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Il piazzale senza nome di Luigia Sorrentino

di Andrea Galgano  1 febbraio  2021

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Il nuovo lavoro di Luigia Sorrentino, Piazzale senza nome[1] (Pordenonelegge – Samuele Editore 2021) è il recupero di una recisione, una vitalità disperata che, partendo dalla perdita della cara figura paterna, approda a una sofferta ferita che è vertigine e pulsazione, offerta e sacrificio, illuminazione sacrale e orientamento di piega numinosa.

Partendo dall’esergo plutarchesco, sulla morte da vecchi come approdo e da giovani come perdita e naufragio («noi che non eravamo mai stati del tutto / vivi all’amore, / eravamo caduti sul ciglio della strada / nella polvere / conoscemmo con cura il perdersi»), la sua poesia custodisce questa sacralità che lotta contro l’oblio, che si appropria di una dilatazione per farsi visione e viso, necessità di ricordo e testimonianza di incontro: «su tutto il giardino neve / dilatata / silenzio armato nelle pupille / neve, tutta nel sangue / narici oltraggiate / bianco e nero / l’incedere violento / del battito cardiaco / si chiude su di sé / nella luminosa potenza / avviene l’incontro» (Nel secolo che hai lasciato 1).

E ancora nella luce che geme, nella bellezza disperata, nell’enigma misterioso della vita e della morte, la lingua resta attonita e ferma nel cristallo antico dello stupore, come un avamposto di bellezza, un “quasi” nulla che è pura fertilità umana: «geme la luce / tanto più densa e oscura / oscuro marcire oscuro / assorti nella pietà gli occhi prendevano / il cristallo antico dello stupore / il cranio stretto fra le mani / povero e antico resto / bellezza disperata / chiamata a scendere / neve affamata ha consumato / il sacro giardino / nel secolo che hai lasciato».

Il cuore giovane che soffoca, grida, vive la sua linea parallela e la fecondità umbratile di una semenza felice e maledetta, dove il microcosmo del dolore singolare è lacerazione universale, ciò che resta non sono solo macerie o rovine, addii impossibili e carico infinito («lente le mani raccoglievano i capelli / sulla nuca / mentre la pioggia ricadeva / sui loro volti / uno alla bocca dell’altro beveva / la lentezza / sollevati nelle braccia / la sostanza liquida caduta / dalla bocca sul marciapiede / accasciata sulle spalle / la processione disumana / la beata, sfiorata giovinezza»), ma è la bellezza che non vuole morire, che non decide di scomparire:

«[…] Sotto la notturna volta della scala comunale è scomparso il ragazzo che infilzava lucertole trapassandole da parte a parte con il fil di ferro. Da poco si è accasciato sul terreno, in mezzo al groviglio di arbusti spinosi e rami secchi. Una striscia di cielo lo guarda. Nella testa della capra suona il ritmo assordante di una musica persecutoria. All’alba spalancherà gli occhi senza nessun ricordo. La morte da giovani arriva all’improvviso, carica di violenza. Lo smembramento è totale. Su tutto domina l’ebbrezza gridata da un cuore felice e maledetto» (Morti parallele).

La vitalità ombrata di questi testi raffigura una resistenza umana estremamente commossa, dove neve e sangue si uniscono, come se restituissero non una lotta impari ma un agone, in cui l’amore e il suo mistero accompagnano le tensioni dell’io, la sua vertigine, il proclama della sua indocilità dionisiaca: «la forza che uccide / in un colpo solo / è sommaria, rapidissima / occhi azzurri strappati dalle orbite / – vi divoreranno / il coltello posato a due centimetri / dal lago / dal sangue / dalla carne strappata / – vi insultano – / la capra geme sul tavolo / la gravità, oscura forma, / la preda».

In questa oscurità materica, in questa esiliata luce giovane («la notte si era accasciata / la giovinezza / l’avevamo trascorsa / nel peso della sua immortale rovina / noi che non eravamo mai stati / del tutto vivi all’amore / c’eravamo concessi al freddo / stretto nelle narici, nelle vene / avevamo perduto tutte le parole / la forza di una generazione»), nella sillaba muta di ogni sventura e nella preda edace del tempo, discesa come fame e consumazione nevosa, come afferma Mario Famularo, vi è non già una poesia introflessa «ma assolutamente attenta ed esposta all’altro da sé, essenziale alla comprensione dell’aspetto più autentico dell’esistere, al lato più tremendo e sacro dell’esperire il mondo[2]»: « il silenzio delle lamiere nascose / l’assalto in una notte di febbraio / i denti sul braccio fino all’osso / la testa contro il finestrino / – tu sei niente, nessuno – / e non so quando / tutto il nascosto ci travolse / senza emettere un lamento / gelò la fronte il respiro / della cenere». (Piazzale senza nome)

La carne strappata del dolore, nella sfinitezza della finitudine percossa («lui è uno di fonte al quale / ci si copre la faccia / crollato nel profilo / sfinito, brace predata dall’ambra / gola automatica / neve deglutita piano piano / vedo cose che altri non vedono / ha rinunciato / l’insofferenza della mano / percuote la sua ora»), nelle giovani vite tagliate e nel corteo di torture, il respiro sembra precipitare e abbandonarsi, ma è «nella calma materna» che «corre tutta la vita»:  «aveva oltrepassato il confine / restituita la voce / all’universo / la sorgente di luce non era più / visibile / era tramontata fra gli alberi / la notte bianchissima discesa / fino in fondo, guerriera / nel suo sangue la neve / il freddo polare nelle pupille / allagate / perdute per sempre».

La trasparenza bianca del dolore, raffigurato in immagini di abbandono, insulto, disprezzo tormentato, lascia impronte, si consegna alla fertilità di ciò che non muore, nonostante la rosa intorpidita e muta, la totalità della sofferenza, le palpebre socchiuse, l’indifferenza: «dal vetro vede la strada / una lingua umida / limacciosa / spalancata negli occhi / ha fame di notte / l’odore della pioggia senza peso / ha investito il corpo nascosto / l’odore viene dal basso / la suola delle scarpe / non ha consumato / la sconosciuta profondità / del vedere».

La poesia di Luigia Sorrentino scava nelle vene, non rilascia segni di nichilismo o di rassegnazione, narra l’esondazione tenebrosa delle ferite, mantenendo la forza di ciò che è senza fine, la parola amata, la linea dell’orizzonte femminile, la voce dell’universo e la grazia del padre: «la gioia del fiorire / ebbe inizio in te / la pienezza riempiva i frutti / l’imperioso fare ci ha traditi / – siamo stati traditi / dagli organi vitali – / la durata non ci tocca più / svuota le nostre vene / la giardiniera inghirlandata / ci arresta tra soste d’amore / guardandoti il volto distende / l’impronta della morte è svanita».

O, infine, in una sacrale accoglienza di bellezza custodita, il tremendum ha una pausa di dolcezza arresa e ci rimette una grazia rarefatta: «corpo affermato / dalla terra emanava / odore di fresie selvatiche / prepara lo stelo del fiore / un cammino di polvere / accudisce l’arcaico / rito dell’acqua / la pulizia con la spugna / alla fragile tomba / baciava la sua vita adorata / il male riempito / pulsava nelle soste del tempo / il suo cuore, l’oceano».

[1] Sorrentino L., Piazzale senza nome, Samuele Editore, Fanna (Pn) 2021.

[2] Famularo M., Piazzale senza nome di Luigia sorrentino, (www.laboratoripoesia.it/piazzale-senza-nome-luigia-sorrentino/).

Sorrentino L., Piazzale senza nome, Samuele Editore, Fanna (Pn) 2021, pp. 102, Euro 13.

Sorrentino L., Piazzale senza nome, Samuele Editore, Fanna (Pn) 2021.

Famularo M., Piazzale senza nome di Luigia Sorrentino, (www.laboratoripoesia.it/piazzale-senza-nome-luigia-sorrentino/).

Grace Paley: l’attenzione nascosta

di Andrea Galgano  25 gennaio  2021

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L’anima di Grace Paley (1922-2007) è un’urgenza di domanda. Lo è nella esatta puntualità dei suoi racconti, nella registrazione puntuale dei dettagli del mondo, nella narrazione, solo apparentemente semplice (e quindi, chiara e trasparente) delle sue raffigurazioni.

La raccolta dei suoi testi di poesia, ora riuniti in volume, dal titolo Volevo scrivere una poesia, invece ho fatto una torta[1], tradotto da Paolo Cognetti e Isabella Zani, per l’editore Sur, ha segnato gli anni più tardi della sua vita, toccata dalle vertiginose bellezze autunnali del Vermont, dove viveva con il marito fino alla morte, avvenuta nel 2007.

Nella prefazione, Paolo Cognetti racconta l’estremità di due poli identitari che comunicano tra loro, l’anima versatile dei racconti, in perfetta linea di congiunzione con Hemingway, Carver e Bukowski, ambientati nel Bronx, a New York, dove il fulcro popolare, le frontiere di passaggio dell’immigrazione erano la cifra e la firma di una umanità in lotta, e il tempismo lirico e sagace del gesto poetico:

«Con Bukowski, Grace Paley ha piuttosto in comune il carattere: l’esuberanza, l’anticonformismo, l’ironia, l’idea della scrittura come luogo di libertà, l’insofferenza a ogni tipo di autorità sulla pagina e nella vita, e anche l’orecchio che le permetteva di registrare la musica del mondo. Le piaceva definirsi una story-listener, ascoltatrice di storie: prima ascoltare e poi riferire, era la sua idea del lavoro di scrittore. E con ciò fare della scrittura un atto politico, perché riferire è un dar voce a chi non ce l’ha: agli ebrei, alle donne, ai bambini, ai migranti – ai dimenticati e agli sconfitti delle guerre del nostro tempo. E infine agli sconfitti della guerra tra noi e il pianeta, che sono gli alberi e gli animali. […] Grace Paley non poteva scindere il suo lavoro di scrittrice dall’impegno politico, ma se sulla pagina era una compositrice raffinata, musicale, una jazzista della lingua inglese, per strada era una combattente che non si tirava indietro davanti alla violenza del potere […]».[2]

Roberto Galaverni scrive:

«Paley è stata quel che si dice una scrittrice civilmente impegnata, una protagonista della controcultura newyorchese che ha costantemente avuto nel proprio mirino il militarismo, la discriminazione razziale e quella sessuale, nei confronti delle donne anzitutto; ma poi anche l’avidità, la mancanza di idee, di coscienza politica, di partecipazione comunitaria, di prese di posizione forti e consapevoli. […] Per un temperamento simile la lettura non poteva certo consistere in un rifugio o in un mondo a parte. Al contrario, l’esercizio della scrittura risulta sempre subordinato alle necessità dell’esistenza, pubblica o privata senza particolari differenze. Anche per questo ha scritto poco: l’impegno diretto nella e per la vita aveva comunque la precedenza sulle pur amate parole».[3]

Il garbo, l’ironia, l’azione necessaria della scrittura, il travaglio e la dolenza, il discorso e la passione, la cura per la realtà e per l’umano, l’interesse vitale sono le linee del suo orizzonte, celebrano il dettaglio universale per farsi battito puro e secco della forza tenuta da un avamposto, senza bisogno di fuga. Un allarme contro ogni scomparsa, piccole avvertenze quotidiane che vivono e intessono le dinamiche esistenziali, anche nei decentramenti e negli spaesamenti della lingua:

«Un giorno nella vita della mia famiglia / io sono entrata nella lingua inglese / le d e le t fra i denti   il fischio delle s / Allungavo le i / mi perdevo in qualche r  / le infilavo / dove non erano richieste / spesso piazzavo una preposizione / alla fine della frase / questo per guardarmi da / un’inflessione risentita / Con mia grande sorpresa gli estranei mi capivano / ho continuato a parlare   / ero sfrontata   / dicevo / ovunque vada trovo verbi che non combinano niente / sono anni che certi nomi comuni non vengono più chiamati / col loro nome proprio / devo fare una domanda triste / le leggi dell’entropia agiranno a dispetto del rigore? / esiste una letteratura che canti la scomparsa / delle lingue madri?».

Le fragilità degli avvisi, il cuore umano in tutta la sua contrastata pulsazione, il limite e la precarietà di ogni finitudine, la voce di ciò che non si sente, l’arguzia a servizio di una parola che è dettato e spazio, sono il tempo dell’umano, lo consegnano all’umano, vissuto dal treno, dal gesto vissuto e dal dialogo, appena gridato o sussurrato:

«Che diceva la poesia quel giorno / stavamo parlando  parlando / diceva  sta’ buona   lasciami / l’ultima parola  senza quella / hai a stento un pensiero  / Ai tempi / avevo le tasche piene / di ottime pietre / ma non ero / senza peccato  che cosa / potevo fare se non passi pesanti  pesanti / Un giorno ho smesso di reggere le battute / riuscivo a farle con la facilità di sempre / ma mi chiedevo perché l’altra persona rideva / non era anche lei nei guai / come il resto del mondo? / La vita è due sogni / il tuo e quello di chi ami / a colazione  una fatica ascoltare / una pena raccontare  qualcuno / piange  chi ha fatto il caffè / e tutto è perduto».

La forza di Grace Paley è questa attenzione nascosta, dove le immagini, i richiami, la memoria e il conflitto, la sintonia naturale custodiscono un ponte di sollievo, ciò che raduna i bisbigli di madre, ciò che non si tacita e dove persino una parola, come stormire, è arrivata tardi ma non ha oblio, non conosce l’oblio, è solo un ritardo di affrancamento: «è una parola meravigliosa / ho tentato di usarla ma non ci sono riuscita / mi è squillata davanti in una poesia di Jane Cooper / adesso vivo tra gli alberi  le fronde / i rametti e le foglie  / soffia un vento leggero / ma la parola stormire mi è arrivata troppo tardi» (LA PAROLA STORMIRE).

Già il titolo della raccolta, che è l’incipit di uno dei testi, richiama l’essenzialità della procedura e del gesto poetico, la non-canonizzazione dell’aura poetica, il gradiente arguto e intelligente del dire, dove le pause sono respiri e sillabe dilatate, dove il paradosso è il modo per innervare gli ossimori del mondo, i dolori, i traumi e le inibizioni del corpo che cambia («la carne incontra l’anima / e sussurra   tu»), le latitudini autunnali della meraviglia del Vermont, la sua benevolenza visibile.

«Non volevo dipendere dall’autunno / volevo perdermelo per una volta   saltare / a un’altra latitudine dove non era così / famoso  volevo mostrare che la bellezza / si può trattenere nel respiro così come respiriamo / dolore e tradimento   non sempre devono / accadere nell’attimo presente / Guardate  eccolo là  il nostro celebre / dorato autunno del Vermont color del vino  verde / come l’estate per cominciare e poi il sole / mattutino tira su la bruma dal freddo fiume notturno / gli aceri addolciscono  / senti un certo / battito accelerato  una vampata   in te che vivi quella / fedele campagna  in fiamme  in tremante / attesa del suo lungo inverno  nessuno dovrebbe  / esser costretto a sopportare tanta bellezza motivata dalla / morte / ogni singolo anno  / questo corpo stagionato sa / che insopportabile».

Tutta la poesia di Grace Paley è un indizio visibile, come avviene in Lettura dei giornali all’edicola di paese, dove l’ironia compensa le notizie lette e scabre e vi è «la retorica asciutta e la logica paradossale di chi sa destrutturare i luoghi comuni, con lo stesso riverbero lirico entro una natura antropomorfizzata[4]».

L’addensarsi del tempo, i cambiamenti, la cooperazione naturale («perché la luna estiva è bassa / ad abbagliare i campi in ombra e / fa talmente luce alla finestra  è / la legge naturale come anche un bambino / capirebbe della luna dell’amore della notte»), la vita lieve, la morte e la bufera che infuria, segnano le sue buone stelle, come l’ultima bellezza di uno sguardo d’amore, nella luce spoglia:

«Volevo portarle un calice / o magari un bicchiere d’amore / o d’acqua fresca  volevo sedermi / accanto a lei mentre riposava / dopo una lunga giornata  volevo ingiungere / encomiare  ammonire dicendo non / fare così  ma certo  perfetto  provaci / volevo aiutarla a invecchiare  volevo / dire parole ultime  / le parole famose  / per l’illuminazione definitiva / volevo / dirgliele adesso  casomai fossi / placida in sonno quando l’ultimo sonno colpisce / o disordinata dalla vecchiaia  volevo / portarle un bicchier d’acqua fresca / volevo spiegarle che  la stanchezza è / normale  anzi perfino opportuna / alla fine del giorno».

[1] Paley G., Volevo scrivere una poesia, invece ho fatto una torta, prefazione di Paolo Cognetti, sur Edizioni, Roma 2022.

[2] Cognetti P., prefazione, in Paley G., cit., pp. 6-8.

[3] Galaverni R., La seconda stagione dell’ardente Grace Paley, in “La Lettura – Corriere della Sera”, 16 gennaio 2022. 

[4] Tolusso Mary B.,  se ami stare al mondo fai come l’acero anche mezzo secco si slancia vero il sole, “TuttoLibri – La Stampa”, 15 gennaio 2022.  

Paley G., Volevo scrivere una poesia, invece ho fatto una torta, prefazione di Paolo Cognetti, sur Edizioni, Roma 2022, pp.130, Euro 14,00.

Antonietta Gnerre: il nome dell’eternità

di Andrea Galgano  22 dicembre 2021

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La nuova raccolta di Antonietta Gnerre, Quello che non so di me[1], edita da Interno Poesia, custodisce vigore e impercettibilità. Non solo per la forza immaginifica e vertiginosa del verso, ma, in particolar modo, per una sorta di vitalità esistenziale incandescente, che risolleva termini e fissità, panismo e tensione metafisica.

È una leggibilità del tempo, una fenomenologia linguistica che si innerva nella Natura e la abbraccia sia attraverso la ponderale finitudine (le cicatrici, i sogni non infilati più tra le stelle, i segni provvisori, le ombre luminose dell’Irpinia che somigliano all’universo) sia attraverso uno sconfinamento di suono, come una eco di amore.

Ago di pino in un solco, benedizione di nascite appena ricolme, nome che salva dalla morte:

«Se ho pianto è perché sono stata al buio / con un peso  / capovolto di assenze. / La nave inclinata nella sua rotta,  / i sogni non infilati / più tra le stelle. / Se ho pianto è perché le preghiere  / rientravano e uscivano  / da una linea / sottile di menzogne.  / Il giorno soffocato nelle sponde dei pini,  / dopo una mareggiata, / acceso solo dalla luna. / Se ho pianto è perché da ragazzina / ho giurato / che avrei guardato in silenzio / la bellezza dei germogli svanire / davanti ai miei occhi».

Alessandro Zaccuri, nella prefazione scrive:

«Le poesie di Antonietta Gnerre seguono il percorso inverso. Si aprono con versi che già annunciano quanto verrà dopo, come in una mise en abyme anticipata ma non precipitosa. Viene in mente lo specchio che nei Coniugi Arnolfini di Jan van Eyck riassume e nello stesso tempo capovolge l’intera scena. La contiene e, contenendola, la interpreta. «Quello che non so di me / è superiore alla piog­gia» […] Quelli ap­pena citati sono i versi iniziali di una poesia che, con studiata consapevolezza, si incontra ben oltre la metà della raccolta, in una sezione posta sotto l’emblema arcano e affascinante del muscovite, il cristallo dall’a­spetto tagliente che ben simboleggia l’affilato desiderio di precisione senza il quale nessuna avventura poetica potrebbe essere intrapresa. L’equivalente minerale del­la ginestra leopardiana, in un certo senso […]».[2]

Il nome della poesia è un grido davanti all’Eterno, terra che si rivolge verso l’alto, parola di sangue e centro esatto del cielo, come nei volti cari e amati, nella tutela dei numi e nella fronda “sfrondata” del tempo, come avviene in questo omaggio a Pasolini, prossimo e venturo: «[…]Sono una madre. Madre di un figlio e di figli mai nati./ Come te ho avvertito la mia croce umana. / Mi asciugo le lacrime con i resti delle mie mani. / Il mio sguardo fissa un solo punto. Gli ospedali sono / fatti di pareti / che sembrano fili di nuvole che soffrono il cielo».

Il nome del nome. Gnerre vive di questa nominazione, come un gemito di sogno e promessa («Quello che mi piace del tuo nome / è ciò che non è stato nei secoli. / Da bambino ti svegliava / quando non sapevi parlare. / Quando non conoscevi i numeri. / Lo ascoltavi in silenzio / prima di aprire gli occhi, / prima che lo smalto di una nuvola / diventasse grigio. / Lo so: hai bisogno di saperti in questo nome. / Di indossarlo come fosse seta, / straccio, riparo momentaneo»), il cielo abbassato sopra la pelle, la nascita e l’indumento dei sogni e la voce che si sporge sulla luce o, anche, il volo di una preghiera sommessa e lucente, come il bacio verso tutte le foglie che si sono viste cadere:

«Se ora riuscissi a dire piano il verbo che più hai amato, / a non smettere di pronunciarlo nei pensieri, / azzererei gli alfabeti i colori i rumori. / Gli anni vissuti. / Con la punta delle dita sfiderei il tempo  / – dalle tarme di una coperta –  / per vedere quei continenti distanti / che sognavo da bambina. / Se ora riuscissi a declinarlo piano il verbo del perdono, / vicino al muro della tua casa di Polla, / ferma accanto al grano, alla rosa./ Con le spalle verso la terra, / con gli occhi fissi sul cipresso che non c’è più, / ascolteresti la mia voce nella tua luce».

Il transito della vita, l’irenismo[3], la scomposizione memoriale e temporale, il contemporaneo avvenimento del qui e ora custodiscono la scena del mondo, dove la parola, la poesia che misura i nomi, il lessico familiare e intimo aprono il segreto che forma l’universo, lo scandiscono, lo sillabano, ne fanno, insomma, un respiro che si prolunga, che tocca gli apici diurni di ogni sostanza:

«C’era il respiro dei campi / accanto a te. Talvolta sfiorava / la pietra ferita. / La rifrazione della luce  / che creava i fiori. / Forse era un giorno d’autunno / quando lo hai udito per l’ultima volta. / Scintillava nell’erba impermeabile. / Eri bambina, contavi i tigli / sussurravi alle foglie: / sono foglia anche io. / Di notte lo immaginavi vicino al letto / a proteggerti dalla cera della vita, / che cadeva sul portone. / Un colpo d’aria scriveva la tua storia. / Quella che leggono i vivi fino a cadere / nei punti invisibili dei corpi».

E la salentina Pescoluse ne diviene il cosmo unico:

«Il pavimento forma un verso. / E qui, dove invento una casa nella tua, / poggio le mani sui muri ancora caldi / dell’ultima estate. / Le poggio per misurare chi siamo. / Gli ulivi ci attendono nascosti. / Ora, ad esempio, anche loro stanno fissando / le formiche che trasportano un chicco di grano. / Il verso si completa con la luce che arriva / dalle persiane / tra i nomi delle formiche che ci osservano».

E poi il sigillo delle nuvole come anime materne, le pareti del silenzio, gli anni raccolti prima di dormire come un eliso esilio, i ricordi e l’odore del pane, la goccia che somma il tempo, i colori lontani, la veglia e i fili, la muscovite e i suoi disegni.

L’eternità è un ramo di foglia innocente:

«Quello che non so di me / è superiore alla pioggia. / Si rifiuta di cadere. / È una bellezza che resiste  / al buio dei temporali. / È una piccola follia / che si ferma sopra le curve / della massa informe delle strade. / Quello che non so di me / conta gli anni dei fiumi, / tutte le mani che hanno lavato / le lenzuola. E le cose ferme a terra /tra gli abbracci delle piante. / C’è remissione nel naufragio dei miei occhi. / C’è supplica nel prestare attenzione / alle cose che mi mancheranno».

 

 

Gnerre A., Quello che non so di me, prefazione di Alessandro Zaccuri, Interno Poesia, Latiano (Br) 2021, pp.92, Euro 11.

Gnerre A., Quello che non so di me, prefazione di Alessandro Zaccuri, Interno Poesia, Latiano (Br) 2021.

Blanco G., Antonietta Gnerre, Quello che non so di me, (leggeretutti.eu/antonietta-gnerre-quello-che-non-so-di-me/), 7 aprile 2021.

Guarracino V., Poesia, Gnerre tra tempo, storia e identità, in “Avvenire”, 20 agosto 2021.

[1] Gnerre A., Quello che non so di me, prefazione di Alessandro Zaccuri, Interno Poesia, Latiano (Br) 2021.

[2] Zaccuri A., prefazione, in Gnerre A., cit., p.5.

[3] Blanco G., Antonietta Gnerre, Quello che non so di me, (leggeretutti.eu/antonietta-gnerre-quello-che-non-so-di-me/), 7 aprile 2021.

Idea Villariño: la dimora e la frattura

di Andrea Galgano  6 novembre 2021

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La poesia di Idea Villariño, che ora ci viene restituita in tutta la sua fulgida e tenebrosa vertigine, grazie all’antologia Di rose che si aprono nell’acqua[1], edita da Bompiani, a cura di Laura Pugno, racchiude l’enigma della frattura lacerata, la ferita del corpo-mondo, componendo, insieme, l’incolmabile dimora della solitudine, dell’impressione diruta dell’amore e della mancanza.

Come se il paradiso non fosse già esclusione ma lacerto di sogno spezzato, purezza sperduta, dove notte e silenzio si intrecciano, e il limite (e, dunque, la morte) appaiono come segno lucente e oscuro di un contrasto, di una lotta radicale interiore, che, come afferma Roberto Galaverni:

«[…] non cerca di addolcire il ritmo opaco, la routine sorda dei giorni contro i quali l’amore, la speranza spesso si infrangono. Piuttosto sembra conservare il ricordo di un Paradiso perduto, come suona il titolo di una poesia e di un’intera raccolta. Può essere un tempo lontano, può essere la dimensione non contaminata dell’infanzia. Ma questo stesso ricordo o nostalgia, una nostalgia che si direbbe costitutiva, è la molla di un desiderio mai pienamente realizzato oppure solo in modo fuggevole, in un attimo presto consegnato al trapassare e all’oblio […]. Ecco perché, stretta tra la quotidianità delle relazioni e l’idea di un assoluto che sfugge di attimo in attimo, che si polverizza nell’atto stesso di vivere, la poetessa sembra inscrivere nella propria parola una protesta, che è prima di tutto contro la fragilità degli esseri, contro lo scandalo del consumarsi, fino a esprimere quasi un desiderio di annullamento».[2]

La sua rarefazione, però, non tocca il nichilismo, si aggancia, invece, a una linea di fragile inesorabilità che trema («E quando sarà ormai la mia vita, / la mia ardua vita, / in solitudine / come una lenta goccia / che sempre vuole cadere / e sempre resta dov’è / reggendosi, riempiendosi / di sé, tremando, / affrettando il suo brillare / e il ritornare al fiume. / Ormai senza luce né tremore / cadere nell’oscurità»), di implacabile strazio (come trovarsi sotto l’acqua e sotto l’aria), disegnando, pur nella cupa linea degli orizzonti ripiegati, come un ramo di fiori scuri sul petto, una rigorosa trama umana, uno spasimo di eccellenza femminile nella sua nudità completa e, infine, un inchiostro vitale di luce rifiutata, che cerca, senza fine, una piccola luce lontana:

«In nudità completa ormai / misteriosa assenza / di processi e formule e metodi / fiore a fiore, / essere a essere, / coscienza ancora / e un cadere in silenzio e senza oggetto. / L’angoscia è ormai / appena un sapore, / non vi entra il dolore, / la tristezza non tocca. / Una forma che dura senza senso, / un colore, / uno stare per stare / e l’attesa insensata. / In nudità completa ormai / sapienza / definitiva, unica e gelata. / Luce a luce, / essere a essere, / quasi in ameba / forma, sete, durata, / luce rifiutata».

Nella sua opera, legata sia all’esperienza politica, di cui sente tutto il peso, il dolore, anche attraverso la dura repressione della dittatura militare, sia alla cosiddetta generazione del ’45, permane questo tracciamento di platense travaglio luminoso, di lacerto mai obnubilato, di amore che cerca metamorfosi e si trasferisce nelle sue armonie spezzate.

Martha L. Canfield scrive:

«Echi di Baudelaire e di Darío, ai quali Idea dedica una poesia ciascuno, si percepiscono disseminati nella sua opera, benché soltanto, specialmente per quanto riguarda il secondo, come punti di riferimento da cui prende l’avvio il suo personale codice d’interpretazione del mondo. E naturalmente non tratta mai del Darío estetizzante, ma del Darío tormentato dall’ineluttabilità della morte. […] L’inclinazione morale e filosofica della poesia di Idea, la sera e costante riflessione sulla morte concepita come una presenza attiva in ogni essere mortale, che cresce con la vita fino a trionfare su questa cancellandola, richiama direttamente la poesia di Quevedo. Ma anche quella di Paul Valery, con il suo “Misticismo senza Dio” e il suo anelito di purezza; e di César Vallejo con la sua pietà per l’uomo […] Così la poesia di Idea diventa espressione intensissima del malessere contemporaneo. Si può dire che in lei l’essere contemporaneo si definisce a partire dalla sua angolazione più drammatica: il dolore di esistere, l’impossibilità di mantenere quella coerenza e quella “purezza” che implicherebbero il rifiuto stesso della vita, la perdita di ogni speranza di trascendenza metafisica o religiosa, la perdita di ogni teologia che non sia negativa».[3]

Laura Pugno aggiunge: :

«nell’opera di Villariño tutto cambia, e allo stesso tempo tutto rimane inesorabilmente com’è. Il vivere di questa poesia è, e non cessa mai di essere, un vivere con la morte e per la morte. È una poesia totalmente laica, e allo stesso tempo irriducibilmente metafisica nella sua apparente semplicità. Una poesia radicata in quella che è vissuta come irrimediabile separatezza del corpo dal mondo, e dei corpi umani tra loro. Corpi che si slanciano con ardore verso cosa? Perché non possono evitarlo, pur nella consapevolezza che l’esito di quello slancio non potrà essere che il fallimento, e che qualcosa verso cui ci si slancia sia l’amore o la politica poco importa. […] la poesia di Idea Villarino è intima, corporea, dilaniata, esperienziale, è la poesia di un soggetto assoluto al femminile che in modo altrettanto assoluto sente di potersi esprimere di fronte all’assolutezza – crudele – del mondo che ha davanti. Senza con ciò dover sottostare – esattamente come un soggetto assoluto al maschile – a nessuna restrizione che non dipenda dalla propria capacità di dominio sulla lingua. Un soggetto femminile intero, che pensa e trova la propria voce e parla da questo sentimento di interezza di cui una lacerante solitudine è l’inevitabile traduzione, la certa conseguenza»[4].

La sua anima profuma di dolore, che fa essere un corpo di finestre chiuse, gettate in silenzio. È il dolore che ripiega e fa ripiegare, sembra quasi sprofondare ma non si arrende e avverte tutto il limite inspiegabile di ciò che termina: «Questo che va e viene / che prendiamo con noi portiamo via / da una parte all’altra / ossicini gangli midolli / la voce la dolce sensazione del contatto / il cristallino / il pube / questo che ogni notte / mettiamo in salvo / fragile cosa / tutto questo / cos’è questo / sangue / fiato / pelle / nulla».

Essere supplice di cieli lontani, ammantare il proibito di bellezza, il cielo-cielo del paradiso perduto, l’aria sporca che cade, la notte-morte (la chiusa notte umana) che viene: «è giallo fuori / dio mio, / è giallo / come un uccello morto / come un ago d’oro / di ghiaccio / come un grido. / è giallo fuori. / ed è giallo dentro».

La sua opzione negativa, dunque, sente il peso anche della storia e del povero mondo, della violenza ostinata dei corridoi e dello schifo di albe sordide. Resta, però, in fondo, la nostalgia della vita che si pronuncia e che attende:

«Tutta l’aria / i cieli / il vasto mondo ebbro / girano e girano e girano intorno / a questa stanza questo letto / questa luce questo foglio. / Tutta la vita / tutta / vibra fragile e densa / o risplende intorno / o si strazia nell’oscurità. / Tutta la vita vive / tutta la notte è notte / il mondo mondo / tutti / sono lì fuori sono / fuori di qui / del mio ambito / per tutti è sabato / la notte del sabato / e io sto sola sola / e sto sola / e sono sola / anche se a volte / a volte / il sabato, di notte / mi invade a volte una / nostalgia della vita».

In quel confine di detriti, in quel cuore freddo e azzurro, nel peso sulle spalle, l’immensità di essere goccia grigia cade nelle ombre dense, come un fiore di cenere:

«L’amore… ah, è la rosa. / Tienila, sostienila, dalle acque dolci e pure, / veglia la miracolosa ascensione del profumo / quella nebbia di fuoco che prende forma di petali. / L’amore…ah, è la rosa, la rosa vera. / Ah, la rosa totale, voluttuosa, profonda, / dallo stelo superbo e le radici d’angoscia, / da terre terribili, intense, di silenzio, / è la rosa serena. / Tienila, sostienila, sentila, e prima che sfiorisca / inebriati del suo odore, / conficcati alle lame dell’amore, quel fiore, / quella rosa, illusione, / idea della rosa, della rosa perfetta».

Essere nulla ma in quel nulla brillare di densità, essere foglia caduta di occhi chiusi, nella luce delle mani illese e lese, essere corpo di gelsomino assetato o rosa rossa, come cristallo puro di carne: «Ma tu hai qualcosa, non so, quella luce invalida / sulle tue labbra pigre. La pigra nobiltà / che fa svenire le cose sotto le tue lunghe dita, / quel retrogusto amaro / che i tuoi baci più dolci mi lasciano in bocca, / il denso bagliore che fa di cristallo le rocce / quando tu me le dici, la tensione del tuo corpo, / il suo profumo segreto».

L’amore, come quello per lo scrittore uruguaiano Juan Carlos Onetti, a cui dedica le Poesie d’amore del 1957, è dono straniero e sussurro di fuoco, pietre d’ombra («La notte non era il sogno / era la sua bocca / era il suo bel corpo spogliato / dei gesti inutili / del suo viso pallido che mi guardava nell’ombra. / La notte era la sua bocca / la sua forza e la passione / era i suoi occhi seri / pietre d’ombra / che cadevano nei miei occhi / e era il suo amore in me / che invadeva così lenta / così misteriosamente»), lettera disperata che lo dice e che sanguina nella pioggia selvaggia, persino, disamore («Prendo il tuo amore / eppure / ti do il mio amore / eppure / avremo sere notti / ebbrezze / estati / tutto il piacere / la felicità / la tenerezza. / Eppure. / Ci mancherà sempre / l’infinita bugia / il sempre»).

Questa è la sua forza ineludibile, il suo abbandono opaco e oscuro che alza gli occhi al mistero abissale delle stelle, la sua fragile pienezza che non conosce pace, avvinta alle fronti unite delle ombre, all’amore che è sogno, ghiandole, follia, alba nuda:

«Il giorno cresce verso di te come fuoco / dall’alba nuda trasfigurata dal freddo. / Il giorno cresce verso di te come fuoco, / come un fiore di carne celeste, come un fiume. / Il giorno cresce verso di te come fuoco / e quando cadi in me gli abissi chiamano il mio nome. / Il giorno cresce verso di te come fuoco. / Mare d’oblio, profondo oceano d’ombra, / anche di me fai notte assoluta e senza eco, / mare d’oblio, profondo oceano d’ombra / e divento mano a mano che cancelli il mio destino / mare d’oblio, profondo oceano d’ombra».

Nella sua casa di Las Toscas, Idea vede il mare. Forse una pausa, un desiderio di fusione, un’intima segretezza che placa.

Oppure la pericolosa Sirena che conquista («Dire no / dire no / legarmi all’albero / però / desiderando che il vento lo rovesci / che la sirena salga e con i denti / tagli le corde e mi trascini al fondo / dicendo no no no / però seguendola»), l’ametista che aggiunge pienezza, il lungo braccio del no.

Vede il mare e gli occhi brillano di canto finale: «Laggiù ci sarà il mare / che comprerò per me / che ammirerò sempre / che ululerà bellissimo / stenderà le mani / si farà mite bellissimo / triste dimenticato / azzurro profondo / eterno eterno / e passeranno i giorni / mi si stancherà la vita / verrà a fine il corpo / si seccheranno le mani / dimenticherò l’amore / davanti alla sua luce / il suo amore / la sua bellezza / il suo canto».

[1] Villariño I., Di rose che si aprono nell’acqua, a cura di Laura Pugno, Bompiani, Milano 2021.

[2] Galaverni R., Anche in Uruguay vivere la vita uccide l’assoluto, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 31 ottobre 2021.

[3] Canfield L. M., Il sistema poetico di Idea Vilariño, (fanzine.versanteripido.it/il-sistema-poetico-di-idea-vilarino-retrospettiva-di-martha-l-canfield-1/).

[4] Pugno L., Dire no. Sulla poesia di Idea Villariño, in Villariño I., cit., pp. 6-7.

Villariño I., Di rose che si aprono nell’acqua, a cura di Laura Pugno, Bompiani, Milano 2021, pp.375, Euro 22.

Villariño I., Di rose che si aprono nell’acqua, a cura di Laura Pugno, Bompiani, Milano 2021.

Canfield L. M., Il sistema poetico di Idea Vilariño, (fanzine.versanteripido.it/il-sistema-poetico-di-idea-vilarino-retrospettiva-di-martha-l-canfield-1/).

Galaverni R., Anche in Uruguay vivere la vita uccide l’assoluto, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 31 ottobre 2021.

H.D. Le labbra dell’enigma

di Andrea Galgano  1 ottobre 2021

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Hilda Doolittle (1886-1961), prima donna ad essere insignita dall’American Academy of Arts and Letters, dimora in una linea intensa tra vortice (e vertice) raffigurativo e densità espressiva. Il suo legame musaico esprime, attraverso l’enigma, l’estasi ordinata, l’estremità della voce, il nucleo e il codice immaginativo, la fatale e vorticistica tessitura di una tensione simpatetica, poichè

«Attratta dalla psicanalisi e dall’occulto, dai geroglifici e dalla comunicazione con i morti, H.D. fa una poesia piena di mitologia, caratterizzata dal verso libero e dalla precisione pittorica dell’immagine – per tornare all’Imagismo – un’immagine in movimento ed elementare molto vicina ai pittori del Blaue Reiter[1]».

L’immobilità e il movimento, l’Entusiasmo, la trasgressione antinormativa, l’estasi pittorica non inseguono una sincretistica esposizione delle immagini, e, come teorizzato da Pound, bensì la singolarità dell’immagine in quanto unica, e, potremmo aggiungere, archetipica.

La scelta delle iniziali entra in questa dinamica di coltre sconfinata. È marea, fuga, trascina le rocce della scogliera, lavora pietre grezze, canta un lamento infinito nell’onda che irrompe.

Qualcosa di ricercato, vissuto e perduto, insieme, come un giardino protetto che dissipa bellezza e riparo per richiudersi in una lotta verticale di rigenerazione («Poiché questa bellezza, / bellezza senza vigore, / soffoca la vita. / Voglio che il vento spezzi, / sparpagli questi steli rosati, / ne strappi le cime speziate, / le getti via con le foglie morte»):

«La luce passa / da crinale a crinale, / da fiore a fiore – / la distesa di hepatica, / sotto la luce intristisce – / i petali si rinchiudono, / le cime azzurre si piegano / verso il cuore più blu / e i fiori sono perduti. / Le gemme di corniolo sono ancora bianche, / ma un’ombra dardeggia / dalle radici – / scivola nera da radice a radice, / ogni foglia / ne taglia un’altra sull’erba, / ombra cerca ombra, / poi foglia / e ombra sono perdute» (Sera).

Grazie a Interno Poesia, e con la cura e la traduzione di Giorgia Sensi, Poesie Imagiste[2] di Hilda Doolittle, ci restituisce, come si legge nella prefazione, una lingua naturale:

«priva di costrutti artificiosi, ellittica, il verso è libero e i ritmi sono irregolari, seguono la regola imagista del “non rappresentare ma presentare”, combinano immagini nitide, brusche giustapposizioni, un effetto visivo – tutto un inventario di fiori, alberi, rami, rocce, onde, paesaggi marini e terrestri – ben precisi, ricco di movimento e di azioni, spesso energiche, espresse da verbi dinamici, a volte anche violenti, come calpestare, frantumare, strappare […]» (pp.9-10).[3]

In sea Rose (Rosa di mare), H.D. unisce la violenza della natura alla sua dolcezza, indicando, inoltre, asprezza, pericolosità selvaggia e trasudazione contemplativa:

«Rosa, ruvida rosa, / sciupata, scarsi i tuoi petali, / fiore scarno, sottile, / rade le foglie, / più preziosa / di una rosa umida / sola su un stelo – / sei colta nella corrente. / stentata, piccola la foglia, / sei sbattuta sulla sabbia, / sei sollevata / nella sabbia secca / spinta dal vento. / Può la rosa gialla / trasudare tale acre fragranza / indurita in una foglia?».

L’immagine che oltrepassa la realtà è un allarme di luce, in cui lo scuotimento deriva dal fulcro feroce e indocile del tempo e del reale. Vi sono scricchiolamenti primari, foglie spezzate, dispersione di vortici ed emersione creaturale di Eros:

«La tua statura è modellata / con colpi precisi: / sei cesellato come rocce / erose dal mare. / Nella torsione e presa del tuo polso / e nella tensione delle corde, / c’è un bagliore di ottone levigato. / Il colmo del tuo petto è teso, / e l’ombra è nitida al di sotto / e tra i muscoli errati / delle anche snelle. / Dal contorno dei tuoi capelli serrati / viene luce, / e intorno al tuo torso msachile  / e all’arco del piede e la caviglia diritta».

H.D., la cui cultura proviene dai grandi autori del passato e dalla mitologia greca, che rimodella e ricompatta attraverso le disposizioni immaginifiche dell’io (Adonys, ad esempio, «Ciascuno di noi come te / è morto una volta, / ciascuno di noi come te / è passato tra il flusso delle foglie boschive, / screpolate e piegate / e torturate e spiegate / nel gelo invernale, / poi bruciate in punti dorati, / riaccese, / rigida ambra, / scaglie di foglia d’oro, / oro trasformato e di nuovo saldato / nel calore del sole» e poi Pygmalion, Eurydice), entra nella luminosità inseguendola, espone i dettagli frangibili e protesi, laddove la precisione, il segreto eleusino, la percezione ideogrammatica recano la geografia di un vocabolario senziente e percettivo, in cui l’atto creativo diviene esattezza che deborda: «I pensieri mi lacerano, / temo la loro febbre. / Sono dispersa nel suo vortice. / Sono dispersa come / i semi caldi rinsecchiti».

La sua poesia si riempie di dettagli e vitalità come se fosse seme sparso, e allo stesso tempo, diventa fragranza, perdita e trafittura, aratura dell’anima e orlo di dune. Il portale dell’essere è combattimento per l’esistenza, grido e lancio squarciato, vissuto tra piante e monti, dove la tempesta della natura è partecipata e ostile: «Turbina, mare – / turbina i tuoi pini appuntiti, / schizza i tuoi grandi pini / sui nostri scogli, / gettaci addosso il tuo verde, / coprici con le tue pozze di abete».

L’ossimorica e onirica floridezza produce annunci ed evocazioni nel nudo cuore e polvere d’estate («La sabbia dura si frantuma, / e i suoi granelli / sono limpidi come vino. / Molte leghe più lontano, / il vento, / che gioca sull’ampia riva, / ammassa piccole creste, / e le grandi onde / vi si frangono sopra»), domanda al dio nel colore scuro del ciclamino:

«Giunco / squarciato e strappato / ma doppiamente ricco – / le tue grandi cime / fluttuano sui gradini del tempio, / ma tu sei spezzato dal vento. / La corteccia del mirto / è punteggiata da te, / le squame sono distrutte / dal tuo stelo, / la sabbia spezza i tuoi petali, / la solca con lamina dura, / come selce su pietra brillante. / Eppure benché il vento / frusti la tua corteccia, / sei sollevato, / sì – benché sibili / per ricoprirti di schiuma».

Dopo la saga imagista, come ella stessa la definì, si occupò di cinema ma anche di un lungo lavorìo su Pound e al tributo a Freud, come una linea di segni sul muro.

[1] Farnee R., Ricordando Hilda Doolittle (www.minimaetmoralia.it/wp/approfondimenti/ricordando-hilda-doolittle/), 28 settembre 2020.

[2] H.D., Poesie imagiste, a cura di Giorgia Sensi, Interno Poesia, Latiano (Br), 2021. 

[3] Sensi G., H.D. Imagista, in H.D., Poesie imagiste, cit.,  pp.9-10.

H.D., Poesie imagiste, a cura di Giorgia Sensi, Interno Poesia, Latiano (Br), 2021, Euro 15.

H.D., Poesie imagiste, a cura di Giorgia Sensi, Interno Poesia, Latiano (Br), 2021. 

Bianchi R., Imagismo, in Modernismo/Modernismi, Principato, 1991.

Farnee R., Ricordando Hilda Doolittle (www.minimaetmoralia.it/wp/approfondimenti/ricordando-hilda-doolittle/), 28 settembre 2020.

“Non esiste grande arte senza grandi amanti”. Storia brutale di H.D. (www.pangea.news/hilda-doolittle-storia/), 18 settembre 2021.

 

Jón Kalman Stefánsson: lo scenario strappato dal sogno

di Andrea Galgano  7 settembre 2021

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La poesia di Jón Kalman Stefánsson, che ora Iperbrea raccoglie in un volume dal titolo La prima volta che il dolore mi salvò la vita[1], con la traduzione di silvia Cosimini, contiene la genesi  di un’attitudine nascosta, nata da un’asperità e da un smarrimento che insegue la parola che può dire l’amore e liberarlo, come musica ed eruzione, mattamente, bruciore e urlo di spiagge.

Daniele Piccini scrive: «Jón Kalman Stefánsson ha raccontato tutto questo: la sfida dell’uomo e del su sogno – spesso nutrito di parole, di libri molto amati – a una natura imperturbabile e ostile. Con personaggi che parlano poco e piuttosto rimuginano, rivanno con la mente ad anni lontani o a eventi che li hanno fulminati[2]».

Con il porto d’armi per l’eternità (1988), Dai reattori degli dei (1989) e Mi chiese cosa avrei portato su un’isola deserta (1993), più un’appendice di testi del 1994, la linea postuma del tempo, la creaturalità, la tregua e la fida, l’universo e la sua vastità, l’indistinto, l’oltre-mondo e la sua affermazione vivono di una coltre spessa e robusta, che rivela il duro cavo di un lavoro di perfezionamento archetipico e poi la lontananza, l’attesa: «Allora la tenebra era il respiro degli spettri / i casali di torba tremavano ai colpi brutali / dei venti mentre i fieno già raccolto volava via».

La scrittura di Stefánsson è un’emersione di fondo, che tenta di far affiorare, persino, ciò che svanisce e si dirada nelle tenebre, il mare oscuro delle ciglia, il divincolamento dei nessi e i rapporti interni delle sillabe.

La sua profonda inquietudine si confronta con il destino. La voce diventa il nesso causale di una bellezza franta che nasce «dal vuoto, nel vuoto forse lasciato, forse da un Dio che sembra eclissato, morto[3]», (dirà infatti: «lo riferiscono certi informatori / che uno dei prossimi giorni / si potrà vedere dio / andare a caccia insieme al futuro / l’attimo prima / di fare fagotto e andarsene / con il cielo sottobraccio»).

Egli racconta l’addensamento dello stupore («L’aurora si addensa in un sole / che come sempre non vede nulla di nuovo / e paventa l’eternità»), l’amplificazione della tradizione, la voluttà del margine, la dissolvenza onirica dei ricordi e la notizia della vita, che si mostra come spaesamento di pioggia e caldo:

«davanti ai miei occhi si dirada / la notte / gli alleati / apparsi dal buio / si rivelano fatti della densità del sogno / e il giorno / mi serra le sue mani azzurre intorno al collo / e detta le condizioni del vincitore / non mi aspetto che questa guerra / si legga nei libri di storia; / il numero dei morti / non mi supera di molto / e con le sue generazioni svanite alle spalle / dichiaro che / un giorno / un maledetto giorno / darò anch’io il mio contributo / ad abbattere i sogni».

Poi Reykjavík diviene l’approdo di una vita che si volge, lo scranno del presente e del vento salmastro, la stanchezza di una tela-isola di orizzonte, in una nuvola di polvere.

Stefánsson muove i passi attraverso dettagli mendicanti (un incidente stradale, le radio, Elvis Presley, i corvi, la luce disabitata della scomparsa e della distanza e il sortilegio umbratile di una vertigine): «questa greve / atrofizzante rotazione / del pianeta nel vuoto siderale e io / sempre faccia a faccia col calore / del sole che ogni giorno punta / il suo sguardo rovente come fiamme / lanciate dietro stelle sfavillanti / in folle fuga nella notte appena sorta».

Il senso di fallimento, l’amarezza e la malinconia, il sogno di veglie e la ferita aperta, conservano l’oro del silenzio, le parole e le sere, lo schermo dei capelli chiari, come l’assalto delle dimore che non cancella le ombre e si affida ai cicli naturali e alle attese memoriali degli istanti come folgori.

«Un mezzo bicchiere di whisky colato più volte sul vecchio piano / una voce arrochita e nel crepuscolo una tromba lamenta il suo destino / e da qualche parte, il violino si tiene / i nostri sogni. / Notte, un velo di nebbia scivola quieto / otto i lampioni. Le sedie capovolte sui tavoli / e un nero brizzolato sembra che spazzi. / La sua camicia che era blu ha un colore indefinito. / Una coppia sognante sulla pista in abbracci profondi. / La donna con un vestito a rose. Un uomo addormentato / sul bancone del bar e la sigaretta consumata da tempo. / Una lampada a olio fumosa proietta una luce flebile sul mezzo / bicchiere vuoto e un raggio di sole rossastro tasta / senza far rumore la finestra dello scantinato. / Il giorno non è nostro e lei. Lei è infinitamente lontana».

Daniele Piccini afferma ancora:

«Resta al poeta, in questa vertigine di irrilevanza, in questa condizione di povertà e di incertezza, la propria parla: una lingua affilata, accordata a un ritmo, a una vera e propria musica. […] La poesia sarà da maneggiare un po’ come un strumento, per tentare di addomesticare la solitudine e comporre scenari che la rendono contemporanea, abitabile come un luogo quotidiano».[4]

L’insonnia e gli orli, il sarcasmo e la fierezza, dunque, in cui l’io fronteggia l’epica solitaria degli arcobaleni («donna, guarda; / ho mandato quest’uomo / così posso strappargli / gli occhi / – e tenerli per me / con la tua immagine dentro»), vivono la scomparsa sgualcita dello sguardo ventoso di donne amate e lo sparo dell’eternità, come il closing time alla Tom Waits.

o l’immensità di una domanda che ricerca lo spasimo precario dell’umano, oltre l’inermità dei sogni interrotti, del limite-respiro quasi leopardiano e di ciò che sparisce oltre lo sguardo:

«A volte sogno la nera bellezza del cielo / le mani ardenti del sole che spazzano la marea / umana dalla superficie della terra prima che il giorno / si chiuda dentro la notte glaciale / A volte sogno oltre il vortice di luce urbana / un cielo che è una porta o un miraggio sopra / i monti frastagliati che s‘infilano tra le nubi cariche / d’acqua e uccelli che spariscono nei corrugati / crinali mentre l’inchiostro del tempo sposta / le montagne e la mia vita trascorre come / una stretta di mano casuale / A volte sogno un uomo indistinto / nel tempo sostenere che la terra è sua».

[1] Stefánsson J.K., La prima volta che il dolore mi salvò la vita, traduzione di silvia Cosimini, Iperborea Milano 2021.

[2] Piccini D., L’Islanda dopo Leopardi non è fatta per l’Antropocene, in “Corriere della sera – La Lettura”, 5 settembre 2021.

[3] ID., cit.

[4] ID., cit.

Stefánsson J.K., La prima volta che il dolore mi salvò la vita, traduzione di silvia Cosimini, Iperborea Milano 2021, pp.288, Euro 17, 50.

 

Stefánsson J.K., La prima volta che il dolore mi salvò la vita, traduzione di silvia Cosimini, Iperborea Milano 2021.

Piccini D., L’Islanda dopo Leopardi non è fatta per l’Antropocene, in “Corriere della sera – La Lettura”, 5 settembre 2021.

Ilya Kaminsky: lo specchio del silenzio

di Andrea Galgano 22 luglio 2021

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Repubblica sorda[1] (Deaf Republic) di Ilya Kaminsky, pubblicato precedentemente negli Stati Uniti e nel Regno Unito nel 2019, ora disponibile in Italia, grazie a La Nave di Teseo e alla traduzione di Giorgia Sensi, racconta di una città immaginaria, Vasenka, i cui cittadini, mentre assistono a uno spettacolo di marionette, vengono dispersi dai soldati e la città occupata.

Durante i disordini, i soldati uccidono un ragazzo sordo, Petya, e quello sparo diviene l’ultimo suono udito: tutti diventano sordi e manifestano il loro dissenso attraverso il linguaggio dei segni e «a partire da questa sospensione spontanea e insieme consapevole della comunicazione («Nelle orecchie della città, cade la neve»), si sviluppa come per gemmazione progressiva l’intero poema. Si tratta del resto della sua metafora più importante e feconda. Si può dire anzi che non solo la sua qualità ma la sua stessa plausibilità stiano tutte in quella prima intuizione[2]»:

«Il corpo del ragazzo è steso sull’asfalto come una graffetta. / Il corpo del ragazzo è steso sull’asfalto / come il corpo di un ragazzo. / Io tocco le pareti, sento il polso della casa, e / mi guardo attorno senza parole e non so perché sono vivo. / Attraversiamo la città in punta di piedi, / Sonya e io, / fra teatri e giardini e cancellate in ferro battuto – / Siate coraggiosi, diciamo, ma nessuno / è coraggioso, mentre un suono che non sentiamo / fa alzare in volo gli uccelli dall’acqua».

Nato ad Odessa nel 1977 in Ucraina, al tempo Unione Sovietica, di origine ebraica e fin da ragazzo negli Stati Uniti, per sfuggire alle ostilità razziali, Kaminsky, che soffre sin da bambino di problemi di udito, compone una partitura di favola e dramma, ribellione e incanto unitario, teatro e poema.

La rifondazione poetica nasce dal mito che dice la verità[3]. Attraverso la scomposizione biografica e narrativa, l’epicedio del proprio dolore, il segno diventa il centro dello sguardo, la prospettiva unica del tempo, dove il presente manifesta non già l’inadeguatezza ma una frattura, una sospensione franta e una insurrezione sentita verso la drammatizzazione e uno specchio riflesso[4]:

«E quando bombardavano le case degli altri, noi / protestavamo / ma non abbastanza, facevamo opposizione ma non / abbastanza. Io ero / a letto, intorno al mio letto l’America / cadeva: casa invisibile dopo casa invisibile dopo casa invisibile – / Portai fuori una sedia e osservai il sole. / Nel sesto mese / di un regno disastroso nella casa del denaro / nella strada del denaro nella città del denaro nel paese del denaro, / il nostro grande paese del denaro, noi (perdonateci) / vivevamo felici durante la guerra».

I personaggi muovono il loro teatro diseguale, dove anche i disegni dell’autore compongono una semiologia luminosa e dolorosa, assieme, in cui il palcoscenico del paese diventa una inner vision dell’essere, in cui pietà (come il gesto di Alfonso o la bocca aperta di Sonya in cui «noi vediamo / la nudità / di un’intera nazione»), la lettura del molteplice e dell’invisibile, la lacerazione nuda, il rifiuto, la costellazione dell’umano.

Il dramma cresce come un’onda. Il segno stesso diventa dramma, e l’alterità diventa una sorta di negative capability, in cui i dialoghi, le descrizioni, i frammenti non si scompongono, bensì attuano reminiscenze randagie e atti d’amore.

Il loro paradosso di sordità li rende liberi («In questi viali, la sordità è la nostra unica barricata») e «il silenzio è l’invenzione dell’udito», come scrive in nota Kaminsky. Il silenzio diventa la lingua «Cos’è il silenzio? Qualcosa del cielo in noi».

Una lingua non rassegnata ma piuttosto umbratile stupore chiaroveggente e persino, lotta politica, nel senso più alto:

«La sordità è sospesa sopra tetti di latta azzurra / e gronde di rame; la sordità / si ciba di betulle, lampioni, tetti d’ospedale, campane; / la sordità si posa nel petto dei nostri uomini. / Le nostre ragazze coi segni dicono, / Cominciate. / I nostri ragazzi lentigginosi, bagnati, si fanno il segno della croce. / Domani saremo allo scoperto come le costole magre dei cani / ma stasera / non ce ne importa abbastanza da dover mentire. Alfonso salta addosso al soldato, lo abbraccia, gli buca il polmone».

Il linguaggio creato dagli abitanti, dunque, permette la comunicazione della libertà, la resistenza, il pericolo, il grido e il corpo sporcato: «Un soldato si allontana marciando, tiene in braccio la bambina di Sonya e Alfonso rimasta orfana. In Central Square Alfonso penzola da una corda. Una scura macchia di urina sui calzoni. Il burattino della sua mano balla».

Il secondo atto restituiscono la storia di Momma Galya, il suo tempo di pienezza e di guerra e gloriosa benedizione salmica («Benedetta sia ogni cosa sulla terra finché non si guasta, / finché ogni cuore ingovernabile non ammetterà: Mi sono confuso / eppure ho amato – e ciò che ho amato / ho dimenticato, ciò che ho dimenticato ha portato gloria ai miei viaggi, / ho osato viaggiare il più possibile vicino a te, Signore»), dove neanche il tempo è risparmiato e tutta la teologia di Kaminsky diventa speculum in aenigmate: «Come uomini di mezza età, / i giorni di maggio / si incamminano verso le prigioni. / Come giovanotti si incamminano verso le prigioni, / il cappotto / buttato sopra al pigiama».

E ancora:

«Questo corpo da cui testimonio è un binocolo da cui tu puoi / guardare, Dio – / una bimba si aggrappa a una sedia, / mentre i soldati (le facce modellate dall’interno dalle parole) / arrestano tutta la mia gente, io / scappo e la bandiera è l’asciugamani su cui il vento si asciuga le mani. / Mentre loro scardinano le porte del mio appartamento / vuoto – io sono in un altro appartamento e sorrido alla bimba che / si aggrappa a una sedia, / barcolla / verso di te e di me, Dio. / Io batto le mani e applaudo / i suoi primi passi, / i suoi primi passi, in pericolo come tutti».

La tragedia racconta la terra, la simbolizzazione dei segni, la perlustrazione del vuoto, la speranza che non si cela nell’ottimismo progressivo ma è gradiente dell’umano, ampiezza di sguardo, splendore di corpo. La parola finale è una lode: «Io non sento spari, / ma vedo uccelli schizzar via sui cortili delle periferie. / Come splende il cielo / mentre il viale ruota sul proprio asse. / Come splende il cielo (perdonatemi) come splende».

[1] Kaminsky I., Repubblica sorda, traduzione di Giorgia Sensi, La Nave di Teseo, Milano 2021.

[2] Galaverni R., Tutti sordi per scelta. Solo così la follia tace, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 11 luglio 2021.

[3] Id., cit.

[4] Brewbaker W., Silence that is not silence: on Ilya Kaminsky’s “Deaf Republic”, on “Los Angeles rivive of books” (www.lareviewofbooks.org/article/silence-that-is-not-silence-on-ilya-kaminskys-deaf-republic/), march 8, 2019.

Kaminsky I., Repubblica sorda, traduzione di Giorgia Sensi, La Nave di Teseo, Milano 2021, pp. 176, Euro 17.

Kaminsky I., Repubblica sorda, traduzione di Giorgia Sensi, La Nave di Teseo, Milano 2021.

Brewbaker W., Silence that is not silence: on Ilya Kaminsky’s “Deaf Republic”, on “Los Angeles rivive of books” (www.lareviewofbooks.org/article/silence-that-is-not-silence-on-ilya-kaminskys-deaf-republic/), march 8, 2019.

Galaverni R., Tutti sordi per scelta. Solo così la follia tace, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 11 luglio 2021.

Odisseas Elitis: il minuto segreto delle cose

di Andrea Galgano  16 giugno 2021

leggi in Pdf Odisseas Elitis

«Ho colto la mia immagine tra un mare che si affaccia dal muretto bianco di calce di una chiesa e una ragazza scalza cui il vento solleva la veste: un momento felice cui tendo un agguato cercando di catturarlo con parole greche».

La dimensione europea di Odisseas Elitis (1911-1996), luce fulgida della poesia contemporanea greca e premio Nobel per la Letteratura nel 1979, assurge, da un lato, al debito innegabile verso éluard, Valéry e Breton e, dall’altro, alla potenza raffigurativa greca immersa in una ricchezza elusiva e luminosa «ma anche poesia dell’ombra, dell’angoscia e della ricerca interiore, vicina ai grandi classici dell’epoca classica, Saffo soprattutto, e poesia filosofica e di riflessione esistenziale che talora arriva a prendere in considerazione un suo dialogo con la storia fino a realizzare una fusione armonica di queste due tendenze senza più distinzione tra pensiero e sentimento, tra l’ispirazione lirica e quella filosofica, tra prosa e poesia[1]».

La pubblicazione, presso Crocetti, delle sue Poesie[2], a cura di Filippomaria Pontani, con traduzioni di Filippo Maria Pontani e Nicola Crocetti, consegna la bellezza rinnovata, l’accento puro e umbratile, l’irradiazione infinita del tempo verso l’Assoluto, in una sinfonia sensuale e compiuta che raggiunge la metafisica solare e il corpo della lingua (si pensi alle torsioni, alle ellissi de Il Piccolo Marinaio, dove il metalinguismo raggiunge una sorta di elastica purezza), attraverso segnali che caratterizzano la poesia di Elitis come specchio vitale dell’altro verso delle cose e tensione.

Come avviene, ad esempio, nei movimenti di alterità frammentata del dialogo di Maria Nuvola, dove si addensano spostamenti di tangibile e intelligibile o alla densità ritrattistica di Fratellastri:

«naturalistica, metastorica e glottocentrica. […] Il parametro naturalistico si riferisce  alla grande attenzione, determinante per la poesia di Elitis, per il micro e macrocosmo della natura: un cosmo nativo ed estraneo, vicino e lontano, animato e inanimato, vegetale, animale, umano: un cosmo dal quale emergono fanciulle amorose, simboli di emozione sensuale ed estetica. La metastoria allude alla deviazione o al superamento della storia, quando e dove essa sia segnata da implicazioni belliche e politiche, da stragi intestine e da ferite infette».[3]

Filippomaria Pontani afferma:

«Poesia come sensazione, trasparente come luce, luminosa come il sole, magica come il mare, concreta e forte come la Grecia; poesia come frutto di una lingua che non conosce il chiaroscuro, lingua perenne che guida la parola sull’onda della sua forza morale prima ancora che estetica o espressiva; poesia come “fonte di innocenza colma di forze rivoluzionarie”, come mito che non è più quello marmoreo e atteso delle storie antiche ma cresce come frutto di un processo autonomo e idiosincratico di “mitizzazione” del reale secondo canali tutti propri. Questa è la poesia di un Greco (Ellinas), di un vagabondo (alitis), di un uomo libero (elèftheros), di un devoto seguace di éluard (in particolare L’amour la poésie), pronto ad assumere sin da giovane uno pseudonimo (era nato come Odisseas Alepudis nel 1911 a Iraklio di Creta) per precipitarvi un precocissimo testamento di ideali».[4]

In Orientamenti (1940), il sipario greco di fiamma, l’alfabeto dei paesaggi, la sillaba di mare e terraferma, le evocazioni e i richiami, la metrica della materia, il colore degli arcipelaghi segnano il tempo dello zefiro egeo, i baci dell’aurora, l’orizzonte ampio dei risvegli e i notturni insanati delle dita dei cipressi, «in un pervicace ilozoismo sinestetico che trascolorava dal mare al giardino, dai melograni alle fanciulle, dal vento al bacio, dall’estate all’uva, dagli uliveti ai giacinti, dalla notte al fuoco, dalla roccia al fuoco[5]».

Inoltre, lo sciabordío d’amore è una memoria turchese di braccia dischiuse, palpebre insonni ed epigrammi di luce, fino alle clessidre dell’ignoto e al segreto della trasparenza:

«S’infuria il sole, la sua ombra incatenata dà la caccia al mare / Una casetta, due casette, il pugno chiuso dalla rugiada profuma ogni cosa / Fiamme e fiamme vanno in giro a svegliare porte chiuse delle risate / è tempo che i mari si presentino ai pericoli / Che volete chiede il raggio, che volete chiede la speranza / calando la sua camicetta bianca / Ma il vento ha seccato la vampa, due occhi pensano / Senza sapere che fine faranno così denso è il loro futuro / Verrà un giorno che il sughero imiterà l’àncora e ruberà il sapore dell’abisso / Verrà un giorno che la loro duplice identità diventerà una sola / Più in alto o più in basso delle vette che ha incrinato il canto del Vespro / Di stasera, non importa, l’importante è altrove / Una ragazza, due ragazze, si curvano sui loro gelsomini e scompaiono / Resta un torrente a raccontarle ma proprio lì le notti si sono chinate a bere / Grandi colombi e grandi sentimenti coprono il loro silenzio / Pare quella loro passione sia irredimibile / Nessuno sa se verrà il dolore a spogliarsi insieme a loro / Le trappole scarseggiano, le stelle indicano agli amanti gli incantesimi / Tutto balza, si aggroviglia – pare sia giunta l’immortalità / La cercano le mani stringendo il loro destino che ha cambiato corpo e si è fatto vento / Forte – pare sia giunta l’immortalità».

Il femminile di Elitis è una transustanziazione di grazia e bellezza, un concerto di giacinti, orizzonti remoti e ricordo glauco, voci che si dimenticano, viaggi di dita sui pioppi che spartiscono il vento e labbra introvabili, come le parole che affilano l’immenso:

«Emozione. Le foglie tremano vivendo insieme e vivendo separate sui pioppi che spartiscono il vento. Prima dei tuoi occhi è il vento che mette in fuga questi ricordi, questi ciottoli – le chimere! L’ora è liquida e tu ti appoggi su di lei, piena di spine. Penso a coloro che non hanno mai accettato salvagenti. Che amano la luce sotto le
palpebre, che quando il sonno è allo zenit esaminano svegli le loro mani aperte. Voglio chiudere i cerchi aperti dalle tue dita, e applicarvi sopra il cielo perché non sia mai diversa la loro ultima parola. Parlami; ma parlami di lacrime».

E ricolme dell’isola di Thera (Santorini), esse attraversano la notte che erra nei deserti degli astri, come nascita primigenia e porfirogenita:

«IX

Io non ho fatto altro. T’ho presa come tu prendesti la natura intatta e l’officiasti ventiquattro volte entro le selve e i mari. T’ho presa in quello stesso brivido che rovesciava le parole e le lasciava lungi come aperti in surrogabili gusci. T’ho presa compagna nella folgore, nel terrore, nell’istinto. Perciò ogni volta che cambio giorno stringendomi il cuore fino al nadir, tu fuggi e sparisci vincendo la tua presenza, creando un deserto di Dio una tumultuosa inesplicabile felicità. Io non ho fatto altro che quello che ho trovato e imitato in Te!

X

Ancora una volta tra i ciliegi le tue labbra introvabili. Ancora una volta tra le amache vegetali i tuoi antichi sogni. Un’altra volta nei tuoi antichi sogni le canzoni che si accendono e svaniscono. Dentro quelle che si accendono e svaniscono i caldi segreti dell’universo. I segreti dell’universo».

Oppure attraverso la pienezza dell’istante che lega abisso e brillìo, estati azzurre, labbra rosse e rocce di enigma, lontananze e sabbia tra le dita, il corpo dell’amata diviene il primo giorno sulla terra, tra i melograni folli e lidi inodori:

«Hai sulle labbra gusto di procella / Un vestito ch’è rosso come il sangue / Giù nel fondo dell’oro dell’estate / L’aroma dei giacinti – Dove mai vagavi / Calando ai litorali ai golfi con i ciottoli / Là c’era un’alga gelida salmastra / Più in fondo un sentimenti umano dava sangue / Aprivi attonita le braccia e ne dicevi il nome / Salendo lieve a specchi diafani d’abissi / Dove l’asteria tua brillava».

Nel corpo dell’estate si afferma l’assoluto imprendibile, la densità dell’istante, la goccia che trema nel sole, il fremito nudo dell’ultima pioggia e le variazioni su un raggio, come illibata libertà:

«Aroma eccelso del dito immilla la passione / Il mio occhio aperto duole sulle spine / Non è la fonte che brama gli uccelli dei due seni / Quanto il ronzio di vespa sulle anche nude. / Datemi la cicatrice dell’amaranto le magie / Della giovane filatrice / L’ “addio” l’ “arrivo” il “ti darò” / Caverne di salute lo berranno alla salute del sole / Il mondo sarà la morte o il doppio viaggio / Qui nel lenzuolo del vento lì nello sguardo dell’immenso».

I 14 quadri che compongono il Canto eroico e funebre per il sottotenente caduto in Albania, dato dopo aver rischiato la morte a causa del tifo, racconta la genesi dell’immolazione e il dramma della libertà e «proietta il sacrificio di un singolo combattente entro uno scenario di “morte e risurrezione” (emblematico il rintocco delle campani pasquali nell’ultimo testo) che coinvolge l’intera stirpe ellenica, ma più ampiamente l’uomo stesso, che tramite la lotta per la libertà e l’espiazione redime i luoghi e il cosmo portandoli a una compiuta perfezione[6]».

La passione ritorna in Dignum est (1959), dove l’inno di ringraziamento e celebrazione della tradizione liturgica ortodossa, unisce le campiture religiose, in particolare del Genesi, alla salmodia della Passione, fino al Gloria che prorompe come gemma di luce e dà vita e respiro alla bellezza.

Il travaglio della storia accompagna la sortita di ogni pienezza, la folgore di ogni umana tensione e l’avviluppo delle contraddizioni del tempo. L’autobiografia e il salmo, la voracità delle cose e la gloria di ogni lingua e stratificazione.

Il cuore dell’innocenza perduta, la lotta, il riscatto, la compiutezza morale, la fragranza ricolma della realtà, in tutta la sua gratuità (rocce, il fruscìo delle onde, le lacrime, muri, case, olivi e giardini, il corpo femminile disteso, i melograni, la sabbia di tenebra) condiscono la stilla di acqua limpida della poesia, dove, come afferma Filippomaria Pontani, il thànatos è anima del maschile, innervando il territorio della femminilità e della soggettività di Eros.

L’albero di luce e la quattordicesima bellezza (1971), che rimanda alle donne sciite, attraversa la crisi della Grecia odierna, non solo appropriandosi di una lacerazione di rimpianto e nostalgia, ma anche attraverso l’inserzione di un vocabolario autobiografico di infanzia e adolescenza e dell’enigma bianco dell’anima:

«Lo so che tutto questo è nulla  e che non ha questa lingua che parlo un alfabeto / Visto che il sole e i flutti sono una scrittura sillabica che tu decifri solo nei tempi del dolore e dell’esilio / E la patria  un affresco con strati successivi franchi o slavi   se mai ti provi a restaurarli te ne vai in prigione all’istante  e rendi conto / A una congerie di Potenze straniere   tramite la tua / Come succede per le calamità / E tuttavia   immaginiamo un’aia di remoti tempi che può stare in un grande casamento   che vi giochino bambini e che chi perde / A norma di regolamenti sia tenuto   a dire agli altri e a dare qualche verità  / Quando sono alla fine tutti tengano in mano un piccolo / Dono argenteo poema».

Il poema-luce di Monogramma restituisce l’infinita sensualità dei passaggi quotidiani: i bisbigli, i pleniluni, i varchi del mare, il silenzio delle stelle, come un tempo remoto di un affresco diruto di incanto e profumo («Il tuo corpo nella posa del pino solitario / Occhi di orgoglio e di abisso trasparente / Dentro la casa con la credenza vecchia / I merletti gialli e il legno di cipresso / Io solo ad aspettare la tua prima epifania / Nella loggetta in alto o dietro sulle pietre del cortile / Col cavallo del Santo e l’uovo della Risurrezione»):

«Tanto la notte, tanto l’urlo al vento / Tanto la goccia all’aria, tanto il gran silenzio / Attorno il mare la tirannica / Volta del cielo con le stelle / Tanto il tuo minimo respiro / Che ormai non ho nient’altro / Entro le quattro mura, il soffitto, il pavimento / Per gridare di te (e la voce mi colpisce) / Per odorare di te e gli uomini s’infuriano / Perché ciò che è intentato, portato da un altrove / Non lo reggono gli uomini ed è presto, mi senti / È presto ancora in questo mondo amore mio / Per parlare di te e di me».

Elitis procede per analogia di sensazioni, laddove il paesaggio femminile è natura vivificata, genesi geometrica e ecfrasi di cielo:

«È ancora presto dentro questo mondo, mi senti / Placati non si sono i mostri, mi senti / Il mio perduto sangue e l’appuntito, mi senti / Coltello / Come ariete che corre dentro i cieli / E spezza agli astri i rami, mi senti / Sono io, mi senti / Ti amo, mi senti / Ti tengo e ti porto e ti metto / L’abito candido d’Ofelia, mi senti / Dove mi lasci, dove vai, chi mai, mi sent / È a tenerti per mano sopra i cataclismi / Liane enormi e lave di vulcani / Verrà giorno, mi senti / Che ci seppelliranno e le migliaia d’anni poi, mi senti / Di noi faranno pietre luccicanti, mi senti / Perché vi brilli l’impietosa indifferenza, mi senti / Degli uomini / E in mille pezzi via ci getti, mi senti[…]».

I sintagmi della rêverie, la liturgia, la divinazione suprema ed eliocentrica della luce diventano ultimità ierofanica che tenta di trasformare la realtà, congiungere morale e bellezza, sospendere sintassi  ed enigma, inquietudine vitale, prisma rifratto e destino, come galassia ribassata e fogli nel sole.

O anche nel blu di Iulita, in cui Elitis fa confluire il passaggio del respiro, la sacralità del vento, il mito citereo, il tempo amante, fino alla nitidezza dell’anima, affamata e assetata di eterno:

Anche in un frammento di Briseide e in una conchiglia dell’Euripo si trova
Ciò che intendo. Deve avere avuto una fame tremenda nella bonaccia agosto
Per volere il meltèmi; così da lasciare un po’ di sale sulle ciglia e
In un cielo blu il cui nome benaugurante sentirai tra i tanti

Ma nel profondo è il blu di Iulita
Come se fosse venuta prima la scia del respiro di un bimbo
Che vedi avvicinarsi coì nitidamente i monti dirimpetto
E la voce di un’antica colomba fendere l’onda e perdersi

Se il bene è sacro, di nuovo dal vento
Gli viene restituito. Tanto si moltiplica dai suoi  stessi figli la Bel-
Lezza e tanto l’uomo cresce prima che due o tre volte
Lo raffiguri il sonno
Nel suo specchio. Cogliendo mandarini o ruscelli di filo-

sofi se non anche

Un villaggio mobile di api sul pube. E sia
L’uva fa bruno il sole e più candida la pelle
Chi altri oltre la morte ci rivendica? Chi pratica ingiustizia dietro ricompensa?
Un accordo armonico la vita
a cui si frappone un terzo suono
Ed è questo che dice veramente che cosa getta il povero
E che cosa raccoglie il ricco: fusa di gatto, rametti intrecciato di agnocasto

Assenzio con capperi, parole che si evolvono con una vocale breve
Baci e abbracci da Citera. Così, a cose come queste si aggrappa
L’edera e si fa più grande la luna perché vedano gli innamorati
In che blu di Iulita puoi leggere la ragnatela del destino

Ah! Quanti tramonti ho visto e quanti corridoi di teatri antichi             Ho attraversato. Però il tempo non mi ha mai preso in prestito bellezza
Per ottenere una vittoria contro il nero e prolungare la durata dell’amore cosicchè                                                                                                           Il canto dell’allodola che è in noi sia più ingegnoso e melodico
Dal suo pulpito
Nube accigliata che uno schietto “no” solleva come una piuma
E poi ricade e tu ti sazi ti sazi ti sazi di pioggia
Diventi coetaneo dell’intatto senza conoscerlo e                                              Continui a farti il solletico con le tue cugine nei recessi del giardino
Domani un suonatore ambulante ci annaffierà di fiori della notte
E nonostante ciò saremo un po’ infelici
come solitamente nell’amore
Ma dal mastice dell’argilla sale un sapore eretico
Per metà di odio e sogno per metà di nostalgia                                                                                                                                      Se continueremo a essere percepibili come uomini che
Passano la vita sotto cupole punteggiate da tritoni di smeraldo, allora
Sarà mezzo secondo dopo mezzogiorno
E la sublime perfezione
compiuta in un giardino di giacinti
Cui è stato tolto per sempre l’appassire. Un po’di grigio
Che una sola goccia di limone rasserena allorchè
Vedi ciò che intendevo dall’inizio incidersi
Con caratteri nitidi
sul blu di Iulita.

[1] (a cura di) Minucci P., Odisseas Elitis. Un europeo per metà, Donzelli, Roma 2010, p.X.

[2] Elitis O., Poesie, a cura di Filippomaria Pontani, Crocetti Editore, Milano 2021.

[3] Maronitis N.D., Contributo sulla poetica di Odisseas Elitis. Poesie in rilievo e a tuttotondo, in Odisseas Elitis, cit., pp.18-19.

[4] Pontani F., in Elitis O., cit., p.7.

[5] Id., cit.

[6] ID., cit., pp.8-9.

Elitis O., Poesie, a cura di Filippomaria Pontani, Crocetti Editore, Milano 2021, pp. 240, Euro 16.

Elitis O., Poesie, a cura di Filippomaria Pontani, Crocetti Editore, Milano 2021.

  • È presto ancora, a cura di Paola Maria Minucci, Donzelli, Roma 2012.
  • Il metodo del dunque e altri saggi sul lavoro del poeta, a cura di Paola Maria Minucci, Donzelli, Roma 2012.

(a cura di) Minucci P., Odisseas Elitis. Un europeo per metà, Donzelli, Roma 2010.

 

Ljubomir Levčev: la furiosa precisione

di Andrea Galgano  14 maggio 2021

leggi in Pdf Ljubomir Levcev: la furiosa precisione

La poesia di Ljubomir Levčev (1935-2019), uno dei più grandi poeti bulgari, è tempio di precisione furiosa. Poesia che affastella contraddizione e ironia, si ammanta di una temperie di assurdo e cromature vitali, che insegue la nostalgia dell’infinito, e guarda con attenzione e fedeltà, come scrive Roberto Galaverni, «la vita, il mondo, gli altri, sé stesso, proprio come ci si aspetta da un poeta. E lo fa spesso e volentieri per mettere in luce il rovescio, la trama nascosta, la verità e dunque la morale inattesa delle cose. Ma e qui sta il punto, l’intelligenza e l’arguzia delle sue osservazioni non risultano affatto intrise, come quasi sempre accade, di sarcasmo, risentimento o disamore vero l’esistenza».[1]

Con la pubblicazione di I passi dell’ombra[2], edito da Bompiani, a cura di Giuseppe Dell’Agata e introduzione di Vladimir Levcev, la sua poesia esprime, pienamente, una ricchezza di immagini ed è

«adorna di numerose metafore. È musicale, ha i ritmi sincopati della poesia moderna, ma la sua essenza si fonda sulle immagini e sul paragone. Le sue metafore sono spesso strane, moderniste, ma nascono sempre da una realtà concreta (Quando all’improvviso salta la corrente). Il mondo emotivo della sua poesia reca l’alito, l’aroma, il colore del suo tempo, ne utilizza i ritmi e la lingua. Nei versi migliori non c’e niente di artificioso, falso, combinato. Perfino nei cosiddetti Capricci. Perfino le metafore più eccentriche e assurde vengono percepite come una marcata realtà fisica. La sua poesia costituisce una testimonianza di alto significato riguardo al trascorrere del tempo».[3] (p.8).

 Le esclamazioni e le interrogazioni metafisiche, la nudità del cielo notturno che contrasta il limine luminoso del giorno («Amo il cielo di notte, / perche lui solo e nudo. / E questa luce del giorno mi impedisce / di guardare la nudità dell’Universo»), la particolarità delle immagini che raggiungono linee surreali e il fondo dell’assurdo, come i parafulmini, in uno strappo di sipari.

E poi la fraternità, le illusioni di cristallo (le vie scoscese di Tărnovo, invocate come affermazione imperitura) compongono il suo scenario che insegue la bellezza nelle solitarie realtà concrete, nella posizione partecipata e distaccata, insieme.

Andrej Voznesenskij, infatti, afferma:

«Fissare l’attimo e il tratto stilistico di Levčev: negli autentici artisti e in generale nei creatori e presente una forza interiore tesa a superare lo spazio e le strette cornici di ciò che e limitato. Ciò che più gli interessa, come ha scritto in una delle sue poesie, e di essere il più sincero, il più originale, il più se stesso possibile. Il suo verso e intellettuale, ma il suo intellettualismo non e schematico, bensì carnale, virile, colorito». (p.10).

La sua immagine è in movimento, ricorda volti cari (la madre in paradiso) e solitudini accorate, racchiude inserti minimi (come i movimenti della donnola in cantina o i segreti strappati della luna di giorno), il rumore dell’anima e la sensualità dell’amore sospeso («Aprii, / tremante come una fiammella, / e ti vidi, / bellezza – / piena di desiderio, / coi capelli scompigliati dalla luna / e illuminata dal vento della notte, / e con un sussurro di una foglia di giaggiolo:“Eccomi – / Come mi hai immaginato!”/ Chiamami Carmen! / E sappi che ti amo!”»), e soprattutto, la sua luce invisibile è una ricca confidenza indicibile che si interroga e si espone («Come un grillo di città / la mia voce interiore / si interroga»): «Così che, in realtà, / quando salta la corrente, / io vedo / infinite cose, invisibili alla luce. / Per esempio: / all’improvviso capisco / che in città è raccolta / una quantità pericolosa di persone / per ogni metro quadro illuminato. / E non ha più nessun significato, / se sei stato Anteo, / perché / hai molti piani sotto di te / ed essi sono la tua terra».

La sua ironia è una filigrana che serve per mettere a fuoco il problema della realtà, per interrogare il tempo, i sogni e la memoria, e la posa dell’arte, richiamare gli amici scomparsi e guardare alle inserzioni di eterno:

 «E durante questo tempo infinito / guarderò fuori dalla finestra / come cadono le foglie / o rinverdiscono, / come la lontana cupola della chiesa assomiglia / a una tazzina di caffè rivoltata per trarne gli auspici, / come le ragazze si specchiano nelle porte di vetro / e come voi pensate che io non ci sia più per sempre».

I quadri di Levčev incrinano ogni sicurezza, sembrano giocare con le cose, fino al dramma, si spingono al dialogo per celebrare l’immaginazione vissuta e, infine, conteggiare l’ombra, la visione, la ferita, gli scherzi d’amore e le ragazze del mattino, il raggiungimento della storia (come i dialoghi con Colombo e la gloria di grandi pittori come Cézanne o Monet), la dolcezza luminosa della magnolia e le soglie profonde.

In questa trasparenza oscura, nell’arco degli abissi, nello sperdimento ribelle dei fiumi della Bulgaria e nei tamburi squarciati della notte, egli tocca le trame più interiori. E lo fa maneggiando le soluzioni eversive e minime del vero, lanciato come un traboccante sospiro: «Allora sbalordito vidi che ero sulla riva, / che tu sei il mare del mattino / e i tuoi abissi mi chiamano. / Da te sorge il sole. / Tu mi tocchi / e in me spunta l’alba».

Le sue tensioni assomigliano a sillabe di lettera, a un limpido guado d’amore («Amore come un silenzio – / questo è il mio amore. / E tu lo conosci»), all’attesa e ai semi semantici del sussurro dell’anima:

«Se ne va la luce rossa. / L’ultima lince selvatica scruta / cose per noi invisibili. / Se ne va la neve dalle cime dei monti. / Le cabine della funivia immobili / viaggiano verso l’oblio, / viaggiano. / Come un miraggio scacciato. / Come una speranza disperata. / Se ne va questa epoca. / Se ne va l’estasi… / E solo io rimango. / Non so se potrò scriverti ancora. / Non so se potrò vederti. / Ma so che non c’e modo che io ti dimentichi / fino alla fine, / e forse anche dopo. / Dimenticherò le chiavi sulla porta del non essere. / Dimenticherò gli occhiali e diventerò cieco. / Con dita insanguinate ti cercherò, / ma tutto quello che toccherò, / diventerà polvere».

[1] Galaverni R., Parafulmini e donnole. La via bulgara all’ironia, in “La Lettura – Corriere della Sera”, 9 maggio 2021.

[2] Levcev L., I passi dell’ombra, a cura di Giuseppe Dell’Agata, introduzione di Vladimir Levcev, Bompiani, Milano 2021.

[3] Levcev V., Introduzione in Levcev L., cit., p.8.

Levcev L., I passi dell’ombra, a cura di Giuseppe Dell’Agata, introduzione di Vladimir Levcev, Bompiani, Milano 2021, pp.350, Euro 20.

Levcev L., I passi dell’ombra, a cura di Giuseppe Dell’Agata, introduzione di Vladimir Levcev, Bompiani, Milano 2021.

Galaverni R., Parafulmini e donnole. La via bulgara all’ironia, in “La Lettura – Corriere della Sera”, 9 maggio 2021.

Charles Simic e l’indizio d’amore

di Andrea Galgano  1 marzo 2021

leggi in pdf Charles Simic e l’indizio d’amore 

Avvicinati e ascolta (Come Closer and Listen)[1] di Charles Simic, appena pubblicato da TLON e con la traduzione di Damiano Abeni e Moira Egan, coniuga, in modo brillante, la visione attuale del tempo, con tutti gli scavi rastremati, l’innovativo minimalismo, la domanda di significante e significato, il genius loci delle particelle quotidiane di Strafford nel New Hampshire,

«personifica le dicotomie della capacità negativa, distillandone un gradevole liquore agrodolce. […] Ci accompagna (come è proprio dell’epoca trumpiana in cui questi testi componimenti sono stati scritti) sull’orlo del baratro della disperazione, e poi ci riaccompagna a casa con una mesta risata sommessa e con il desiderio di continuare a tirare avanti, a dispetto di quanto il mondo sembri e sia sottosopra e di quanto siano disonesti e incompetenti quelli che dovrebbero governarlo».[2]

E nei suoi testi, dunque, possiamo

«salutare i vicini che vanno «a messa la domenica» mentre il poeta, diversamente da Cartesio e dal suo poltrire «a letto fin dopo mezzogiorno», parte «per la discarica»; intravediamo i quartieri, le avenue, le chiese in cui egli si aggira trasognato e sardonico; osserviamo gli strambissimi personaggi che rinascono nella mente come riverberi angoscianti (la Morte, la Giustizia), ma davvero si può dire che dietro all’io lirico campeggi senza soluzione di continuità l’io empirico, ossia proprio lui, Charles Simic? Nel frattempo il nostro messaggio di posta elettronica «cammina nel cielo» e atterra fra le case alberate del profondo nord: pizzica lo smartphone, turbando il quieto mestiere letterario di Simic (ispirato da irresistibili salsicce alla brace) e il laborioso andirivieni di sua moglie Hélen».[3]

Il tempo oscuro, trascritto nell’epigrafe emersoniana («Come se servissero gli occhi per vedere») e nel suono metafisico degli uccelli, la divisa sproporzione interiore, il caleidoscopio insonne e opaco («Il buio arriva presto / a questo punto dell’anno / e rende difficile / riconoscere le facce familiari / tra quelle degli sconosciuti»), il territorio fantastico della cosalità, la personificazione degli oggetti rilasciano, nella cecità omerica che dirige lo spettacolo, un invito e un indizio di avvicinamento e di ascolto, letterali: «e mi hanno passato in lacrime / a uno morto da parecchi anni, in una nazione / che non è più sulle carte geografiche, / dove come una foglia su un albero, / la bella stagione finita, / ho vorticato cadendo a terra / quasi senza fare rumore / perché il vento mi portasse lontano».

In questi testi permane una sorta di agone orfano, un sipario silenzioso e ironico, una dimensione oscura su cui trasvolare, come soglia, sulla sorte, per camminare nel cielo, nella caduta, nella compiuta e ampia descrizione dell’umano, ritmato negli schizzi di inchiostro, rilasciato come un detrito di memoria.

Vi è il senso di straniamento, di incomunicabilità e irrealtà di aiuto («L’irrealtà del nostro chiedere aiuto / un ulteriore dilemma su cui meditare / mentre ci mettiamo in fila a capo chino / quando viene offerto il caffè coi biscotti»), di pazzia lucida, di solitudine franta e bruciata: «Hanno buttato giù tutto l’isolato fatiscente / di piccole botteghe mal illuminate / con le vetrine polverose / di braccialettini, anelli per il naso, / tarocchi e bastoncelli di incenso, / dove una volta ho visto un giovanotto / con la camicia bianca coperta di sangue / che soffiava bolle di sapone nell’aria, / la faccia imperturbabile e bella, / tranne quando gonfiava le guance».

O di finitudine notturna, «La risata silenziosa / delle stelle / nel cielo di notte / ci dice tutto / ciò che ci serve sapere», che mormora nella personificazione delle foglie mute che rivelano paure malefiche pronte all’agguato, aspettando qualcosa che si manifesti. E noi rimaniamo in riflessione e in rispetto silenzioso:

«Ci dicono le foglie stasera. / Sentile andare nel panico e poi ammutolire. / E anche se tendiamo l’orecchio non sentiamo niente — / ancora più terrificante che sentire qualcosa. / Pare passino minuti o vite intere, / mentre aspettiamo si manifesti / proprio in quest’attimo, o di certo nel prossimo? / E intanto gli alberi s’assiepano a farci credere / ai loro rami che bussano sulla casa / perché li si faccia entrare, ma poi esitano. / Tutte quelle foglie che cadono mute all’unisono / come desiderassero non esasperare le nostre paure, / con qualcosa di malefico in agguato là fuori / che ci si avvicina, si avvicina sempre più. / La casa buia e silenziosa come un topo / se si avesse il fegato di restarci».

L’incubo ovidiano e attuale, la cupola di tenebra, il terrore dello sguardo, la galleria della visione (gli incendi e i bombardamenti, i sogni dell’antichità greca, l’insonnia inossidabile, il ricordo assieme a Charles Wright alle Giubbe Rosse, Adam Zagajewski), la visitazione dei pensieri nella mente («[O immenso cielo stellato] In cui vagano i nostri pensieri / come venditori ambulanti di Bibbie / solo per trovarsi con le porte / sbattute in faccia»), la lotta di Giacobbe con l’Angelo, nel trapelato Quiz a notte fonda, contro la Morte e il Niente, raffigurata in una maestra elementare: «Sarà sul niente. / Non sull’amore né su Dio, / ma sul niente. / Sarai come un bimbo nuovo a scuola / che ha paura di guardare la Maestra / mentre si sforza di capire / cosa stanno dicendo / di tutto questo niente».

La verbalità minima, l’immagine che si staglia, come sfera improvvisa, nella dolcezza della veglia, nel paradiso della musica a letto, ritrovano anche la mimesi petrarchesca e fenomenologica di Laura, del sogno americano, delle rovine, ma appare la luminosa (e rapinosa), quasi tellurica, della visuale umana dei giorni, intessuta d’amore e di bellezza, dove anche le navi fantasma del passato spalancano lo stordimento e lo sgomento dell’ultimo picnic:

«Prima che arrivino le piogge autunnali / facciamo un altro picnic, / ora che le foglie cambiano colore / e l’erba è ancora verde in certi posti. / Pane e formaggio e un po’ di uva nera / dovrebbero bastare, / e una bottiglia di vino per brindare ai corvi / sconcertati dal trovarci lì seduti. / Se verrà il freddo – come è certo – ti stringerò a me. / La notte scenderà presto. / Scruteremo il cielo sperando che la luna piena / ci illumini il cammino. / E se non ci sarà, porremo tutta la nostra fiducia / nella tua bustina di minerva / e nel mio senso dell’orientamento / mentre vaghiamo cercando casa».

[1] Simic C., Avvicinati e ascolta, traduzione di Damiano Abeni e Moira Egan, introduzione di Moira Egan, TLON, Milano 2021.

[2] Egan M., Introduzione. Orientarsi al buio, in Simic C., cit., pp.10-11.

[3] Fraccacreta A., Dimentico Petrarca ma trovo Laura, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 14 febbraio 2021.

Simic C., Avvicinati e ascolta, traduzione di Damiano Abeni e Moira Egan, introduzione di Moira Egan, TLON, Milano 2021, p.364, Euro 16.

Simic C., Avvicinati e ascolta, traduzione di Damiano Abeni e Moira Egan, introduzione di Moira Egan, TLON, Milano 2021.

  • La poesia supera le calamità, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 14 febbraio 2021.

Fraccacreta A., Dimentico Petrarca ma trovo Laura, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 14 febbraio 2021.