto in serie binaria, in un alternarsi di ombre e azzurrità, di nero e oro – sono i concreti segnali dell’apertura di un varco, dell’ingresso del poeta in una diversa soglia, cui di frequente si accompagna uno stato di smarrimento personale, di soggettivo oblio».
L’ossessività del lessema temporale incela frammenti, li depone in una vasta estremità di orme invisibili, incide il suo silenzio di polvere. E i frammenti d’estate si fanno confini di ombre «nella polvere delle strade che svoltano / contro cieli alti», tutto, pertanto, promana nella visione di un baluginio di spaesamenti e paesaggi che si attestano tra sonno e veglia, tra fiammanti stupori come preghiera antica e increata, come scrive egli stesso su “Poesia e Spiritualità” del 2008: «Le parole della poesia sono sempre remote anche quando ci parlano di qualcosa che è qui, ora, nel tempo del nostro presente: sono remote perché richiedono una forma appartata, una disciplina della distanza, un tempo sospeso – dell’immaginazione e del pensiero – che sia in grado di scolpire verità decisive».
Tutte le forme della realtà vengono determinate dalla nominazione, dall’inno, dalla mimesi lucida che restituisce non solo impatto visivo ma fragranza di percezioni e lievi incrinature, disposte verso una prossimità che è insieme rigenerazione e creazione, segretezza e incrocio, palpebra e solco immemore.
Scrive Paolo Lagazzi: «La lontananza di questa lingua dal folto degli eventi è il modo stesso della sua libertà, della sua passione testimoniale, del suo desiderio di piegarsi verso i doni del passato – i volti di estati defunte, i «legni / di un antico fuoco» – per tradurli, per riportarli a un presente troppo spesso sigillato nella ferocia dell’oblio. Nascendo da un incontro con l’ombra, o con quel po’ di luce che resiste tra le braci di un tempo perduto, declinandosi per timbri filtrati ma non certo spenti, la raccolta è come una pellicola “in negativo” dell’esistenza, capace però di evocarne tutti i colori».
I confini di Pontiggia avvertono la propria finitudine, cercano l’oro e custodia numinosa, un salvo fuoco che risale l’ombra e inchioda la dualità passato-memoria in una sospensione di luci più grandi, in una invocazione deposta «su un’ara remota», dove tradurre «un cielo sconfitto / in rose di versi, in fuochi / solitari».
Massimo Raffaeli, soffermandosi sul flusso delle immagini, nota come: «Il libro di Pontiggia esce illeso dalla duplice ipoteca e trova una sua procedura sintattica, la sua verità, nel limite stretto che gli è dato dalla piena consapevolezza sia di non poter più avallare il decorso di un “io” esemplare sia dalla impossibilità di poter contare su un “tu” (o, tanto meno, su un “noi”), vale a dire su un orizzonte di attesa condiviso. Le parole sono dunque remote, lontane o rimosse, dall’orgoglio dell’autore come dalla certezza di un interlocutore, esse ritmano un flusso trattenendo immagini e figure la cui forza sta proprio nella loro certezza identitaria».
La postura elegiaca del tempo, pertanto, richiama le sue origini irrevocabili, recupera il colmo vuoto del passato in un apice algido che dicibile incerto, il «baluginante nero» di ciò che nell’esistenza brucia, nel battito di «forze» che «premono sul mondo / ed è giugno, è sera, e odoranti / selve di glicine dilagano / sul cotto dei muri; / o se, in un’altra / sera, di settembre aureo, / tra pioppi frondosi, nel succo / di un tempo che pare / fisso, ed è, mentre rosseggiano / le bacche delle traslucide / settembrine / senti / una vita ignota, / che urge; […]».
La sua scena primaria svela le mattine che si disf ano con il sole, la crescita dei meriggi ciechi e le buie ombre (ancora una volta) che indorano di vertigini la materia vivente e le cose e in cui « La fioritura, come l’alba, la ricorrente luce e l’ombra in agguato, conferiscono la caducità, la capitolazione dell’io». (Alessandro Moscè).
Il legno dolce del mondo, come il solstizio d’estate che ricorre nella sua equanime immagine solare, orla l’esultanza e l’esplosione della forma del vivere, in cui persino la nostalgia cede il passo e il potere a una malinconia persa, in un flusso che plasma, prefigurando le origini: «Per una volta ci occorre il miracolo, / la lingua intraducibile, il fuoco / che divampa sull’orlo dei campi / e non straripa; / per una volta sostiamo in un golfo / di more e di foglie, in un sonno / pomeridiano; / siete nel primo minuto, nel gonfio /ramo, alla svolta di un altro tempo, / in un’ansa più lenta, / nel centro».
Ed ecco che la parola si affranca dall’accennato buio, afferma il suo lascito di attriti e splendori, spoglia le «volte trascorrenti» e si attesta in uno sciame di estati accese, luce di meriggi e roghi, per essere argilla di tempo, robinia verdissima e presagio di voli.
Nella via dolorosa e virata di Bosco del tempo, egli raccoglie altezze sperdute e trascendenti: sono fantasmatiche espressioni ricolme che umidificano la memoria, la prendono in tutta la sua trama ordita che diviene immagine speculare di una lucente e rapinosa visione, che dilaga e si espande: «Fin qui gli sciami ronzanti / le volte / porose del cielo che si dilata, si espande / nella sera che brucia, e l’ombra / di azzurre mattine. Ma ora nuvole / basse e ferrigne, e acque / diluvianti, e il tempo / che s’impigra in scure / scure anse, e si dipana lento, / tra le forme del mondo che si cela. / Quanti autunni hai guardato, e quante / foglie incartocciate, che danno / addio ai loro rami, quante, / mentre Orione ruotava intorno / allo zenit, e il mare, freddo, / rumoreggiava?».
Scrive Daniele Piccini: «Il tempo e le sue boscosità, la tradizione e le sue campiture sono affrontate come misteriosi anfratti, in cui ancora può generarsi l’alone di una parola sonante e potente, tuttavia più consciamente immersa nell’agone del mondo e nell’evocazione della vita presente, qui e ora, nella sua fuggente e fiammante presenza».
La «stirpe fuggente dei sogni» si concede alla brevità spaesata e allo sgomento onirico, e di nuovo l’ombra procede nella sua straziata soglia e nella febbre delle verdi foglie dell’infanzia taciuta: «Sotto questo azzurro, vedi, lo stesso / di un milione di anni fa, nell’ombra / che sconfina, ruvida, eguale, non sentivi, / fanciullo dolce, troppo educato, una vertigine / scura, dura, una febbre di verdi foglie / sulla tua fragile (troppo fragile) nuca?»
Commenta Moscè: «Non c’è germe assolutizzante in Pontiggia, ma come riferito, l’ansia di infinito induce a puntare gli occhi in alto e a tremare, fino a che l’“ombroso dove” sposa un certo neo romanticismo, un’inquietudine perturbante nel proseguo del processo poetico. Si rintracciano elementi riconducibili al sehnsucht di derivazione tedesca traducibile come desiderio che sperimenta l’uomo nei confronti dell’infinito e che rivela un malessere struggente, che si rifugia nell’interiorità che supera lo spazio-tempo».
Lo spazio minimo del poeta è tempo raro, fiato dell’essere e domanda oltre il vuoto. Ecco la nudità cosmica del tempo, la lunga estate, il silenzio dell’infanzia: «Eppure un cielo era sempre / cielo / e il nome della notte / notte. S’impaludava, il tempo, / tra canne, vampe, e afrori / di un’estate lunghissima, / inaudita. Taceva, l’infanzia, / come un sito troppo impervio, / ostile. Chi passasse di lì, per caso, / trasecolava, come per una / cima inviolata, o un letto di fiume / disseccato».
Il sigillo del reale ha una lenta precipitosità e sembra sfaldarsi nel tempo della sua ombra buia. E appartengono a questa oscura fecondità i poeti latini amati, scrutatori di un gesto poetico domestico e visionario, che insegue il solitario spazio, richiamato, dell’anima.
Sostiene Alessandro Carrera che: «Nel Bosco del tempo, le sezioni L’infanzia tace e Severa adolescenza, ad esempio, sembrano lottare precisamente contro il più grande avversario del poeta, che è il poeta stesso, la costruzione del suo sé, l’edificio ingombrante edificato con i mattoni del suo passato e dei suoi sentimenti perduti, che dovrebbero morire e non muoiono mai perché la poesia non li lascia sprofondare nella terra, anzi li va a riesumare con picche e con vanghe, colorando la loro esumazione di una illusoria luce dorata».
L’accumulo del tempo repertato ha folgorato l’inazione della precedente silloge in una labirintica e puntuale presentificazione del reale e attraverso una elegiaca chiusura dell’inverno sull’esplosione cromatica dell’estate. La ciclicità dell’anima, pertanto, si dispiega nelle cromature stagionali e nel perenne disvelamento del destino. L’inverno spoglia l’oro ancestrale e radioso, la temporalità diviene «vento fermo, una / clessidra sospesa», il per sempre è mai più, ciò che era prima sarà dopo: «Novembre, con le piogge, era un cielo / grigio, cupo, che fiottava. Sopra / di me una luce stagnava, algida, molle: / un fuoco iroso, strano. Sbattevano, ai vetri, / le ali scure, ansiose / di uno stormo in cammino: tra le stanze / chiuse, senza nome, covavano / i miei pensieri, come, / tra le doghe, un vino / dolcissimo, inaudito».
Annota Massimo Morasso: «Ma c’è un rovello continuo, dentro al tempo, che Pontiggia non si stanca di pungolare – la relazione fra il tempo e la sua assenza, l’apparente opposizione, cioè, fra il tempo che disfa e il tempo, o i tempi, o, forse, meglio, i non-tempi, dell’eterno. Si tratta di un rovello maniacale, però mai sopra le righe. Il piglio compostamente emozionato dell’ispirazione scompagina i termini dell’opposizione, ne attenua la portata dialettica; il richiamo all’infanzia e all’adolescenza non rinvia tanto al “ricordo” come schema della trasformazione del vissuto in oggetto salvifico della reminiscenza, quanto, come sembra, al bisogno di un’incessante drammatica ri-semantizzazione dello spazio».
Come accade nelle soste di questo strano bosco, la poesia frammentata di polvere e di oro disanellato allontana l’antico sogno che si annunciava. Ci sono le foglie che scricchiano e i cuori che ghiacciano: «Per me che sognavo / una parola sola / (una ferma corazza, una beata viola) / solo polvere e frammenti, disanellati / ori. / Non è per voi questo tempo / o troppo quieti, o mesti / nomi: al gelo che si annuncia / scricchiano anche le foglie, / ghiacciano i cuori».
Il clinamen della poesia di Pontiggia oscilla nei trapassi delle stagioni, esprimendo non solo l’angoscia prostrata o l’inquietudine, ma anche la vastità dello sguardo, la sua ricchezza, il giardino che disgela le prigionie e il nuovo insorgere beato della vita.
Dai Canti di Boréa e i regni di luce e di cristallo dell’inverno minerale, «la voce che parla nel Bosco spazia sulle tracce del tempo perduto […] per contemplarlo come un tempo ritrovato, per farcene sentire gli aromi, le ferite e i doni, per rilanciarne verso il cielo dei sogni i segreti e gli arcobaleni, le febbri gloriose e le nevi smemoranti, o anche per risvegliare in esso il sentimento dell’ “altro”, l’incontro con quel regno di fantasmi e visioni, con quel “delirio” che è uno dei semi decisivi dlela poesia”» (Paolo Lagazzi).
Le vie polverose, i miti, l’Arcadia, gli sprofondamenti erratici e ombrosi del sogno (riverberi della vita vissuta) e delle ore frananti, divengono collezioni di bellezza aurorale, mondo infimo e tessuto onirico incarnato «sul quieto rame / del giorno» dove «il cielo / era un liquido sentiero» e il mare corrucciato nella falce della baia.
Le epifanie di Pontiggia trasformano la materia dell’esistente e dell’esistenza in scuro miele, la datità nuda e scarna del reale in una frondosa e incessante vibrazione. Il mondo diviene il punto tutelare e naufragante, affinchè la poesia possa celarsi e diventare «ombra, foglia, buia porta».
L’attimo invocato, distinto e rimpianto, permette prospettive rovesciate e punta lo sguardo, come dice puntualmente Massimo Morasso, «sulla quintessenza della realtà».
Commenta infatti Moscè: « Pontiggia ricerca la conoscenza di portata universale, leopardiana, la comprensione di ciò che è leggibile in un’abitudine, in una fruizione tramandata, in una dedizione alla sensibilità del luogo, degli anni che attraversano l’ambiente domestico per un nuovo cominciamento. La risonanza universale offre dati esterni, un connotato di intimità, una sincronia tra questi livelli e l’identificazione dell’uomo con le vaghe atmosfere, mai consolatorie, che spingono ad elaborare consuntivi provvisori. Il tempo fisso è quasi sempre stordito, infranto. La realtà non è una scena esteriore, ma una foggia scavata, un pathos dolce, disperso, un’esperienza purificata, una luce di passione che si contorna di ombre, di graffiti».
Molti sono gli esempi lucenti, intrisi di luce profetica e visionaria che recano, in modo imperituro, il sigillo di una coltre distillata: «L’aria s’imbruna, allora, / nella sera vermiglia, stormente, / e d’altri / venti, premonitrice, sente / l’anima il suono velato, materna-/ mente operoso. O grembi, o foglie / di un tempo generoso, io m’inoltro / per vie straniere, disusate: siete / il miele che distilla una quieta / pace, e il tempo, forte, che lo affina», o ancora: «Cieli, tempi, cose – ori / ombrosi della mente. Come in un’anfora / scaldata dal sole, tutto / fu veduto in un lampo / da un pertugio di fiamme / sopite. Anche tu, che guardi / dal di fuori: e sei dentro, invece: dentro / la notte che contempli, notte / della sua luce, luce / in cui ti annienti».

Pontiggia-Origini-180GIANCARLO PONTIGGIA, Origini. Poesie 1998-2010, Interlinea, Novara 2015, euro 24.

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La verde promessa di Franco Fortini

di Andrea Galgano 8 aprile 2015

leggi in pdf  LA VERDE PROMESSA DI FRANCO FORTINI

Franco20FortiniFranco Fortini (1917-1994) ha concretato, nel suo gorgo poetico, un profondo e difettivo abitato neorealistico, che appare come una «limpida esperienza civile, una mai sopita interrogazione del futuro effettuata in chiave etica, una ricerca di senso condotta non tanto nel riposo della natura, piuttosto nel mare aperto delle idee o nell’incalzare dei fatti della Storia» (Giuseppe Lupo).
Egli, pertanto,come scrive Matteo Marchesini «con le sue allegorie composte e atroci, propone un’arte retorica straniante ma nitida, ricca di stratificazioni ma priva di aloni, e raggelata da un rigoroso scavo razionale: cioè una poesia che esige un difficile esercizio di intelligenza ostinandosi a tenere acrobaticamente insieme marxismo e alta cultura, mentre le loro sorti si separavano in modo irreparabile».
L’interrogazione del tempo si innerva pienamente nel processo letterario, in cui l’indagine e l’analisi sociale si rivolgono, partendo da un minimo tessuto individuale, a una lotta radicale, come afferma Raboni e alla necessità dell’inno e della lamentazione assurti a valori e ideali compositi e a coscienze congiunte.
Scrive Edoardo Esposito: «Eppure non si può negare che, della poesia e del proprio stesso percorso attraverso la poesia, Fortini tendesse di fatto a privilegiare i momenti che più esplicitamente la collegavano al versante della riflessione critica ed eventualmente della denuncia politica, e a svalutare quanto invece permanesse sul più intimo piano della confessione, dell’elegia, e diciamo pure della consolazione».
Già nella prima raccolta Foglio di via (1946), la vitalità del registro espressivo e la sperimentazione fanno i conti con una nuova esegesi della realtà, ammainata nel disincanto: «Il passato vi è reinterpretato», annota Luca Lenzini, «alla luce dell’esperienza e della consapevolezza della posta in gioco nel conflitto (nonché dei limiti del proprio bagaglio culturale): la guerra, le sofferenze inflitte alla popolazione, gli incontri con i propri simili di ogni condizione e fede, l’abisso che separa chi comanda e chi combatte e muore: tutto questo, insieme alla solidarietà e agli ideali che si fanno azione, e al ripensamento della stessa storia della nazione a partire dai suoi contraddittori fondamenti, forma il nucleo drammatico e incalzante intorno al quale coagulano i fermenti intellettuali ed etici del libro d’esordio».
Le tre sezioni del libro si aprono ai richiami elegiaci e striduli di un assedio linguistico, in cui la parola proclamava la sua profonda densità e il suo fondo evocativo, in cui l’elegia lucente e dissolta congeda la bufera dei mormorii.
L’isolamento, la spettrale compagnia della morte, il viaggio-paesaggio risultano essere lo stigma di un io aperto che si imbatte nella sua vittimologia carnefice, nei segni feriti della Storia, nella scarsezza dolorosa di una poesia «spezzata fra l’esasperata vergogna del proprio status e la certezza – o cattiva coscienza – che mai come oggi» divengono gli strumenti per una diminuzione della “normalità infernale” della profezia rivolta al passato, al disperso cammino verso la ricerca della verità, laddove l’assolutezza e l’universalità si appropriano della sua pagina in modo progressivo.
Scrive Franco Gallo:

«Dunque la poesia è vergogna di sé. La vergogna, peraltro, è duplice. Come attività dispendiosa e lussuosa in un mondo pervaso da altri e più concreti bisogni, la poesia avvalla la diseguaglianza tra gli uomini che ne è condizione di possibilità e di esercizio. Come atto profondamente ricco di consapevolezza e di esperienza (carattere che mai Fortini le nega), è inoltre esercizio di libertà, ma a scapito di ben diversi atti di liberazione concreta che incalzano la coscienza morale. Mai la libertà della poesia (si badi bene: reale rasserenamento, autentica emancipazione) dovrebbe esercitarsi in mancanza della libertà dal bisogno dei nostri simili; mai la via soggettiva alla felicità ed all’autorealizzazione, incarnata dall’arte e sempre possibile, dovrebbe essere percorsa mentre la libertà fondamentale dal bisogno è negata a tanti di noi. Fortini rifiuta tuttavia di fare di questa condizione il segno di una deficienza strutturale ed incontrovertibile della poesia, di scorgervi una “legge catastrofica”. […] Fortini va pertanto in cerca di una poesia pensosamente distruttrice, capace di celebrare il distacco luttuoso dalla tradizione (Fortini liquida sia le identità del poeta che le funzioni della scrittura consegnateci dall’esperienza letteraria moderna) come un gesto di liberazione tanto necessario quanto enorme. Permanente è il richiamo di Fortini alla vera natura della poesia, realizzatasi in tempi lontani nella misura classica, come contemplazione della natura distaccata dal dolore, propria di un’umanità privilegiata. Questo, e non altro, sembra essere l’unico importo possibile della pratica poetica ed insieme il suo limite strutturale: poter cogliere la pienezza della natura, e reinserirvi l’uomo e la sua vicenda solo per perderne la concretezza soggettiva e storica; individuare le costanti della condizione umana, al prezzo di storicizzarle e farle oggetto di una sapienza consolatrice, tanto presente nell’ultimo Fortini, ma, io credo, nella forma ironica della denuncia della sua impotenza a dire l’uomo reale, il tu di fronte a ciascuno che è soggetto di una domanda concreta e non caso dell’universale essenza umana».

La melodia rotta del tempo si svuota nella registrazione di una omologazione imminente, come profezia indicibile, come svalutazione di forze. Fortini sente l’esigenza di una parola che sia impegno intellettuale, rendicontazione del disequilibrio tragico del vivente e della sua anarchia, e infine sia ritorsione e superamento. È un fallimento e una insufficienza che portano, inevitabilmente, al frammento come strada percorribile, pur con tutta la sua ossimorica insicurezza: «Dunque nulla di nuovo da questa altezza / Dove ancora un poco senza guardare si parla / E nei capelli il vento cala la sera. / Dunque nessun cammino per discendere / Se non questo del nord dove il sole non tocca / E sono d’acqua i rami degli alberi. / Dunque fra poco senza parole la bocca. / E questa sera saremo in fondo alla valle / dove le feste han spento tutte le lampade. / Dove una folla tace e gli amici non riconoscono».
L’esito di una irreversibilità di sfondi, in cui l’«accento è quello del dovere e della necessità, non consente diversioni e scandisce un appello ultimativo, scolpito a vista nella scoscesa parete della storia di tutti» (Luca Lenzini).
La realtà storica, come accade in Italia 1942, Varsavia 1944 («E dopo verranno da te ancora una volta / a contarti a insegnarti a mentirti / e dopo verranno uomini senza cuore / a urlare forte libertà e giustizia / Ma tu ricorda popolo ucciso mio / libertà è quella che i santi scolpiscono sempre / per i deserti delle caverne in se stessi / statua d’Adamo, faticosamente»), Per un compagno ucciso, Valdossola: 16 ottobre 1944, Coro di deportati (Quando il ghiaccio striderà / dentro le rive verdi e romperanno / … Noi saremo lontani / Vorremmo tornare e guardare / carezzare il trifoglio dei prati / gli stipiti della casa nuova / piangere di pietà / dove passò nostra madre / invece saremo lontani), condensa il singhiozzo cancellato della realtà «tessuta di plebi» nel «vano nome antico», e la parola si fa pupilla di figli, laddove «la gemma s’aprirà / E la fonte parlerà come una volta. / Splenderai pietra sepolta / Nostro antico cuore umano / scheggia cruda legge nuda / All’occhio del cielo lontano».
La pena in piena di Fortini si sofferma sulla liberazione e sulla consolazione disillusa, invoca la conquista territoriale dell’esistenza come origine di stagioni perdute e passato epico-sacrale irrevocabile, in cui il suo soggiorno inquieto intreccia la forza del radicalismo, la sua inascoltata testimonianza, il suo antagonismo rivoluzionario palingenetico: «Dove ricercheremo noi le corone di fiori / le musiche dei violini e le fiaccole delle sere /… Ma il più distrutto destino è libertà. / Odora eterna la rosa sepolta. / Dove splendeva la nostra fedele letizia / altri ritroverà le corone di fiori».
«Essere fedeli alla rivoluzione», scrive Massimo Onofri, «significava anche giustificare la volontà di non essere capiti nel presente alienato per essere finalmente compresi nel futuro liberato […] Sicchè la domanda resta ineludibile: implosa l’idea stessa di rivoluzione, cosa potrebbe restare oggi di Fortini? […] il futuro della rivoluzione, sempre procrastinabile, e fissato nel suo eterno non-essere, consiste esattamente in quella luce, algida e inesorabile, che ci permette di vedere più lucidamente il presente per quel che è, gelido e livido, irredimibile e tristo».
La sua metrica si fa netta, l’espressività è vinta dalla disciplinata altezza oratoria: «La mano ha perduto la mano e la fronte è caduta. / Il cuore ha lasciato il cuore inerte. Passano / Sulla neve, ripassano, le sentinelle. / Lasciaci gli occhi, sonno, e il loro male nel buio / Finchè non cresca il giorno a riscuotere i visi / E a riconoscere i morti quel giorno non gridi / E fiamma e pianto invada la mano gelata».
La sua «gioia avvenire» richiama il suo stesso limite-scompenso, la sua miseria dove la «scuola della gioia è piena di pianto e sangue / Ma anche di eternità / E dalle bocche sparite dei santi / Come le siepi del marzo brillano le verità».
In Poesia ed errore (1959), la declinazione archetipica dell’errore si origina nel tarlo «che rode e corrompe la stoffa dei versi, genera macchie e ambiguità, confonde le piste del poeta che è obbligato a diventare complice o servo o traditore delle macchinazioni del potere, ad accettare e contemporaneamente a rifiutare le seduzioni che sono del suo status intellettuale, a comprendere di avere esigui margini di manovra se non obbedire alla condizione di «servo non inutile» (Deducant te angeli) o farsi «astuto come colomba» (dal titolo di un celebre capitolo di Verifica dei poteri, 1965)» (Giuseppe Lupo).
La figurale attrattiva biblica condensa il suo permeabile sostrato in una emancipazione di origini che diviene esito esule e autobiografia di generazione, nata da un’incertezza.
L’io tocca i suoi frammenti spaesati ed «è come se negli anni Cinquanta, venendo meno lo scenario storico del conflitto, con il suo portato d’immagini apocalittiche e l’avvento d’un tempo in cui scelta e destino si confrontavano direttamente, nella forma di un indifferibile aut aut, la poesia di Fortini subisse uno spaesamento, uno smottamento tanto profondo da essere “retroattivo”. L’accento epico che accompagnava il percorso dell’emancipazione […] mancava ora di appoggio nella dimensione e che gli era propria, la storia in atto; il tempo che la poesia aveva dinanzi si rivelava per il deserto di un differimento» (Luca Lenzini): «Se tu vorrai sapere / chi nei miei giorni sono stato, questo / di me ti potrò dire. / A una sorte mi posso assomigliare / che ho veduta nei campi: / l’uva che ai ricchi giorni di vendemmia / fu trovata immatura / ed i vendemmiatori non la colsero / e che poi nella vigna / smagrita dalle pene dell’inverno / non giunta alla dolcezza / non compiuta la macerano i venti».
La spoglia declinazione fortiniana proclama la sua endiadi che restituisce la gioia e il dolore intemporali, e l’affinamento poetico vive il dosso dello strazio, le stagioni risvegliate dell’inverno nei passi del sole («Mi risveglio dal sonno, è una notte d’inverno, / lontani sono i sogni, il libro è caduto, / non vengono i rumori sul vento della città») e la sua traversata, che restituisce le vicinanze e le pause, la città (Firenze) frusciata e sospesa, come stupefazione rievocata e segreta che scaglia e agghiaccia i suoi destini generali: «come nelle soffitte / alla quiete di un pomeriggio / perde un volume erbari vizzi, resti / di delicate vacanze, / o scorre dalla palma la sete d’una veste / che le danze animarono / guarderemo cadere dalla mente / e dalla mano / le serate che furono avvilite / e le spoglie di polvere» e «Stanche ma belle ancora / con noi le rivedremo / e a quelle ancora noi confideremo / le voci vagabonde, le vesti esili / (senza pena né fede / rispondendo al sorriso) / altri passi, altri moti».
La negazione esposta, come sostiene Luca Lenzini, imbeve il reperto immaginale di una pronta secchezza, in cui l’enunciazione, seguendo le linee di Brecht, promuove il suo gesto segnico in una stanza incisa («Scrivi mi dico, odia / chi con dolcezza guida al niente / gli uomini e le donne che con te si accompagnano / e credono di non sapere. Fra quelli dei nemici / scrivi anche il tuo nome. Il temporale / è sparito con enfasi. La natura / per imitare le battaglie è troppo debole. La poesia non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi»), in un margine libero («È tutto chiaro ormai, / le parole dei libri diventare / tutte vere. Tutti gli altri lo sanno. / T’hanno detto di fare due passi avanti / in mezzo al cortile d’acqua e vento, / di lumi gialli prima dell’alba») e in un ordine rovesciato: «Al vecchio che gira la macina / una vena si spezza nella pupilla / e il serpe è vicino alla culla. / Confuso nella paglia e nella polvere / è il sandalo di un profeta ridicolo», oppure, «Anche i morti non tornano più in sogno. / Chi ricordava confonde gli amici e i nemici / Quando all’orfano dici: «ho conosciuto tuo padre», / va via senza rispondere».
La negazione afferma il suo piano-sequenza in un primo riassunto di altri tempi, la solitudine del pianto superbo, la veduta che comprende le tempeste, perché, afferma ancora Luca Lenzini, «coinvolge il passato, incluso quello del poeta-profeta; ma, a sua volta, prelude alla contemplazione del paesaggio: un paesaggio non riconducibile a precise coordinate storico-geografiche, ma senza dubbio calato nel presente e delineato nello sguardo protratto […] di un io accomunato alla «gente» che quel paesaggio ha modificato, opera collettiva in cui si misura la presenza del Moderno in seno alla natura»: «Le notti lunghe di primavera le passo ormai / con moglie e figlio. Fragili alle tempie i capelli. / Vedo in sogno imprecise lacrime di una madre. / Sulle mura hanno mutato le grandi bandiere imperiali. / Vite di amici diventano spettri, non resisto a vederle. / In ira contro siepi di spade cerco una piccola poesia. / Non lamentarsi. Chino il capo. Non si può scrivere più. / Come acqua la luna illumina la mia veste oscura» (Dopo una strage).
L’innervamento nella sfera biologica della componente animale (serpente) dilata, simbolicamente, il processo dell’io in una meditazione sulla violenza latente, sull’accumulo di negazione e di disincanto che promette annullamento, ma rischiara di sfarzo politico «il buon uso dell’amore».
Scrive infatti Andrea Zanzotto: «Esiste in lui un rapporto mai venuto meno con quel momento della formazione dell’io in cui le parole […] si iscrivono nell’esperienza come violentissimo “fatto proprio”».
Se da un lato la passione dell’io pronuncia la sua sferzata elegia e la sua rivisitazione perduta, dall’altro, come accade in Questo muro (1973) la sua piena maturità scandisce le contorsioni allegoriche delle dilatazioni del presente, con cui egli ha il suo smisurato dialogo e «il lettore di questa poesia rimbalza dunque perigliosa mente fra una perturbante de-realizzazione del presente, ridotto a una serie di icone, e la lontananza di un futuro invocato con tanta più forza quanto è meno certo che si realizzi; in un certo senso solo il passato è vero, perché i valori allegorici e figurali che l’uomo vi ha accumulato lungo la fatica della storia, gli permettono di non morire» (P.V. Mengaldo).
I tagli sanguinosi, l’ordine e il disordine, il recupero dell’unità, attestano la retroguardia fortiniana in una condizione di staticità, in cui l’allegoria e la parabola, come annota Mengaldo, diramano vasti territori (rapporto vecchi-giovani, sconfitta-speranza, natura minimale), in cui egli sa che l’unica forza «è la gioia brevissima / la certezza sensibile che viene dopo tutto», attraverso un fitto rimando che diviene «ponte di passaggio fra un passato che dev’essere faticosamente recuperato coi suoi irrinunciabili valori simbolici («il passato stanchissimo») e un futuro verso il quale il presente si protende imperfettamente e che imperfettamente rappresenta»: «I furgoni dei rifiuti li chiudono a buio. / Il macellaio ritira dal marmo la carne. / Scampanano le gole dalle moli. / Lungo le vasche degli orti / il labbro delle lumache si stacca. / Si abbatte la fatica dei misteri inutili. / La quercia dal capo di gloria non sarà più. / Il ragazzo che profetava mentì. / Questo teatro è di spiriti accaniti che ti tengono le vesti ti baciano e tu li calpesti».
Scrive ancora Mengaldo: «Come sempre, anche Questo muro sta, e così vuole significare, in presenza della storia, ma per dirne soprattutto la trascendenza e la compiuta peccaminosità. Cresce anche il peso dell’autobiografia, ma come detta in paradosso, obliqua, cifrata. così la politicità, consustanziale a Fortini, si fa sempre più implicita, a volte quasi un rumore di fondo. La violenza storica è tanto più devastante quanto più la Storia è un Dio nascosto. Sono modi personali coi quali Fortini esprime la contraddizione, tipica di tutta la poesia moderna, fra continuità e discontinuità, detto e non detto, incarnazione e virtualità del significato. Ma queste contraddizioni in lui tanto più si esplicitano – o all’inverso si celano – in quanto alla chiusura in apparenza autosufficiente del testo corrisponde una specie di tangenza dei significati, che vi scorrono sopra piuttosto che incarnarvisi. E nessun messaggio,secondo Fortini, può significare per sé solo».
In Paesaggio con serpente (1984), che fa riferimento a Poussin, l’improbabile passaggio della cortina dell’io proteso verso il futuro, lo rapporta alla delusione di chi annota il registro storico degli avvenimenti e si interroga sul ruolo dell’intellettuale e della scrittura, che, come scrive Erminia Passannanti «[…] si emancipa da un universo di utopie, avendo ormai imparato a riconoscere i limiti che tale ambizione comporta – poeta polifonico, in cui coabitano singolarità e pluralità, quale adunanza di corpi e voci alleate o anche avverse, prese in un dialogo ostinato, proprio perché, per sua natura, il testo è sempre «sociale», «per sua origine quanto per sua destinazione, implicita o esplicita».
La delusione si appropria del suo cono d’ombra, vive l’urto della storia e dell’epoche buie e contorte, che racchiudono la loro stanza vivente e la palingenesi del tempo in una vitalità fatale: «La parola è questa: esiste la primavera, / la perfezione congiunta all’imperfetto. / Il fianco della barca asciutta beve / l’olio della vernice, il ragno trotta. / Diremo più tardi quello che deve essere detto. / per ora guardate la bella curva dell’oleandro, / i lampi della magnolia».
Una biscia, che corre tra l’erba alla sera, viene attaccata in volo da un animale volante. Fortini compone la sua allegoria, in uno iato scindibile di ordine e disordine: è il suo scorcio sulla realtà attraverso un atto comunicativo che riporta il testo al suo contesto che non dissotterra l’altrove, ma compone la sua coscienza precisa, in cui la peculiare condizione hegeliana dell’ uno «che in sé si separa e contraddice» si fissa, «finchè non sia più uno. E poi ritorni a esserlo, e ti porti via».
La necessità vitale dell’ordine scoperchia la sua scaturigine nella rappresentazione delle immagini, in cui lo «spettrale manierismo» abbraccia la luce obliqua dell’io, l’assenza interlocutiva e il gesto, dove tutto «si svela materiale e insieme irreale, concreto e mentale» (Luca Lenzini).
La condizione di Fortini, pertanto, celebra il mondo immaginale del ricordo in un contesto collettivo e doloroso, sollecitato da toni di puro espressionismo, attraverso lo sguardo dicotomico sulla compattezza del reale (e delle sue distanze) che «è là ma non vede una storia / Di sé o di altri. Non sa più chi sia / l’ostinato che a notte annera carte / coi segni di una lingua non più sua / e replica il suo errore. / È niente? È qualche cosa? / Una risposta a queste domande è dovuta. / La forza di luglio era grande. / Quando è passata, è passata l’estate. / Però l’estate non è tutto».
È la poesia distante che prende le distanze, «un ragionamento fatto in presenza di un sogno» che contrappone le forze e mette in scena il duro rapporto tra la antica primordialità e il rifiuto della mente, dove la poesia crea strade, indica percorribilità smosse che riscattano e salvano, finendo per mettere a fuoco il dramma dell’umanità tragica.
La contemporaneità percorsa da Fortini si afferma nel disagio impudente delle forze oppositive, concentra la scrittura in una meditata riflessione sulle soglie diamante: «La luna come cammina cammina / così ghiacciata. E senza la più piccola / ipotesi di sopravvivenza. Come è chiaro / che inutilmente il reale è simbolico. / Ma qualcosa ci distrarrà. Ci sarà caro / pensare a lepri in fuga sulla brina / e il gelo diabolico a picco e nel nero / la cristiana coperta sul capo».
Commenta Passannanti: «Non c’è modo più forte di attirare l’attenzione del lettore che presentagli dinanzi i segni residui della lotta tra il bene ed il male. Fortini, di conseguenza, ricorre alla simbologia del serpente così come emerge nelle arti figurative, laddove il rettile biblico non rappresenta solo la negatività del male primordiale come tentazione e caduta, ma anche, per contrasto, il suo magnetismo e fascino fuori dal ventre della Madre Terra».
Nel trauma della storia si riflette il suo ospizio ingrato, il suo dramma pastorale, l’oscura argomentazione del suo flusso poetico che risulta monologo esule e anelito di rivolta che abita la sua intima ferita tra Tasso, Shakespeare, Gongora, Milton, Poussin.
Composita solvantur (1994) è l’ultima raccolta di Fortini e raccoglie testi scritti e risistemati tra il 1984 e il 1993, poco prima di morire. È il crinale sospeso su un tempo, segnato da forti eventi storici: la caduta del Muro, la guerra del Golfo, la caduta dell’Urss.
L’espulsione del poeta dalla storia rappresenta la sua traccia perseguita, ne sente tutta la cruda propulsione: «si dissolva ciò che è composto, il disordine succeda all’ordine». È alchimia, geografia di una biografia senile che avverte su di sé tutta la perdita e l’oltranza di un emblema allusivo: «E mai non era nostra / la schiuma dello stagno / o il ruvido lentischio, nulla avevamo compreso, / non il sentiero, non il paese chiuso / dove non c’era anima viva / e tocca invano ai selci il passo / del segnato da Dio» o ancora: «Sopra questa pietra / posso ora fermarmi. Dico alcune parole / nello spazio vuoto preciso./ Le grandi storie / tentennano in sonno, vacillano / nelle teche i crani / dei poeti sovrani. / L’enigma verde ride la sua promessa».
L’epifania enigmatica della realtà avverte la sua condizione anti-storica e il vulnus della relegazione violenta, come un desolato grido o totalizzante abbandono all’assedio del dolore. Ma qui, pur non diminuendo le forti istanze indignate, la datità scarna ed essenziale di Fortini apre il suo spazio di dilemmi, abbozza una speranza, pronuncia rinunce, aumenta i suoi confini sfalsati e, infine, scioglie i suoi grumi: «La volta del cielo / piano si contrae, piano. La fiamma soave / illumina a lungo la sera, / le classi inesorabili dei pini, / le fila liquide che marzo / giù tra i sassi divide».
Scrive Mario Benedetti: «È messo dunque in campo un forte dubbio circa la consistenza della realtà e la legittimità della letteratura. Ma in ciò stesso si manifesta quel sentimento ultimo delle cose che caratterizza la raccolta: la caparbia, ultima conferma del loro appartenerci, nel sapere di essere completamente vincolati a questa terra, soli di fronte a un cielo, «dove il celeste posa in sè», che non si sa né si può interrogare. Emerge la resistenza di un uomo di fronte alla malattia e alla morte, alla privazione del futuro, della possibilità di cercare ancora nella storia, di modificarsi. […] È lo stare terminale della vita in una società […] Misurarsi con il limite invalicabile della morte, della fine significa venire ai ferri corti con il senso del nostro rapporto con la realtà, approdare alla testimonianza estrema dell’indissolubilità del vincolo che ad essa ci lega: ogni cosa si risolve in noi, ci appartiene, per il poco (ma è tutto) che può valere questa appartenenza. Il poeta si apre così all’esperienza della pietas».
La disattenta sconfitta della storia, la pietà per tutta l’esistenza vivente, il contatto minimo ed essenziale con le cose e il legame con le ultimità ambientano la sua ultima resistenza, fino proteggere la verità: «Ma prossima è la morte e a una immortale / Vita, chiusa la falsa, apre le porte, / Vita di vita e morte della morte. / Chi gli agi fugge per amar naufragi? / A chi, più del riposo, il viaggio piace / E il lungo errare è più dolce del porto?».

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L’eternità imprendibile di Dario Bellezza

di Andrea Galgano 17 marzo 2015

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11054360_1587600471483713_4618579255528510578_nLa recente pubblicazione che raccoglie tutta l’opera poetica di Dario Bellezza (1944-1996), a cura di Roberto Deidier, scandaglia la poderosa e verbosa poesia di un poeta che ha abitato con estremità la scena letteraria romana degli anni 50-90, arrischiando l’ipotesi, come scrisse Silvio Ramat su «Poesia» del maggio 1996, poco tempo dopo la morte del poeta a causa dell’AIDS «[…] che in Dario Bellezza s’incarnasse, con un orgoglio più forte del turbamento e degli sbandamenti, la figura del Poeta, al quale, ieri come oggi, le Istituzioni concedono poco o nulla; mentre appunto lui solo, il Poeta, persegue implacabilmente una sua verità, un ideale di cui la sua natura vorrebbe far dono a tutti […]».
Ma il dono di Dario Bellezza è la fuga dal proscenio dell’io lirico attraverso la rottura (o meglio il sipario franto), la trasgressione e la passione amletica, come scrive Roberto Deidier:

«Da qualsiasi punto la osserviamo, la poesia di Bellezza appare in fuga, o meglio si costruisce e si atteggia come una fuga. Come un tentativo di fuga, a vedere bene, se una certa pesantezza della struttura impedisce movimenti troppo verticali, sollevamenti repentini del senso, scarti ritmici, almeno fino agli ultimi due libri, L’avversario e Proclama sul fascino. Eppure, nonostante il suo movimento più autentico sembri essere quello del nascondimento orizzontale piuttosto che quello dello scandaglio, in un’incessante altalena di simulazione e dissimulazione, nessuna prospettiva è in grado di incorniciarla e comprenderla, e inevitabilmente qualcosa si sottrarrà, come alla visuale in procinto di una curva, di una svolta inattesa e in ogni caso sorprendente, quanto una voluta barocca. Tale tortuosità non è un limite, ma è semmai la forza, la materia più autentica di questo poeta. […] Così Bellezza è rimasto prigioniero dello stesso cortocircuito che ha provocato: l’Amleto che cerca di corrodere dall’interno, con la sua sola ma rumorosa presenza, la sonnolenta borghesia romana, è in realtà l’effigie della stessa dissoluzione in atto di quest’ultima. Ciò che il poeta vuole rappresentare nel vissuto e nella poesia, in una coazione al presente, ad agire nell’attualità del presente, è già avvenuto. La strada dell’eversione, che passa anzitutto attraverso l’affermazione dell’alterità sessuale, è percorsa già fuori tempo massimo, mentre l’onda d’urto della contestazione inizia a perdere il suo potere corrosivo e la scena nazionale è occupata da più tragiche tensioni».

Pertanto, lo scandaglio e lo smalto del suo disarmo fa i conti, all’inizio della sua rappresentazione, con la straripante ombra di Pasolini, come vocazione, come grigia e indiscussa tendenza non solo alla morte nel presente, ma al morire, come annota Davide Rondoni su “Avvenire” del 5 marzo 2015:

«Intendo la sua durissima temperie, o anima o meglio fissa idea, o forse ancor meglio dire smalto – chè d’anima no, non si parla se non per negarla e vituperarla, in nome di lui, del corpo o meglio del sesso, che demone borghesissimo ricorre nel disarmato Bellezza, tra le case di poetesse e di letterati molto impegnati. Voglio dire che la verbosa ossessione della morte nel geniale poeta romano indica quale fosse la lastra grigia, gelida, la cardarelliana tinta di quella comunità letteraria – preda di maggiori o minori esaurimenti di energie e di fobie, sublimate in alcuni casi nel potere, o nella sicurezza data dal salotto o dal partito o da entrambi (partito / salotto dei migliori). Una carnale, potente, fiorentissima paura della morte. Un barocco senza fede».

L’eros compone il suo teatro, lo condensa, lo proclama, ne dirama la sua coltre inespressa, nella fissità mobile delle notti romane, con le esili disperazioni e degradazioni. E nell’amore orfano, sviato e disilluso, Bellezza compie il suo rito di coazione e sacrificio, che lo conduce fino a Penna, ma ne priva la portata innocente, comprimendo il margine, la sessualità precaria e maledetta che si dilata fino all’incontrastabile regno della morte, esibita in una nitida delazione di mente e corpo, per non giungere mai «al compimento di un proposito e formula reprimende sul suo stato, formula di un desiderio assoluto e in parte inespresso, dove proprio amore e morte coincidono come fine di qualcosa che non è mai stato posseduto del tutto» (Alessandro Moscè): «Ma quale sesso ha la morte? / È ragazzo. È ragazza. Spaventosamente / materna mi abbraccia al limitare del sonno, / quando l’alba affretta la sua agonia / e il giorno calza i suoi occhi di malinconia…», o ancora «Ho paura. Lo ripeto a me stesso / invano. Questa non è poesia né testamento. / Ho paura di morire. Di fronte a questo / che vale cercare le parole per dirlo / meglio. La paura resta, lo stesso. / Ho paura. Paura di morire. Paura / di non scriverlo perché dopo, il dopo / è più orrendo e instabile del resto. / Dover prendere atto di questo: / che si è un corpo e si muore».
«La bestia che è in me e latra» condensa la parola poetica in una agonizzante corpo a corpo, come un io abbandonato e intossicato che discende «nelle regioni della creaturalità, di un universo offeso dalla Storia» (Roberto Deidier), come un amante estatico o un osceno trasgressore di forma e figura. Ecco che il provocatore-cantore di una rovinosa visione che declina e apre la sua fisicità in una performance che la conduce nell’abisso di un consunto lamento elegiaco, descrive il mondo in un epicedio: «Se un poeta, io, regalo al cupo silenzio / della notte metà del tempo che m’incalza / ostinato inquisitore di un corpo / sbalordito dall’abitudine, decomposto, / in ansia perpetua di non lasciare traccia / di sé nei corpi altrui o stampo caldo / nelle fresche leggere menti adolescenti / né la Storia, l’ordalia infernale / dei tiranni assetati di sangue e morte / non considero, ne viene anzi, rabbia, / sgomento, urlo lontano nella gola secca, / pianto sommesso o gridato, abbiate pietà!».
Scrive Maeba Sciutti:

«Dario Bellezza sa di essere il proprio avversario, di portarlo nel corpo come un male inguaribile. Impossibile ipotizzare un dramma più grande e infatti il poeta tracima, sviene, si rialza, barcolla ma resta sempre sull’orlo pericoloso della dissolvenza. Anche quando grida la rabbia verso «altri moribondi normali», contro le «segrete immense rivalse della invidia poetica», quando dice l’indicibile per l’uomo civilizzato e “contabile” che ha ancora qualcosa da perdere e cerca nella mediazione la sua salvezza personale, paradossalmente il lettore sente che Dario Bellezza può farlo perché non ha nessun futuro da barattare, perché ha raggiunto il culmine della sincerità nel culmine della disperazione (e forse il lettore-uomo medio non eroico pensa, con intima indignazione, che effettivamente il culmine della sincerità può esserci solo nel culmine della disperazione quando questa è intesa nel suo modo più pieno, più concreto e fatale: assoluta mancanza di speranza, assoluta assenza, certezza del non futuro)».

Il sangue dell’assenza, la consunzione, la pronuncia antagonista della voce proclama una tentazione smisurata e fanciullesca che comprime l’io, che si spegne in un tramonto assorto di speranze, «cercando la vita smarrita, il sole funesto / e sporco di un pomeriggio invernale: / la luce negli occhi di un Dio che è sparito»: «Dura legge sapere che niente / potrà consolare il niente assoluto».

E il mondo sguaiato e lucente, da cui proviene Bellezza, è una «vecchiaia recente» che si rivela nello smarrimento e nella mancanza, nell’insonnia illusa e nella ferita ingrigita, come scrisse Pasolini nel risvolto di copertina di Invettive e licenze (1971), «che una nuova prospettiva schiaccia contro la vecchiaia vecchia e antica. […] Quindi si è messo a descrivere le forme e gli oggetti delle sue angosce (che ogni buon collega e semplice lettore non può che considerare abominevoli) come se fossero forme e oggetti dell’assoluto: come le bottiglie e i vasi di Morandi. Nessun compromesso, nessuna complicità, nessuna facilitazione, nessuna concessione, nessuna deroga: nemmeno il sollievo di un sottotitolo gradevole, di una nuda citazione».

L’avviluppo del proprio io sente il peso della colpa e della mancata libertà, del vizio (e dello scandalo) della morte, in cui «il derelitto produttore di parole» segue un destino precipitato nella lacerazione, disprezzando, come avviene in Morte segreta (1976) i valori di una società costituita, finendo per celebrare la dismissione e l’acuto segreto del proprio essere, della propria intima finitudine.
Scrive Roberto Deidier: «Nei suoi versi la fisicità assume le denotazioni più disparate, fino a recitare il ruolo antagonistico più volte evocato e infine temuto, quello di richiamo di malattia e di morte. Ma prima di quest’ultimo, fatale intreccio, in una sorta di carpe diem che riporta la temporalità di questo poeta negli angusti confini di un eterno presente che non vuole e non sa guardare al futuro, né costruirlo, il corpo e la scena primaria di felicità fugaci ed effimere e ben più reali tripudi. Quella stessa fisicità non tarda infatti a mostrarsi nei caratteri alterni, e ovviamente ossessivi, della ricerca e dell’incontro, del distacco e dell’assenza».

La fragilità iconica e oggettuale non si concentra su una figuratività scrupolosa e animata, bensì fonda un limbo indeterminato, congiunge il processo creativo a un annuncio di colloquio estremo e scisso che condiziona la mitologia e la fisiologia di ogni incontro con la realtà, con il corpo/amante, con la amletica figuratività fisica: «Dentro / il cuore si agita invano la parola chiave, morte, / morte terrena, morte eterna, ed è il corpo trionfante / bestia che si accalda a dimostrarlo in attesa / di diventare freddo come un marmo. / Questo corpo che vesto e nutro e lavo / e accordo ai separati corpi altrui, costringo ad amare, / manometto, chiedo il perdono della sua putrefazione / perenne in una erezione instabile e impotente, sterile, / senza figli severi e solari per confortare vecchiaia».
La straziante scena della sua anima ciba la visione temporale degli eventi accaduti di un antagonismo che concede sdoppiamenti e figurazioni sbilenche, in cui la scrittura del Corpo assurge a parola lirica, a ferita, a passione che risorge.
In Libro d’amore (1982), il disincanto della vocazione si spinge verso una rifiutata dolenza, verso un amore sbiancato che diventa, come si legge nella quarta di copertina, «non-acquisto e non-conoscenza, perdita totale, senza compensi, di sé e dell’altro, recupero cruento e fatale del buio originario».
L’unione degli opposti e la loro sregolatezza scenica, se da un lato richiama alla scissione del sentimento sospingendolo fino all’estremità e all’affanno, dall’altro invoca dolcezze e fisionomie care ed accennate che diano respiro alla corporalità e alla creaturalità sfiorata e sfiorita, depredata dalla ferocia della Morte («Ascoltavo la morte nel mio sogno / di pazzo dirmi all’orecchio soave: «Ti trascuro. Non verrò mai da te». / Allora mi ricordai di te e mi svegliai. / La morte mi era a lato. La notte / riempiva la stanza di silenzio. / alla finestra la luce della luna. E / nel mio cuore un presentimento»), in un amore che si opponga, non come pasoliniana disperata vitalità ma come concreta oltre-rappresentazione di una colma felicità.
Il labirinto segreto del suo essere si confronta con la contorsione di una commedia tragica, in cui la sua voce scoperta addita piazze, luoghi, strade e luci stagionali, dove la folla spiata si afferma nella disillusione e nella consumazione: « Forse mi prende malinconia a letto / se ripenso alla mia vita di tempesta e di / mattina alzandomi s’involano i vani / sogni e davanti alla zuppa di latte / annego i miei casi disperati. / Gli orli senza miele della tazza / screpolata ai quali mi attacco a bere / e nella gola scivola piano il mio / dolore che s’abbandona alle / immagini di ieri, quando tu c’eri. / Che peccato questa solitudine, questo / scrivere versi ascoltando il peccatore / cuore sempre nella stessa stanza / con due grandi finestre / un tavolo / e un lettino di scapolo in miseria. / E se l’orecchio poso al rumore solo / delle scale battute dal rimorso / sento la tua discesa corrosa / dalla speranza».
La guarigione del mondo passa attraverso il passaggio dentro questo ampio gesto di esistenza, in cui «L’umile stato diseguale del poeta», aggredito, assediato, temuto, celebra il suo segreto singhiozzo, il suo monologo precipitante, il profondo canto della sua raucedine: «”Il mondo non è più quello di una volta”. / Risuona il vecchio mondo di suoni nuovi / ma la novità non porta che terrore / e silenzio. / Laggiù nel nuovo mondo che io guardo / c’è poca speranza, molta violenza / ma guardando si risale il tempo / e gli anni si volatilizzano: / e tutto può dalla sua cenere risorgere / meno la nostra voglia di vivere / che intoccabile resterà intoccata».
La soglia senza salti che fa convergere assenza e presenza ha l’odore agrodolce di una rivolta perduta e persa, del retroscena derivato che esibisce la sua tragedia attraverso la lotta con il Nulla, che proietta il baluginìo del Dio-distante-occulto in un caleidoscopio scisso di disamore.
Il destino del poeta è affrontare questa lotta sfumata di decisione radente e di buio paesaggio «di lingua pesta», di omosessualità dolente e di disagio: «Ma il quotidiano insiste. Ed io volo / verso il tarlo segreto della notte / per non saperne di più. Insiste così / il quotidiano, e stinge addosso la sua pece / o pace perduta, incontrando i mostri / attigui dell’eros metropolitano / che ormai costano troppo sul mercato / degli schiavi. Insiste dunque il quotidiano: / la poesia è merce o merda, voli di gabbiani / in tempesta mentre si pensa a sorella Morte, / o la Musa vagante in clinica, in crisi / di astinenza, / l’astinente essendo io / gioioso immondo testimone di un giorno / di pioggia: calamitoso e sventurato giorno / solfeggiando in mortale voragine il buio / di domani o ieri o il tempo che scorre / verso eternità imprendibili».
Scrive ancora Alessandro Moscè: «La condizione dell’inappartenente e dell’inadatto compie quella serie di vagheggiamenti che fanno il paio con l’atteggiamento che ripiega sulla stagione all’inferno, sull’amore che coinvolge e sconvolge. L’esibizione del male e l’inibizione all’amore riproducono l’idea della fallibilità che mangia l’esistenza, che distrugge l’uomo e il tempo. In Io il personaggio evita di sorprendere, di farsi attore, e l’esperienza relazionale prende il sopravvento».
L’andatura deragliata di Serpenta (1987), inscritta nelle apparizioni romane («Ormai non resta che battere / la trafficata città / in cerca di chi non c’è più. / Non c’è più nel tempo solitario / degli addii»), nelle ouverture di fuga onirica e nei suoi emblemi, rammenta il passato divorato della felicità intravista e impossibile, come ricordo e memoria, per un antico corpo amato e ora scomparso, per i sensi celebrati nella passione che ora hanno partitura ombrata, come grido ferito e lancinante («La mia religione dunque non fu / amore in questo dopo millennio di paure / scontate che di notte fanno capolino / nei sogni di un malato; / o fughe verso il nulla / nulla cenere, nullo destino / o legge primordiale del pensiero / che scateni simmetrie giuste al Paradiso / Paradiso confuso di ricordi / vissuti in mezzo al guado di Caronte»).
È la solitudine imperfetta e fracassata di un «tempo alabastrino» irreparabile, in cui persino Dio diventa l’ossessione di una voce roca e assoluta: «La tua anima bisognosa di Dio / abbiamo umiliato. Ma è Dio / che dobbiamo cercare – Dio che è in noi, / insieme, votati alla distruzione / per rinascere santi. / Siamo due in uno: separati / soffriamo; – non possiamo dividerci: / nuove attese ci aspettano -: / viaggi, legami fino allo svincolo / finale che sarà di amore e morte. / Noi siamo la morte; e dobbiamo / diventare vita. Dobbiamo farcela: / per questo ciò che è tuo è mio / e basta. Per l’eternità».
Il ritmo di Libro di poesia (1990) raccoglie un lungo smalto molecolare tradito, si appropria di una partitura irregolare dove, come annota Franco Brevini nel risvolto di copertina, «il desiderio erotico si fa contorcimento e gesticolazione. Attraverso gli inferni della devianza metropolitana, tra interni asettici e mortuari, caserme e stazioni, il poeta trascina un disperato desiderio di abbattere il muro di una solitudine che si richiude ogni volta su di lui».
Lo psicodramma messo in atto, da un lato sottende al dramma dell’io e alle sue posture, con il pronunciamento della perdita e della sua presenza d’ombra, dall’altro l’apocalissi penitente dell’amore si fa straziata invocazione ed esclusione: «Credo, morte aspettando, di rifare / il già fatto nel mondo in salvazione: / volteggiando innocuo devo la sorte / ricostruire così come la volle / nel cuore la mia favola perduta: / spavento non è fuga, o liquido / scivolare sulla perdita d’ombra». Ecco il barocco imperfetto, la dismisura che volge verso un cuore desolato e assente, la desolazione assorta e abolita, il tragico territorio di anime assiderate e in esilio, laddove la notte avvolge nel suo «inesausto regno sotterraneo» e poi «spengo in avventure e litigi infiniti / catastrofi pellegrine, l’eco di memoria / da abolirsi nella notte oscura; / buio della vita se fu un’altra, / in cerca di passato».
Il forte contrasto interno che alimenta la sua poesia, come accade in L’avversario (1994) è il tralucere della sua identità che affronta il Male corrosivo e sfiancante di un fantasma e di uno strazio incombente, fino alla sottigliezza fragile della poesia, che rappresenta il richiamo e la vertigine («[…] s’invertigina / la vita passata e ne muore») della sua testimonianza.
Estraneità (esclusione) e consapevolezza in un unico ponte di sguardo e rimpianto avventizio («Poveri, pochi anni / sono rimasti, gelidi, limitati; / li dubito e li annuso sperando / di moltiplicarli e cedo deluso / al rimpianto calunnioso»), come cuore in disuso: «Nessuno / sa che cosa sono diventato. / Spauracchio sepolto, gattone celeste / o grigio affossatore d’avventure».
Il suo unico canto rimasto è il sillabario della sorte. La sua povera irresolutezza che si imbatte nei detriti di una quotidianità franta: «Come terrore di elevarsi a cime / più alte del bisogno del creato / le sterminate strade ma finite / percorro nel mio umile stato / diseguale, chiedendo ai pochi / l’errore di sapere chi vorrà / suonare il più bel piffero / di tanta gioventù sfuggita / e perduta nel sogno di una vita!».
Commenta Alessandro Moscè:

«Ecco, allora, che la morte non funge più da ossessione onirica. I serpenti che strisciano prima del colpo che avvelena e uccide, trovano terreno fertile per riprodursi. Proprio la malattia segnerà il destino di Dario Bellezza. Un’atroce malattia, che sembra, a posteriori, anche un presagio. Ma c’è qualcosa che sembra peggiore della morte, che è estraneo perfino alla fine: è la convenzionalità dell’indifferenza comune, l’inferno quotidiano di un tempo lascivo, oltraggiato. Questo è il senso compiuto dell’opera di Bellezza, che genera crudeltà e compassione per i soggetti più deboli e indifesi. L’esilio è nel tempo, tra individualità e storia. Lo scontro sul piano ideale porta ad inquadrare un universo nero, irrecuperabile. La sconfitta dell’uomo è l’estremo sentire nella screpolatura delle cose. E con esse il singulto segna il passo dolente verso l’addio per un destino comune».

Persino il rifugio nell’innocenza animale dei gatti, come «purezza della natura vittoriosa», diventa enclave esclusiva e riparata. Bellezza diventa il passeggero di soglie e proiezioni, in cui raccontare il proprio flatus drammatico senza tracce, la sua intuizione che permane in una breve concessione e in un tradito spazio lucente: «Non si muore subito. / Si muore poco a poco / in ogni giornata, / impercettibilmente / in attesa di Lei / ci si copre la testa / per entrare nella Chiesa / in espiazione di peccati / mai commessi o tentati».
L’abisso viene sollevato dalla forza della parola poetica e dalla violenza alla propria scrittura. In esso, la corrosione e l’aggressione alla scena rappresentano l’esito di una contraddizione che aspetta nel buio con il suo verbo sincopato e il suo Sacro reso casto.
La riscossione del passato nel presente non ha più orma nel transito dell’eternità passeggera, «la fine dell’amore dopo l’amore» compone la dimensione magmatica dell’esistenza e la sua forma che, come scrive Pasolini, «Bellezza puntigliosamente cerca di distruggere anche la forma del magma, facendo del magma poltiglia. Ma ciò è messo in scacco dalla sua stessa natura di scrittore, in cui il senso della forma è invincibile. Così, apprestata la poltiglia ecco da questa poltiglia filtrare nettari e narcotici di grande qualità. Come la sete di vita – in questo clericale ingordo – è ben più forte di ogni sofisma di morte, così il senso della forma è più forte della scandalosa e insincera voglia di distruggerla».

coverDario Bellezza, Tutte le poesie, a cura di Roberto Deidier, Mondadori, Milano 2015, 767 pp., euro 20.

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Hans Sahl e l’esilio-rigattiere

di Andrea Galgano 31 gennaio 2015

leggi in pdf  HANS SAHL E L’ESILIO-RIGATTIERE

l’articolo sul sito di Del Vecchio editore

hans-sahlLa poesia di Hans Sahl (1902-1993) si appropria della rada percossa dell’esilio, come stato di coscienza, come pulviscolo estraneo e come biografia limpida.
Come ebreo e come oppositore di Hitler, Sahl lasciò la Germania, passando per Praga, Zurigo, Parigi, dove visse fino allo scoppio della seconda guerra mondiale. Rimase poi in due campi di internamento francesi, dai quali riuscì a fuggire, (condividendo la drammatica esperienza con Walter Benjamin), patendo «sulla sua carne la labilità dell’esistenza, l’orrore della guerra e la minaccia incalzante della deportazione, prima di raggiungere il porto di Marsiglia, dal quale riuscì infine a salpare in direzione degli Stati Uniti, dove rimase anche dopo la conclusione della guerra (in patria l’esule ritornò solo nel 1989). L’esilio, pertanto, dà l’abbrivo all’apprendistato letterario dell’autore, segnalandosi come autentico Leitmotiv della sua produzione poetica e narrativa, non perdendo mai lo smalto dell’attualità anche nella produzione più tarda, quando assurgerà a conditio umana per eccellenza» (Nadia Centorbi).
L’estemporaneità fugace del tempo che varia l’esilio, lo modella, lo istoria in una scena spoglia e vivente, raccoglie immediatezza e deriva, soggette alla dilazione del tempo, condensandosi «nell’assertività ontologica dell’ «io accado», «io sono un evento» («Scrivere poesie – ovvero quel che ancora ne è rimasto»), onde una poetica fondata sull’assunto morale dell’hic et nunc, al quale si abbarbica l’esule disorientato, sopravvissuto a eventi epocali, che ne hanno minato, ma non annientato, la fede nel futuro della sua specie» (Nadia Centorbi).
La disorientata sonorità del tempo e la sfiancata rabbia sospendono identità e dispersione, attestano il problema-esilio in una spirale estranea che permane limpida, che intarsia il potere enunciabile della testimonianza come avvento e ricordo, e travagliata materia vissuta.
Comprendere Sahl, pertanto, significa fare i conti con un dramma lacerato e condiviso, in una memorialità precaria, e altresì, scompaginare l’uomo per riappropriarsene, articolando la promessa identitaria che guarda gli scenari in cui ha vissuto: dalle città europee fino alla New York notturna e all’accorata Marsiglia, come sospesa invasione di sguardo: « Alberi nel porto / navi in sosta, / uomini addormentati / sotto gli alberi delle navi, / passaggio di gabbiani, / vele sospese, / nebbia mattutina / sopra il porto. / Svanirono le stelle / al nostro incontro, / tra gli alberi delle navi / impallidì la luna» (Marsiglia II)».
L’isolamento non solo celebra l’altrove ma compone la trama dell’ “esilio nell’esilio”, finendo per coincidere con il limite delle utopie e delle ideologie e capace di connotare la tormentata visione del mondo, caricandola di forte tensione simbolica. Il coraggio di far fronte a una dura compiutezza e ad una magmatica contraddittorietà:

«La storia della mia generazione è la storia dell’ascesa e della caduta di un’idea che si rivelò utopica. Il sogno di una società senza classi, che animò il pensiero e l’azione di noi giovani, si tramutò in incubo non appena la realtà del comunismo entrò in disaccordo con la sua idea. La storia dell’esilio fu anche e soprattutto la storia di una questione di coscienza, che ciascuno dovette risolvere per suo conto e che implicava la domanda se si potesse ancora trovare un principio di identificazione o anche solo collaborare con un partito che era pronto a denunciare ogni autocritica come tradimento della lotta comune contro il nemico politico Adolf Hitler. Quanto coraggio ci voleva, quanto dominio di sé, per prendere le distanze da uomini con i quali insieme si lottava, si divideva la fame, si lavorava, si amava, si soffriva, e per dire loro che non si approvava più la loro politica, e col rischio di essere da loro evitato o addirittura perseguitato, dire no e farlo in esilio».

L’annotazione fugace si rinviene nella sua prima raccolta Le chiare notti. Poesie dalla Francia (1942), pubblicato in America, laddove, le liriche vengono sillabate e cadenzate da una memoria di diario, in cui ogni verso pare svelarsi nell’assoluta immediatezza, come reale strumento di conoscenza umana e poetica, e come annota Ottavio Rossani, «con una ricerca stilistica e ritmica legata alla tradizione tedesca. L’uso di rime, e spesso anche del sonetto, dimostra che la sua tensione esistenziale contingente entrava dentro la necessità di dare un ordine al caos in cui la realtà l’aveva gettato. Le raccolte successive […] abbandonano questo controllo estetico, per cui Sahl si lancia in una totale libertà espressiva. I versi non sono più controllati, ma in compenso sono più asciutti, più essenziali, spesso anche scabri e in qualche misura sbrigativi. I temi sono in fondo sempre gli stessi: l’estraneità che diventa una forma di vita; il poeta confessa che non può sentirsi in patria ormai da nessuna parte, ma che si sente estraneo dovunque si trovi. La scelta dell’esilio è ponderata e avventurosa nello stesso tempo».
La piena corrispondenza della sua geografia biografica combacia perfettamente con l’immagine poetica, attraverso il profumo della ricerca della verità, attraverso la piena descrizione diretta che non ammette cesure o cancellazioni, e in cui la pienezza del dramma esule (e degli esuli) compie la sua vertigine «in scomparti di treni […] / oceani solcando e in sale d’attesa»: «S’è pur così fugace come noi siamo stati, / noi scacciati ovunque di Paese in Paese, / per lui però, che è privo d’altri certificati, / la sua sola carta fino ad oggi rimase».
Scrive Giuseppe Moscati:

«Sahl veste piuttosto agevolmente i panni dell’esili(at)o, respira e inspira profondamente l’esilio fino a fare della sua condizione forzosa di sfrattato dalla propria terra una libera e piena scelta esistenziale. Una scelta di crescita, indubbiamente. Tanto che proverei a definire quello di Hans Sahl come un «esilio evolutivo». Certo, non si può negare che sia stata per lui un’esperienza drammatica, dolorosa, lacerante anzi come testimonia ogni sua pagina, e tuttavia è anche vero che la sua estetica, la maturazione della sua coscienza politica e culturale (un unicum), la sua concezione del mondo, il suo stesso grado di conoscenza degli uomini e delle donne hanno trovato proprio nell’esilio la loro prima energia propulsiva. Attraverso il filtro dell’esilio Sahl rivede e risente gli orrori di cui è stato diretto testimone; ripercorre le strade accidentate della sua esistenza offesa, non da ultimo dagli stenti patiti da vittima di due campi di prigionia in Francia, portando avanti una sorta di “gioco serio” con la memoria; rilegge il rapporto con amici e intellettuali e si confronta con la realtà politica e culturale del suo Novecento, sempre da esule volontario facendo ritorno nella sua Germania solo nel 1989».

Ogni verso sembra scampato e strappato. Ogni prolusione umana scorre in una sismografia di immagini diverse, «riflessioni e ammonimenti che il poeta rivolge a se stesso quasi per prendere atto di un destino sempre più oscuro nelle sue manifestazioni» (N. Centorbi).
La consistenza esistenziale raccoglie sentenze dilacerate, disorientamenti di sguardo e dimenticanze notturne in cui la nostalgia precaria delucida lo scampo della parola effimera: «Il cuore non legare a quel che è già perduto, / non merita l’amore quel che a fuggir costrinse, / delle immagini scorda il notturno assalto, / dimentica la mano che nel vuoto ti spinse, / e a quella falsa eco non prestare ascolto, / che dal mondo di ieri fino a te rintocca. / Il cuore non legare a quel che è già perduto. / Proteggiti finchè la tua ora non scocca» (Sentenza).
Il paesaggio ricco e fastoso si accompagna alla scia della chiarità, alla consumazione, all’apocalisse rilasciata, all’uomo che «porterà le tue cose alla stazione» che «è già sulla porta e aspetta».
È il tempo che ruba forma al caos e la rima alle rime, che raggiunge il suo apice di sovvertimento, e che «scandisce in sillabe la danza della morte a cuor sereno», laddove però la parola si scarnifica, appropriandosi della sua chiarezza pulita: «Dal tempo e dalla sua rima mi sono estraniato, / il tempo la mia rima mi ha rubato. / Dove i mondi crollano e s’annientano popolazioni, / per addensarsi in rima la parola non ha più occasioni. / Mettere in canto l’orrore non è forse azzardato / strappare a ciò che non ha rima qualcosa di rimato, / per chi ancora le parole possiede nella parola cacciar di frodo / per illustrare la carie ossea della lingua trovare il modo, / e dove tutte le parole vengono meno, / scandire in sillabe la danza della morte a cuor sereno» (De profundis) o ancora: «In questo posto più non dovresti stare, / nell’erba l’ultima cicca s’è già spenta, / tra le baracche notturne il ratto s’avventa, / la guerra è già prossima – via dobbiamo andare» (Poesia dal campo).
La chiarità (delle notti di luna, del paesaggio che erompe) diviene il manifesto della fuga che individua città e irrompe brutalmente come massacro: «Perché senza le chiare notti in fondo / non ci sarebbe alcun finimondo / e vicino alla casa cadrebbero le bombe / e la pioggia spegnerebbe le vampe. / perciò abbi paura delle chiari notti a maggio, / quando spuntano i lillà e la luna col suo raggio, / e con la moglie e figli altrove andate / finchè le chiare notti non siano passate».
Le associazioni di Sahl salvano il magma poetico dal suo rotto grido, dal pianto ineluttabile, dal divampo di guerra e devastazione, ma implorano, allo stesso tempo, la meta salva dell’io, la vittoria sulla morte, dove la precarietà disagiata dell’istante registra la sorte e ripiegandosi si dilata in immagini febbrili e vorticose, come nature stravolte di oggetti sparsi: «No, devi riconoscere / che non ci si è dimenticati di te. / Ieri sono arrivate per te due lettere d’oltreoceano / e la paglia, sulla quale sei sdraiato, / è stata cambiata ed è pulita. / Molti pensano a te. / Questa settimana, così si dice, / la commissione esaminerà / il tuo caso. / Si dimostrerà / che sei un amico di questo Paese».
Scrive Nadia Centorbi:

«la centralità dell’io sembra dissolversi nella coralità di un soggetto lirico polimorfo, in quel noi che scandisce ossessivamente la sequenza lirica. Attraverso il noi il destino individuale del poeta si identifica con il destino di molti altri esuli incontrati, incrociati o semplicemente presenti nella schiera di quanti furono segnati dall’esperienza della fuga dalla patria. Con ciò, il poeta suggerisce che nell’esperienza dell’esilio, che egli ha condiviso con migliaia di altri profughi, non esiste un destino d’eccezione che possa valere su tutti gli altri come modello emblematico: tutti gli esuli, al di là delle diverse peculiarità che ne scandirono le rotte, costituiscono un unico coro, condividendo omogeneamente le stesse difficoltà, lo stesso martirio della persecuzione, della fuga nonché del disorientamento derivato da un’esistenza irreparabilmente stravolta. A differenza delle poesie del primo ciclo poetico, nei componimenti più tardi Sahl non cede alla malia di centralizzare la sua personale esperienza di esule e perseguitato. All’estemporaneità dei versi della fuga subentra la responsabilità morale di preservare una “memoria dell’esilio” che attecchisce, appunto, nella coralità del noi […]».

Come egli stesso scrive, dalla luce improvvisa e radente di Marsiglia: «Noi non viviamo, noi non moriamo, noi attendiamo, / noi facciamo a gara con la morte a chi arriva per primo, / noi tutti sappiamo che dobbiamo aspettare, / noi siamo già morti, ma ancora non lo sappiamo, / e giochiamo coi sentimenti come si gioca a palla, / noi ci facciamo derubare dal primo cretino / e prenotiamo posti su navi che non esistono, / noi abbiamo compreso già da tempo il nostro destino / e non moriamo».
È la lingua che porge il fianco alla testimonianza ma non si imbarbarisce, non proclama avversione o rabbia («il tuo cuore sentirà di nuovo, / un sole riscalderà te e un volto conosciuto»), ma celebra la propria dignità («Dal sangue scorso in tempi passati / qui è sbocciata rarissima vite»), il proprio resoconto oggettuale e il proprio sguardo, la propria speranza e il proprio spasmo d’attesa: «nell’hotel in cui alloggio / è già passato qualche grande spirito, / uomini ubriachi fanno chiasso sulle scale, / la polizia arriva di solito verso le sette, / e la vecchia sta china sui suoi libri / verifica i conti ed enumera le macchie sulle lenzuola / qui nell’hotel in cui crepo».
Le sue successive raccolte Noi siamo gli ultimi (1976) e Noi siamo gli ultimi. La talpa (1991) la nota dell’esilio abbraccia la Storia, incontra nuovamente i volti di un tempo spezzato, riflette l’oscillamento di uno sbigottimento estraneo, come aveva già scritto in Le croci di legno, «sbigottito dal senso di colpa / d’esistere ancora e strepitando, chiacchierando, masticando / vivere la proroga».
La rotta di Sahl permane nel suo taccuino non bruciato, proclama dispersione e smarrimento perseguitato, insegue similitudini di lontananze («Noi più lontani delle innumeri stelle / ci estendemmo fino a orbite planetarie […]» Forse da qualche parte / in un luogo inaccessibile / un’orma ancora, uno strato d’erba / testimonia le tracce di chi passò da qui / e i vostri canti intonò), invita all’interrogazione ultima e reduce: «Noi siamo gli ultimi. / Interrogateci. / Noi siamo competenti. / Noi portiamo in giro lo schedario / con le cartelle segnaletiche dei nostri amici / appeso al collo come la cassetta degli ambulanti. / Istituti di ricerca fanno domanda / per ottenere degli scomparsi gli scontrini della tintoria, / musei custodiscono le parole della nostra agonia
come reliquie sottovetro. / Noi, che sprecammo il nostro tempo / per motivi comprensibili, siamo diventati i rigattieri dell’incomprensibile. / Il nostro destino è un monumento sotto tutela. Il nostro cliente migliore / è la cattiva coscienza della posterità. / Prendete, servitevi. / Noi siamo gli ultimi. / Interrogateci. / Noi siamo competenti. (1973)» e infine si confronta con la signature precisa e logora delle tracce come stimmate e ritardo di baveri: «Così compariamo davanti a voi, / con il sorriso che da noi / vi aspettate, col basco disinvolto / sull’orecchio o la yarmulke, / incidendo con il pollice / le stazioni dell’esilio / sull’ormai logora carta geografica, / unendo precisione a poesia, / infondendo vita ai resti / prima che essi ci sfuggano via nella corrente / della risciacquatura del ricordo, / senza lasciar traccia e arrivederci per sempre».
Il valore dialogico e umanistico di ogni atto di scrittura è il memorandum per attestarsi nella profonda dignità umana, per consegnarsi a un tempo vasto e irriducibile, al respiro dell’ essere uomini contro ogni devastazione e rimozione, pur sopraffatto dalla sproporzione e dalla povertà di essere vivi, per lasciare il campo cantando: «Un uomo, che alcuni ritenevano / saggio, dichiarò che dopo Auschwitz / non fosse più possibile alcuna poesia. / Sembra che delle poesie / l’uomo saggio non abbia avuto / alta considerazione – / quasi che queste servissero a consolare / l’anima di sensibili contabili / o fossero vetri intarsiati / attraverso i quali si guarda il mondo. Noi crediamo che le poesie / siano ridiventate possibili / ora più che mai, per la semplice ragione che / solo in poesia si può esprimere / ciò che altrimenti sarebbe superiore a ogni descrizione».
L’esito di una nitidezza spoglia è effimerità profuga («La lirica nella nostra epoca / può essere solo effimera. / Comunicazione con la condizionale»), volto, città amata, patria-sorella, amore vissuto e rivissuto e ricordo purificato.
Essere cristallo nella lavina, sottrarsi alla fugacità feroce del tempo, partecipare al dramma dell’umano, significa, per Sahl, germinare nel suolo sottaciuto e «nella conchiglia dell’albero, / sui rami del sogno», racchiudere la linfa della lingua nell’«abbacinante / chiarore / del non ancora» e vivere un passaggio «dal regno del divenire / in quello del divenuto».
Ma non canta la fine né l’oscurità forte dell’oblio. Lo testimoniano le magnetiche poesie americane, dove New York appare fulgida e splendente in tutte le sue meravigliose contraddizioni.
Nella sua feritoia ferita, Sahl pone il suo rifiuto, come impossibile riducibilità dell’uomo e rimozione, come miseria di odio e di peccato. Lentamente egli esce dal mondo in silenzio, «verso un paesaggio al di là di ogni lontananza / e ciò che fui e sono e ciò che resto / se ne va con me senza impazienza e senza fretta / verso un Paese non ancora battuto. / Lentamente esco dal tempo / verso un futuro al di là di ogni stella, / e ciò che fui e sono e sempre resterò, / se ne va con me senza impazienza e senza fretta / come se mai fossi stato o quasi» e dinanzi alla catastrofe, rimane un ultimo e infinito grido: «Mi rifiuto di scrivere un necrologio / per l’uomo come se fosse / un incidente biologico / tra due epoche glaciali».

SAHL H., Mi rifiuto di scrivere un necrologio per l’uomo, a cura di Nadia Centorbi, Del Vecchio Editore, Bracciano (Rm) 2014.
ID., Das Exil im Exil, Luchterhand, Frankfurt am Main 1990.
CENTORBI N., «Ich bin ein lebendes Memorial». Lethe e Mnemosyne nella poesia di Hans Sahl, in COTTONE M. – DOLEI G. – PERRONE CAPANO L. (a cura di), Dalla rimozione alla memoria ritrovata. La letteratura tedesca del Novecento tra esilio e migrazioni, Artemide Ed., Roma 2013, pp. 95-116.
ID., I volti dell’esilio, in «Poesia», luglio-agosto 2014.
DOLFI G., Il poeta-testimone che smentì Adorno, in “Il Manifesto”, 23 marzo 2014.
MOSCATI G., Hans Sahl. Fogli sparsi di un rigattiere dell’incomprensibile, in «Nuova Antologia» 2014.
ROSSANI O., Giornata della memoria: le poesie di Hans Sahl “Mi rifiuto di scrivere un necrologio per l’uomo”, in “Corriere della sera on-line, 27 gennaio 2015 (http://poesia.corriere.it/2014/01/27/per-la-giornata-della-memoria-leggere-le-poesie-di-hans-sahl mi-rifiuto-di-scrivere-un-necrologio-per-luomo/)

Gli Argini di Andrea Galgano

di Adriana Gloria Marigo 23 dicembre 2014

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431671_10151170974264484_749205361_nAssunto che la parola nel suo aspetto di segno suono significanza riconduce a complessità psichica che governa piani affettivi etici relazionali culturali sia personali sia collettivi, Argini, titolo della raccolta poetica di Andrea Galgano – Lepisma, 2012 -, ci consegna nella immediatezza grafica del lemma l’assunto di cui dicevo: ci troviamo davanti alla demarcazione di un ampio paesaggio interiore ed esteriore e al contempo alla progettualità ad oltrepassare il territorio d’appartenenza per inoltrarsi in uno nuovo, che non nega il precedente ma tiene in conto e amplifica, rimodellando confini orizzonti e tutto quanto si muove entro quelle provenienze prossimità strutture rassicuranti al tempo stesso necessarie di rivisitazione, poiché è chiaro che il percorso verso i luoghi alti della Bellezza – che non si dà senza l’appercezione del suo emergere nella/dalla forma anche vaga – si fonda sulla conoscenza e su un anelito desiderante, sulla tensione leopardiana all’incontro con il piacere “La Natura non ci ha solamente dato il desiderio della felicità, ma il bisogno; vero bisogno come quel di cibarsi. Perché chi non possiede la felicità è infelice come chi non ha di che cibarsi, patisce la fame. Or questo bisogno ella ci ha dato senza la possibilità di soddisfarlo” (Zibaldone) o come in Schopenhauer sulla distonia tra bisogno e appagamento di esso “Ogni volere proviene da un bisogno, cioè da una privazione, cioè da una sofferenza. La sofferenza vi mette un temine; ma per un desiderio che tiene soddisfatto, ce ne sono dieci almeno che debbono essere contrariati; per di più, ogni forma di desiderio sembra non aver mai fine, e le esigenze tendono all’infinito, la soddisfazione è breve e amaramente misurata. Ma l’appagamento finale non è poi che apparente: ogni desiderio soddisfatto cede subito il posto ad un nuovo desiderio: il primo è una disillusione riconosciuta, il secondo una disillusione non ancora riconosciuta” (Il mondo come volontà e rappresentazione) .

Il mettere schopenhauriano “un termine” corrisponde agli “argini” di Andrea Galgano: necessaria misura per contenere il grande flusso della conoscenza socio-affettiva, accompagnarne il percorso limitando il danno di possibile esondare o alluvionare, limite imposto dalla disillusione che rimanda all’infinito fluire desiderante in cui il Tempo – vexata quaestio – apporta i suoi indicibili vestimenti, il suo apparato essenziale all’essersi e all’oggettivarsi, allo sprofondare nella memoria e risalire verso probabili e provvisorie chiarìe: “E di un tempo rimase il tempo / di un tempo di tempo / secondo spogliato di piani // tempi soggioganti / furiosi come cieche fiere / mercati di sale le ore / cavalli sulla rena // quel che rimase / fu affresco d’abito // tempi bambini / giochi indecisi di riviera // tempi d’amore / carichi di voci oranti // vivemmo il tempo / ridotto a saluti sghembi / a una vela che spanna / nuvole improvvise / e questo tempo evanescente scorre / tra i sipari d’adolescenza / lentamente indossato / come il mare scheggia i fiumi.”(pag.13).

Se nella struttura della parola è implicita – come archetipo – la frontiera quale passaggio, superamento di confine che allerta i sensi, provoca il riconoscimento di ciò che resta indietro, destinato all’usura temporale affettiva lessicale e di ciò che è in avanti, all’attesa, pronto alla prossimità, la parola che Galgano sceglie e incide per quell’allerta sensoriale e culturale è parola che arriva da lontano – da un territorio prometeico e per contrasto, quasi a compensare come polarità necessaria al divenire, fluido – e ci consegna termini colmi di materiale immaginale e linguistico: se da una parte convoglia l’ustione della poesia, perché il poeta sente in poesia la sua stessa presenza nell’affaccendarsi del mondo, dall’altra reca la ricerca colta e raffinata del termine che incarni esattamente le immagini che avanzano ed emergono nella struttura dei versi, perché il conto finale è il “nome” che riesca ancora a nominare dichiarare attribuire : “Il respiro dei fortunali / avvolge il giorno annoso / il nettare sparso del petto /apre finisterresco / i pioppi e i salici / e il tuo crinale aureo incide / il lampo delle epoche // Le mani orientano / di avvento la sera / e l’architettura crèmisi / increspa i tuoi narcisi / nell’anatomia teatrale / del tuo madrigale // rinchiudi il sorriso / sul suolo creso / quando ti muovi atlantica / che sparisce lo scenario / ma poi ritorna frequente”(pag.18)

La versificazione di Argini distende dunque nella creazione del paesaggio lirico una topografia e un campo architettonico poetici in cui confluisce – come ramificazioni d’acque e centuriazioni – una misura semantica di alta frequentazione e uso che discende da percorsi tra la grecità classica e la classicità contemporanea attraverso la purezza lirica del petrarchismo così da attribuire al reale connotati di sacre visioni o semplicemente elevarlo dalla densità immanente che mai lo degrada, ma gli conferisce il “ferimento naufrago”, ovvero l’angoscia esistenziale in cui è bene “non rinchiudere la mia pena / in un’abitudine irosa / o nella tempesta ariosa e impudica / di un tremore di solitudini.” poiché “le fronde stormite oranti / come iniziali impastate di nuvole / nei perimetri delle gocce / diseganano il tempo della tua figura // è come il cuore il tuo nome / temporale sonoro di passaggio / ha braccia il tuo nome / dentro la tua nudità semplice / come il sangue / che percorre l’eterno cielo / e nel raccolto delle comete / vortica sigillando.”(pagg. 22-23) e ci portano in presenza di un “tu” femminile idealizzato pur in una identità terrestre che tuttavia elude l’ombra, la materica consistenza della carne, poiché ciò che importa è riconoscere la materia ultima, generativa la forma e che può darsi solo nella “metafisica di pianori”(pag. 67).

Scrive Davide Rondoni nella prefazione ad Argini: “[…] Ci sono – ne ho segnato davvero tanti – i passi, i momenti in cui la voce di Galgano si fa irrefutabile, sua, vivissima.” , talmente irrefutabile che in Kallias trovano testimonianza e l’invenzione immaginale del poeta e gli elementi costitutivi il suo essere poeta, le frequentazioni e ascendenze colte, le elaborazioni dei miti così da attribuire alla costituzione della sua poesia il marchio di parola metafisica, mai però bordeggiando certa maestosità e petrosità liriche, poiché la sua parola è percorsa dalla solidificazione della luce nel colore, negli oggetti, nel paesaggio vegetale aereo terrestre: “ La pioggia genuflessa / lascia il sole al suo regno / sulle messi di nuvole rade // inondazioni di crisalide / litoranea di stelle / e notturno di veglie eretiche // la parusia di stille / esauste e dimenticate / sui lembi / l’apologo di un abbraccio / su erbe intrise / nelle lamelle rigogliose / come il mio liceo che si alligna / nel tuo sferisterio immobile / e richiama / la tua calma chioma / al ritardo della notte che freme.// (pag.28) porgendoci dunque un cosmo di simboli che, sciolti dalla loro frequenza immaginale, ci consegnano nello spessore poetico ed etico della poesia di Andrea Galgano la cifra del suo ascoltare il mondo, crearlo mediante la parola che tramite lavoro di vera Poiesis progetta ontologia.

La luce di Roberto Mussapi

di Andrea Galgano 19 dicembre 2014

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Procede attraverso una eleganza di aliti e rinascite la poesia di Roberto Mussapi (1952), come un mondo di architetture che «dissolve entità separate, personae, eventi ed esperienze – tramonti, temporali, un faro, alberi, continenti, rocce, calura e neve – in una fluida tavolozza di rappresentazione degli elementi: luce, spazio, oscurità, terra e acqua. Impressionista, eppure dinamico nel suo trasmettersi. L’oscurità ambigua di una caverna prende forma – e paradosso – attraverso la graduale coerenza di frammenti di luce, persino nel modo in cui le screziature definiscono la “scurità” di un bicchiere di vino. Tali frammenti di luce, evocativi di illusioni ottiche o cose inafferrabili, divengono gli agenti di trasmissione che portano l’oscurità a fondersi con gli orizzonti, le gallerie, le onde dell’oceano. Lo stesso procedimento informa di sé un viaggio in treno che muove oltre la semplice narrativa o l’evocazione di un incontro per divenire la dimora liminale della memoria, dove la vita e la morte raggiungono una consolante unità, proprio come – dice il poeta – il sonno». (Wole Soyinka).

È una poesia che non preferisce l’erosione ma si apre alla rinascita “grave”, al grido degli accenni, alla tabula itinerante del tempo e alla conoscenza trascendente: «Perché rinascere a quest’ora / perché accendersi ancora in questo vento? / Tutto riposa, adagio / resta un nucleo disperso / roccia silicea e povera, / tempo forato dal tempo, anni / che abbiamo lambito ognuno perso / nel suo grido, perso a un accenno».
Scrive Piero Boitani: «Mi piace pensare a quel nucleo disperso, a quella roccia silicea e povera come al fondo dal quale nasce la poesia, che, germinando da questo fondo lirico inorganico (e metafisico) fiorisce in narrativa e drammatica […]».
La ricostruzione liminale, appunto, assorbe una intonazione potente e indeterminata, recupera il fondo assorbito e disseppellito della materia vivente, ritrova l’epica nascosta del mondo, la sua profondità e il suo scavo che innalza il respiro e lo sostiene: «Poi torna il respiro originario / si chiude il tempo: / eppure niente tra fibra e condanna, / nessuno spazio che giura / niente, il vuoto perso, e l’anima / che oscilla e nasce, il buio».
La mitologia del tempo diviene rappresentazione ed espressione di una attesa primordiale, di una transitoria, eppure concreta, gemma recuperata che sonda la modernità in tutto il suo spazio di figure ed emblemi e in tutto il suo riconoscimento di avvenimenti e declivi di ombre.
Afferma, ancora, Wole Soyinka:

«L’immagine complementare dell’indefinitezza, ugualmente priva di sostanza, sembra rimanere l’ultima nota di consolazione di Mussapi. Forse un appagamento – o quantomeno una riconciliazione – si raggiunge quando, a sua volta, l’io impara a identificarsi con l’anima che pare «fumigare e andarsene dal corpo», l’essere «d’incorporea caligine» o «l’uomo obliato» che «cammina nell’ombra che lo accosta, scarnificato» in una distesa atemporale. Allora, anche l’esperienza più evanescente può essere accettata come un rito di passaggio assolutamente appropriato, che è quanto il viaggio umano in definitiva concede».

L’ordine del viaggio si impossessa del mito, «l’argine aspetta / la notte straniera» mentre «Dietro la tenda di neve / cresce la forma del paesaggio / respira / una disperata serenità» e l’apertura antica del suo tempo arricchisce il gesto di una metafisica serena e archeologica, di un fascino di ombre che indicano la trama eroica dei gesti e della quotidianità.
È un’architettura che sosta sullo «sgocciolio fermato a mezz’aria / un orizzonte di palpebra, liscio […]» che trapassa gli astri: «Il primo vento è il mattino / che porta luce e segue una sua immagine celeste / di sonno, trapassata dall’astro, / quando il suo nome trema e l’insonnia dimentica / le attese sulle terrazze col corpo attraversato dal vento».
Il suo centro trafitto dalla luce insegna pienezze di foce, danze cieche, sogni nuovi dell’inverno, dove appare la vivezza di un canto bianco e la poesia ritroverà le sue cromature e il suo avvenimento, come arcane linfe stremate.
La rivelazione rarefatta si confonde e si fonde con la tradizione, affiora il confine acceso degli aloni dove «tutto entra / e sfascia le porte e appolpa l’ugola ai cani», attraverso una lucidità che è materia che circonda, uscita di senso, tremore impalpabile: «Chi scrive poesia non parla da se stesso, ma attraverso se stesso, e la voce gli appartiene solo nella durata della scrittura. Poi si stacca da lui, e resta nella sua luce di compresenza, tra gli uomini e tra i tempi. Ed è la ragione e il prodotto del tempo presente, del consumarsi in atto del tempo».
La luce frontale (1987/1998) viene dominata da una coltre incantata, in cui i barbagli celesti incontrano la conoscenza di una stupefazione avvinta, e lo sguardo, come sostiene Giancarlo Quiriconi, «implica la fuoriuscita dell’io da se stesso in un luogo-non-luogo dove l’occhio incontra la visione, il segno di qualcosa che in un attimo accade assolutamente e gratuitamente, coinvolgendo e superando insieme gli elementi del reale, i dati possibili della soggettiva biografia. […] Tutto si concentra nell’occhio, origine e approdo, senso dell’esistere – la nascita – e sua sospensione infinita nell’eterno dell’assenza».
La visione è premessa all’avvenimento visivo e mira a «levare gli occhi dagli accidenti della propria specifica condizione per abbracciare con lo sguardo l’intero orizzonte umano. Il che non vuol dire liberarsi dai vincoli della vita vissuta, privarsi delle percezioni, degli affetti, delle gioie o dei dolori che sono, nella scrittura, il solo respiro veramente profondo dello spirito, quanto piuttosto allargare questa esperienza rimasta fondamentale grazie all’esame di ciò che, nella società, nella storia, declina gli avvenimenti dell’esistenza particolare, talvolta perfino suscitandoli. Una poesia in grado di vivere in modo non solo spontaneo, ma anche riflessivo ed esplicito tale identità di universale e di singolare, quale le poesie più autentiche sempre stabiliscono». (Yves Bonnefoy):

«E vide i mossi riflessi nella pozza / (i mossi, i lunghi labbri del soffio che riscuote / le nebbie delle anime, ricordò i pallidi / risvegli dei corpi sciolti nei canneti, / il sospiro di pelle che solleva / le pleure dei muschi aprendo verdi plaghe / stagni gelatinosi dimenticati dalla tempesta)».
L’epifania del mondo abbraccia il magma esistenziale, e il sonno, il risveglio, l’epifenomeno del reale divengono tracciato di immagini e testimonianza mediata, come voce di luce in cui «l’impronta dei tratti si discioglie / trasuda l’aspetto rispecchiato nella vela di fuoco / torpido covo notturno».
Laddove l’io afferma la propulsione del suo sguardo di terre incerte, lo strappo del dono sostiene l’alterità, il rapporto con le cose, il dettato amoroso. L’oggettualità mussapiana non strappa le tele dell’essere ma accarezza gli specchi delle concrete esperienze e presenze, coniuga la misura espressionistica per sollevare le tracce memorative in vigorie semanticamente plurime, come fuochi di transito: «[…] Passerà secoli di viaggio nel cunicolo / buio guardando le ombre transitorie come d’oblio / di chi le ha conosciute ed amate / proverà un brivido strano nella portineria / e guarderà l’amato all’improvviso alle spalle/ chiunque sarà, quel fuoco transitorio / e perenne che un giorno fu in lei / nel fiore di geranio come nei tulipani / di Van Gogh, lei non ricorderà, / lei non saprà, lei tornerà nei cunicoli / tra i fratelli addolorati e ignari, / ma il suo cuore non cambierà più ragione / e i suoi occhi guarderanno per sempre con un altro / inconsapevole, sovrano amore».
La mitopoiesi diviene amore irriducibile, figura che tocca l’esistenza e la morte come fusione e lotta, gesto poetico che coglie il presupposto di diventare «punto di partenza per un viaggio nell’umano teso a scandagliarne le peculiarità più resistenti: una sorta di preliminare accertamento delle radici, dei segni ricorrenti di una antropologia del profondo attraverso cui sia possibile rivolgere uno sguardo più consapevole al presente dell’esistere, coglierne la pienezza evidente e insieme misteriosa anche nei minimi eventi, nei gesti più consueti, nelle figure in apparenze meno significative» (Giancarlo Quiriconi).
Il tempo di Mussapi tocca la traccia immanente del sublime, lo innerva nella dimensione quotidiana, frammentandolo in uno stupore attonito e in un contatto compatto con la realtà vivente, ridisegnando persino la scrittura dickensiana, come archetipo di infanzia, nei volti e nelle maschere condotte e prese dal sogno e dalla visione (Racconto di Natale).
In Gita meridiana (1990) la scena memoriale diviene, come scrisse Geno Pampaloni, «originaria, metafora della nascita; e perciò non precipuamente lirica; piuttosto tesa all’epicità; essendo il mondo e la vita segnati da una ininterrotta creazione, di cui la parola poetica è insieme testimonianza, maieutica, viatico alla morte».
La sua vertigine recupera e percorre l’evidenza sensibile dell’ «alto centro / dell’impervia durata sillabante» dell’orizzontalità del mondo e la sua poesia «finisce per configurarsi, con il suo tono tra profetico e orgiastico, come una sorta di canto civile, canto di tutta una civiltà dell’uomo, recuperata dal buio del tempo e dell’oblio a testimoniare una durata e un senso che non possono essere cancellati. E qui, sulla scorta di una memoria che attiva meccanismi di recupero non elegiaco, immerse nel giro eterno di una dimensione orfica, come scolpite nel basalto le figure assumono il passo e il respiro autentici del mito, di un mito che si forma per propria evidenza paradigmatica, per la propria intrinseca forza di indicazione, per la sua stretta connessione con tutti i dati della vicenda umana ed esistenziale […]».
La gita raccoglie lo zenit di una memoria unica e di una circolarità cosmica, altrimenti perdute. L’aurora antica preannuncia la genesi di un ritorno, la verticalità del nome che sottentra ferite e grumo circolare di affetti, l’oscurità e la nascita immemore iscrivono, fragili e primigenie, passato e presente, come una rivelazione, che nel passaggio de Il Cimitero dei Partigiani, Fenoglio indicherà: «Chi li visterà, i perduti? Scaglie di sole, / brandelli di memoria raggiungeranno il loro silenzio, / come accade ai dormienti, i miei morti / avranno visite incorporee, fuggite dal giorno? […]» (Enea guarda gli accampamenti alla sera).
I paesaggi delle ombre, dalle antiche (Enea, Plinio il Vecchio) ai contemporanei (Scirea, Tardelli), l’incanto percorso delle ore, in cui la mescolanza e la conservazione delle voci riverberano nell’incombenza della sera, il nudo ascolto «nel breve unisono oltre l’attimo», fanno convergere il tempo in una disposta unità di senso e in un dialogo che riempie la memoria udita, immaginata e pensata, in un soggetto non eroso, in una disposizione biografica che si fa esilio e ricordo e indica, ancora una volta, «il nostro unico margine, / confine e fuoco», il positivo proscenio di un’urgenza lucente, «Dove la terra fu inutilmente arata / e i campi fumano ancora, e le ombre / lontane chiamano inascoltate dai passanti / o dove qualcuno si fermò per un istante e poi scomparve, / linea rovente, rasoterra del tempo, / traccia, impronta di vita che comunque fu, / in qualunque ora e in qualunque modo, / lì guardano, e lo chiamano orizzonte, / da cui nasce il tempo, il viaggio, l’avventura / oltre la siepe, il meridiano, il magico / confine dell’atlante».
Il poemetto epico-drammatico Antartide (2000), opera incentrata sulla vicenda della spedizione al Polo Sud di Schackleton con la nave Endurance, sonda la tradizione della modernità, aiutato dalle voci e dagli echi elotiani e danteschi (ma anche pascoliani e luziani), facendo prevalere l’assolutezza del dato metafisico, in un quadro che appartiene non più alla singolarità o alla scompaginata traccia memoriale, ma alla storia dell’uomo.
È epica autentica e teatrale, non solo per i richiami infratestuali, ma per la materia che non si risparmia, si sostiene, attinge all’energia vivida dell’esistere, per ritornare alla traccia dei vivi e al segno risorto e profetico.
La sfida poematica, per Mussapi, come scrive Raffaele La Capria, è partire dal fatto che la poesia pura, «essendosi sempre più rarefatta, sia finita in un cul de sac, proprio come l’ Endurance, stretta dalla morsa dei ghiacci, stritolata, il fasciame che geme e si lamenta con sinistri scricchiolii, nell’immenso universo astratto, bianco e allucinante del Polo Sud. Forse è qui la vera metafora sottesa al racconto di questa agonia. Il bianco che circonda la nave fa pensare più a quello del Gordon Pym di Poe che alla Ballata del vecchio marinaio di Coleridge. Qui non c’è nessun romanticismo, è il dato metafisico che prevale e tutto assorbe. E anche l’ angoscia di chi si è ficcato in una situazione senza uscita, un’angoscia che noi uomini in questo secolo conosciamo bene. Angoscia mortale, dunque, e allucinazione, e in questo senso in Antartide non c’ è distacco epico, come quello di un poema antico. Si addice più a questo poema e al nostro secolo la registrazione analitica, la concretezza di uno slancio lirico che si attiene ai fatti, e con quelli – come fa Kafka – costruisce la sua architettura metafisica, o se si preferisce, l’ allegoria».
Il ghiaccio rappresenta la genesi di una iniziazione, un’uscita dal repertorio quotidiano per un’appartenenza e un’adesione a qualcosa che scompare, defluisce, ritorna, e infine, trasla lo svelamento poetico, «dove per traslazione si passa dall’idea di una possibile conquista alla prigionia dell’Essere in una glaciazione attenuata, se non spezzata, solo dal calore del possibile ritorno» (Francesco Napoli).
È la possibilità di risurrezione ad affermare la forza di questa poesia dispersa (di prede e notti polari, attese e lanterne, e camere intenebrate), che comunica il vivere inciso della sua terra incerta e della sua rinascita, ad aggiungere, poi, nuovi e antichi richiami coscienti al dramma del tempo e alla stoffa delle cose.
Afferma Bonnefoy, infatti: «Mussapi ascolta il sé profondo, muove perfino, coraggiosamente, verso di lui in pagine che sono come un assopimento, ma per un risveglio in un altrove; ed egli non sa dove. Perché non bisogna credere che questa apertura del sé ai suoi arcani si accompagni in lui all’illusione di poter penetrare i loro sensi ultimi: questo vorrebbe dire censurare la parola incessantemente eruttiva dandole espressione. Non sono questi né il pensiero né gli auspici di questo poeta, anche qui assolutamente moderno, consapevole che la verità è un dislivello senza fine tra il piano del concetto, della rappresentazione, e quello del simbolo, della presenza».
La voce si concede agli eroi, alle piante, agli animali, alle pietre, all’acqua, come traliccio di sogni e dimensioni. Il periglio sottentra al Ritorno. Ed è nel nostos che il poeta vive le sue fonti, il viaggio verso le stanze interiori, appropriandosi di quel «genere di verità che perdiamo sempre di vista, quella che la poesia ricerca per lo più invano, quella stessa che forse la morte rivela, in modo evidente ma incomunicabile, perché giunta troppo tardi: e cioè che l’amore, il semplice amore tra persone, si rivela all’ultimo momento come la sola verità» (Y. Bonnefoy): «Ricordi il buio, la grotta, la paura, / la paura che ci mutò in specie, specie abbracciata, / e il fuoco, e oltre il fuoco i primi confini? / Ricordi come piangevamo vedendo un cavallo, / sentendo nella sua corsa la forza del dio? / E come volevamo correre in lui, / e superare la vita, non morire?».
La coralità di passato e presente vive nelle circolarità perenni dei ricordi trasmutati (la madre) e delle rievocazioni (la casa). Nelle effigi egli incastona il dramma del tempo inconsunto, ritrae, archetipicamente, l’anima del tuffatore di Paestum, dipinto su una lastra tombale del V secolo a. C., che si slancia da un trampolino e che, simbolicamente, rappresenta il passaggio all’oltretomba. È il tramite a qualcosa che promette eternità e tempo risorto al tempo filiale: «Io non sono tuo padre ma la sua anima, / non so quello che vivo ma ricordo, / la riva, la piscina, i colori che formano / lo strano disegno della vita mortale. / Vivi in quella ceramica smagliante e attendi / quanto saprò dirti più avanti, alla fine del viaggio. / Ma ora che dormi come quando in una culla / sembravi cercare i segreti del mondo, / ora che hai spalle più larghe e più radi i capelli, / ascolta le parole della mia anima: / non so molto di lei – di me stessa – / (è presto, figlio, non conosco abbastanza, / ho appena iniziato, sto nuotando), / non pensare al mio corpo (è tardi, / perle, quelli che furono i miei occhi, e le mie labbra contratte in corallo), / ma ho conoscenza del loro matrimonio, / di quando vivevano all’unisono nel mondo / e io, anima di tuo padre, il tuffatore / ti consegno solo questa esperita certezza / (dal fondo dell’abisso, nel brivido del tuffo): / che anche l’uomo può amare eternamente».
Scoprire il linguaggio degli uccelli, dei pesci, scoprire la loro segreta comunicazione dona il fondo di canto e silenzio (l’usignolo che sembra annullarsi quando intona l’infinito o il passero che conosce i pianti e le pene e «cinguetta timido ma indefesso al mattino / portando all’uomo che si sente solo / come in un sogno la vita del giardino»), come «parole mute / che narrano storie lontane e perdute / e il canto degli uccelli, l’inno gioioso / alla vita nel cielo, a quel mondo radioso».
Il capitano del mio mare scopre, invece, il nuovo mondo, racconta l’esito di una stupefatta memoria di un viaggio inaspettato, fatto di gallerie «Buie e improvvise come lunghe scie / che la notte avesse dimenticato/ su quell’asfalto lucido e assolato», di strade nuove, di estati lontane, di limpidezze trasognate e, infine, di una sequela paterna che invita e fa vivere («Mio padre: guidava calmo e sicuro in un percorso tortuoso, si arrampicava sulle montagne fino al mare, e oltre c’era altro mare. Era uno stregone. Giocava col fuoco del camino, con i suoi sortilegi faceva nevicare, portava bene»), come una traccia che resiste ed esplora il mondo.

MUSSAPI R., Le poesie, a cura di Francesco Napoli, prefazione di Wole Soyinka e saggio introduttivo di Yves Bonnefoy, Ponte alle Grazie, Milano 2014.
ID., Luce frontale, postfazione di Giancarlo Quiriconi, Jaca Book, Milano 1998.
BIGONGIARI P., In gita meridiana nell’età dell’ansia, “La Nazione”, 10 marzo 1990.
BOITANI P., Canto degli eroi, da Enea a Scirea, in “Il Sole24ore”, 7 settembre 2014.
BRIGANTI A., I ricordi d’infanzia di Mussapi, in “La Repubblica”, 19 giugno 2012.
CARIFI R., I segni del nuovo, «Leggere», n.32, giugno 1991.
LA CAPRIA R., Mussapi, odissea nell’inferno dei ghiacci, in “Corriere della Sera”, 21 febbraio 2000.
PAMPALONI G., Ambizioni classiche e libertà fantastiche,“il Giornale”, 9 settembre 1990.
PAGNI F., Roberto Mussapi poeta, edizioni Noubs, Chieti 2004.
QUIRICONI G., Tra canto e profezia: “Gita meridiana”, in Luoghi dell’immaginario contemporaneo, Bulzoni, Roma 1998.
RONDONI D., Due lettere a Roberto Mussapi, in Non una vita soltanto,. Scritti da un’esperienza di poesia, Marietti, Genova 2002.

Commentario1 di Irene Battaglini* e Andrea Galgano** a L’ESSENZIALE CURVATURA DEL CIELO RACCOLTA DI POESIE DI ADRIANA GLORIA MARIGO

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Il Commentario sul sito della casa editrice La Vita Felice

L’ EQUAZIONE ESSENZIALE DI ADRIANA GLORIA MARIGO
di Irene Battaglini  29 novembre 2014

La poesia di Adriana Gloria Marigo è un fiume che sgorga e nel contempo include. Mentre s-gorga dal suo cuore immaginale, in-clude attraverso una catena di membrane linguistiche il materiale psichico e relazionale che ella ritiene necessario e utile al compito generativo, che assomiglia molto all’espressione di un gene dello stupore, quasi che si attivasse una catena epifenomenica dell’Esser-ci. Il verso: «[…] nell’ora più confusa / sciolti e ricomposti / i miei nervi issarono vele alla carne / incisero il canto bruno dell’abbraccio […]»2, sembra quasi snodare questo stampo originario.

Il processo creativo di Adriana Gloria Marigo – già in Un biancore lontano ma in modo ancora più marcato in L’essenziale curvatura del cielo – è di fatto ricerca di una Lichtung della parole nitida tra gli ingarbugliati sentieri della memoria delle cose: un discernimento di dritto e rovescio nel suburbe disorganizzato delle parole scomposte e vacue, occultate nell’ambiente protolinguistico delle emozioni. In questo gioco serio la sua scrittura arretra, in alcuni casi, nell’extrema ratio della sofferenza d’amore, quando scrive: «Di questo sogno tocco le sponde mobili / l’acqua che non si fa golfo e / ogni erba declinante il verde // il riverbero dell’ora dentro la / pupilla che sazia il mondo di ogni / tuo mondo, semplice e assente. (A Francesco M.)»3, a mitigare quel che altrimenti sarebbe un intarsio di filigrane in guerra con la perfezione apollinea di un inchiostro di Animus, come nei versi potenti e fieri di “3 febbraio 2012”: «Benedico la sottile luce / levantina / il graffio di gelo / l’eterna aria dissimile / la stirpe dei Reti che / mi arde d’intelletto, / di non fragile cuore»4.

Versi scolpiti e sottili, stagliati, intagliati, decisivi. Parole che decidono il destino di un universo di alberi, bruma, vento, orti conchiusi in un vaso che conserva immortali pianure di fiori incolti, che aspettano una luce che benedice, nomina, assegna identità. Vi è come una scheggia che vien fuori da questi versi, una scheggia che ferisce perché non chiede eco, ma una risposta fresca e chiara, come in una radura che si apre alla Lichtung ma che non consegna al vuoto, se mai raccoglie un seme in un palmo di mano per farvi germogliare mondi intrisi di mito, come qui: «[…] – memoria tenue di universi – / mentre io sgranavo giorni nei miei occhi di ninfa / mi feci vertigine d’ala / intesi l’ammanco originale / la tua nascita sotto un graffio di vento»5.

Potrebbe essere paragonata alla scultura di Giacometti, alla pittura di Morandi, se non fosse per quella delicatezza delle immagini che si svincolano dal cuore e che aprono all’orizzonte di una lettura mercuriale quando non dionisiaca. S-gorgare come a voler uscire dall’ingorgo, vincendone l’inganno di forma con l’astuzia del segreto di Anima. Ci si senti liberati e offerti alla vita, come in questi versi: «Precipita la luce nel mattino. / Impallidisce l’ombra nel mare delle rifrazioni. Emerge una filigrana eretica d’amore»6.

Una poesia che ti mette spalle al muro perché non ha paura, non ha bisogno di nascondersi dietro alla tecnica di assemblaggio delle parole. I segni, i suoni, restano lì scarniti, elementari, magri e sostenuti da un tratto deciso, che afferma anche senza dire dell’oltre, senza raccontare. Con l’ausilio di una punteggiatura che fa emergere le idee come il chiaro-scuro le divergenze tra due petali di uno stesso fiore. Una tensione grafica che possedeva lo stesso Morandi, un ritmo del quotidiano che si appropria a pieno titolo del metafisico, come nelle acqueforti, minime e meditate, ma distese nell’ovvio potente di un quadrilatero di carta.
Una poesia che non sa il tradimento dell’arte, ma che conosce il dolore dell’attesa, il fuoco argenteo di un parto che fa i conti con l’illusione. Scrive Cristina Campo a Maria Zambrano: «In nessun modo Maria, e da nessuna circostanza, tu devi lasciarti indurre a tornare a Roma se prima non hai finito il tuo libro. Hai freddo, sei triste, sogni poco, non hai la forza. Non importa. Tutto questo fa parte del tuo libro, mentre la vita di Roma non ne fa parte, e ti dividerebbe da esso ancora una volta – e questa volta forse per sempre. Che tu scriva o non scriva, che tu sia triste o allegra, non tornare. Aspetta il tuo libro là dove gli hai dato appuntamento. Non lo tradire»7.

Per questo occorre soffermarsi sulla genesi di quest’opera, perché anche Adriana Gloria Marigo ha aspettato, ha scritto e ha dovuto assentare la sua voce dalle cose di ogni giorno per esplorare il cielo di questa sua “essenziale curvatura”. La bellezza di questa poesia non sta tanto nel suo equilibrio tra forme, colori, immagini, spessore, sapienza compositiva – tutte qualità inequivocabilmente espresse al massimo grado della poesia contemporanea – quanto nel sapersi astenere dalla seduzione della parola data. La parola in Gloria Marigo non è data. È pesata e pensata. Vi sono studio e ricerca; il biancore non è candore, il cielo è incurvato ma non curvo sotto il peso del suo azzurro di sperdimento. Ella conosce la trappola del talento, e non vi indulge. Sa che la poesia, quando è scritta, acquista una sua precipua soggettività e di conseguenza sa ben misurare il potere che ha la facoltà, per mezzo del talento e della passione di poeta, di conferire all’espressione arricchitasi di senso compiuto.
Pensiamo, per esempio, alla pienezza di: «Qui cadono tutti i vaticini / […] / Impera solo l’essenziale curvatura del cielo»8. Il rimando è a immagini che oscillano tra il desiderio di elevarsi nella sintesi e la ricaduta del rosso del cuore che precipita dentro se stesso, che ama. Nuvole in movimento che rifondono ogni giorno la volta celeste, ma pur sempre fatte di ossigeno e di idrogeno. Si scalda l’aria al passo di donna, come quando dice: «Io fui lontana / non per mio volere […]», e dunque si avvicina ancheggiando prima di decidere: «[…] un potere / retrogrado indusse la scelta – / distanza che unì l’ammaliante differenza»9.
Adriana Gloria Marigo ha imparato la lezione dei Maestri nel dosare e nel fare, sa spendere e sa confinare le sue creature in una saggia spartitura di note, lasciando come in una jam-session al lettore la libertà di improvvisazione emozionale. La sua poesia è quindi adatta ai gusti di un pubblico colto, ma vivamente raccomandata per i palati più esigenti, perché è una poesia autentica e consapevole. Come dire: so di piacervi, ma mi interessa che sappiate che qualora decidessi, potrei tornare a me stessa, alla mia meditazione sulle cose più grandi, senza tema di solitudine. Come in “Impermanenza”, ai versi: «Mi stanca il volo d’ape / […] / Tra fiore e ape sarebbe / l’estate, se non fosse / la corolla votata al suo destino»10, in cui vi è alternanza di giorno e di notte, di assertività per il proprio compito e di perdono per il proprio destino, ed in misura più sottile e implicita di amore che non esclude, ma determina con il peso di chi sa il proprio valore nella relazione.
Infine, Adriana Gloria Marigo – poeta, ha compreso la differenza tra equilibrio ed equazione, sapendo calibrare i suoi gesti in questa ultima dimensione, alimentando la danza tra significato e segno, tra quantità e numero, e approfittando della sospensione per farne un vuoto che conosce il suo contrario: «Tutto si consuma nell’autunno, / anche quest’alba che disincarna / il mattino devoto al richiamo dei tigli / nel frammento di brina, […]»11, dove tutto diventa frammento, il mattino si trasforma nell’autunno, che è la sera consumata dell’anno, l’alba disincarna al pari della brina, come se una molecola di ghiaccio – con la sua articolazione originale – avesse la stessa qualità categoriale di un movimento di luce come l’alba nel cielo. L’equazione di una curva che invade il cielo di accensioni ancora da realizzarsi.

L’ESSENZIALE CURVATURA DI ADRIANA GLORIA MARIGO
di Andrea Galgano

La poesia di Adriana Gloria Marigo si confronta con la stoffa del tessuto amoroso, non come slancio intellettuale o sintassi concettosa, bensì come forza e spasmo.
La sua posa non ama la frenesia spasmodica, per quanto brillante e sfuggente di un attimo conclamato, ma si appropria del richiamo della realtà, della salmodia del tempo e dello spazio e non cede al ricatto di una energia fine a se stessa, ma comunica al mondo il ritmo del suo divenire esistenziale e metafisico.
La brillantezza dell’essenziale, se da un lato si offre come possibilità di tempo liberato e non ricattato, dall’altro percepisce la “lentezza” della libertà, e quindi, l’apertura del pensiero.
La stagione poetica di Gloria Marigo ha la fecondità-primizia di uno spazio esplorato, di un cosmo raccolto e infine dell’incisione del contatto.
Poiché il contatto con la stoffa della realtà è il suo ornato, il rigore esatto e lucente di una obbedienza: «Precipita la luce nel mattino. / Impallidisce l’ombra / nel mare delle rifrazioni. / Emerge una filigrana eretica d’amore».
L’io che si dona, si pone in ascolto, celebra il barlume della quotidianità vivente e condivisa, è disposto a perdere il proprio fondo, per restituire il mistero, il cuore disvelato, la domanda di se stessi e la sproporzione: «Per felice intuizione compitai / la sintassi del tuo cuore / gli ossimori del tuo volto quando / nell’ora più confusa / sciolti e ricomposti / i miei nervi issarono vele alla carne / incisero il canto bruno dell’abbraccio / da palpito a palpito / per la mistica della rosa».
Scrive Eros Olivotto nella postfazione: «[…] il linguaggio assume una profonda valenza simbolica, si carica cioè di una tale riferibilità da divenire evocativo e, quindi, rivelativo; nel senso che come caratteristica specifica trova in sé la possibilità di evidenziare gli angusti limiti di un modo di sentire che tende ad escludere l’accettazione di quel rischio che rappresenta la vera sfida dell’amore, tutta la sua forza più autenticamente rivoluzionaria. Solo se siamo disposti a perdere, a perderci, l’amore si trasforma in quel qualcosa che ci permette di cambiare […] ed è ancora l’amore che, misteriosamente, ci rende presenti alla vita e agli altri, restituendoci di conseguenza a noi stessi».
L’essenziale di Gloria Marigo diviene, pertanto, il territorio del respiro, o meglio, diventa compito del respiro conoscerlo e riconoscerlo.
È nell’amore, con la sua misteriosa linea dura e vivente, che il dispiegarsi del “Tu” rivela e disvela il colore profumato della grazia e della gioia, la sofferenza solitaria, la mancata declinazione e il dono proteso, come indagine di metamorfosi: «Mi metterò nel silenzio / bianco dei meli ora che / (assassinato dalle tue stesse mani) / tu vivi nella morte del mare / dove le tempeste flagellano / il tuo sorriso / pallido più dell’ombra dell’inverno» o ancora «Quando la stagione si alzò in canti / fin dentro la notte e / l’aria fu mutamento / mi scheggiai come selce: / lame al limine / di ogni mia fattezza».
La materia creativa della realtà invoca l’attraversamento della libertà, che si lascia penetrare dall’intimità essenziale e immediata dell’essere, e, attraverso tocchi ripidi e rapidi, restituisce un’emergenza, una conoscenza di sguardo: «Vedo la terra nella mano del sole / Ogni profumo è incandescenza d’aria».
Ma questa curvatura e questo spasmo non si limitano a dire il limine d’amore e il suo ritmo, ma anzi tentano di riavvolgere le mappe e il piegarsi della terra, per la promessa di un eterno principio: «Riavvolgo le mappe. / Riconosco la terra dal piegarsi / dei rami, dal gioco del vento – / viene la primavera a darci / l’eterno principio».
La sorpresa dello sguardo, lo stupore di quel che rimane quando tutto sembra crollare, il desiderio oltre-limite e il sapore del giorno celebrano l’orizzonte ventaglio dei viaggi, il punto che si curva per restare, l’epifania che conosce prossimità e avvenimento: «M’assesto i pensieri / come un cappello di fiori/ così che per un’aria bizzarra / s’involino petali fino ai segni / del tuo viaggio di vela / fino alla lamina dell’orizzonte / prossimo al tuo sguardo / che addensa le rose».
Questa poesia che conosce e sconfina, morde la grazia per vivere, si affianca al dato dell’esistenza per celebrarne il sofferto e lucente accadimento e verso cui farsi «libellula di parola / per la fuggevole tua presenza / il nominare all’infinito futuro / e il vocativo che non / sapesti declinare».
È con l’avvenimento della realtà che la poesia di Gloria Marigo fa i conti. Ed è con la sua trama misteriosa e la sua lingua duttile che l’amore, che in essa proclama tutto il suo bagliore, sogna e tocca «le sponde mobili / l’acqua che non si fa golfo e / ogni erba declinante al verde / il riverbero dell’ora dentro la / pupilla che sazia il mondo di ogni / tuo modo, semplice o assente».
Il prezzo della parola è la libertà di qualcosa che cerca la vita, come perla d’aria e memoria tenue: «S’inclusero le tue parole / in una perla d’aria / – memoria tenue di universi – / mentre io sgranavo giorni / nei miei occhi di ninfa / mi feci vertigine d’ala / intesi l’ammanco originale / la tua nascita sotto un graffio di vento».
La capacità di decifrazione del segreto del mondo e l’ulteriorità della parola testimoniano una vertigine metafisica in cui lavora il silenzio, la sua geografia, il fraseggio del suo bagliore (o biancore, per usare un termine caro alla poetessa).
I toni di cui si impossessa l’intimità poetica di Gloria Marigo trascina in profondità, ed è nella proprietà della rarefazione che essa puntella il verso, lo scalfisce, lo modella per conoscere la gemmazione «dalle oscure radici, / il contrasto apparente del rigore / verde scioglie nel cristallo che / magnifica le linfe».
Le lamine dell’orizzonte poetico hanno rimbalzi specchiati, domanda continua e addensata. Ed è proprio l’addensarsi, l’oscura e vibrante parola che sconfina nella sua poesia, forse la traccia immemore che si ricompone naufraga: «così io resto immemore / impigliata dove s’addensa / l’alga nata tra la roccia e / l’acqua» (Il corsivo è mio).
La lotta, allora, tra inclusione ed esclusione non ha vincitori. Anzi, semmai, queste due forme umane sembrano fondersi sia nei paesaggi di luce sia nelle barene dell’oscurità.
È il contrasto umano che si abbandona per vivere, che incontra «il grumo incandescente / della tua corta follia», per rivelare poi «il vento / l’altezza della notte abbandonata / sulle rapide del giorno / nel duplice destino / di corolla e spina».
È l’approdo lucido e remoto alla pienezza dell’essere che intaglia la terra, cesellandola e ornandola, che nulla esclude o censura, spingendosi in un abbandono ricolmo e in una umida trafittura di pianure.
Il paesaggio della sua poesia non si misura con il vuoto, anzi, nella sua percezione sensoriale, avviene l’attesa del prodigio, «l’orbita rovesciata / nella gravità dei corpi, l’urto / scomposto della letizia».
Scrive Rita Pacilio: «Lo spazio-tempo in cui l’autrice errante diventa peregrina intellettuale è destinato a diventare uno spazio cosmico-riaccolto, mai immaginato, bensì definito dall’analisi degli elementi conoscitivi fisici e mentali sempre in tensione. L’attesa, l’incontro, l’illusione, l’incanto, il ricordo, il disincanto, l’ostinatezza costituiscono la colonna vertebrale di questa raccolta poetica che sorprende per le dinamiche metaforiche descritte, originali e possibili come unica via di scampo alla fuggevole e insoddisfatta sensibilità del mondo».
Ciò che accade, quindi, scontorna l’incontro di cielo e terra ed è per questo che il posarsi dell’amore si fa coltre radicale e matura e orizzonte di gioia precisa.
Il germoglio della natura (e le sue stratificazioni), che si spinge fino al «delta del vibratile verde», rappresenta la preda e l’intuizione dell’io («Della stagione prediligo / il sortilegio terra-cielo / i cantori delle fronde / l’aria di vela azzurro Tintoretto / l’arancia della notte / tra l’albero e il tetto»), il dato vivente, il gioco oltre-tempo («Fuori dai tuoi occhi cadono / tutte le nebbie del mondo») e la dismisura sbrecciata, per farsi, agostinianamente, carnale fino allo spirito e spirituale fino alla carne: «Qui cadono tutti i vaticini. / La tua voce di oracolo soave / s’infrange contro l’alloro. / Impera solo l’essenziale curvatura del cielo».

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«Colui che il gran commento feo» è l’appellativo con cui Dante Alighieri chiama Averroè nella Divina Commedia (Inferno, IV, 144).
– In età ellenistica e successivamente medioevale, il termine commentario passò a designare anche un lungo ed erudito commento riguardante un’opera di particolare importanza, specialmente dell’antichità: esso consisteva quindi in un’interpretazione o esegesi dell’opera trattata per renderla accessibile ai contemporanei. Ad esempio il filosofo arabo Averroè compose un poderoso Commentario ai libri di Aristotele, che lo rese noto nell’Europa cristiana.
– Commentari sono anche chiamate le memorie dello scultore fiorentino Lorenzo Ghiberti, una delle fonti primarie più antiche sul Rinascimento.
– Si chiamano Commentari le memorie di papa Pio II.

* Pittrice, Docente di Psicologia dell’Arte e Coordinatrice della Formazione alla Scuola Quadriennale di Specializzazione Post Laurea in Psicoterapia Erich Fromm di Prato, riconosciuta dal MIUR.
** Poeta, Scrittore e Critico Letterario, Docente di Letteratura alla Scuola Quadriennale di Specializzazione Post Laurea in Psicoterapia Erich Fromm di Prato.

2 A.G. Marigo, L’essenziale curvatura del cielo, La Vita Felice. Milano: 2012, “Per felice intuizione”, p. 46.
3 Ivi, “Di questo sogno”, p. 32.
4 Ivi, “3 febbraio 2012”, p. 18.                                                                                       5 Ivi, “Senza titolo”, p. 53.
6 Ivi, “Giorno”, p. 26.
7 Cristina Campo, dalla lettera a Maria Zambrano del 25 luglio 1962, in Se tu fossi qui. Lettere a Maria Zambrano 1961-1975, p. 27.                     8 Ivi, “Senza titolo”, p. 59.
9 Ivi, “Io ti fui lontana”, p. 58.
10 Ivi, “Impermanenza”, p. 42.                                                                                      11 Ivi, “Tutto si consuma nell’autunno”, p. 9

L’insufficienza nitida di Giovanni Giudici

di Andrea Galgano 13 novembre 2014

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giudici-giovanni-447x387Il laboratorio poetico di Giovanni Giudici (1924-2011) ha l’esito fertile di una biografia mirata, di uno scoperchiamento che tende alla pienezza della metafora, come corpo e della lingua e materia testuale: «Farsi di te non ci fu dato mia parola / Scrittura di scrittura e vanità».
Il dato biologico e biografico condensa la frammentarietà di uno spazio autentico che, come scrive Silvio Ramat su «Poesia» del gennaio 2001:

radicalizza, cioè sospinge verso le radici, l’autobiografia: senza contraddirla ma integrandovi elementi più oscuri e profondi, ed elaborando un mito inesauribile: quello che in Giudici nasce dalla, e nella, sua più acuta lacuna, l’assenza della madre, perduta nel novembre del ’27 e tuttavia nella costruzione del ricordo, accreditata dalla capacità di fornire al figlio i fondamenti di quella “educazione cattolica” di cui recan traccia più o meno visibile tante poesie. […] Il “sublime, venga salutato con un “Ciao” confidenziale o misurato nel suo “prezzo” è storicamente ingrato e ambiguo: comportando di necessità, a secolo così inoltrato, la coscienza di quanto sia arduo spenderlo pubblicamente. Non a caso, di qui in avanti, Giudici s’imporrà come il massimo parodista del nostro Novecento, in poesia […].

L’elezione dell’istante secerne il suo rito quotidiano, il gesto della sommessa esperienza che si impone di colorare il fulcro impiegatizio, come un lampo o un avvenuta partecipazione di anni affluenti: «Eppure sempre a ricominciare / frugare un minimo vero / Al di qua della fine individuale / sempre / consumati a vigilie lente / noi sempre a non osare / promettere paradisi – ma / Un vedere per enigma / nella insidiata convivenza -» (Da un tempo di nessuno).
Esiste pertanto nella sua poesia, come sostiene Raboni, «una svolta, una scoperta che ne segna il vero principio» e «consiste nell’abbandono dell’io lirico-autobiografico a favore di un io-personaggio, un intellettuale di estrazione e destino emblematicamente piccolo-borghesi che assume su di sé – ma deformandole, distanziandole, ironizzandole – vicende, aspirazione e amarezze dell’autore» laddove «lo scambio delle parti arriva a punte di quasi inafferrabile e ineffabile (e poeticamente assai produttiva) ambiguità».
È sulla materia del sublime che il suo fulcro poetico tocca il fulcro della perplessità e della contraddizione, verso cui giustificare la sponda della sua insufficienza che «è fuori, o fuoriesce, si oggettiva, nel mascheramento, in un eletto apparato di ritmi e metri, timbri e, ovviamente, toni, insomma un sistema variabile, ma sempre impetuoso e cogente, da cui trapelano a un tempo il sublime […] e la consapevolezza che lo si può esporre (o montalianamente “contrabbandare”?) solo per travestimenti e parodie» (Silvio Ramat): «Non io che per mancanza di eroismo ti deludo / Mia umiliata via al sublime / Ma almeno voglio dirti che lo sapevo / Quel che dovevo – mentre guardavo al fondo della fine» (Noi).
Scrive Goffredo Fofi:

C’era in lui una forma di narcisismo sottile, che cercava complicità e condivisione, e la sua capacità di auto-ironia lo portava fin quasi all’auto-denigrazione su quelli che riteneva suoi difetti (da confessione cattolica e però pubblica, di chi tollera e si tollera nella comune coscienza dei limiti dell’umano, dell’imperfezione di tutti). Questa era una caratteristica del tutto insolita nell’ambiente culturale del tempo, che lo faceva resistere assai bene all’austerità fortiniana e che mi servì forse di modello per resistervi anch’io.

Il trapasso liturgico alla litania diviene occasione per raccogliere la possibilità di un reperto lucente di quotidianità, un saluto, appunto, che si allunga sull’illimitatezza e sulla reversibilità del tempo, sull’avvenimento della parola e sulla totalità della deposta insufficienza della propria fragilità: «Tu, cosa della cosa / o Sublime. / Al di là della fine / e senza fine. / Senza principio» o ancora «Ciao, Sublime. / Ciao, Sublime. / Sublime che non si volta. / Sublime che non si ascolta. / Sublime senza prima / né ultima volta», «Io no – che sempre aspetto / il cominciare, l’apertura. / Io no – per poca fede. / Per poca paura. / Io – senza occhi per contemplarti. / Io che non ho ginocchi per adorarti».
In O beatrice, il raggiungimento autobiologico del sublime convoglia verso una pacata sicurezza e una desinenza linguistica e temporale, destinate a un prezzo decisivo: «Mi domandi se potrai, / Mi domando se potrò. / Io sarò – non sarai. / Tu sarai – non sarò. / Per noi sarà quello che non potremo. / Quello che non saremo su noi potrà. / Non-tu non-io noi -remo. / Ma contro la specie che siamo orgoglio estremo / verbi avvento al cliname[n] / che ci rotola a previste tane / umanamente inumane / persone del futuro seconde e prime. / Io -rò. / Tu -rai. / Il niente / è il prezzo del sublime».
Commenta Giulio Ferroni: «Nel confronto col sublime appare insomma in atto la paradossalità dell’esperienza, viene come a scavarsi la dimensione interna, oscura e contraddittoria del reale, della grammatica che tenta di fissare il tempo in una misura umana, che, nell’atto stesso di quel proiettarsi nel tempo, rotola verso il niente».
L’intreccio sabotato di vita e morte, il proprio essere concreto divenie slancio oltre il dicibile, immediatezza esistente, imprevedibilità sfuggente che squaderna le prigionie del sé per riappropriarsi in una fragilità senza riparo.
Il limbo «delle intermedie balaustre» richiama un’ulteriorità che è corporea e metafisica, e allo stesso tempo, aspirazione e furtiva umanità.
La consequenzialità e la prossimità del suo dettato poetico certifica l’istanza e l’ironia chiaroscurale come purità pulviscolare, come apertura dell’esistenza e biologia smarrita, in cui l’ironia e l’integralità del suo limite si trasferiscono e tendono a una chiarità inattingibile e sperduta.
È la coltre della sua onirica teatralità, il barlume di una sincronia che espone il suo umano travestimento al suo umido chiaroscuro, alla liturgia spezzata che misura i limiti del suo laboratorio cittadino (Milano, Roma) e il crepuscolarismo della sua vertigine.
Laddove la gestione dell’universo privato affolla la scena in cui la scrittura vive, Giudici descrive i volti, le maschere, l’atomo urbanizzato degli anni Sessanta, la cupezza del decennio successivo, le contraddizioni della sinistra «vivendo questa dialettica storica da una specola di morale cattolica e comunista, intesa in senso tutto cittadino, entro un esercizio di valori, turbamenti, colpe, illusioni e contraddizioni maturati per le strade della città, nei luoghi di ritrovo pubblici o negli interni casalinghi» (Giulio Ferroni).
Aggiunge ancora Ferroni:

Nei suoi esiti ultimi […] la poesia di Giudici dà voce per vie indirette, per appassionate tangenze, attraverso i suoi scatti esistenziali, teatrali e linguistici, a questa ansia per la situazione del mondo e il suo destino: ma questa ansia sembra spesso provvisoriamente sospendersi in un severo incauto musicale, in misteriose e ambigue percezioni di luce che si proiettano sulla storia individuale: sempre in un affidarsi al ritmo, a un impulso ritmico che sembra quasi portare i versi a farsi da sé, con una possibilità di esiti direttamente colloquiali e di diversioni verso un’oscurità come sospesa, in bilico tra lo svelare e il nascondere.

La sua perpetua riduzione, se da un lato si impadronisce della scena nella minima disposizione quotidiana, dall’altro conosce gli spigoli ebbri dell’esperienza sociale, in attesa di una epifania salvifica e attraverso la modestia salutare della pura grammaticalità biografica.
È l’esito di un rapporto semplice, di una autenticità che disarma e propende al segno della storia: «Nomino i nomi – / Quanto di storia mi è transitato addosso / a me che non sono un privato / uno che incontri puoi anche capirlo / Chi è – non quel che è per diventare».
La scena onirica, la passione sotterranea, la presenza e l’occorrenza casalinga, la suggestione elitaria e la proficuità di massa, lo squarcio dell’essere e la sfida al sublime, rappresentano l’esito di una ascensione che, dapprima, si impossessa dell’invocazione per poi cercare il punto di fuga e lotta con il dio del foglio per un ultimo e infinito scarto di senso: «Poi non scorgo che via d’uscita / Nel lume di questa vita / In te rifugio il triste orgoglio / Spessore di questo foglio / E nella mente mi assottiglio / Microbo figlio di figlia d’un figlio / Specchio del nostro doppio io / Ti do del tu ti chiamo dio».
La liturgia cadenzata e il recitativo battente culmineranno poi in Lume dei tuoi misteri (1984) e in Salutz (1986), dove l’inaudita parodia e il profumo medievale contribuiranno allo scatto ironico e ossimorico del limite, come accensione ed eccesso, formulazione ed espansione amorosa.
L’io che tenta (invano?) di possedere il suo universo calcolato, ingarbugliato nelle colpe, nelle speranze, nei segreti, che cerca di proteggersi nelle sue abitudini quotidiane, dopo la guerra nefasta, non coincide propriamente con l’autore, bensì, come annota Giulio Ferroni: «è piuttosto una recitazione di sé, non priva di suggestioni letterarie, che convoca intorno a sé altre maschere recitanti, tra gioco e disagio, tra divertimento e malessere, come nell’impossibilità a uscire da sé, pur nell’aspirazione a un’altra vita di cui, da quello spazio, non si può nemmeno figurare l’immagine»: «Una sera come tante, ed è la mia vecchia impostura / che dice: domani, domani… pur sapendo / che il nostro domani era già ieri da sempre. / La verità chiedeva assai più semplici tempre. / Ride il tranquillo despota che lo sa: / mi numera fra i suoi lungo la strada che scendo. / C’è più onore in tradire che in essere fedeli a metà» (Una sera come tante).
L’associazione di cadenze e suoni traspongono il tempo dell’attesa in una prigionia- aspettativa che invoca l’altrove, come una gioia rattrappita e negata.
È un “oltre” proclamato ed escluso, visitato nei reperti onirici e in un altro da sé trasognato e immaginato: «Parlo di me, dal cuore del miracolo: / la mia colpa sociale è di non ridere, / di non commuovermi al momento giusto. / E intanto muoio, per aspettare a vivere. / Il rancore è di chi non ha speranza: / dunque è pietà di me che mi fa credere / essere altrove una vita più vera? / Già piegato, presumo di non cedere» (Dal cuore del miracolo).
L’immaginazione di trasformarsi, per sfuggire all’imminenza burocratica della morte, è l’esito di un’immersione inafferrabile e di un rilievo intangibile, come strana resurrezione di abiti: «Abiti che sopravvivrete / Al niente dell’eterna quiete […] Abiti – e non già corpi / Di quel resurgere, o risorti / ai quali estremo soprassalto / lasciò ogni vita un po’ di caldo: / Che vani e stretti in Giosafàt / su voi di noi respirerà».
Scrive Daniele Piccini: «Ecco, da Autobiologia a O beatrice e oltre, il poeta immagina e sbozza figure ed emblemi di una compiutezza e integrità vitale che non può ch esprimersi in forma allusiva, cifrata, quasi onirica, con un senso di inadempienza ormai sollevato sul piano dell’esistenza».
Ma è una improvvida insufficienza. La poesia di Giudici fa i conti con la irreperibile sceneggiatura del testo. La cura dell’essere, invece, con l’impalpabilità linguistica e con la carta sottratta: «Lei che ha potuto accedere ai più gelosi manoscritti / Non darà troppo peso a ogni variante del testo / Altro è filologia altro è la vita né mai / Presume la propria maestria il maestro / Che faticò e stentò sulle carte sottratte / da una fatua speranza familiare / Alla sorte del fuoco che abolisce e perdona / Stipate nell’angustia di quella casa sul mare / Egli che spesso si era basato sul parere / Di frastornati parenti di passaggio / Vocante uxore ad cenam e di un fautore / Troppo devoto all’incerto messaggio / Però al di sopra del corrivo consenso / se stesso infine vagliando allo specchio / se non avesse inteso la sua parola / Coprire di vano suono uno spazio vuoto / O dubitando nel declinante intelletto / Se il partito più saggio non fosse lasciare la cosa / Così com’era venuta d’emblèe / Essendo nostra scienza l’esatto del press’a poco».
Il convenuto richiamo ai fantasmi, le soste inerti, l’orizzonte approssimato (Quanto spera di campare Giovanni) figurano il procedimento e la retrocessione di un ritmo che fonde lingua e dispiegamento dell’esperienza, come implacabile nudità.
È la maternità della lingua che ritorna alla poesia e si offre, vitale e spontanea, abbracciando il vivente e il molteplice, come illusione e durezza, come umiltà lucente e calore, che levigano la vita presente e la casa che abitano in una estremità assoluta: «Mia lingua – mia vita / dolcezza flatus vocis che m’hai tradito / tuo servo che t’ho servito / anch’io perduto per poco / di calda madre / in letto con noi per gioco / Mia lingua – italiana / variante umile tosco-genovese / lingua del mio bel paese / guastata nei futili suoni / di vacue clausole / e perfide commozioni».
Commenta Giulio Ferroni: «Per lui la vera poesia è quella che fa della lingua, anche di quella più intimamente conosciuta e praticata, qualcosa di strano: cattura tracce di possibilità sconosciute, segni di un prima o di un oltre rispetto alla normalità del linguaggio e dell’esperienza».
La distillazione forgiata dai millimetri dell’esistenza, il dizionario che richiama e raschia il fondo delle cose, come «morse di voci nel freddo», nel «Chiuso idioma e apertissimo / Dei due veglianti nel quale / carpisco nitido il suono / E perdo il significare».
Il silenzio roco, il balbettìo di una lingua più che muta («Balbetto il parlare di un altro / Io fatto di persona non vera / Mi riascolto compitando / pensieri di lingua straniera»), che unisce idiomi e assedia lo spazio onirico, conosce il vero che sovrasta, la sua voce difficile da comprendere e, ancora una volta, l’insufficienza di proiezione, il limite degli inizi, la contraddittorietà delle stagioni.
Commenta ancora Ferroni:

Il fuggire del tempo suscita inoltre una tensione a concentrarne e superarne la fuga nella percezione di un punto definitivo, nella fissazione di un attimo in cui si risolva tutta l’insufficienza dell’esistere. Il personaggio sognato e immaginato, le molteplici maschere e dislocazioni teatrali che si danno in questa poesia, tendono sempre a collocarsi in un “altro” tempo, sospeso tra cominciare e finire e in continua investigazione dell’attimo-punto in cui si afferma lo sfuggente senso della realtà, l’inafferrabile essenza dell’io, con tutte le sue passioni, i suoi desideri, le sue colpe.

Contro la cancellazione del tempo, l’avvicinamento come negazione, la costruzione che implode, sembra schiudersi lo sguardo della domanda e il futuro, pertanto, rischia di apparire incerto e sconcertato: «Noi guardiamo / E si chiude / Il volto a lungo a noi negato. / Come sarà – ci domandammo. / Ci domandiamo – com’è stato / E tutto l’amore che amiamo. / Tutto l’odore che odoriamo, / Tutto il patire che patiamo: / Sei tu che ami e odori e patisci, / O Futuro che ti demolisci. / O Futuro che entri / dentro le nostre porte. / O Futuro che ci costruisci. / O Futuro che Sali a noi / Tua morte».
La convergenza delle immagini si sofferma sulla franta quotidianità, in cui ripararsi, ed ecco la fortezza che allontana la brevità consumata e la risposta tardiva dell’io alla realtà.
Forse il nuovo inizio è dimensione e sovrapposizione di un rivelamento di oggetti e vertigini che sottentrano a una perdita inguaribile: «E dunque ho amato l’inizio / La voglia di essere accolto / nei bei luoghi diversi invidiati / Nell’aldiquà del gelido cristallo quotidiano / La balbettata lingua silenziosa / Plaghe remote le mie mani brancolando / Oggetti fuor della vista / A ogni scoperta tu sai / ride e fa festa l’infante rassicurato / passo a passo movendo al suo adempiersi – / Si distrugge così nel costruire / L’animale adulto / Che mai più ricomincia: / Io invento questo inizio al mio finire».
Scrive Maurizio Cucchi:

Ciò che appare evidente, in Giudici, è la consapevolezza dell’inevitabilità di una condizione. Una condizione di esibita mediocrità, espressa nell’adeguarsi dei gesti e delle parole a tale realtà, nell’assumere un atteggiamento e un gestire conseguente che è quello di una commedia spesso grottesca, condotta per episodi narrati e momenti di acuta sintesi definitoria. Un collocarsi prudenziale del personaggio, dell’io narrante-lirico, dietro una maschera remissiva (ma, appunto, una maschera), di accettazione del grigiore quotidiano, inteso come l’autentica dimensione, o quanto meno l’unica dimensione possibile concessagli, di cui il fare poetico diviene in fondo la forma più alta di smentita e di riscatto. Anche perché un atteggiamento, proprio in quanto tale, suppone o sottende un diverso sentire, magari persino opposto, magari intimamente inteso come liberatorio, come possibile via di fuga.

Empie stelle (1996) e Eresia della sera (1999) ripercorrono l’esistenza dell’io, affermano la lotta dell’inizio e della fine e la loro «vanificazione», come afferma Giulio Ferroni.
La notte sul «cuscino sempre asciutto» è come l’orma della fuga inabitata della quotidianità minima e del nido senza piume, «di quel bar luminare io appena uno / Separato persisto se tu mai / A frugarti infinita / In me ti posi e sposi e vieni e vai».
Il perenne transito mostra non l’ignavia ma, ancora una volta, il segmento della vita imperfetta, la mancanza di coraggio che non ha armato gli aerei corpi di letizia, il caro prezzo dell’apparenza, il tardo amore, sospeso nel silenzio, che fu «nella diversa lingua / E non mai forse accaduto».
Ora il nostro avvento che permane nell’ «essere chi non siamo stati / Essere un tempo che non siamo», ricerca ancora il balzo della sosta perduta, al cospetto dell’eterno, per essere dove non viviamo e forse proclama il taciuto addio all’infanzia, come consueta sovrapposizione di memoria: «Addio, addio giuochi dorati / Da voi di nuovo incominciare / Alla palla a nascondino / Quasi fossimo oggi nati / Cullati da una lenta storia / Nel cuore di un sonno bambino», o ancora come l’inerme esiguo volo dell’amica Grazia Cherchi che non allinea più distanze ma dice: «Vivo per essere vivo / Quando che sia raggiunto / dal fine del mio nascere / dal fine del mio nascere / Dove remoto scrivo – / il Vero il Nulla il Punto».
Il «dormiveglia di spine» di Eresia della sera (1999) confluisce ne Frammenti dal comunismo e nel suo reiterato profumo illuso, finisce per arretrare e lasciare la scena.
Il repertorio di Giudici si apparta nella remota condizione del tempo affiorato dal disordine memoriale, come un ritaglio o un approdo che dilaga sui lindi smalti e sulle sbilenche figure dei ricordi di guerra.
La solida e sghemba scena, descritta dal poeta, si accompagna alla sensazione della precipitazione del tempo della vita «nell’attimo risolutivo in cui si fissa la fine, sulla spinta del fulmineo invito a sentire la temperatura del latte con il dito, per evitare che nel bollire vada fuori: irrisoria e insieme stupita risoluzione di ogni esperienza nel punto del suo dissolversi» (Giulio Ferroni).
L’aria raggrinzita accompagna l’esistenza tracimata: «Come in quest’aria si raggrinza / Il tempo della vita che tracima / Ciò che fu immenso preso stretto in una pinza – / Un passo ed è finito: / Senti il latte se è caldo / Mettici il dito».
Il tempo confluisce ancora nell’amore-non amore dei ventiquattro frammenti del Primo amore che impongono la vertigine della nostalgica coltre lontana e conclusiva. Però, di contro, racchiudono l’indizio di una storia personale che si risolve e si chiude nel tempo disfatto e irraggiungibile, come sigillo iniziatico e come ironia di una giusta gloria: «Uno che in versi a un suo deschetto invano / Di te scriva serale eppure c’è / Nella disfatta pancia di milano / AI margini del sonno e sembra me / Se nel remoto cuor e il dubbio insista / Non altri esser che te della mia storia / Di non amore la protagonista / credi che è vero e ti dà giusta gloria».

GIUDICI G., Tutte le poesie, con introduzione di Maurizio Cucchi, Mondadori, Milano 2014.
CORTELLESSA A., Qualcosa che c’è. Giudici e Zanzotto, in Due poeti, due amici, due uomini comuni: Giudici e Zanzotto, Atti della giornata di studi di Roma, 16 dicembre 2011, sezione monografica a cura di Giulio Ferroni de «l’immaginazione», XXVIII, 268, marzo-aprile 2012.
FERRONI G., Gli ultimi Poeti. Giovanni Giudici e Andrea Zanzotto, Il Saggiatore, Milano 2013.
FOFI G., Ricordo di Giovanni Giudici, in «Lo Straniero», 2011.
PICCINI D., La vita mancata in versi, in «Poesia», settembre 2004.
RABONI G., Poesia degli anni Sessanta, Editori Riuniti, Roma 1976.
RAMAT S., Giovanni Giudici / I versi della vita, in «Poesia», gennaio 2001.

Le immagini di Giuseppe Panella

di Andrea Galgano 8 ottobre 2014

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9788884102027Scrive Andrej Tarkovskij:

«L’immagine artistica è un’immagine che assicura a se stessa il proprio sviluppo, la propria prospettiva storica. È un seme, un organismo vivente in evoluzione. È il simbolo della vita, ma è diversa dalla vita stessa. La vita include in sé la morte. L’immagine della vita o la esclude oppure la considera come l’unica possibilità di affermare la vita. L’immagine artistica è di per sé espressione della speranza, grido della fede, e ciò è vero indipendentemente da cosa essa esprima, foss’anche la perdizione dell’uomo. L’atto creativo è già di per sé una negazione della morte. Ne consegue che esso è intrinsecamente ottimista, anche se in ultima analisi l’artista è una figura tragica. Per questo non possono esserci artisti ottimisti e artisti pessimisti. Possono esserci solo il talento e la mediocrità» (da Martirologio-Diari 1970-1986).

Il poderoso saggio di Giuseppe Panella, docente di Estetica alla Scuola Normale Superiore di Pisa, Le immagini delle parole. La scrittura alla prova della sua rappresentazione, edito dalla fiorentina Clinamen, indaga, in nome dell’immagine, descritta o reale o mentale, lo stretto rapporto tra le discipline volte alla formulazione del discorso, alle imagines memoriae, al legame tra visualizzazione e composizione.
La reale incompatibilità tra parole e immagini, partite dall’analisi di Foucault, punta all’origine della comunicazione, alla sua versatilità, e all’atto linguistico: «La poesia è, dunque», scrive lo studioso, «lo spazio in cui è possibile collegare immagini e parole, in cui si esalta e si definisce l’esperienza dell’identità coniugata attraverso le differenze dei suoi segni (o viceversa), il luogo in cui le similitudini nascoste all’interno dello strato roccioso dell’oblio emergono grazie all’azione corrosiva di succhi poetici sotterraneamente distillati e operanti in segreto» (p.16).
In un saggio, dal titolo L’arte della memoria, Francis Yates, soffermandosi sull’atavica e sostanziale uguaglianza tra poesia e pittura, confluita nella formula oraziana ut pictura poësis, così sintetizzava: «La teoria dell’equazione poesia-pittura poggia anch’essa sulla supremazia del senso della vista: il poeta e il pittore pensano entrambi per immagini, che l’uno esprime poetando, l’altro dipingendo. Le sottili e sfuggenti relazioni con le altre arti che percorrono tutta la storia dell’arte della memoria sono così già presenti nella fonte leggendaria, nei racconti attorno a Simonide, che vide poesia, pittura e mnemonica in termini di intensa visualizzazione».
La stuporosa fascinazione di Walt Whitman, che inaugura i prodromi della modernità, apre il catalogo del mondo alla sua composizione e le immagini «di cui il mondo esterno è composto si incontrano e si scontrano con le idee interiorizzate e introiettate in profondità nella mente del poeta, fino a realizzare un cortocircuito lirico continuo e travolgente che produce alla fine l’emergenza della poesia. […] Il poeta non può fare a meno del contatto con la materia della sua scrittura e con la concretezza dell’esperienza di vita che ne è il sostrato imprescindibile».
L’immagine illuminata di Whitman si staglia ed emerge come trionfo visibile e come elemento dinamico, con cui la poesia si appropria della pienezza delle immagini per compiersi e addentrarsi nel magma della realtà.
Laddove Hopkins fa ondeggiare la fresca profondità del reale con l’imperiosa potenza delle sue epifanie, «il gradiente sonoro delle parole utilizzate si fonde così con la descrizione dell’evento facendo emergere dallo sfondo indistinto della natura la forma privilegiata del canto libero» (p.26).
La raccolta delle immagini dà corpo alla sua campitura, al moto composito che si esprime ed emerge nella sua fosforescenza.
Il saggio percorre le linee di un mosaico che diventa preludio. Se D’Annunzio ha espresso la carnalità umbratile della parola e il suo fuoco, la totalizzazione (e tragicità) dell’io, l’incoscienza dello stile: è la dischiusura delle immagini a far nascere la germinazione poetica, Joyce percorre la selezione e collezione epifanica, come coniugazioni del Sublime «con l’idea catartica (e , quindi, aristotelica) della scrittura come espressione di “momenti di essere” che solo la loro (apparente) riuscita e perfezione potranno redimere dall’oblio e salvarli dall’essere confinati nella stanza buia della dimenticanza» (p.35).
Lo spostamento dell’imagismo di Pound, nato dagli stimoli teorici di Thomas E.Hulme, tocca il culmine breve dell’esattezza e della densità nuova del linguaggio dell’immagine («ciò che presenta un complesso intellettuale ed emotivo in un istante di tempo»), che sovrappone i livelli simbolici e letterali, inventando un verticale superamento visuale, un’ appropriazione del flusso metamorfico dell’esistente, e in questa ricerca «di valorizzazione della parola come “forma naturale” dell’immagine, il poeta americano cercava di liberarsi dal carico “filologistico” che aveva caratterizzato talune sue prime prove […] e di produrre un soffio rivitalizzante […]» (p.43).
Con Apollinaire la poesia inizia a farsi allusione ed espansione, condensa la sua lampante manifestazione in una scena visiva che «proprio per questo motivo e proprio perché accetta l’idea della fine della comunicazione artistica come evento esclusivamente verbale, rappresenta una forma ulteriore dell’utilizzazione delle immagini come parole e al posto delle parole».
Nei suoi successivi passaggi il saggio si snoda in tre direttive, che mettono a fuoco le analisi delle immagini all’interno del dispositivo di scrittura e di interpretazione critica.
L’istanza fenomenologica di Bachelard, analizzata nel volume, fa luce sullo spazio immaginato e sullo spazio in figura dell’immagine. Le fascinazioni (rêveries) elementari approdano al superamento della realtà che, se da un lato, sconfinano nell’esperienza onirica, dall’altro, diventano fenomenologia cosciente.
Bachelard, pertanto, come scrive Giuseppe Panella, «cerca di riscontrare (e di ritrovare di conseguenza) nell’azione dell’inconscio i segni più significativi ancora accessibili del loro processo di trasformazione in registro consapevole delle intuizioni e delle sospensioni di immagini che popolano la pagina scritta. Le immagini si fanno realtà nel momento in cui vengono riconosciute come tali» (p.62).
L’Arte come perfetta sintesi di “intuizione”ed “espressione”, come prospettato da Benedetto Croce, si richiama alla vichiana logica poetica, saldamente ancorata all’autonomia e alla fantasia dei suoi lumi sparsi.
Croce fa coincidere l’Arte con la conoscenza intuitiva, l’Armonia come suo segno distintivo, e conseguentemente, «ciò che è libero dai condizionamenti (concettuali e/o concreti) della pratica artistica perché è essa stessa una delle forme “autentiche”della pratica […] Certamente, la poesia non è solo espressione lirica e non è soltanto arte o letteratura, non è pura forma né grossolano contenuto, non è oggetto dell’attività singola di un singolo staccato dal proprio contesto storico, non è eternità congelata nell’atto dell’ispirazione come una sorta di folgorazione in decrittabile e/o ineffabile, non è solo tecnica o poiesis […], non è rilettura “in pensieri” del proprio Zeitgeist né anticipazione dello stesso, non è attività concettuale né pura e semplice espansione dell’Io in forme prescritte dalla tradizione o dalla convenzione letteraria o dal gusto o dal mercato delle lettere» (p.76).
L’indagine sulla traccia filologica di Contini prima, e Muscetta, poi, si sofferma sul rapporto della filologia come lettura, riscoperta e trasmissione di segni e studio di strutture.
Lo «scandaglio genetico» dell’opera, come nel caso della riscoperta dei Sonetti di Belli, mira a ricostruire il fulcro dei suoi passaggi e delle sue peculiarità espressive, attraverso l’impegno storiografico, e la sua forza antipopolare.
Il rapporto tra immagini e parole, nei diversi momenti della storia letteraria tra fine Ottocento e Novecento e nelle ipostasi delle avanguardie, analizza il lavoro scavato (direbbe Heaney) della parola poetica, come un limite sovrabbondante, che in esso trova forza e abbandono, capace di presentare la provocazione della realtà, la sua meraviglia e il suo assurdo.
Persino il silenzio diventa, come nel caso di Rimbaud, compiutezza e conclusione: «La poesia realizzata in termini di pura rappresentazione trova proprio nelle sue immagini la sua ultima metamorfosi in un diverso progetto di vita: dalla poesia si passa all’amministrazione coloniale e senza soluzione di continuità. Dalla lirica come rappresentazione “colorata “ del mondo (è il caso “pittorico” di Voyelles) non si può che giungere al mondo come caleidoscopio di colori, quale scomposta asimmetria di frammenti poetici che non si possono afferrare se non per un attimo» (p.131).
Il sogno e l’epifania poetica della città, poi, condensano il teatro di una totalizzante e suprema arsi immaginale, in cui rapportarsi al proprio inconscio (Aragon), all’inventario della sua topografi (Benjamin), al suo moderno teatro (Schnitzler), alla non località inestesa dei suoi passaggi e paesaggi e infine ai simulacri forgiati dalla sua identità (il dandy).
Il volume studia tutti gli scenari e i sentieri possibili: dal paradosso come costruzione della soggettività fino al suo rovesciamento nel feticismo che pertiene alle fondamenta della prospettiva borghese.
Paul Klee scrisse che il compito dell’arte non è riprodurre il visibile ma rendere visibile l’invisibile. Ciò che noi vediamo materialmente, non è detto che sia ciò che è oggetto di attrattiva, come testimonia l’incompiutezza della Pietà Rondanini, che esprime questo doppio movimento: usa il visibile come porta d’accesso all’invisibile e così realizza il Bello.
Il libro di Giuseppe Panella condensa nella sua pienezza d’insieme, non soltanto il rapporto segreto della parola con l’immagine, ma permette di vivere appieno il fascino della relazione e dell’ermeneutica, che sono traccia, ineludibile, di un canto mai svanito.
PANELLA G., Le immagini delle parole. La scrittura alla prova della sua rappresentazione, Clinamen, Firenze 2014, Euro 49,00.