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La pericolosità del malato di mente

di  Volfango Lusetti 11 maggio 2016

leggi in pdf La pericolosità del malato di mente

*articolo apparso anche su “Etica & Politica” diretto dal filosofo Pier Marrone, Trieste

008Geri_HR_kleptoAl concetto di pericolosità del malato di mente non si fa più cenno, nella legislazione psichiatrica italiana, e più in generale nelle leggi sanitarie del nostro paese, a partire dalla legge n. 180 del 1978, poi recepita dalla legge 833 dello stesso anno: ovvero, da quella legge che ha istituito il Servizio Sanitario Nazionale e che è tuttora in vigore.

Occorre a tale proposito sottolineare un fatto curioso: neppure la recente legge 9 del 2012 (la cosiddetta “legge Marino”) e la susseguente legge attuativa (Decreto Legge 52 del 2014, convertito in legge il 24 4 2014), che pure ambivano a completare la riforma psichiatrica del 1978 (proponendosi il fine ultimo di superare gli unici Ospedali psichiatrici ancora rimasti in attività, ovvero gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, e di investire così in pieno il tema del trattamento dei malati di mente pericolosi), hanno osato toccare la pericolosità del malato di mente in quanto “nodo concettuale”, o tanto meno abolire il principio della pericolosità sociale in sé: questi provvedimenti hanno semplicemente stabilito che non potrà più esservi cura del malato di mente autore di reati in strutture che non siano “sanitarizzate” e nelle quali la sorveglianza della forza pubblica non sia al massimo “peri-muraria”, confermando così la pluri-decennale vocazione di tutti i riformatori della Psichiatria italiana a concentrarsi sui “luoghi” anziché sui problemi (il primo dei quali è, per quanto riguarda la pericolosità dei pazienti degli O. P. G., la sua più puntuale definizione, e soprattutto il frequente prolungarsi della degenza dei pazienti pericolosi oltre i limiti stabiliti dalle sentenze, a causa del reiterarsi d’una “valutazione di pericolosità” che può nei fatti fare durare la degenza stessa all’infinito).

Ancora una volta dopo il 1978, dunque, sembra che i Manicomi, agli occhi di molti, siano dei luoghi magici popolati da una sorta di “genius loci” della violenza e dell’arbitrio: un “genius loci” il quale, in caso d’una loro chiusura, si rifiuterebbe di abbandonarli, per cui il “chiudere i Manicomi”, pur senza minimamente preoccuparsi di preparare questo evento con forme di sperimentazione alternativa, e/o del modo in cui i loro ex degenti verranno trattati altrove (giuridicamente o dal punto di vista sanitario), equivarrebbe in ogni caso ad “avviare il problema a soluzione”.

La “pericolosità del malato di mente”, dunque, continua a tutt’oggi, a dispetto della cosiddetta “riforma Marino” e della successiva legge del 2014, ad essere menzionata solo nel diritto penale. Essa del resto, almeno fino a pochi anni fa, era trattata pochissimo anche nell’ambito della Psichiatria clinica, con l’ovvia eccezione della Psichiatria Forense.

In definitiva il tema della “pericolosità del malato di mente”, in parte a causa del suo carattere scottante sul piano dei principi, ed anche in ragione dell’enorme complessità delle problematiche pratiche che solleva, dopo ben trentacinque anni dalla legge 180, pur rimanendo ancora intatto davanti a noi, lo è alla stregua d’una montagna semi-sommersa ed in buona parte invisibile: una sorta di “iceberg” il quale, come appunto avviene con queste montagne di ghiaccio galleggianti, presenta una parte minima “emersa” (che poi corrisponde alla pericolosità del malato di mente autore di reati ed alla sua valutazione, ancora oggi possibile), e la parte maggiore sommersa (che corrisponde al problema della valutabilità della pericolosità del malato di mente non autore di reati, tuttora, trentotto anni dopo la promulgazione della legge 180, del tutto impossibile).

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La rimozione della pericolosità del malato di mente

In base a quanto sopra, possiamo senz’altro dire che la questione della valutazione psichiatrica della pericolosità del malato di mente è stata per almeno trentacinque anni, e continua ad essere anche oggi, il grande rimosso della Psichiatria italiana.

Come tutti gli altri rimossi, però, essa tende a comportarsi come un “perturbante”, e ed a farlo precisamente nel senso freudiano del termine; infatti la pericolosità è un concetto del quale, in Psichiatria, nessuno parla nella sfera della teoria, ma a cui tutti pensano costantemente nella propria pratica professionale quotidiana, per lo più in maniera inconscia e comunque sempre inconfessata. Ciò avviene ovviamente con importanti conseguenze negative, che ciascuno può facilmente immaginare.

Ma perché mai si è creata, proprio in Italia, questa situazione?

La rimozione della violenza collegata alla malattia mentale avvenuta soprattutto nel nostro paese, è dovuta ad un duplice ordine di fattori.

  • Un primo ordine di fattori è di tipo ideologico, e consiste nella forte manipolazione, per l’appunto di natura ideologica, che sul tema della violenza del malato di mente è stata esercitata (in particolare ad opera del pensiero positivistico italiano) per circa un secolo: questa manipolazione è iniziata all’incirca nella seconda metà dell’Ottocento ed è durata, in varie forme, fino agli ultimi anni del Novecento, giungendo praticamente fino a noi.

Essa si è realizzata in due forme contrapposte, articolatesi in due distinti momenti: un primo momento è stato caratterizzato da un’enfatizzazione estrema del nesso esistente fra malattia mentale e violenza. Bisogna qui chiarire che ove si intenda correttamente la “violenza del malato di mente” nel suo duplice risvolto, ossia da un lato come auto-diretta e dall’altro rivolta verso gli altri, proprio a quest’ultima, benché  nella realtà clinica essa sia di gran lunga la meno frequente, è stato dato maggior risalto dai “mass media” e dagli intellettuali, di fronte ad un’opinione pubblica per lo più incerta e smarrita; all’inverso, alla violenza auto-diretta, molto più frequente e quasi “tipica” di certi disturbi psichici, è stato dato molto minor spazio agli occhi dei non addetti ai lavori, lasciandola, rispetto alla prima, quasi in ombra. Una tale enfatizzazione della violenza etero-diretta collegata alla malattia mentale, è poi sfociata nell’abuso più sfacciato (operato non solo a livello popolare, ma anche scientifico) dello stereotipo del malato di mente violento; il malato di mente è stato infatti visto come un soggetto, prima ancora che aggressivo, sempre e comunque carente d’ogni capacità di controllo sui propri impulsi d’ogni genere, quindi per definizione “pericoloso a sé ed agli altri”, e ciò in palese contraddizione con la realtà clinica.

In un secondo momento, in particolare a partire dagli anni Settanta del Novecento si è poi passati, come già accennato, ad uno stereotipo opposto: quello di dare per scontata l’assoluta equivalenza fra malati di mente e popolazione generale quanto a frequenza di comportamenti violenti.

Quest’ultimo stereotipo, anch’esso di matrice ideologica, si è alla fine tradotto, al contrario del primo, in una vera e propria negazione del problema della violenza nei malati psichiatrici (un problema che purtroppo talora esiste).

Quest’insieme di manipolazioni ideologiche di segno opposto sul tema della violenza del malato di mente, ha comunque gettato per lungo tempo discredito sull’argomento; si è allora ingenerato in relazione ad esso, almeno negli addetti ai lavori più sensibili all’esigenza d’un approccio scientifico alla malattia mentale, un forte senso di saturazione e di fastidio, ed un sentore di “stile giornalistico”, ovvero di “non serietà”, in relazione all’intera materia.

Tutto questo non ha certo facilitato l’approfondimento del problema, ed ha probabilmente favorito, fra molti degli operatori psichiatrici, una più o meno consapevole volontà di accantonarlo e non occuparsene più.

  • Il secondo ordine di fattori di rimozione del tema della violenza nel malato psichiatrico è per l’appunto di tipo psicologico: esso risiede anzitutto nelle fortissime risonanze emotive che l’argomento-violenza genera, da sempre, negli operatori della Psichiatria. Tuttavia, l’influenza di tali risonanze sugli psichiatri, nel nostro paese è stata potenziata, come accennato nel primo punto, dalla perdita graduale (dovuta alle suddette ragioni storico-ideologiche) d’ogni dimestichezza e motivazione a ragionare in termini di pericolosità.

Queste risonanze emotive hanno poi facilitato l’adozione della difesa più facile ed a buon mercato: quella costituita, per l’appunto, dalla rimozione.

Ma qual è, di preciso, la sostanza psicologica del problema?

Agli psichiatri, agli psicoterapeuti ed agli “addetti alla Salute Mentale” in genere:

  1. a) non piace l’idea di essere in qualche modo corresponsabili delle eventuali violenze che i propri pazienti potrebbero commettere, sia su sé stessi che su altri, in ragione delle ovvie conseguenze giuridiche che potrebbero ricaderne in capo agli psichiatri medesimi.
  2. b) non piace neppure, per molte ed intuibili ragioni, l’idea di potere essere con relativa facilità fatti oggetto essi stessi di violenza da parte dei propri pazienti.

Essi fanno molta fatica ad accettare, per comprensibili ragioni, sia l’una che l’altra idea, e perciò le rimuovono; ma ciò avviene, per lo meno in Italia, in misura assai maggiore di quanto sarebbe logico aspettarsi in uomini di scienza, ed in forme talora sconcertanti, nonché spesso a dispetto dell’evidenza.

Infatti:

  1. a) In primo luogo il riconoscimento della potenziale pericolosità del malato di mente implica una grave ferita ai vissuti d’onnipotenza degli operatori psichiatrici, al loro narcisismo, alla loro sicurezza in sé stessi (sentimenti, questi, che sono cospicuamente presenti in tali operatori, e talora paradossalmente lo sono, in misura assai più rilevante che in altre categorie professionali, proprio in quelli a più alto tasso di specializzazione). Gli psichiatri e gli psicoterapeuti, molto più d’ogni altro operatore sanitario, si sentono infatti assai spesso investiti d’un compito e d’una “saggezza” particolari, e di conseguenza ritengono, per lo più a torto, di essere latori di un qualche “messaggio di verità” nei confronti della società nel suo insieme.
  1. b) In aggiunta a ciò, la violenza mette in luce impietosamente problemi personali irrisolti, paure profonde, psico-dinamiche interiori di tipo patologico e insicurezze di vario tipo, aggressività latente e quant’altro, che appartengono alla dimensione soggettiva di tutti gli individui, ma che negli operatori psichiatrici sono spesso, sfortunatamente, assai più rappresentati che nella popolazione media. In ragione di ciò, la facile identificazione degli psichiatri con i loro pazienti, o al contrario con le loro potenziali vittime, innesca un gioco di proiezioni reciproche che ostacola gravemente il rapporto terapeutico, e la rimozione appare spesso un “facile rimedio” a tutto questo.
  1. c) Infine, ultimo ma non ultimo elemento, la violenza del paziente psichiatrico, in particolare se esercitata proprio su quelle figure professionali che dovrebbero “curarlo”, sembra fatta apposta per insinuare in esse un forte sospetto circa l’utilità stessa del loro agire terapeutico.

Per queste ragioni la violenza del paziente psichiatrico costituisce l’oggetto ideale per ogni possibile “rimozione”.

La violenza del malato di mente, in buona sostanza, ripropone nei fatti, a tutti i professionisti operanti nel settore della Psichiatria, siano essi di impostazione psico-terapeutica oppure psico-farmacologica, una certa visione custodialistica dei rapporti terapeutici (in sé avvilente sul piano personale, snaturante e dequalificante sul piano professionale, nonché inquietante sul piano culturale ed antropologico) che la maggioranza di loro sperava fosse stata da tempo superata dai progressi della Psichiatria (sia farmacologica che riabilitativa).

Non bisogna dimenticare infatti che, oltre ai progressi della Psichiatria scientifica che lo ha loro permesso, una delle principali motivazioni che hanno portato gli psichiatri ad operare attivamente per il superamento del Manicomio, è provenuta proprio dal vissuto psicologico di frustrazione e d’impotenza terapeutica, nonché di dequalificazione professionale, che l’idea custodialistica e violenta della Psichiatria aveva da gran tempo generato in loro.

Una conferma indiretta di ciò si è avuta nella legislatura 2001-2006, quando la Società Italiana di Psichiatria (S.I.P.) è scesa in campo, in tutte le sue componenti e tendenze tecnico-scientifiche (tra le quali sono cospicuamente rappresentate la Psichiatria Biologica e la Psico-Farmacologia), contro le proposte di modifica in senso regressivo e custodialistico della legge 180 avanzate da alcuni parlamentari dell’allora maggioranza di centro-destra.

Queste modifiche andavano per l’appunto nel senso del ripristino dell’idea d’una “pericolosità” perennemente connaturata al paziente psichiatrico, insieme con quella, ad essa necessariamente conseguente, della necessità d’una custodia coattiva per tempi medio-lunghi del malato di mente, preso in quanto tale ed a prescindere dai suoi comportamenti violenti e/o dalla commissione di reati, in strutture per cronici ad alto o altissimo indice di protezione.

Tuttavia, malgrado un tale complesso sistema di distorsioni, di negazioni e di rimozioni che nel corso del tempo è stato eretto e dispiegato attorno al tema della violenza del paziente psichiatrico, ultimamente esso è sembrato riemergere dal contesto strettamente penale nel quale la legge 180 lo aveva confinato.

La potenziale violenza del malato di mente, dunque, è finalmente tornata ad essere, anche in Italia, un argomento di riflessione clinica su cui si può ragionare con un minimo d’oggettività, restando almeno parzialmente al di fuori del clima d’esasperata emotività conferito a questo argomento dai due opposti schieramenti politico-ideologici che hanno monopolizzato il dibattito su di esso nel recente passato.

Ciò è stato facilitato anche dal fatto che un po’ in tutto il mondo, da gran tempo e già a partire dagli anni Settanta, è in svolgimento un grandioso processo di superamento del Manicomio nonché delle sue basi scientifiche e concettuali, le quali si basavano proprio sul concetto della “pericolosità sociale presunta” del malato di mente.

2

Le ragioni storiche del ridimensionamento in Occidente del concetto della pericolosità del malato di mente

Circa il ridimensionamento da un lato delle prassi inerenti la psichiatria custodialistica e dall’altro dell’apparato ideologico riguardante il concetto della pericolosità sociale presunta del malato di mente (due ambiti strettamente interconnessi), occorre però fare una distinzione fra l’Italia e ciò che è avvenuto nel resto del mondo, poiché si tratta di due ordini di fenomeni non del tutto coincidenti.

In questo paragrafo prenderemo in esame le tendenze internazionali in materia, nel prossimo ciò che di più peculiare è avvenuto in Italia.

Le ragioni di fondo per le quali dagli anni Settanta fino ad oggi, un po’ in tutto il mondo occidentale (ed anche oltre, come ad esempio in paesi emergenti quali il Brasile), si è andati verso un ridimensionamento del concetto di pericolosità del malato di mente, ed anche verso il superamento della psichiatria custodialistica (e con essa, dell’Istituzione Manicomiale), sono di quadruplice ordine:

  • si tratta in primo luogo di ragioni economiche: Ronald Reagan, negli anni Settanta Governatore dello Stato della California, chiuse rapidamente gli Ospedali Psichiatrici essenzialmente per ragioni di risparmio sul pubblico erario, e le conseguenze sui malati d’una tale motivazione (la quale a sua volta determinò delle linee di condotta abbastanza avventuristiche) furono spesso tragiche. Ma ciò che accadde in California alcuni decenni fa rappresenta solo l’estremizzazione d’una tendenza di fondo che da allora in poi pervase un numero sempre maggiore di paesi di tutto il mondo, e che non fu estranea neppure alle ragioni, ben più nobili ed articolate, che portarono alla promulgazione della “180” in Italia o alla promozione, in Francia, della cosiddetta “Politica di Settore”, imperniata sulla proiezione dei reparti dell’Ospedale Psichiatrico su “fette di territorio”. Nel corso delle esperienze italiane volte al superamento del Manicomio prima della legge 180, ad esempio, uno degli argomenti più ricorrenti che venivano usati allo scopo di dividere il “fronte conservatore”, era proprio quello che un’assistenza psichiatrica imperniata sul territorio, oltre che più “umana” ed “efficace”, sarebbe stata immancabilmente più “efficiente”, consentendo di risparmiare denaro. In realtà ciò non è stato mai dimostrato, anche a causa della difficoltà di comparare costi relativamente centralizzati e facilmente calcolabili quali quelli inerenti la gestione degli Ospedali Psichiatrici (sia pubblici che privati), con le infinite voci di costo che riguardano la Salute Mentale riformata, comprese le attività “indotte” private ma sovvenzionate dallo Stato (Cliniche private convenzionate, Comunità Alloggio, Case Famiglia, Comunità Terapeutiche, Centri Diurni, Ambulatori, sussidi e pensioni a carico degli Enti Locali e dello Stato, ecc. ecc.). Però è significativo che l’argomento sia stato uno dei “cavalli di battaglia” del fronte riformatore, in Italia, per lungo tempo.
  • In secondo luogo, si tratta di ragioni giuridiche: lo stabilire che dei cittadini di uno stato di diritto, in virtù di loro presunte e più o meno permanenti caratteristiche biologiche e senza che abbiano commesso dei reati, siano affetti da una condizione cronica che li rende sempre e comunque “socialmente pericolosi”, ed il rinchiuderli a tempo indefinito, per puri fini di prevenzione sociale, in una struttura di custodia a carattere permanente sotto la risibile parvenza della “cura psichiatrica”, è apparso a molti osservatori, secondo noi pienamente a ragione, una gravissima lesione del principio, ormai invalso in tutto il mondo civile, dell’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge a prescindere dal loro sesso, razza, religione, lingua, credo politico e stato di salute, ed anche una gravissima violazione del principio dell’inviolabilità dei diritti della persona.
  • In terzo luogo, si tratta di ragioni terapeutiche, legate alla sempre maggiore efficacia degli psico-farmaci sul controllo del comportamento alterato ed anche violento dei malati di mente, efficacia che, non si può negarlo, ha avuto un peso determinante per il superamento dei Manicomi. Un’efficacia pari alla Psico-farmacologia, poi, hanno dimostrato fin dai tempi di Conolly le Terapie Riabilitative e Comunitarie basate su metodi non coercitivi e non violenti.
  • In quarto luogo, si tratta di ragioni scientifiche e di natura teorica, ed in particolare, della serrata critica che dell’idea di “pericolosità del malato di mente” si è iniziato a fare, sin dagli anni Settanta, in tutto l’Occidente. Già a quell’epoca, infatti, gli studi di Hafner e Boker avevano fatto presente l’incidenza nei malati di mente violenti degli stessi fattori di rischio generico (età giovanile, sesso maschile, bassa scolarità, assunzione di sostanze stupefacenti e d’alcool, appartenenza a famiglie di bassa estrazione sociale) che giocavano un ruolo nel comportamento violento dei soggetti normali, sfatando il mito d’una “fatale” correlazione fra malattia di mente e violenza.

Gli studi sulla violenza nei malati di mente cominciarono ad essere effettuati, come accennato, negli anni Settanta; questi studi, però, detti anche “di prima generazione”, erano abbastanza rozzi ed imprecisi sul piano scientifico, ed infatti sono stati molto criticati, sul piano del metodo, per motivi più che validi.

Un primo motivo era rappresentato dal fatto che prendevano in esame solo campioni pre-selezionati di popolazione, spesso con una spiccata preferenza per popolazioni istituzionalizzate quali quelle carcerarie (di per sé, presumibilmente, molto più violente della popolazione generale, ed anche di quella psichiatrica).

Un secondo motivo è che questi studi, nell’insieme, fornivano risultati molto contraddittori: alcuni di essi andavano nel senso di una sostanziale equivalenza, quanto a comportamenti violenti, fra malati di mente e popolazione generale; altri andavano invece nel senso opposto, ossia rilevavano un’attitudine al comportamento violento nel malato di mente superiore a quella della popolazione generale. Queste discrepanze, peraltro, li rendevano nel loro insieme molto dubbi.

Gli studi cosiddetti di seconda generazione, ed in particolare quelli di J. W. Swanson, di B. Link e di A. Stueve, risalenti agli anni Novanta e Duemila, sono stati invece condotti con maggiore rigore metodologico, poiché hanno iniziato a prendere in esame popolazioni naturali e non campioni pre-selezionati, anche se nel loro complesso hanno continuato a manifestare forti discrepanze gli uni con gli altri.

Occorre dire, peraltro, che tutti gli studi sulla “pericolosità dei malati di mente rapportata a quella della popolazione generale” sono difficilissimi da condurre (quindi in genere poco attendibili), in ragione di due elementi:

  1. La mancanza in moltissimi paesi, anche per ragioni inerenti la “privacy”, di banche dati sufficienti a raccogliere e confrontare i dati epidemiolologici psichiatrici con quelli provenienti dalla polizia, dalle carceri e dai Ministeri della Giustizia (la Svezia è una delle poche eccezioni a questa regola).
  2. Il fatto, in sé ovvio ma spesso dimenticato, che la maggior parte degli ammalati di mente, dai primi anni 50 del Novecento in poi, a causa dell’introduzione del trattamento psico-farmacologico, non è più “drug free”, né può essere ricondotta a tale condizione a scopo di studio per ovvie ragioni etiche; perciò quello che in questi studi si esamina (la “pericolosità” d’un campione di malati di mente che si tenta di confrontare con quella d’un campione omogeneo di popolazione generale), non corrisponde più da moltissimo tempo all’effettiva condizione di pericolosità del malato di mente. I riferimenti più attendibili a quest’ultima condizione, dunque, provengono ormai quasi esclusivamente da dati aneddotici (alcuni dei quali in verità impressionanti, anche se potenzialmente attribuibili alla condizione di coercizione cronica) estrapolati dalle cartelle cliniche manicomiali d’epoca pre-psicofarmacologica. D’altra parte, qualora si adottasse un’altra strategia di ricerca e si focalizzasse l’attenzione proprio su quegli ammalati di mente che sfuggono al trattamento farmacologico, si andrebbe incontro ad un altro, non meno potente, fattore di distorsione: la possibile maggiore “pericolosità primaria” propria di quei malati che già in partenza rifiutano il trattamento o lo sfuggono. D’altra parte, che il problema dell’artefatto proveniente dal trattamento psico-farmacologico sia reale è dimostrato dal dato clinico che la maggior parte degli “incidenti” derivanti dalla pericolosità del malato di mente, si verificano in occasione del mancato rispetto delle prescrizioni terapeutiche e/o del mutamento o della sospensione della terapia.

Fatte salve tutte queste cautele, anche gli studi di “seconda generazione” in tema di pericolosità hanno finora fornito dei dati alquanto contraddittori: alcuni non rilevano differenze significative fra malati di mente e popolazione generale, altri invece le rilevano, suggerendo una sensibile maggior pericolosità dei “malati di mente”.

Però si è anche visto che anche in quest’ultimo caso il dato della “maggior pericolosità”, pur apparendo statisticamente significativo, cessa d’esser tale ove disaggregato in base alle differenze di diagnosi: per tali motivi, alla maggior parte dei ricercatori esso, comprensibilmente, non è sembrato in grado di giustificare l’adozione di misure preventive circa una presunta e generalizzata pericolosità sociale dei “malati di mente” (misure che fra l’altro hanno quasi sempre una conseguenza devastante sui principi giuridici liberali che sono propri d’uno Stato di Diritto).

Insomma, la “maggior pericolosità” dei malati di mente rilevabile secondo alcuni studi, riguarda un dato inerente l’insieme dei “malati di mente” che preso in sé non solo non significa nulla, ma conduce ad una visione fortemente distorta del problema.

Andando ancor più in particolare, si è visto che la pericolosità è sensibilmente più alta nei “disturbi antisociali di personalità” e “paranoidei”, oppure in alcune forme di psicosi schizofrenica paranoide o bipolare, che non in altre categorie diagnostiche.

Questa esperienza, insieme ad un maggior rigore metodologico degli studi più recenti, ha portato ad una conseguenza pratica rilevante: oggi, a livello di letteratura scientifica e di orientamenti giuridici internazionali, viene messa fortemente in dubbio la possibilità di trarre, dai dati di epidemiologia psichiatrica oggi disponibili, conseguenze d’ordine organizzativo e gestionale in ordine alla pericolosità.

In sintesi, contrariamente a quanto un tempo affermato dalla tradizione positivistica italiana (e particolarmente lombrosiana), oggi, a livello di letteratura internazionale, vengono messe fortemente in dubbio:

  1. a) la possibilità di prevedere scientificamente la pericolosità sociale d’un malato di mente, nel “lungo periodo” e semplicemente in quanto malato di mente.
  1. b) la possibilità di prevedere la pericolosità d’un malato in quanto esponente d’una categoria diagnostica psichiatrica particolare, quindi a prescindere dalla sua anamnesi individuale e dalle sue personali caratteristiche cliniche.

A questo proposito, è stato fatto autorevolmente osservare che gli autori di comportamenti violenti costituiscono un gruppo quanto mai eterogeneo (K. Tardiff), e che il comportamento violento costituisce per sua natura, più che il risultato d’un singolo fattore, un evento multi-fattoriale; in esso dunque il numero delle variabili (sia d’ordine clinico e psichiatrico, sia d’ordine relazionale, sia d’ordine ambientale) è elevatissimo, e comunque molto più elevato che in qualunque altro settore della Psichiatria. Perciò il confronto fra macro-popolazioni di “malati” e la popolazione generale può essere falsato da fattori di distorsione talmente numerosi da risultare, alla fine, scarsamente attendibile.

In definitiva, sull’interesse a confrontare statisticamente, con quelli della popolazione generale, i comportamenti violenti dei malati psichiatrici presi nel loro insieme (ossia in quanto generica ed onnicomprensiva categoria biologica dei “malati di mente”), o anche quelli di particolari categorie diagnostiche, specie al fine di trarne conclusioni rispetto ad una possibile prevenzione della violenza nel lungo periodo, oggi prevale un altro tipo d’interesse: quello ad effettuare una ricerca polarizzata sullo studio analitico della dinamica dell’atto violento preso in sé stesso, e sull’individuazione di fattori predittivi di pericolosità immediata che siano operativi nel singolo individuo, quindi anche nel singolo malato di mente, caso per caso.

Sulla base di queste considerazioni ormai si ricerca, più che l’evidenza scientifica di una generica “maggiore pericolosità media” del malato di mente rispetto alla popolazione generale, l’elaborazione di indicatori che permettano di effettuare, sul caso singolo, una previsione di pericolosità nel breve periodo; quest’ultima infatti è la più utile sul piano pratico e la più eticamente accettabile, ed inoltre presenta, sul piano dell’analisi dei dati, un numero di variabili molto più ridotto.

Questa impostazione di tipo completamente nuovo ha perciò conferito una rinnovata dignità scientifica da un lato alla pato-biografia, ossia allo studio approfondito del singolo caso clinico (una disciplina che, significativamente, in Italia, ancora oggi viene coltivata soprattutto dagli psichiatri forensi), dall’altro ad una Psicopatologia “basata sulla narrazione”, la quale affianchi ed integri quella “basata sulle evidenze” (cfr. ad es. A. Carlino, 2013). Essa infine ha conferito importanza allo studio dei fattori predittivi di pericolosità, la cui problematica individuazione nel lungo periodo aveva gettato discredito un po’ su tutto l’argomento (J. Monahan).

Tale orientamento si è riflesso, come vedremo in seguito, anche sulla legislazione americana concernente il ricovero coatto.

3

La situazione in Italia

Quanto ai motivi più particolari che hanno portato al ridimensionamento del concetto di pericolosità del malato di mente in Italia, occorre fare un passo indietro di trentacinque anni e riportarci per un attimo alla situazione della Psichiatria Italiana al momento della promulgazione della legge 180.

In Italia, negli anni precedenti il 1978 (anno del varo della riforma), non erano certo mancate, “a latere” d’un sistema manicomiale fra i più arretrati e repressivi d’Europa, esperienze avanzate di trasformazione/superamento del Manicomio, condotte sia all’interno dello stesso Manicomio (che ci si sforzava di trasformare in una cosiddetta “Comunità Terapeutica”), sia sul territorio, attraverso la creazione di Servizi di Salute Mentale fortemente innovativi e concorrenziali con l’istituzione manicomiale stessa: in particolare, furono significative le esperienze di Franco Basaglia (Gorizia e Trieste), di Giovanni Jervis (Reggio Emilia), di Carlo Manuali (Perugia), di Agostino Pirella (Arezzo), di Sergio Piro (Napoli), di Antonio Slavich (Ferrara), e diverse altre.

Queste esperienze furono però fortemente avversate, all’inizio, dal feroce spirito conservatore (o addirittura retrivo) che pervadeva in quell’epoca il resto della Psichiatria italiana; inoltre suscitarono, anche in virtù d’un certo radicalismo elitario ed iper-politicizzato che pervadeva alcune di esse e le rendeva relativamente isolate, dei seri interrogativi sulla loro reale capacità di fare “breccia” nel sistema, nonché di fungere davvero da “traino” per l’insieme dell’assistenza psichiatrica.

In questa situazione, profondamente contraddittoria ed in lentissima e faticosa evoluzione, sopravvenne tuttavia all’improvviso un evento il quale spinse tutti i suoi protagonisti in avanti e li costrinse a scelte drastiche, ma soprattutto rapidissime: la promozione da parte del Partito Radicale d’un referendum abrogativo della legge 36 del 1904 (la cosiddetta “legge manicomiale” d’ispirazione lombrosiana).

Il motivo ispiratore dell’iniziativa radicale, occorre chiarirlo in via preliminare, era assolutamente sacrosanto: occorreva sanare il gravissimo “vulnus” che la legge 36 del 1904 infliggeva al principio costituzionale dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, nel suo distinguere dagli altri cittadini quelli che, in virtù di loro supposte caratteristiche biologiche (la malattia di mente) che li rendevano presuntivamente “pericolosi per sé e per gli altri”, oppure “di pubblico scandalo”, dovevano essere reclusi in luoghi di detenzione travestiti da luoghi di cura (i Manicomi), e deprivati praticamente per sempre d’ogni diritto civile e politico, peraltro senza aver mai commesso alcun reato.

Ebbene, proprio il combinarsi delle due componenti rappresentate a) dal già citato radicalismo delle esperienze di lotta al Manicomio, in particolare di quelle di Trieste ed Arezzo (un radicalismo promosso soprattutto dalla fortissima personalità di Franco Basaglia, il quale tendeva a “mettere tra parentesi” la malattia mentale e la sua cura “medica” per dedicarsi invece, in via prioritaria, alle tematiche sociali e politiche della lotta all’esclusione) e, b) dalla minaccia dell’iniziativa referendaria (in caso di abrogazione della legge del 1904 si sarebbe avuta una “vacatio legis” che andava assolutamente prevenuta), fu ciò che produsse la legge n. 180 del 1978, poi impropriamente denominata “legge Basaglia” (Basaglia, in realtà, ne fu al massimo l’ispiratore ed il consulente, non l’autore materiale).

Insomma, questa legge nacque non già nel segno d’un meditato intento di profonda ed organica riforma della Psichiatria italiana (o tanto meno, sulla scorta della progressiva sperimentazione di soluzioni alternative al Manicomio, come stava già avvenendo nel resto del mondo civile ed in parte anche in Italia), bensì come rimedio urgente ad una situazione d’emergenza, preso anzitutto con criteri politici: un “rimedio” che, nella mente di alcuni dei parlamentari suoi autori, avrebbe potuto e dovuto essere successivamente completato da una riforma più organica e complessiva (cosa che come si sa non avvenne, o avvenne in misura assolutamente insufficiente).

In ragione di ciò, le norme attuative della legge n. 180 del 1978 (in particolare, quelle che dovevano istituire e finanziare le strutture terapeutico-riabilitative ambulatoriali e residenziali alternative al Manicomio), non furono varate contestualmente alla legge medesima, bensì rimandate a futuri Piani Sanitari Regionali che avrebbero dovuto definirle nel dettaglio, e che promanavano dalla più generale legge 833 istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale (anch’essa del 1978 ed allora in stato d’avanzata preparazione).

In base a tutto ciò, i due elementi del “problema psichiatrico” che gli estensori della legge 180 si trovarono di fronte nell’immediato, furono  i seguenti:

  • Occorreva creare quanto prima, affinché la nuova assistenza non ricalcasse le caratteristiche negative (di tipo custodialistico e liberticida) che i promotori del referendum contestavano, un modello d’assistenza non manicomiale, ossia basato non già su grandi strutture residenziali coattive e “di lungo periodo” (il Manicomio appunto), bensì su piccole ed agili strutture di ricovero (coatto e non) le quali fossero finalizzate al breve periodo e limitate all’urgenza (i S. P. D. C., o “Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura”), nonché su un modello di lavoro territoriale imperniato sull’assistenza domiciliare: un lavoro, quest’ultimo, che per i motivi sopra indicati andava svolto essenzialmente a partire dalle strutture già esistenti (i cosiddetti “Centri di Igiene Mentale”, o C. I. M., istituiti già nel 1968 dalla “legge Mariotti”, poi denominati “Centri di Salute Mentale” o C. S. M.).
  • Occorreva poi garantire gli psichiatri, stante l’improvvisa forte carenza di strutture di ricovero e di cura coattiva determinata dalla chiusura delle accettazioni degli Ospedali Psichiatrici, rispetto ad una minaccia molto concreta che avrebbe potuto presto abbattersi su di loro a causa dell’impossibilità, che questa situazione aveva creato, di dar luogo ad una “custodia di lungo periodo” della pericolosità: ora, questa “garanzia” venne dall’avere la legge n. 180 abolito ogni precedente riferimento al tema, appunto, della “pericolosità del malato di mente”, sostituendolo con quello, assai più sfumato, ambiguo e nella sostanza inafferrabile, ad una “comprovata necessità ed urgenza delle cure”, accompagnata dal “rifiuto” delle stesse da parte del malato e dall’”impossibilità di effettuarle in sede extra-ospedaliera”.

A proposito di quanto sopra, chi ha vissuto quegli anni dall’interno delle prassi psichiatriche all’epoca vigenti, in specie se, come lo scrivente, lo ha fatto in giovane età e da posizioni innovative, ricorda certamente un fatto prodigioso ed abbastanza sorprendente: le pervicaci e talora feroci resistenze ad ogni ipotesi d’assistenza psichiatrica non manicomiale, le quali provenivano dalla stragrande maggioranza della Psichiatria Italiana (accademica e non), sparirono quasi d’incanto con la promulgazione della legge n. 180: all’improvviso, si vide un gran numero psichiatri ultra-conservatori o addirittura reazionari divenire fervidi fautori della nuova legge, o quanto meno rinunciare ad ogni aperto ostracismo contro di essa e chiudersi in un benevolo silenzio e/o in una fattiva collaborazione.

Il motivo di ciò, oggi è del tutto chiaro, e secondo noi va ben oltre il ben noto trasformismo e “codismo” degli intellettuali italiani: la caduta della presunzione di pericolosità del malato di mente non solo sembrava proteggere gli psichiatri italiani da ogni possibile negativa conseguenza giuridica dell’affermarsi d’una psichiatria non manicomiale, ma appariva porli addirittura in una posizione professionalmente più comoda di quella dell’era manicomiale; infatti faceva cadere a priori (o almeno, così ci si illuse che fosse!) ogni possibilità di attribuire loro una colpa professionale grave, o addirittura un’omissione di atti di ufficio, qualora non avessero tempestivamente provveduto al ricovero d’un paziente, dal momento che la nuova normativa prevedeva che le competenze dello psichiatra, lungi dal dovere valutare la “pericolosità del malato” (un compito in cui era facilissimo inchiodarlo alle sue presunte inadempienze), si limitassero ormai ad una semplice “valutazione tecnico-professionale sulla necessità ed improrogabilità d’un ricovero”, elemento quest’ultimo difficilissimo da contro-valutare dal punto di vista legale, specie in assenza della pericolosità (le malattie mentali, a differenza di quelle mediche, non mettono a repentaglio la salute fisica e/o la vita se non in caso di suicidio, ed il suicidio non rientrava più neppur esso, già all’epoca del varo della legge 180, nella dizione di “pericolosità”, per cui ormai non era per niente facile contestare allo psichiatra il mancato adempimento ai suoi obblighi di valutazione tecnico-professionale sulla necessità d’un ricovero, ed il suo giudizio diveniva di fatto insindacabile).

Vedremo nei successivi paragrafi come l’altalena delle sentenze “per colpa professionale” a carico degli psichiatri, negli ultimi anni, abbia in gran parte vanificato queste illusioni: tuttavia l’aspettativa di essere maggiormente protetti dalla legge che non in passato, era sul momento in gran parte fondata: la nuova normativa, effettivamente, almeno per alcuni decenni rispose bene al suo scopo.

Come vedremo e come in parte abbiamo già anticipato, tuttavia, gli anni più recenti hanno ormai rivelato come il “paracadute giuridico” dell’abolizione della valutazione di pericolosità abbia cominciato a non aprirsi più con la tempestività e la sicurezza del passato: ciò al punto da insinuare in alcuni il dubbio se per caso, anche da un semplice punto di vista opportunistico, non sarebbe più saggio che gli psichiatri italiani cominciassero a rivedere l’intera questione, e ad esaminare la possibilità di riappropriarsi (come avviene nel resto del mondo!) della valutazione di pericolosità in quanto loro imprescindibile competenza tecnico-professionale.

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La “pericolosità sociale presunta” propria della vecchia normativa, ed il “rifiuto delle cure” proprio della nuova

Il codice penale Rocco del 1930 contiene al proprio interno alcuni principi di chiara derivazione positivista e lombrosiana: infatti è, fra i principali codici europei, uno di quelli che introducono in forma più netta il principio giuridico lombrosiano della “pericolosità sociale presuntadi soggetti autori di reati.

Questo codice, peraltro, è a tutt’oggi quasi integralmente in vigore, anche se la sua parte psichiatrica è stata in gran parte stralciata dal codice stesso ed eliminata ad opera della legge 180 del 1978, impropriamente detta “legge Basaglia”.

Al “Codice Rocco” peraltro, il quale ha regolamentato essenzialmente la pericolosità del malato di mente autore di reati e giudicato “non imputabile”, come sappiamo si era a lungo affiancata, fino al 1978, una “legge psichiatrica”, la legge manicomiale n. 36 del 1904, anch’essa d’ispirazione lombrosiana, la quale concerneva la “pericolosità sociale presunta” e di lungo periodo dei malati di mente non autori di reato: essa era dunque antecedente al codice Rocco, ma ancora più di quest’ultimo era ispirata alle idee di Lombroso.

In quest’ultima legge, sulla base del principio della “responsabilità collettiva”,  veniva prevista una precisa forma di prevenzione della “pericolosità sociale presunta” dei malati di mente in quanto tali, ossia a prescindere dall’avere essi commesso o no dei reati (pericolosità che derivava dalla supposta predisposizione biologica del folle a quella “violenza atavica” che era stata postulata proprio da Lombroso): a tali soggetti dunque, considerati atavici e “degenerati” solo perché definiti, sulla base d’un certificato medico, come “pericolosi a sé ed agli altri” oppure “di pubblico scandalo”, veniva comminato, con semplice provvedimento di polizia, l’internamento coatto (che previo assenso del Direttore, dopo un periodo d’osservazione di 30 gg diveniva il più delle volte definitivo) in un Ospedale Psichiatrico Provinciale.

Come già accennato all’inizio, malgrado due leggi di riforma psichiatrica, la legge 180 del 1978 che aboliva gli Ospedali Psichiatrici Provinciali e la legge n. 9 del 2012 che ha sancito l’inizio del superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, dal 1930 (anno dell’introduzione del codice Rocco) fino ad oggi, ben poco è cambiato per quella parte del diritto penale che riguarda la pericolosità del malato di mente autore di reati: sono tuttora in vigore le concezioni lombrosiane sulla pericolosità sociale dei malati autori di reato, poi integralmente recepite nel codice Rocco, le quali riguardano essenzialmente il tema della pericolosità sociale psichiatrica (pericolosità riferita agli autori di reato riconosciuti come “non imputabili” in quanto malati di mente).

L’unica cosa che è cambiata (ma ben prima della legge n. 9 del 2012 e per merito esclusivo della Corte Costituzionale!) è la caduta del carattere “presunto” della pericolosità dei malati di mente autori di reato, in quanto “l’accertamento della pericolosità” deve ora avvenire in sede peritale prima dell’avviamento del soggetto alle misure di sicurezza (sentenze della Corte Costituzionale del 27 Luglio 1982, n. 139, e del 28 Luglio 1983, n. 249, poi codificate in legge con la 663 del 10/10/1986).

Invece, come sappiamo, quasi tutto è cambiato nell’ordinamento legislativo psichiatrico ordinario: ciò in particolare dal 1978, anno della “legge 180”, in poi.

Nella legislazione psichiatrica riguardante i malati di mente non autori di reati, infatti, l’idea lombrosiana della necessità di prevenire un’ipotetica “pericolosità sociale presunta” del malato di mente in quanto tale, internandolo coattivamente in Ospedale Psichiatrico, è stata completamente superata dalla legge n. 180 la quale, come già accennato, non fa più alcun cenno al tema della pericolosità come motivo di ricovero psichiatrico: non vi fa cenno né come “pericolosità sociale presunta di lungo periodo”, né come valutazione psichiatrica della “pericolosità clinica attuale”.

Questa clamorosa discrepanza fra legislazione penale e legislazione psichiatrica ha poi portato ad alcune, non meno clamorose, incongruenze: in particolare, quella fra la perdurante presenza nel codice penale dell’idea della pericolosità sociale del malato di mente (in particolare, riguardo ai malati di mente autori di reato), e la scomparsa di tale concetto dalla legislazione psichiatrica ordinaria riguardante gli ammalati di mente non autori di reato, per cui uno stesso soggetto psichiatrico, un minuto prima di aver commesso un fatto delittuoso non è valutabile quanto alla sua pericolosità futura, ed un minuto dopo lo è.

Ora, è ovvio che se la pericolosità del malato di mente esiste in ambito giuridico come “pericolosità sociale”, deve esistere anche su quel piano clinico che sarebbe alla base del suo comportamento criminale; viceversa, se non esiste in ambito clinico, non dovrebbe a rigore esistere neppure in ambito giuridico (il presupporre una propensione “patologica” a commettere nuovamente crimini nel malato di mente che li ha già commessi, non può non basarsi su dei dati clinici precisi, altrimenti non dovrebbe esistere per lui alcuna “pericolosità sociale” appositamente regolamentata).

Ora, il motivo d’una tale discrepanza fra pericolosità clinica e pericolosità sociale, che non esisteva affatto prima dell’approvazione della legge 180 del 1978, è molto semplice: la “legge manicomiale” del 1904 ed il Codice Penale Rocco del 1930 formavano, a prescindere dal loro discutibile contenuto, un insieme relativamente razionale e coerente, e questa coerenza si è spezzata proprio con la legge 180.

La legge manicomiale n. 36 del 14/2/1904 ed il relativo regolamento d’attuazione n. 615 del 16/8/1909, conferivano infatti la caratteristica d’una “pericolosità sociale presunta” (e imponevano il ricovero in O.P.), a tutti i malati di mente connotati come:

  • “pericolosi a sé ed agli altri”
  • “di pubblico scandalo”.

La sussistenza anche di una sola di queste due condizioni giustificava e rendeva d’obbligo il ricovero coatto in un Ospedale Psichiatrico Provinciale.

L’espressione, riferita al folle, di soggetto “pericoloso a sé ed agli altri”, anche se è rimasta fortemente impressa nell’immaginario collettivo (fino a venire erroneamente usata, ancora oggi, persino da alcuni Medici ed Assistenti Sociali), fu abolita con la riforma psichiatrica del 1978, unitamente all’abolizione degli Ospedali Psichiatrici.

Con la legge 180, come motivo per un ricovero coatto si è sostituito, al concetto della “pericolosità”, quello del “rifiuto delle cure”, cure però delle quali esista una “comprovata necessità ed urgenza”.

Ora, al fine di comprovare la necessità ed urgenza delle cure, occorre attualmente la proposta d’un medico (non necessariamente d’uno Psichiatra), convalidata da quella d’un altro medico (questo, però, appartenente almeno ad una struttura pubblica).

Il provvedimento, della durata d’una settimana e rinnovabile anche più d’una volta (però sempre per periodi di soli 7 giorni), è emanato dal Sindaco e notificato al Giudice Tutelare, e viene attuato nei SPDC (Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura).

Il Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO) in regime di degenza ospedaliera deve comunque essere motivato, oltre che dalla “necessità ed urgenza delle cure” e dal “rifiuto dell’interessato”, anche dall’”impossibilità ad effettuare le cure in regime di trattamento extra-ospedaliero” (una condizione, quest’ultima, alquanto ambigua nel suo significato e la cui sussistenza effettiva non viene quasi mai verificata, ma che serve a meglio giustificare quei mancati ricoveri nei quali “il paz. accetti le cure”).

Come è noto, anche la legge 833 del 1978 attualmente in vigore, che ha integralmente recepito la 180 e che disciplina il TSO in regime di degenza ospedaliera, subordina la sua effettuazione esattamente a queste stesse tre condizioni:

  • la necessità improrogabile di cura
  • il rifiuto delle cure da parte del soggetto
  • l’impossibilità ad effettuare il trattamento in condizioni di degenza extra-ospedaliera.

Queste condizioni poi, è da notare, devono essere presenti tutte e tre per dar luogo alla possibilità legale di procedere al ricovero coatto (ovvero in TSO) del paziente.

E’ evidente che la “pericolosità”, la quale non appare fra queste nessuna di queste tre condizioni, non può e non deve in alcun modo rappresentare un motivo di ricovero obbligatorio.

La differenza concettuale tra la vecchia e la nuova normativa per il ricovero, come si vede, è davvero notevole.

In primo luogo, la “pericolosità” cui faceva riferimento la legge del 1904, essendo intesa lombrosianamente come una condizione avente una base medica e biologica ed antropologica, s’intendeva essere connaturata alla malattia, ed in quanto tale, essere “persistente” almeno per un po’ nel tempo.

Invece il “rifiuto delle cure” di cui parla la legge 180 non è indissolubilmente connesso alla “natura della malattia”, quindi almeno in teoria può anche recedere immediatamente a seguito di un’opera di convincimento, o d’un semplice cambiamento d’idea da parte del paziente.

In secondo luogo, la pericolosità (almeno se intesa come pericolosità verso gli altri) non è una condizione che scaturisca dal rifiuto delle cure, né vi è implicita; essa, nell’attuale legge psichiatrica italiana, non viene considerata in alcun modo, neppure come eventualità clinica collegata al rifiuto stesso.

Lo psichiatra dunque, nel valutare un quadro clinico, deve “mettere tra parentesi” la potenziale pericolosità insita in esso, anzi non deve neppure nominarla; oppure, se decide di prenderla in considerazione, deve considerarla surrettiziamente, ovvero mascherarla dietro la sottolineatura esclusiva della “necessità” e della “improrogabilità” delle cure, nonché del “rifiuto” persistente del paziente alle cure stesse e dell’impossibilità, nella situazione data, di mettere in atto provvedimenti di d’idonea risposta terapeutica in regime di trattamento extraospedaliero.

Nel compiere tale operazione, tuttavia, egli deve guardarsi da due opposti errori, sanzionati entrambi con estrema severità dal codice penale attuale:

  • L’errore per eccesso d’intervento, che può portarlo, in caso di TSO indebito o non sufficientemente motivato in base a quanto sopra, a soggiacere all’accusa di sequestro di persona (art. 650 del C.P., che prevede una pena da uno a dieci anni per il pubblico ufficiale il quale nell’esercizio delle sue funzioni compia tale reato mediante abuso delle proprie prerogative).
  • L’errore per difetto d’intervento, il quale può configurare sia la colpa professionale (che è sanzionata in dettaglio, sia sul piano civile che penale, nelle figure dell’”imperizia”, della “negligenza” e dell’”imprudenza”), sia il reato penale d’omissione di soccorso e quello d’abbandono d’incapace (l’art. 691 del C.P. definisce “abbandono d’incapace” qualunque azione o omissione che contrasti con l’obbligo della cura e della custodia, ove sussista uno stato di potenziale pericolo per l’incolumità della persona incapace)

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Le responsabilità dello psichiatra

Il tema della responsabilità giuridica dello psichiatra per i comportamenti auto ed etero-aggressivi dei propri pazienti, nel contesto della legislazione attuale, ruota oggi, in definitiva, attorno a tre aspetti:

  • l’esistenza o meno d’una posizione di garanzia in capo al medico psichiatra, la quale fondi una sua responsabilità in relazione all’ex art. 40 del C.P. Esso recita che “il non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”.
  • La configurabilità d’una colpa professionale posta in essere da un eventuale comportamento omissivo dello psichiatra.
  • La prevedibilità e l’evitabilità, ai fini della valutazione dei due primi aspetti, dell’evento dannoso posto in essere dall’infermo di mente.

A questo proposito, un precedente giudiziario significativo è quello costituito dal procedimento a carico d’uno psichiatra aretino il cui paziente, da lui non ricoverato malgrado la ripetuta richiesta d’aiuto dei genitori, accoltellò a morte la madre.

Nei tre gradi di processo svoltisi dal 1983 al 1987, lo psichiatra fu dapprima assolto in Primo Grado, poi condannato in Appello, ed infine definitivamente assolto in Cassazione.

La motivazione dell’assoluzione finale fu la seguente:

  1. lo psichiatra non era venuto meno ad un obbligo specifico di ricovero (incorrendo in un’”omissione di soccorso”, o in un “abbandono d’incapace”), in quanto non esisteva alcuna norma di legge che lo obbligasse a ricoverare chicchessia per una sua “presunta pericolosità”, ma solo una norma di legge che gli conferiva la piena discrezionalità tecnico-professionale nella decisione circa la “necessità” e “l’improrogabilità” di cure “in regime di degenza ospedaliera”.
  2. Lo psichiatra non era neppure incorso in una “colpa professionale”, ossia in una qualche forma d’“imperizia”, “imprudenza” o “negligenza” circa la necessità di cure, poiché l’evento verificatosi non era prevedibile con sufficiente approssimazione, né evitabile “ex ante”.

E’ però doveroso segnalare che una sentenza molto più recente della Cassazione (riguardante il cosiddetto “caso Pozzi”) emessa nel 2007, ha condannato in via definitiva uno Psichiatra di Comunità dell’Emilia Romagna il cui paziente psicotico (assegnato alla Comunità stessa dal Tribunale di Sorveglianza, e proveniente dall’ O.P.G. per gravi reati contro la persona) uccise un operatore con il quale aveva contrasti da gran tempo: egli lo fece in un momento immediatamente successivo alla sospensione della terapia “long acting”, ordinata dal professionista in ragione dei suoi gravi effetti collaterali sul paziente; la terapia, peraltro, era stata quasi subito ripresa, ma a dire della sentenza, con colposo ritardo. Allo psichiatra, però, al di là dei numerosi elementi di “malpractice” che si è ritenuto di riscontrare nel suo operato sia da parte dei Periti che dal Giudice, è stata soprattutto contestata la mancata effettuazione del TSO, con la motivazione che, benché il malato avesse accettato le terapie (e quindi sembrasse non soddisfare la seconda delle tre condizioni necessarie per effettuare un TSO, quella del rifiuto delle “cure”, e neppure la terza, visto che risiedeva già in una struttura psichiatrica), non c’era alcun motivo che impedisse allo psichiatra, data la grave situazione clinica complessiva e l’anamnesi inquietante, di proporgli comunque il ricovero; egli, insomma, avrebbe dovuto intendere lo stesso ricovero come “cura”, ovvero come “adeguata terapia”, e se del caso, avrebbe dovuto decidere d’imporlo al paziente a prescindere dalla sua accettazione delle cure farmacologiche (effettuando, occorre dire, una notevole forzatura dello spirito e della lettera della legge 180, ed in particolare sia della seconda condizione, ossia dell’”assenso del paziente alle cure”, sia della terza, che prevede la “verifica se le cure non possano essere effettuate anche in regime di degenza extra-ospedaliera”).

La motivazione di questa sentenza perciò, pur facendo riferimento ad una “colpa professionale”, chiama di nuovo in causa, nella sostanza, quella “posizione di garanzia” rispetto alla pericolosità che la sentenza precedente sembrava escludere; essa poi lo fa, segnatamente, con una sorta d’escamotage, ossia interpretando in maniera assai estensiva il concetto di “cura”.

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Legislazioni a confronto

E’ interessante a questo punto, a proposito della pericolosità, un breve confronto con la legislazione americana: questa infatti, al contrario di quella italiana, ai fini della motivazione d’un Trattamento Sanitario Obbligatorio psichiatrico, privilegia esplicitamente proprio la “pericolosità sociale” rispetto alla “necessità della cura”.

Essa inoltre (cosa molto significativa perché in linea con le più recenti acquisizioni del pensiero scientifico) fa leva sulla specifica competenza e responsabilità tecnico-professionale dello psichiatra nel prevedere il rischio di eventi violenti auto o etero-lesivi, ma lo fa solo nel breve periodo e non nel lungo (come invece, fino a pochi decenni fa, faceva la cultura giuridica italiana di stampo lombrosiano).

Il Civil Commitment americano, dunque, lega la possibilità d’un ricovero obbligatorio di 72 ore (estensibile solo con decisione giudiziale) a tre elementi, il cui accertamento è specificamente legato alla responsabilità professionale e tecnica dello psichiatra:

  • Presenza di pericolosità per gli altri.
  • Presenza di pericolosità per sé stessi.
  • Presenza d’uno stato di grave disabilità e mancanza d’autosufficienza (elemento, questo, considerato dagli stessi giuristi americani come una ridondanza degli altri due, ed in particolare del secondo).

L’accertamento della “presenza della pericolosità” cui fa riferimento la legge americana, come si vede, è una valutazione tecnico-scientifica specifica e polarizzata sulla situazione clinica concreta, rilevabile tramite una visita specialistica accurata ed accertamenti sanitari “mirati”, e soprattutto centrata sul breve periodo. E’ infatti da sottolineare, lo ripetiamo, come tutti gli studi più recenti ed accreditati sottolineino la difficoltà  di prevedere sul lungo periodo qualcosa di complesso e multi-fattoriale come il comportamento violento, e l’ovvia maggior facilità di farlo sul periodo breve, ossia in relazione a specifici e contingenti fattori ambientali e/o di stress.

Insomma, dagli studi americani riceviamo indicazioni che sono l’esatto contrario di quella “pericolosità presunta per sé e per gli altri” a tempo indeterminato, prevista come condizione “cronica” connaturata alla malattia, ed anche come motivo di ricovero, dalla vecchia legge manicomiale italiana n. 36 del 1904 (per di più solo sulla base d’un generico “certificato medico” e non di un’accurata valutazione clinica specialistica!): un’idea che nuove proposte di legge italiane sono tornate a riproporre.

Sappiamo già, però, che la limitatissima “valutazione tecnica” già richiesta dalla legge italiana del 1904, proveniva da una matrice eredo-costituzionalista di tipo lombrosiano, la quale faceva riferimento ad una presunta “tendenza criminale innata” dei malati di mente (una condizione, secondo le idee di Lombroso, perfettamente visibile a chiunque, oltre che sulla base del loro comportamento “scandaloso” e/o pericoloso, anche sulla base di semplici “stigmate” fisiche e fisiognomiche). Per tali ragioni e solo per esse, la legge prevedeva l’attribuzione, ai malati di mente già vagliati almeno una volta da un medico e da lui ritenuti portatori delle suddette caratteristiche fisiche e comportamentali, d’una “pericolosità presunta di lungo periodo” la quale preludeva, implicitamente, all’internamento più o meno definitivo in un Ospedale Psichiatrico. Ora, è a questo punto superfluo ribadire come tali presupposti “scientifici” siano stati del tutto superati dalla scienza contemporanea, ed anche come essi fossero assolutamente empirici, mai seriamente comprovati nonché basati, per la maggior parte, su un grossolano pregiudizio ideologico-culturale.

E’ poi interessante il fatto che, viceversa, la legislazione americana, 1) oltre a richiedere una valutazione specialistica accurata della pericolosità, 2) e richiederla come “presenza” attuale, ovvero esclusivamente sul breve periodo, 3) ha scartato ogni motivazione clinico-terapeutica al ricovero coatto (corrispondente alla cosiddetta “necessità urgente di cura” di cui parla la nostra legislazione); insomma, essa ha espunto, dalle possibili motivazioni di ricovero coatto, ogni riferimento para-lombrosiano a fattori “bio-antropologici di pericolosità” ed anche a ragioni puramente “sanitarie”, concentrandosi invece sull’aspetto pratico rappresentato, in caso di pericolosità, da una priorità assoluta accordata all’interesse sociale e collettivo su quello individuale. Insomma ha introdotto, al posto d’una pericolosità sociale cronica e/o di lungo periodo derivante da “ragioni sanitarie”, una previsione di pericolosità nel breve periodo la quale necessita solo dell’uso di indicatori di pericolosità riferiti all’individuo, più ancora che al malato mentale, “qui ed ora”, quindi tarati sulle circostanze concrete che di volta in volta si presentano.

In questa prospettiva, la “necessità di cura” (che nella legislazione italiana successiva al 1978 è divenuta una motivazione d’importanza capitale per il ricovero coatto) è stata giudicata dai giuristi americani come troppo paternalistica, perché di natura tale da violare il diritto del cittadino a rifiutare liberamente quelle cure con le quali non concordi (cfr P. S. Appelbaum ed R. M. Hamm, 1982).

Come si vede la legge italiana e quella americana, pur muovendosi apparentemente entro le stesse coordinate di tipo garantista, hanno imboccato due vie opposte:

1) la legge italiana infatti è partita dal principio lombrosiano, risalente alla legge del 1904, d’una pericolosità presunta e di lungo periodo del malato di mente, per poi abbandonare, nel 1970, ogni valutazione di pericolosità ed approdare al principio (in sé anch’esso assolutamente illiberale, tranne che nelle situazioni di igiene pubblica o di preminente interesse collettivo) della “necessità della cura” (legge 180).

2) la legge americana invece, pur prendendo teoricamente in considerazione il principio della “necessità della cura”, lo ha consapevolmente scartato in ragione, da un lato, del rispetto del diritto individuale alla libertà di cura (Appelbaum ed Hamm), e dall’altro della necessaria conciliazione dei diritti individuali con quelli inerenti la necessità di sicurezza collettiva e di prevenzione sociale.

Il principio della “libertà di cura”, insomma, per il diritto americano, ove preso in sé stesso, rappresenta un caposaldo giuridico assolutamente chiaro, sacrosanto ed inoppugnabile; tuttavia, in presenza di pericolosità sociale, la giurisprudenza statunitense afferma con altrettanta chiarezza che sul diritto individuale al rifiuto delle cure debbono prevalere le “considerazioni collettive e di pubblico interesse”.

Ora occorre osservare che, almeno in questo caso, è proprio una tale estrema chiarezza nel difendere le ragioni collettive, l’elemento che consente di salvaguardare nella maniera più netta anche il diritto individuale della persona alla libertà di cura: la legge americana, infatti, non solo circoscrive ad ambiti limitati e verificabili il diritto della persona al rifiuto delle cure, ma sancisce, in maniera altrettanto circoscritta, i casi in cui su quest’ultimo deve prevalere il principio dell’interesse collettivo, riuscendo in tal modo a contemperare (fondendoli in un mirabile equilibrio) il principio classico del diritto “soggettivo” e dell’interesse individuale, con quello, d’origine barbarico-tribale, del diritto “oggettivo” e dell’interesse collettivo e sociale.

Al contrario il mascherare, come fa la legislazione italiana, sotto le presunte finalità “umanitarie” proprie della “necessità ed improrogabilità della cura”, l’ineludibile necessità di far prevalere, almeno in taluni casi, l’interesse collettivo sulla libertà individuale a curarsi o meno, rappresenta forse la modalità più insidiosa per oscurare e mettere a repentaglio proprio il principio liberale della “libertà della cura”: infatti lo pone in balìa, senza fissare degli argini chiari, di esigenze collettive che con esso sono del tutto inconciliabili (ad esempio, quelle “sanitarie”), e che in condizioni di forte pressione dell’opinione pubblica sono fatalmente destinate a prevalere.

A controprova dell’incongruenza, su questo punto, della legge 180, basta considerare l’assoluta impossibilità, nella nostra legislazione, di sottoporre contro la sua esplicita volontà un paziente psichiatrico, a meno che non sia in stato di perdita di coscienza (e neppure se si trova in TSO!), a terapie quali, ad esempio, un intervento chirurgico d’urgenza, oppure un’alimentazione forzata in corso di anoressia (patologia per la quale di solito non si ricorre neppure al TSO!): infatti il TSO psichiatrico consente esclusivamente la somministrazione coercitiva di “terapie psichiatriche” miranti a correggere un’alterazione dello stato psichico che necessiti di intervento sanitario urgente, ed in nessun caso la somministrazione di terapie “mediche” le quali, pur anch’esse urgenti, mirino ad uno scopo diverso.

Ora, se si analizza dal punto di vista giuridico questa strana eccezione, rappresentata dalle “terapie psichiatriche”, al principio del “libero assenso alla terapia”, ci si accorge, a ben vedere, di avere ancora una volta a che fare con la priorità dell’interesse collettivo su quello individuale, ed in definitiva, con la pericolosità sociale: questa è l’unica possibile giustificazione per l’”eccezione psichiatrica”, poiché altrimenti non si capirebbe quale possa essere, nel caso delle cure psichiatriche (dalle quali può dipendere l’incolumità altrui!), quell’elemento specifico capace di inficiare una libera scelta individuale che lo stesso soggetto, nel caso debba invece decidere circa un intervento diagnostico o chirurgico su di sé (e che può incidere solo sul suo personale stato di salute), può invece esercitare!

L’elemento differenziale che riguarda le cure psichiatriche, ovviamente, non è altro che quella stessa pericolosità sociale che a parole viene esclusa, ma che surrettiziamente, fra le righe del testo, è presente nella stessa legge 180.

Insomma, l’elemento che fa la differenza fra le cure psichiatriche e quelle non psichiatriche prestate ad uno stesso soggetto che si trova in condizioni identiche (un malato di mente che non si rende conto delle conseguenze dei propri atti), non può essere altro che quello derivante, nel caso delle cure psichiatriche, da un interesse collettivo a che il soggetto “si curi la mente”, il quale s’identifica semplicemente con la sua pericolosità sociale, quindi con la possibilità che procuri del danno ad altri.

In conclusione, la nostra legislazione, in maniera abbastanza ipocrita, nel mentre che salvaguarda giustamente il diritto del paziente psichiatrico (come d’ogni altro!) a rifiutare quelle cure mediche con cui non concordi, postula poi, in modo del tutto contraddittorio, una ”necessità urgente” (ma che si pretende non sia inerente alla pericolosità!) alle cure psichiatriche, ossia ad essere curato sul piano psichico anche contro la sua volontà: si proclama insomma d’operare nel suo esclusivo “interesse”, però poi ci si rapporta con lui come se la sua “malattia” fosse contagiosa alla stregua d’una meningite (a parte le malattie mentali, solo alcune malattie infettive possono dar luogo a Trattamenti Sanitari Obbligatori!).

Con ciò, però, non ci si limita a nascondere l’idea della “pericolosità” dietro quella della “necessità ed urgenza” della cura, ma si fa una cosa ben più grave e pericolosa: in luogo di tenere rigidamente separati, in linea di principio, l’ambito dell’interesse collettivo e sociale e quello delle libertà dell’individuo al fine di mantenerli integri e di salvaguardarli entrambi (salvo il far prevalere esplicitamente, in casi circoscritti, l’uno sull’altro), si introduce di soppiatto, e senza giustificarla in alcun modo, una rischiosa e discutibile eccezione al “principio della libertà della cura” in sé, ovvero quella rappresentata, non si sa bene perché, dalla “cura psichiatrica”, con il risultato di rendere tale principio una sorta di “diritto di serie B”.

6

I problemi dell’abolizione della pericolosità e le possibili soluzioni

In conclusione, esistono più che valide ragioni per ritenere che la reintroduzione, nel nostro ordinamento giuridico, d’una valutazione psichiatrica della “presenza di pericolosità” nel malato di mente non ancora autore di reati, ove si basi non già sul concetto lombrosiano della “pericolosità sociale presunta” e “di lungo periodo” in quanto “connaturata alla malattia”, bensì sull’uso di indicatori di pericolosità sul breve periodo, nonché di più numerosi reparti per ricoveri psichiatrici coatti di breve durata come quelli attuali (gli SPDC), sia lo strumento più idoneo per prevenire due gravissimi pericoli che a nostro avviso minacciano, in prospettiva, la sopravvivenza d’una concezione liberale ed umanitaria della Psichiatria:

  • un primo pericolo è rappresentato dalle risorte (ma in realtà mai tramontate del tutto!) spinte illiberali e/o contro-riformatrici, le quali vanno in direzione sia della riapertura dei Manicomi (ovvero di “luoghi di ricoveri coattivi e di lunga durata”), sia del ripristino d’una “pericolosità sociale presunta e di lungo periodo” del malato di mente in quanto tale: si vedano le già citate proposte di contro-riforma presentate nella legislatura 2001-2006.
  • Un secondo pericolo è rappresentato dalla periodica riproposizione, in relazione ai malati che commettono reati e che a dire dell’opinione pubblica non hanno un’adeguata sanzione e/o trattamento/prevenzione, di proposte e spinte “radicali” di segno opposto sul piano dei principi, ma ai fini pratici del tutto equivalenti alle precedenti: queste proposte vanno infatti in direzione dell’abolizione dell’antichissimo ed umanitario principio della “non imputabilità” di minori e folli, per cui, paradossalmente, il rimedio ad una mancata valutazione preventiva della presenza di pericolosità nel malato di mente (considerata non si sa bene perché “illiberale”) sarebbe l’attendere che egli commetta dei reati ed il ripristinare a suo carico una sanzione penale ordinaria nel caso che malauguratamente li commetta!

D’altra parte, l’uso dei suddetti indicatori di pericolosità incentrati sul “breve periodo” sarebbe uno strumento utilissimo al fine di contemperare e salvaguardare alcuni importanti principi giuridici, non sempre del tutto coincidenti ma tutti quanti d’importanza capitale, in una società che voglia essere minimamente civile e giusta:

  1. il principio dell’uguaglianza dei cittadini, quanto ai diritti inviolabili della persona, a prescindere da loro caratteristiche biologiche e/o di salute più o meno permanenti, donde il rifiuto dell’idea d’una “pericolosità sociale presunta” che da tali permanenti caratteristiche possa automaticamente discendere, con tutte le sue conseguenze liberticide;
  2. il principio, conseguente al precedente, della libertà di ciascun individuo di rifiutare quelle cure, incluse le psichiatriche, con le quali non concordi, fatto però salvo il necessario prevalere sulla libertà individuale, almeno in alcuni casi circoscritti (segnatamente, l’accertata “presenza di pericolosità”), dell’interesse collettivo e sociale.
  3. Il principio, di antichissima e classica origine storico-giuridica, della “incapacità di intendere e di volere” del folle, e conseguentemente quello d’una sua “non imputabilità” in quei momenti nei quali sia in lui “presente” e dimostrata una qualche pericolosità.

In base a tutto ciò riteniamo, a proposito di quel certo discutibile “spirito riformatore” della Psichiatria italiana che ha sin qui preferito concentrarsi sui luoghi anziché sui problemi, che il ripetere ancora oggi ad oltranza il “mantra” secondo il quale “non c’è spazio per la cura all’interno d’una dimensione repressiva e/o custodialistica” (un “mantra” coniato all’epoca del ripudio d’ogni possibilità di lavoro terapeutico, anche provvisorio, all’interno dei Manicomi, il quale ha contribuito a produrre la frettolosità micidiale con cui sono state varate sia la legge 180 che la legge n. 9 del 2012, e che allo stato attuale sembra più che altro un luogo comune ideologico), oltre che sconfessare di fatto il lavoro terapeutico ancora oggi compiuto, ad esempio, nei SPDC (i quali ovviamente possiedono “anche” una dimensione custodialistica), sia la spia d’una mentalità difensiva, fatta di negazione dei problemi di fondo della Psichiatria, che è assolutamente necessario superare.

Occorre riconoscere che la richiesta che alla Psichiatria proviene dalla società, nel profondo è tuttora, anche e soprattutto, custodialistica e repressiva (e lo sarà, temiamo, per lunghissimo tempo!): il negare ciò come si faceva una volta, con fughe in avanti o con progetti di palingenesi sociale, oppure l’illudersi, come si fa oggi, di potere erigere dei muri più o meno invalicabili fra la dimensione terapeutica e quella repressiva e custodialistica (muri materiali, come l’abolizione “immediata”, eretta a feticcio, d’ogni possibile luogo fisico di cura a carattere anche solo parzialmente repressivo, oppure muri all’interno di sé stessi, ovvero interiori e mentali), ci sembra non sia nient’altro, per l’appunto, che un’ingenua e nefasta illusione.

Una tale illusione, infatti (è questa la cosa più grave!), non fa altro che distogliere ogni psichiatra dalla battaglia permanente che, ovunque egli operi, deve condurre in special modo all’interno di se stesso, affinché le spinte e le richieste repressive che costantemente gli provengono dal collettivo sociale (e dalle sue stesse strutture mentali più collegate con quest’ultimo), non prevalgano sulle sue motivazioni terapeutiche.

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L’assenza continua di Italo Svevo

di Andrea Galgano 1 marzo 2016

leggi in pdf Italo Svevo

svevo1Trieste era allora un terreno singolarmente adatto a tutte le coltivazioni spirituali. Posta al crocevia di più popoli, l’ambiente letterario triestino era permeato dalle colture più varie. Alla “Minerva” (la Società letteraria triestina) non si trattavano soltanto argomenti letterari paesani o nazionali. Le persone colte di Trieste leggevano autori francesi, russi, tedeschi, scandinavi ed inglesi. E nel piccolo ambiente si coltivava assiduamente e musica e pittura. Italo Svevo si trovò naturalmente attratto da tutti i cenacoli artistici e letterari della sua giovinezza1.

I. SVEVO

Ilmondo di Italo Svevo, estraneo alla letteratura e alla educazione linguistica classicistica, porta il respiro potente della Mitteleuropa, che nel suo dettato narrativo, poggia sulle inquietudini di Schopenhauer e di Nietzsche, preludendo alle ricerche freudiane e alla psicoanalisi 2.

Le lezioni disorganiche, apprese da autodidatta e segnate dai grandi maestri del realismo, della cultura del “negativo” e dell’agonia, rapportano la loro cifra sulla lucidità di analisi dei comportamenti umani, laddove, come scrive Gino Tellini3, la convivenza

con il “negativo” esclude (leopardianamente) i soccorsi della fede, laica o religiosa che sia, e significa pessimismo materialistico, lucida tolleranza, sentimento del relativo sul piano etico, politico, sociale. Ma la corrosione dei cardini stessi della vita borghese, tanto compenetrati nell’esistenza di Ettore Schmitz, è condotta con la personalissima leggerezza del distacco ironico, con l’inimitabile attitudine d’un io che riesce a guardarsi allo specchio senza infingimenti, esperto in quella «qualità particolare dell’ironia ebraica che viene praticata a spese dell’ebreo stesso» e che consiste nel «tentativo perpetuo di vedersi dal di fuori», nell’«astuzia» di «guardarsi con gli occhi degli altri»4.

Il “negativo” pervade, corrodendo, l’imprecisato istante inafferrabile, cosicché il presente, l’hic et nunc della realtà che si svolge, appare nella frattura svolta altrove, nel vizio rotto di una impossibilità e di una indifferenza per la vita che rivela l’essenza della vita intellettuale5 e l’indicibile insicurezza linguistica percepita nel vuoto riempito dal naturalismo e dall’origine tedesca, condizione di intraducibilità esistenziale e lessicale del suo tempo interiore, come il suo sogno dimentico del mondo:

Sai, ad onta che io sia tutto intento a divenire nel più breve tempo possibile un buon industriale e un buon commerciante io di pratico non ho che gli scopi. Resto sempre dinanzi al nuovo oggetto l’antico sognatore […]. Deve esserci nel mio cervello quache ruota che non sa cessare di fare quei romanzi che nessuno volle leggere e si ribella e gira vertiginosamente te presente e te assente […]. Devi pensare quanta violenza mi feci per saltare a piè pari nelle nuove occupazioni. Devo esserne intimamente scosso e quando senza chiamarlo mi viene fatto il romanzo, io che amai sempre tutto quello che feci resto stupito dinanzi all’evidenza delle mie immagini e dimentico il mondo intero. Non è l’attività che mi rende tanto vivo, è il sogno6.

O ancora come avviene in questa struggente lettera a Livia Veneziani, spesso, in Svevo, la dimensione proiettiva viene annullata o, invero, si cerca di racchiudere l’esiguo spazio del suo tempo in un enigma di mistero e divieto, che divengono strane subordinazioni e impedimenti al vero compimento di se stesso e alla vera ricchezza in fondo all’essere:

Devo ricordare che io mai invidiai la ricchezza altrui. Né la desiderai ma nell’ultimo tempo, dopo avvenimenti che tu conosci, ho molto cambiato in questo proposito. Assisto proprio alla fine dei miei sogni estetici, e questo, quando ci penso, trovo che sia male. Forse, se arrivo alla vecchiaia avrò tempo di pentirmene sentendo di avere offesa la mia intima natura, mancando al compito a cui per trentotto anni mi credetti nato. Il giorno in cui la vita pratica potrà esigere tale sacrificio non parlerò mai più di sogni. Mentre allorché ci unimmo, ti chiesi di sognare con me, ora ti chiederò di aiutarmi a restare fisso nella vita reale, con gli occhi spalancati, attento ai ladri.

È l’inetto, allora, che diventa la sua cifra esistenziale, il vizio per cui

quando nella vita accadono delle cose che possono significare un nuovo periodo, mi ripiego su me stesso e vedo passarmi dinanzi tutta la vita e la sua grande nullità in sé e tutta la vanità di tutti gli sforzi fatti in trentotto anni di esistenza […]. È la natura che mi fa essere così e tu non potrai mutarmi mai. […] Mi coglie il desiderio come una soffocazione. È sempre un desiderio iroso7.

Lo sguardo cieco verso il significato dell’esistenza, il vuoto abissale che coglie la soglia della definitività e del rapporto con la realtà, lo straniamento della libertà, il precipizio del nulla divengono il prezzo pagato alla sua scrittura, dove lo spezzamento memoriale delle origini e la colpevolezza impediscono la sorpresa dell’incontro e la condizione della conoscenza amorosa che spalanca e fa vivere. L’implosione della senilità che fa terminare ogni anelito, ogni spasimo di ricchezza vivente:

Iersera (te lo dissi subito) mi sentii vecchio vecchio e sentii te giovine, giovine. Giammai non avevo sentito la disparità nella nostra età in un modo tanto evidente e cominciai a pregarti con violenza di dirmi che anche trovandomi vecchio, vecchio, sempre vecchio, mi avresti amato tout de même. Non mi desti mica questa soddisfazione, carogna! Mi dicesti di non comprendere, di non capire, di non pensare e mi congedasti. Oh! capra! (20 gennaio 1896, Diario per la fidanzata)

Sostiene Sandro Maxia:

Oggi – scrive Musil – l’essenziale accade nell’astratto e l’irrilevante accade nella realtà […]. È così che lo scrittore smarrisce la differenza tra possibilità astratte e possibilità concrete,e comincia ad esaltare il mondo ampio della possibilità contro il mondo limitato e volgare della realtà […] assoluta storicità dell’esistenza come caratteristica ontologica dell’esistere umano […]. Corollario inevitabile di questa totale estraneità dell’uomo alla sua storia, di questo iato tra coscienza e azione sentito come data e immutabile condizione umana, è la solitudine, anch’essa ontologica, dell’uomo tra gli uomini […] nessun rapporto tra uomo e uomo è possibile, che non sia puramente convenzionale ed estrinseco8.

Aggiunge Irene Battaglini:

In Svevo la tirannia dell’Altro, il Sé Crudele, si profila come uno spettro mai raggiunto, mai vinto, mai neppure affrontato guardandolo in volto, e porta il nome sfrangiato ed esistenziale della depressione. Silvano Areti osservò che molte persone affette da depressione spendono le proprie vite “per qualcun altro” invece che per loro stessi. Egli chiamava queste “altre” persone per cui il paziente depresso vivrebbe, “L’altro dominante”. Questa figura non è necessariamente una persona: può essere un principio, un ideale, un’intuizione, l’immagine di sé. La depressione vera e propria si instaura quando i pazienti si rendono conto che la persona o l’ideale per cui hanno vissuto non risponderà mai adeguatamente a soddisfare le loro aspettative. Si potrebbe dire che per Sevo l’altro dominante è costituito dall’ideale borghese cui l’inetto “tende”. Una debacle che non può essere estinta, e che non trova mai un respiro né di sconfitta né di vittoria.9

Una vita (1892, il cui titolo originario era L’inetto) si presenta come romanzo tradizionale e si collega al motivo del fallimento del personaggio inetto, Alfonso Nitti, nel processo di inurbamento e nelle sue ambizioni letterarie. È l’atto di apertura di un contrasto raffermo e duro tra l’io e la società, laddove l’individuo trova la corrosa conclusione di una sconfitta, di uno scontro perduto e di una impossibilità di riscatto e salvezza nella sua mancata integrazione borghese:

Andrea Caspani, soffermandosi sul peculiare interesse di Svevo per il suo giovane personaggio, afferma: «Egli coglie infatti nella rincorsa sociale di Nitti una dialettica più profonda che si svolge all’interno dell’individuo integrato e consapevole dell’integrazione […]. Questa dialettica che è in Nitti come è in Svevo, è la dialettica fondamentale che guida il giudizio radicalmente critico di Svevo sulla società del suo tempo, è la consapevolezza dell’irriducibilità delle esigenze dell’io al “fascino” della “civilizzazione borghese” che pure proprio in questi decenni registra i suoi maggiori successi»10.

La negazione della volontà nella storia di Alfonso Nitti diviene la negazione del proposito di riscatto sociale. Le sue mansioni di impiegato in banca, addetto alla corrispondenza, si decentrano in una dimensione inibitoria di sogno. La scrittura diventa, pertanto, il trait d’union con un mondo permanente e irraggiungibile che congiunge il tentativo all’inazione, la potenza immaginativa alla sospensione del reale, la malattia che coinvolge il territorio psicologico e l’indebolimento dei nervi. La nevrosi di Alfonso è l’irrimediabile immaginazione impossibile:

Alfonso credeva di avere dello spirito e ne aveva di fatto nei soliloqui. Non gli era stato mai concesso di farne con persone ch’egli stimasse ne valessero la fatica, e, recandosi dai Maller, pensava che un suo sogno stava per realizzarsi. Aveva meditato molto sul modo di contenersi in società e s’era preparato alcune massime sicure sufficienti a tener luogo a qualunque altra lunga pratica. Bisognava parlare poco, concisamente e, se possibile, bene; bisognava lasciar parlare spesso gli altri, mai interrompere, infine essere disinvolto e senza che ne trapelasse sforzo. Voleva dimostrare che si può essere nato e vissuto in un villaggio e per naturale buon senso non aver bisogno di pratica per contenersi da cittadino e di spirito11.

Lasciata la madre al paese, si impiega in banca. Quando viene invitato a casa del banchiere Maller («Era un uomo forte, grasso, ma alto di statura. Lo si sentiva respirare talvolta, non affannosamente però. La testa era quasi calva, la barba intiera aveva folta, non lunga, di un biondo tendente al rosso. Portava occhiali con filetti d’oro. La sua testa aveva l’aspetto volgare per il color rosso carico della pelle»), fa la conoscenza di Macario, arrivista sicuro di sé e suo rovescio della medaglia, che riesce a districarsi con padronanza nella voracità del mondo borghese, ma soprattutto di Annetta, di cui si innamora e con la quale egli inizia una relazione affettiva, grazie alla comunanza di intenti e di interessi letterari. Annetta sconvolge la dimensione pseudo-onirica e crepuscolare del protagonista. Viene esibito subito il conflitto di confusione che avvolge Alfonso:

La donna era per lui la dolce compagna dell’uomo nata piuttosto per essere adorata che abbracciata, e nella solitudine del suo villaggio, ove il suo organismo era giunto a maturità, ebbe l’intenzione di serbarsi puro per porre ai piedi di una dea tutto se stesso. In città quest’ideale perdette ben presto qualunque influenza sulla sua vita per non vivere che nel suo proposito, un proposito vago che non aveva forza che quando non c’era bisogno di lotta.

L’intero rapporto con l’universo femminile lo destina a una agitazione che è perturbante. Il contatto con l’universo femminile, per Alfonso, si sospende in un simbolismo che vuole annullare ogni viltà.
Ogni sensualità, fintamente puritana, che egli mette in scena, dipanandosi nel territorio di un simbolismo materno e riparato, ma che, alla fine, diviene sicurezza sociale, sistemazione e posizione.
La densità espressiva che afferisce alla sfera femminile, dalla fugace Maria all’apparente stabilità di Francesca, ridesta l’inquietudine perplessa della sua frustrazione, l’ambizione di voler essere qualcosa che non potrà essere e, in particolar modo, il caricamento ideale di ciò che è inappagabile.
La catalogazione ambientale e interiore, che Svevo mette in atto, diventa ciò che segna il romanzo, dove la mediocrità, la meschinità e l’aspettativa franta diventano la sorgente spezzata della narrazione, il suo involucro senza destinazione, la sua tappa rigida, la sua paternità perduta e dimenticata:

Centro dei suoi sogni era lui stesso, padrone di sé, ricco, felice. Aveva delle ambizioni di cui consapevole a pieno non era che quando sognava. Non gli bastava fare di sé una persona sovranamente intelligente e ricca. Mutava il padre, non facendolo risuscitare, in un nobile e ricco che per amore aveva sposato la madre, la quale anche nel sogno lasciava quale era, tanto le voleva bene. Il padre aveva quasi del tutto dimenticato e ne approfittava per procurarsi per mezzo suo il sangue turchino di cui il suo sogno abbisognava12.

Ben presto la situazione precipita perché sul punto di sposarla, Alfonso fugge e ritorna al paese di origine per assistere la madre, che già gravemente malata muore. Tornato a Trieste, sembra volersi ritirare in campagna, per distogliersi dalla progressiva e avviluppante degradazione cittadina, ma ancora una volta, la sostanzia di questo cambiamento è illusoria e inconsistente. Venuto a sapere del fidanzamento della volubile Annetta (questa non intende perdonarlo) con Macario (quest’ultimo verrà sfidato persino a duello e dopo una balbettante e infinita serie di equivoci) sceglie di togliersi la vita.
Un suicidio13 stile Ortis ma che ne diventa l’antitesi. Lo sceglie come miserabile fuga, exemplum del disadattamento alla vita che significa, in definitiva, abbandonarla e uccidere ogni mistificazione: per incapacità, per difficoltà a comprenderne i meccanismi, e perché la lotta è senza risoluzione e il suo doloroso epilogo «segna la fine antieroica, meritata e senza onore, di un inconsapevole camuffatore di se stesso che, messo alle strette, preferisce orgogliosamente disertare la vita»14:

Che cosa poteva sperare? Gli rimaneva soltanto una via per isfuggire a quella lotta in cui avrebbe fatto una parte miserabile e ridicola, il suicidio. Il suicidio gli avrebbe forse ridato l’affetto di Annetta. Come in quell’istante non l’aveva amata giammai. Non si trattava più d’interesse né di sensi. Quanto più egli l’aveva vista allontanarsi da lui tanto più l’aveva amata; ora che definitivamente perdeva ogni speranza di riconquistare quel sorriso, quell’affettuosa parola, la vita gli sembrava incolore, nulla. Una volta scomparso, Annetta non avrebbe più avuto il ribrezzo della paura per lui, per il suo ricordo, ed era tutto quello ch’egli poteva sperare. Non voleva vivere dovendo continuare ad apparirle quale un nemico spregevole sospettato di voler danneggiarla e farle pagare a caro prezzo gli stessi favori da essa accordatigli. Non aveva pensato mai al suicidio che col giudizio alterato dalle idee altrui. Ora lo accettava non rassegnato ma giocondo. La liberazione! Si rammentava che fino a poco prima aveva pensato altrimenti e volle calmarsi, vedere se quel sentimento giocondo che lo trascinava alla morte non fosse un prodotto della febbre da cui poteva essere posseduto. No! Egli ragionava calmo! Schierava dinanzi alla mente tutti gli argomenti contro al suicidio, da quelli morali dei predicatori a quelli dei filosofi più moderni; lo facevano sorridere! Non erano argomenti ma desiderî, il desiderio di vivere. Egli invece si sentiva incapace alla vita. Qualche cosa, che di spesso aveva inutilmente cercato di comprendere, gliela rendeva dolorosa, insopportabile. Non sapeva amare e non godere; nelle migliori circostanze aveva sofferto più che altri nelle più dolorose. L’abbandonava senza rimpianto. Era la via per divenire superiore ai sospetti e agli odii. Quella era la rinunzia ch’egli aveva sognata. Bisognava distruggere quell’organismo che non conosceva la pace; vivo avrebbe continuato a trascinarlo nella lotta perché era fatto a quello scopo15.

Scrive Gino Tellini:

Alfonso, verghianamente il «vinto», non è né un eroe sconfitto né una vittima innocente che suscita pietà (come accade di preferenza in Verga), bensì – giusto il titolo originario – «un inetto». Un inetto però smanioso, pieno di progetti, di calcoli, di iniziative (anche aspro e violento con Annetta), ma iniziative sbagliate: un ambizioso velleitario fallito, non rassegnato alla sorte del «travetto», privo delle «ali necessarie» per «piombare a tempo debito sulla preda», come di lui dice il cugino di Annetta, l’avvocato Macario16.

In Senilità, le tensioni psico-morali, la lotta, il confronto tra desiderio e capacità di vivere, tra realtà e volontà, la sfumatura della rappresentazione realistica tende ad assorbirsi e mette in scena un quartetto, costituito dal letterato inetto, nevrotico e contraddittorio, che è Emilio Brentani, descritto in tutta la sua ombra nascosta («[…] egli traversava la vita cauto, lasciando da parte tutti i pericoli ma anche il godimento, la felicità. A trentacinque anni si ritrovava nell’anima la brama insoddisfatta di piaceri e di amore, e già l’amarezza di non averne goduto, e nel cervello una grande paura di se stesso e della debolezza del proprio carattere, invero piuttosto sospettata che saputa per esperienza17»), il suo amico esuberante, artista fallito, ma grande seduttore, Stefano Balli («era un uomo alto e forte, l’occhio azzurro giovanile su una di quelle faccie dalla cera bronzina che non invecchiano: unica traccia della sua età era la brizzolatura dei capelli castani, la barba appuntata con precisione, tutta la figura corretta e un po’ dura. Era talvolta dolce il suo occhio da osservatore quando lo animava la curiosità o la compassione, ma diveniva durissimo nella lotta e nella discussione più futile18»), Angiolina che riporta l’autobiografia, densa in tutta la sua didascalia chiara, nel romanzo («una bionda dagli occhi azzurri grandi, alta e forte, ma snella e flessuosa, il volto illuminato dalla vita, un color giallo di ambra soffuso di rosa da una bella salute, camminava accanto a lui, la testa china da un lato come piegata dal peso del tanto oro che la fasciava, guardando il suolo ch’ella ad ogni passo toccava con l’elegante ombrellino come se avesse voluto farne scaturire un commento alle parole che udiva19»), e sua sorella Amalia, dipinta in tre fugaci attimi impalpabili («lunga, secca, incolore»). Da una parte, la coppia senile degli sconfitti e degli indecisi dell’esistenza, e dall’altro l’inquietante e sana vitalità, disegnata in uno spettacolo corporeo, di Angiolina e di Balli.
Emilio Brentani, rovescio e antitesi dello Sperelli dannunziano, esprime la vorace esasperazione del silenzio, l’incomprensione, la gravità, l’inerzia e il limbo di una brama insoddisfatta:

A trentacinque anni si trovava nell’anima la brama insoddisfatta di piaceri e di amore, e già l’amarezza di non averne goduto e nel cervello una grande paura di se stesso e della debolezza del proprio carattere, invero piuttosto sospettata che saputa per esperienza. La carriera di Emilio Brentani era più complicata perché intanto si componeva di due occupazioni e due scopi ben distinti. Da un impieguccio di poca importanza presso una società di assicurazioni, egli traeva giusto il denaro di cui la famigliuola abbisognava. L’altra carriera era letteraria e, all’infuori di una riputazioncella, – soddisfazione di vanità più che d’ambizione – non gli rendeva nulla, ma lo affaticava ancor meno. Da molti anni, dopo di aver pubblicato un romanzo lodatissimo dalla stampa cittadina, egli non aveva fatto nulla, per inerzia non per sfiducia20.

Quella vanità inerte, sospinta dall’accumulo di piaceri e forme, ossessionato da Angiolina e in cerca di un involucro alla sua immaginazione sbigottita e alla sua misura delle cose, l’ozio geometrico di Brentani si esplica in una prudenza borghese:

Subito, con le prime parole che le rivolse, volle avvisarla che non intendeva compromettersi in una relazione troppo seria. Parlò cioè a un dipresso così: -T’amo molto e per il tuo bene desidero ci si metta d’accordo di andare molto cauti-. La parola era tanto prudente ch’era difficile di crederla detta per amore altrui e un po’ franca avrebbe dovuto suonare così:- Mi piaci molto, ma nella mia vita non potrai essere giammai più importante di un giocattolo. Ho altri doveri io, la mia carriera, la mia famiglia21.

Commenta Giovanni Fighera:

Brentani si inganna, non può instaurare una relazione senza creare un legame e alla fine ritornerà solo, lascerà Angiolina, dopo aver perso la sorella Amalia, che rappresenta ancor di più l’esasperazione dell’incapacità a vivere. La sorella muore alcolizzata, senza che il fratello si avveda della sua inquietudine e tristezza, senza aver neppure provato l’avventura dell’amore, ma avendo solo vagheggiato in sogno la possibilità di un legame con l’affascinante, quanto superficiale e impossibile, scultore Stefano Balli. La senilità, cioè una vecchiaia precoce, propria di chi pensa di saper già tutto della vita e dell’amore e che perciò la realtà non abbia più niente da insegnare, si impadronisce di Brentani, che, dopo la vicenda amorosa con Angiolina, ritorna allo sguardo lucido, intellettuale, cinico e triste che aveva prima22.

Il ripiegamento culturale di Brentani, dunque, rappresenta l’infecondo istante evasivo di una materia inerte, di una obnubilata tensione relazionale che evidenzia una condizione di dramma imbrigliato di un io senza giudizio, rappreso in «una grande diffidenza e un grande disprezzo dei propri simili».
L’allontanamento dall’impegno esistenziale, per dedicarsi ai doveri familiari e sociali, impongono ad Emilio, nell’incontro con Angelina, il dominio del caos irruento, generato dalla sua figura, attraverso la religione («oh! la dolce cosa ch’era la religione! Di casa sua e dal cuore d’Amalia egli l’aveva scacciata […], ma ritrovandola presso Angiolina, la salutò con gioia ineffabile. Accanto alla religione delle donne oneste, gli uomini sul muro gli parvero meno aggressivi23»), i topoi dell’idealizzazione educativa e della sottomissione, toccando persino il vertice basso della sensualità sublimata:

gli venne la magnifica idea d’educare lui quella fanciulla. In compenso all’amore che ne riceveva, egli non poteva darle che una cosa soltanto: La conoscenza della vita, l’arte di approfittarne. Anche il suo era un dono preziosissimo, perché con quella bellezza e quella grazia, diretta da persona abile come era lui, avrebbe potuto essere vittoriosa nella lotta per la vita. così, per merito suo, ella si sarebbe conquistata da sé la fortuna ch’egli non poteva darle! Subito le volle dire una parte delle idee che gli passavano per il capo. Cessò di baciarla e d’adularla e, per insegnarle il vizio, assunse l’aspetto austero di un maestro di virtù […]. Per una sentimentalità da letterato il nome d’Angiolina non gli piaceva. La chiamò Lina; poi, non bastandogli questo vezzeggiativo, le appioppò il nome francese Angèle e molto spesso lo ingentilì e lo abbreviò in Ange24.

È la sottomissione del reale che si invischia nel possesso, nello devastato e abnorme amor sui e in quella invasiva gelosia che porta all’annientamento di ogni dimensione integra di umanità.
Scrive Novella di Nunzio:

Ora, va notato che, come Alfonso, anche Emilio è indubbiamente un sognatore; tuttavia è proprio questo elemento in comune che mette in luce in modo ancora più esplicito la differenza tra le due figure, e dunque tra l’inettitudine e la senilità. Infatti, se nel caso di Alfonso l’inetto e il sognatore si pongono sullo stesso piano, nel caso di Emilio la senilità e la tendenza al sogno appaiono in un rapporto contraddittorio per cui l’una esclude l’altra: «e dire che poche ore prima egli aveva pensato d’aver perduto la capacità di sognare. Oh! la gioventù era tornata! Correva le sue vene prepotente come mai prima e annullava qualunque risoluzione che la mente senile avesse fatta». In presenza del sogno, dunque, la senilità scompare, trasformandosi in giovinezza.
Alla differenza tra inettitudine e senilità in rapporto al sogno corrisponde poi una differenza anche nell’entità del sogno stesso, per cui ancora una volta si nota l’opposizione tra l’orientamento delle visioni di Alfonso, rivolte verso la propria persona con l’obiettivo di ampliarne sensibilmente la portata, e l’orientamento delle visioni di Emilio, rivolte al mondo esterno con l’obiettivo di limitarne il disordine25.

Lo stato di malattia di Emilio è morbus moriendi, che dapprima, attraverso il cinismo e la concezione di ineluttabilità senza sostanza del destino, tenta di estirpare la sua inettitudine, prosciugando l’umanità degli altri che gli stanno vicino e facendogli mantenere il bisogno di assolversi, di rendere, in qualche modo, silente e silenziato ogni rimorso possibile, attraverso la dimenticanza, la tabula rasa della sua coscienza e della sua tranquillità insolente e, infine, dell’acquietamento del desiderio («Erano passati per la sua vita l’amore e il dolore e, privato di questi elementi, si trovava ora col sentimento di colui cui è stata amputata una parte importante del corpo. Il vuoto però finì coll’essere colmato. Rinacque in lui l’affetto alla tranquillità, alla sicurezza, e la cura di se stesso gli tolse ogni altro desiderio»):

L’immagine della morte è bastevole ad occupare tutto un intelletto. Gli sforzi per trattenerla o per respingerla sono titanici, perché ogni nostra fibra terrorizzata la ricorda dopo averla sentita vicina, ogni nostra molecola la respinge nell’atto stesso di conservare e produrre la vita. Il pensiero di lei è come una qualità, una malattia dell’organismo. La volontà non lo chiama né lo respinge. Di questo pensiero Emilio lungamente visse. La primavera era passata, ed egli non se n’era accorto che per averla vista fiorire sulla tomba della sorella. Era un pensiero cui non andava congiunto alcun rimorso. La morte era la morte; non più terribile per le circostanze che l’avevano accompagnata. Era passata la morte, il grande misfatto, ed egli sentiva che i propri errori e misfatti erano stati del tutto dimenticati […].
Quando la sua commozione s’affievolì, gli sembrò di perdere equilibrio. Corse al cimitero. La strada polverosa lo fece soffrire, e indicibilmente, il caldo. Sulla tomba prese la posa del contemplatore, ma non seppe contemplare. La sua sensazione più forte era il bruciore della cute irritata dal sole, dalla polvere e dal sudore. A casa si lavò e, rinfrescata la faccia, perdette ogni ricordo di quella gita. Si sentì solo, solo. Uscì col vago proposito d’attaccarsi a qualcuno, ma sul pianerottolo dove un giorno aveva trovato il soccorso invocato, ricordò che poco distante poteva trovare una persona che gli avrebbe insegnato a ricordare, la signora Elena. Egli – se lo disse salendo le scale egli non aveva dimenticata Amalia, la ricordava anche troppo, ma aveva dimenticata la commozione della sua morte. Invece che vederla rantolare nell’ultima lotta, la ricordava quando triste, spossata, con gli occhi grigi lo rimproverava del suo abbandono, oppure quando, sconfortata, riponeva la tazza preparata per il Balli o, infine, ricordava il suo gesto, la sua parola, il suo pianto d’ira e di disperazione. Erano tutti ricordi della propria colpa. Bisognava coprire il tutto con la morte d’Amalia; la signora Elena gliel’avrebbe rievocata. Amalia stessa era stata insignificante nella sua vita. Non ricordava neppure ch’ella avesse dimostrato il desiderio di riavvicinarsi a lui quando egli, per salvarsi da Angiolina, aveva tentato di rendere più affettuosa la loro relazione. La sua morte sola era stata importante per lui; quella almeno l’aveva liberato dalla sua vergognosa passione26.

Commenta Gino Tellini:

Come Alfonso non è Jacopo Ortis, né un eroe sconfitto né una vittima innocente, ma un mediocre pronto al compromesso più avvilente, un «travetto» responsabile della propria dolente (non tragica) fine ingloriosa, così Emilio non è l’inetto reso cieco dall’amore, l’idealista incantato, estasiato, tradito e spinto alla perdizione da una demoniaca malafemmina, bensì un mancato superuomo di provincia, arrovellato dal tarlo della gelosia, un sofista accanito, esperto del bleffare con se stesso e nel fabbricarsi paraventi protettivi, un modesto esteta dannunziano che vive nella doppiezza, pavido e timoroso, ma che riesce con gli altri a essere senza pietà27.

Dopo questi romanzi, Svevo sente il pericolo del fallimento, dell’inessenzialità, e il silenzio dell’appello per scomparire nel cielo grigio opaco e impiegatizio dove riuscire a dire io, arrivando a credere che vent’anni di silenzio siano la cartina al tornasole della verità, la lampante nettezza del detrito che rimane e dell’anagrafe di un passaggio, come scrive nel Soggiorno londinese (1926):

L’insuccesso di Senilità che pubblicai a 37 anni mi fece risolvere di abbandonare del tutto la letteratura. M’ero sposato, avevo avuta una figlia e bisognava diventare serii. Non solo abbandonai la Banca che pur mi lasciava il tempo per pensare e scrivere e mi misi in un’industria che mi caricava di grandi responsabilità e m’imponeva un’attività illimitata, ma per non ricadere una terza volta nella letteratura, sentendo che qualche cosa in me domandava un’esplicazione artistica, dedicai le poche ore che mi restavano libere allo studio del violino28.

Gli anni di allontanamento recano il mistero di un distacco, vincendo i limiti di una condizione che annuncia una rinuncia ma dispone un orizzonte che si scopre ineludibile:

Derivava la necessità della rinunzia. Il silenzio che aveva accolto l’opera sua era troppo eloquente. La serietà della vita incombeva su lui. Fu un proposito ferreo. Gli fu più facile di tenerlo perché in quel torno di tempo entrò a far parte della direzione di un’industria alla quale era necessario dedicare innumerevoli ore ogni giorno. In complesso finì con l’avere una vita più felice di quanto avesse temuto. In gran parte si vide esonerato dal tedioso lavoro d’ufficio e visse coi suoi operai in fabbrica. Dapprima a Trieste, poi a Murano presso Venezia, e infine a Londra. Restavano certamente delle ore libere e lo Svevo racconta volentieri che non poteva dedicarsi al piacere di scrivere, perché bastava un solo rigo per renderlo meno adatto al lavoro pratico cui giornalmente doveva attendere. Subentrava subito la distrazione e la cattiva disposizione. Trovò il modo di occupare anche quelle ore eliminando ogni pericolo. Si dedicò con grande fervore allo studio del violino che nella giovinezza aveva suonato discretamente. (Profilo autobiografico).

L’ «imo del proprio essere» dove «un suono, un accento, un residuo fossile o vegetale di qualche cosa che sia o non sia il puro pensiero, che sia il puro pensiero, che sia o non sia sentimento, ma bizzarria, rimpianto, un dolore, qualche cosa di sincero, anatomizzato» sembra essere eliminato. Ma Svevo sembra voler tentare di arrivare al «complesso del proprio essere» attraverso l’autoanalisi che possa decifrare, scandagliare e, in definitiva, fargli abitare se stesso:

Dicembre 1902. Noto questo diario della mia vita di questi ultimi anni senza propormi assolutamente di pubblicarlo. Io, a quest’ora e definitivamente ho eliminata dalla mia vita quella ridicola e dannosa cosa che si chiama letteratura. Io voglio soltanto attraverso a queste pagine arrivare a capirmi meglio. L’abitudine mia e di tutti gl’impotenti di non saper pensare che con la penna alla mano (come se il pensiero non fosse più utile e necessario al momento dell’azione) mi obbliga a questo sacrificio. Dunque ancora una volta, grezzo e rigido strumento, la penna m’aiuterà ad arrivare al fondo tanto complesso del mio essere. Poi la getterò per sempre e voglio saper abituarmi a pensare nell’attitudine stessa dell’azione: In corsa, fuggendo da un nemico o perseguitandolo, il pugno alzato per colpire o per parare. (Pagine di diario).

La voracità di allontanamento dai propri fantasmi, che si innerva nella stesura dei primi romanzi, trova ora il desiderio di appropriarsi della coscienza, volendo sostare nel fondo di ciò che accade e la scrittura diventa, allora, l’attracco tremolante dell’autoterapia. La psicoanalisi rappresenta l’esperienza di uno sbocco che nell’epoca triestina raggiunge l’apice di un interno di curiosità e distacco:

Il secondo avvenimento letterario e che allo Svevo parve allora scientifico fu l’incontro con le opere del Freud. Dapprima le affrontò solo per giudicare delle possibilità di una cura che veniva offerta ad un suo congiunto. Per vario tempo lo Svevo lesse libri di psicanalisi. Lo preoccupava d’intendere che cosa fosse una perfetta salute morale. Nient’altro. Durante la guerra, nel 1918, per compiacere un suo nipote medico che, ammalato, abitava da lui, si mise in sua compagnia a tradurre l’opera del Freud sul sogno. La compagnia del dotto medico (che però non praticava la psicanalisi) rese quella traduzione più interessante. Fu allora che lo Svevo talora si dedicò (solitario, ciò ch’è in perfetta contraddizione alla teoria e alla pratica del Freud) a qualche prova di psicanalisi su se stesso. Tutta la tecnica del procedimento gli restò sconosciuta, cosa della quale tutti possono accorgersi leggendo il suo romanzo». (Profilo autobiografico).

Il passaggio a La coscienza di Zeno (1923) si impone come liberazione fantasmatica dalle velleità di Alfonso Nitti e dalle frammentazioni superomistiche di Emilio Brentani e «c’è bisogno», scrive Gino Tellini, «di una lunga meditazione, di quest’incremento d’esperienza umana e intellettuale che si decantano nel periodo del cosiddetto “silenzio”, perchè dalle spoglie di Alfonso e di Emilio si stacchi, aerea e libera, l’inedita figura di Zeno»29.
Si passa alla prima persona che scandisce il nuovo tempo disgregato e memoriale, in cui Zeno Cosini diventa pagina autobiografica e nevrotica ossessiva, su invito del suo psicoanalista, il dottor S. (da molti associato al seguace di Freud, Edoardo Weiss e solo ultimamente allo psicologo ginevrino Charles Baudouin30), per fini terapeutici. Egli adempie un vuoto e costituisce uno spazio innocente, dove la scrittura, come annota Gioanola, è «il contrario dell’analisi perché è la custode delle resistenze e delle reticenze, quelle che fanno la “malattia” ma nutrono la genialità, generano dolore ma anche capacità di sublimazione creativa: attribuire al dottor S. la cura dello scrivere è un modo per fare di un uomo senza qualità uno scrittore e di un analista un imbecille, secondo tutte le migliori intenzioni dell’autore»31:

Zeno si presenta come uno che scrive la propria vita controvoglia, per ordine medico: quindi per uno scopo prevalentemente fisico e non morale, sebbene poi il senso della malattia fornisca una delle principali immagini che egli ha della propria psiche: sia cioè una vera e propria affezione morale. E poi il diario è pubblicato, non da Zeno, ma dal suo medico: di conseguenza Zeno è, almeno in parte, irresponsabile di ciò che noi leggiamo. Di più: il medico si è indotto a rendere pubblico questo diario psicoanalitico per punire il cliente, scettico verso la cura, di non essersi confessato con la dovuta serietà. […] Zeno è dunque . per lo meno nell’impianto del libro, che è quello che gli dà tono – pressoché assente da ciò che narra. Se può prendere coscienza di sé in maniera molto disincantata, come accade al vecchio che ripercorra i giovanili errori questa maniera risulta nel contempo molto rasserenata, ricca di possibilità ottimistiche e di ravvedimenti che più non dolgono. Eppure l’ottimismo di Zeno riesce sempre sofistico. Proprio quando sembra concludere che a conti fatti lui, il presunto malato, è più sano che tanti sani, lui, presunto anormale, è più normale di tutti i sedicenti uomini normali – proprio allora, dietro la conclusione apparente, serpeggia quella vera: che cioè la vita è sempre andata a posarglisi dove lui non prevedeva, dove i suoi calcoli e i suoi piani non lo aspettavano. La vita, quando lui crede di averla colta in un punto preciso, si incarica sempre di dargli un cazzotto cieco e sconcertante. Proprio come fa suo padre, già fuori di sé per l’agonia, allorchè lui si pensava aver toccato infine il sublime momento, in cui i difficili rapporti tra padre e figlio si spogliano dei loro aspri e incomunicabili pudori, per semplificarsi in chiara intelligenza di affetti. L’eroe di Svevo è generato dalla sensazione fondamentale di uno scompenso tra l’orientamento che l’individuo dà alla propria vita, e la curva che poi la vita descrive: incarna questo difetto, questo errore di calcolo e, con le sue vicende, viene a testimoniarlo e a patirlo tra il gioco delle sorti umane32.

Ma Zeno si sottrae per “antipatia”, parodiando la terapia psicoanalitica, evitando di rapportarsi al medico e al suo trattamento, considerato inutile. «Per Zeno il compito della psicoanalisi», sostiene Giuseppe Panella, «non dovrebbe essere la ricostruzione (storico-psicologica) del passato bensì la preparazione del soggetto a un futuro diverso. In sostanza, per Zeno, la psicoanalisi […] è una forma di reinvestimento dell’Io che dovrebbe comportarne non tanto (o soltanto) la rimozione delle stratificazioni nevrotiche di senso che impediscono una presa di possesso più salda sulla vita e sulla propria soggettività quanto il ritorno indietro ad una condizione pressochè edenica, una forma di ripetizione del suo passato più felice e più ingenuo33».
Il medico, per vendetta, decide di pubblicare quelle memorie, come egli stesso scrive nella prefazione, figurando, in Zeno, «una pura proiezione di odio, per questo appare tanto “caricato”, al punto da non possedere nessuna delle qualità “realistiche” degli altri personaggi e da figurare soltanto, molto fugacemente, alla fine del romanzo come una specie di macchietta, di caricatura appunto, valida a siglare il concetto di “psico-analisi” del protagonista e del suo autore34»:

Io sono il dottore di cui in questa novella si parla talvolta con parole poco lusinghiere. Chi di psico–analisi s’intende, sa dove piazzare l’antipatia che il paziente mi dedica. Di psico–analisi non parlerò perché qui entro se ne parla già a sufficienza. Debbo scusarmi di aver indotto il mio paziente a scrivere la sua autobiografia; gli studiosi di psico–analisi arricceranno il naso a tanta novità. Ma egli era vecchio ed io sperai che in tale rievocazione il suo passato si rinverdisse, che l’autobiografia fosse un buon preludio alla psico–analisi. Oggi ancora la mia idea mi pare buona perché mi ha dato dei risultati insperati, che sarebbero stati maggiori se il malato sul più bello non si fosse sottratto alla cura truffandomi del frutto della mia lunga paziente analisi di queste memorie. […]35.

Mario Lavagetto, così commenta:

Il dottor S. […] mostra una grande incertezza nel definire il testo che si trova tra le mani e che si accinge a pubblicare con intenzioni vendicative: parla prima di novella, poi di autobiografia, poi di memorie. Non è soltanto la sua scarsa familiarità con i “generi letterari” ad essere messa in causa, è anche l’oggettiva resistenza ad ogni classificazione dei materiali che si trova tra le mani36.

Inserendo questo punto e indagando la parte poco veritiera di Zeno, il romanzo appare, nella presentazione, come frutto di una detrazione terapeutica, di una estorsione per fini individualistici. Viene tolta con forza la vita da quella pagina e pubblicata a tradimento e contro ogni volontà. Ma l’alibi, persino linguistico, messo in scena da Zeno, si inserisce in un processo di finzione scenica che invade ogni processo memorativo, attraverso l’analisi che permette di sciogliere la realtà, pur manifestandosi in modo disorganico e disarticolato: «La novità assoluta della Coscienza sta nella compresenza di un doppio linguaggio di narrazione. C’è un linguaggio portatore di fatti è c’è un secondo linguaggio che dice “no”: alla discorsività instaurata, alla costruzione di un (solo) senso»37, ed è il suggerimento dello psicoanalista ad essere preso alla lettera:

Zeno […] ha recitato con dimessa abilità la sua parte, arrivando a tremare e piangere di commozione man mano che procedeva nel suo racconto e che, a forza di produrlo, finiva col crederci. Gli aneddoti che ha raccontato – “veri” o “falsi” che siano – si sono trasformati in fatti incontestabili della sua vita, a cui sarebbe singolare che lui, per primo, si rifiutasse di prestare fede»38.

Un narratore che manipola la diagnosi nel suo territorio consueto e il medico, che “azzera” la deontologia e pubblica la sua opera per vendetta. Zeno fallisce e trionfa nel fallire. È un personaggio in contraddizione con la realtà e con se stesso, che appunto, è in grado di nascondere la finzione, mentendo e proclamando la sua coscienza intermittente:

Il dottore presta una fede troppo grande anche a quelle mie benedette confessioni che non vuole restituirmi perché le riveda. […] Una confessione in iscritto è sempre menzognera. Con ogni nostra parola toscana noi mentiamo! Se egli sapesse come raccontiamo con predilezione tutte le cose per le quali abbiamo pronta la frase e come evitiamo quelle che ci obbligherebbero di ricorrere al vocabolario! È proprio così che scegliamo dalla nostra vita gli episodi da notarsi39.

Il limbo memoriale si accompagna alla minuziosa e dettagliata patologia di ordine conoscitivo, offerta come gioco velenoso, come malattia e spasimo ironico che chiama il lettore ad accostarsi al suo fianco per tentare di scoprire l’origine di ogni movimento, le sue anguste strade comportamentali, il grido di definitività e inafferrabilità non edificanti e ambigue:

Parla della «messa in scena della bugia nel romanzo». Nulla di più facile, se il narratore è onnisciente e se può contrapporre la sua parola vera a quella falsa di uno dei suoi personaggi. La menzogna in tal caso è precisamente localizzata e circoscritta da ciò che la contraddice e la denuncia. Il lettore dispone di una segnaletica certa: gli basta abbandonarsi alla voce narrante che detiene, per statuto, il monopolio della verità. Il bugiardo non ha modo di difendersi40.

La dualità di Zeno si esprime nelle circostanze del rapporto con la realtà, subito passivamente, con scarsa libertà di azione: il vizio del fumo e di tutti i tentativi per liberarsene, la mancata scelta universitaria, il matrimonio, contro ogni volontà, con la figlia del Malfenti, brutta e strabica, l’agonia del padre, Carla, che diventa il pretesto di avere un’amante e, infine, il rapporto ricolmo di antipatia con il cognato Guido Speier (alla sua morte, Zeno finirà persino per sbagliare funerale recandosi a quello di uno sconosciuto defunto).
Rapportandosi alla psicoanalisi, Zeno finisce non solo per sottrarvisi, interrompendo la terapia ma terminerà anche lo svelamento delle sue memorie e delle immagini, culminando in un transfert di odio verso il suo analista: «L’ho finita con la psico–analisi. Dopo di averla praticata assiduamente per sei mesi interi sto peggio di prima. Non ho ancora congedato il dottore, ma la mia risoluzione è irrevocabile. Ieri intanto gli mandai a dire ch’ero impedito, e per qualche giorno lascio che m’aspetti. Se fossi ben sicuro di saper ridere di lui senz’adirarmi, sarei anche capace di rivederlo. Ma ho paura che finirei col mettergli le mani addosso»41.
Non trova giovamento anzi sente di peggiorare. La realtà è diventata indocile, senza sbocco, inferma, come la vita malata, attributo inguaribile e inscindibile dell’uomo:

La vita somiglia un poco alla malattia come procede per crisi e lisi ed ha i giornalieri miglioramenti e peggioramenti. A differenza delle altre malattie la vita è sempre mortale. Non sopporta cure. Sarebbe come voler turare i buchi che abbiamo nel corpo credendoli delle ferite. Morremmo strangolati non appena curati. […] Qualunque sforzo di darci la salute è vano42.

È la malattia del pensiero che appare isolato a se stesso e depersonalizzante, estraniante all’esperienza con il reale, che evade la domanda di compiutezza e di destino, che gioca con la psicoanalisi, la usa come espediente, accerchiandola e lasciando predominare sempre il passo falso, l’equivoco, lo scarto, che invece di portare al dramma estremo, si apre all’umorismo, così come i continui propositi e l’esigenza di significato rimandata e inutilmente ricominciata. Egli diventa il personaggio che «concresce su se stesso, che si fa nel corso del romanzo […]. Si potrebbe anzi arrivare a dire che Zeno non è propriamente un personaggio, ma uno spazio narrativo che si apre tra l’io raccontato e l’io che racconta e giudica, e che viene colmato dall’autoanalisi degli stati di coscienza»43:

Sul frontispizio di un vocabolario trovo questa mia registrazione fatta con bella scrittura e qualche ornato: «Oggi, 2 Febbraio 1886, passo dagli studii di legge a quelli di chimica. Ultima sigaretta!!». Era un’ultima sigaretta molto importante. Ricordo tutte le speranze che l’accompagnarono. […] Quell’ultima sigaretta significava proprio il desiderio di attività (anche manuale) e di sereno pensiero sobrio e sodo. […] Penso che la sigaretta abbia un gusto più intenso quand’è l’ultima. Anche le altre hanno un loro gusto speciale, ma meno intenso. L’ultima acquista il suo sapore dal sentimento della vittoria su sé stesso e la speranza di un prossimo futuro di forza e di salute. Le altre hanno la loro importanza perché accendendole si protesta la propria libertà e il futuro di forza e di salute permane, ma va un po’ più lontano44.

Commenta Gino Tellini:

Peccatore non redento né pentito ma consapevole; uomo di negozio capzioso e sofistico, abulico e irresoluto, ma diplomaticamente fornito di buon senso; vizioso impavido ma lucido e perciò non presuntuoso né velleitario, Zeno rinuncia a ciò che non può ottenere, scansa gli ostacoli e «gli angoli contundenti» che non mancano sul suo cammino, si guarda e si amministra con ironia, con stupefacente sentimento dell’imprevedibile provvisorietà dell’esistere, con quel sorriso metodico che è luce dell’intelletto, ora arioso ora umoristico, ora doloroso e corrosivo45.

Dentro questo motore, come i «cinquantaquattro muscoli» che sorprendono Zeno dinanzi al suo claudicante compagno di scuola Tullio, si gioca la partita tra il dato della realtà e l’esperienza, nella schizofrenica patologia conoscitiva dei particolari, nello smarrimento della somma dei fattori che costituiscono le cose e, infine, nello scontro tra volontà che è figlia di continui lapsus, di atti mancati e di ironia instabile:

Sono decine i lapsus e gli atti mancati che attraversano l’universo di Zeno e che rendono inaffidabili le sue parole: la psicoanalisi è servita per sfrattarlo dal suo discorso ed egli non è più – in modo conforme ai disegni di Freud – “padrone in casa propria”. Ma nessuno di fronte alle sue “memorie” – nemmeno la psicoanalisi – possiede le chiavi per entrare in quella casa. Pagina dopo pagina, ci si trova costretti a non sapere niente altro che quanto Zeno ha raccontato; magari a sospettare e a sapere con quasi certezza che Zeno ha mentito, senza tuttavia avere nulla da sostituire a quella menzogna […] La sua storia può essere del tutto inventata46.

L’Io diventa straniero a stesso in un meccanismo di impulsi, di «vogliuzze». Zeno-Xenos è determinato da un inciampo inerte, che solo nella malattia, riesce a sperimentare la natura di se stesso, per «difendersi dal dato, difendersi dal proprio desiderio»47:

[…] veramente Zeno inciampa nelle cose. Ma fu già riconosciuto che abbandonando Zeno dopo di averlo visto muoversi si ha l’impressione evidente del carattere effimero e inconsistente della nostra volontà e dei nostri desideri. Ed è il destino di tutti gli uomini d’ingannare se stessi sulla natura della propria preferenza per ottenere il dolore dei disinganni che la vita apporta a tutti.

Robbe-Grillet, ne La Conscience malade de Zeno (1954), scrive:

Il tempo di Zeno è un tempo malato. […] Quando pronuncia una frase in una conversazione, per quanto semplice sia, nello stesso istante si sforza di ricordarsi un’altra frase, che ha detto un po’ di tempo prima. Se ha a disposizione solo cinque minuti per compiere un’azione importante, li perde a calcolare che ne avrebbe avuto bisogno di più per condurla a buon fine. Decide di smettere di fumare, perché il tabacco è la causa di tutti i suoi mali; e subito il suo tempo viene diviso e divorato dalle date successive e sempre rinviate dell’ “ultima sigaretta”48.

Vita, salute, malattia, analisi, cura, scrittura, divengono le tappe di una formidabile tensione che tenta l’ultimo congedo dai suoi frammenti, con una grandiosa e cupa visione finale che rovescia l’autoanalisi dell’individuo borghese verso l’apocalisse distruttiva dell’intero genere umano, descritta attraverso un umorismo escatologico:

Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po’ più ammalato, ruberà tale esplosivo e s’arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie49.

L’immagine partita dal paradosso, ritorna a Darwin, a Freud (la lotta tra autocoscienza e desiderio), ai rapporti tra l’incorreggibilità sostanziale del genere umano e la crescita potenziale e progressiva della tecnologia e dei suoi strumenti.
Ecco Svevo cosa scrive ad Eugenio Montale, il 17 febbraio 1926, compiendo il suo arcuato e sospeso filtro di biografia e coscienza:

Sento il bisogno di dirle che non credo che la differenza fra la Coscienza e i due romanzi precedenti debba ricercarsi nell’influenza di letteratura modernissima. Io ero molto ignorante di tale letteratura quando scrissi perché dopo l’insuccesso di Senilità io proprio m’interdissi la letteratura. Usai persino dell’accortezza per impedirmi di ricascarci: studiai il violino e gli dedicai per vent’anni tutto il tempo che avevo libero. Lessi molti romanzi italiani e dei francesi gli scrittori maggiori della mia epoca. So l’inglese ma non abbastanza per leggere facilmente l’Ulisse che sto leggendo lentamente ora con l’aiuto di un amico. In quanto al Proust, m’affrettai a conoscerlo quando l’anno scorso il Larbaud mi disse che leggendo Senilità (ch’egli come Lei predilige) si pensa a quello scrittore». E ancora: «È vero che la Coscienza è tutt’altra cosa dai romanzi precedenti. Ma pensi ch’è un’autobiografia e non la mia. Molto meno di Senilità. Ci misi tre anni a scriverlo nei miei ritagli di tempo. E procedetti così: Quand’ero lasciato solo cercavo di convincermi d’essere io stesso Zeno. Camminavo come lui, come lui fumavo, e cacciavo nel mio passato tutte le sue avventure che possono somigliare alle mie solo perché la rievocazione di una propria avventura è una ricostruzione che facilmente diventa una costruzione nuova del tutto quando si riesce a porla in un’atmosfera nuova. E non perde perciò il sapore e il valore del ricordo, e neppure la sua mestizia. […] Sapevo la difficoltà di far parlare il mio eroe direttamente al lettore in prima persona ma non la credevo insormontabile. Necessariamente tale sforzo doveva rendere questo romanzo differente dagli altri. […] Certo se avessi la fortuna di vivere sì a lungo da poter scrivere qualche cosa d’altro, io non m’imbarcherei più in una simile avventura. Ci vuole altra abilità della mia ed io so di uno o due punti dove la bocca di Zeno fu sostituita dalla mia e grida e stuona (Lettera a Montale, 17 febbraio 1926).

Il dialogo degli “eroi” sveviani si dipana oltre la zona sotterranea dell’inconscio, non è possibile recuperare la disaggregata sperdutezza e vastità del passato “vuoto”, tutto è conclamato in «un inesorabile, perpendicolare presente che crolla come una tromba d’aria in un passato senza recupero. Un presente pratico, che […] bisognerebbe colmar di vita efficiente, di attività produttiva», ma che essi «colmano di uno sterile almanaccare e frattanto esso è già perduto, è divenuto un inutile passato vuoto di veri contenuti […]: un passato dunque irrecuperabile perché non contiene nulla di concreto»50, perché sostiene Mario Lavagetto:

È proprio questa “epica primitiva” […] che sembra essere sfuggita a Zeno come a Ulrich; sono proprio quest’ordine e questo modello, questo tempo posseduto, suddiviso, recintato da mura, ad andare in pezzi all’inizio del secolo, in singolare sintonia con la scoperta, da parte di Freud, di un universo (l’inconscio) dove il tempo non esiste e dove la cronologia non rappresenta il principio più elementare, più arcaico e più affidabile di organizzazione. Se riportato al romanzo del Novecento, il grande saggio che Walter Benjamin […] dedica nel 1936 alla figura del narratore, è quasi una commemorazione: quel narratore – il cui «talento naturale consiste nel potere raccontare la propria storia» e la cui «dignità è nel poterla raccontare tutta intera» – è definitivamente scomparso. Tra le righe del suo terzo romanzo, Svevo ne ha raccontato la morte.52

Quella stessa malattia mortale, che stringe il segno dell’umanità senza significato, ha un sobbalzo che mina l’infermità sospesa, il cielo basso della vita inconsistente che cerca un appiglio solo quando si ripiega o si anima in una tensione infranta: è lo schiaffo del padre a Zeno che vuole ridestarlo dal torpore del sogno, per fissare un punto esatto del cielo che risplende:

Durante la notte che seguì, ebbi per l’ultima volta il terrore di veder risorgere quella coscienza ch’io tanto temevo. Egli s’era seduto sulla poltrona accanto alla finestra e guardava traverso i vetri, nella notte chiara, il cielo tutto stellato. La sua respirazione era sempre affannosa, ma non sembrava ch’egli ne soffrisse assorto com’era a guardare in alto. Forse a causa della respirazione, pareva che la sua testa facesse dei cenni di consenso. Pensai con spavento: «Ecco ch’egli si dedica ai problemi che sempre evitò». Cercai di scoprire il punto esatto del cielo ch’egli fissava. Egli guardava, sempre eretto sul busto, con lo sforzo di chi spia traverso un pertugio situato troppo in alto. Mi parve guardasse le Pleiadi. Forse in tutta la sua vita egli non aveva guardato sì a lungo tanto lontano. Improvvisamente si volse a me, sempre restando eretto sul busto: – Guarda! Guarda! – mi disse con un aspetto severo di ammonizione. Tornò subito a fissare il cielo e indi si volse di nuovo a me: – Hai visto? Hai visto? Tentò di ritornare alle stelle, ma non potè: si abbandonò esausto sullo schienale della poltrona e quando io gli domandai che cosa avesse voluto mostrarmi, egli non m’intese né ricordò di aver visto e di aver voluto ch’io vedessi. La parola che aveva tanto cercata per consegnarmela, gli era sfuggita per sempre 52.

Commenta Costantino Esposito:

Zeno avverte che il padre stava come per dirgli una parola a lungo cercata, la parola decisiva, ma subito conclude – forse con la fretta di chi ritiene impossibile attendersi ancora qualcosa di inedito – che si è trattata di un’altra occasione persa, e che quella parola non potrà più essere pronunciata. Tuttavia – ecco il punto tragico – ancora una volta egli non vede: la parola il padre gliel’ha detta, eccome. La parola era lo stesso invito: «Guarda!». […] Il richiamo del padre è […] il richiamo alla stessa realtà. L’ultima parola è «guarda!»: non guardare me, ma guarda le Pleiadi, renditi conto che c’è qualcosa, che ti è dato e chiede di te53.

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1 SVEVO I., Tutte le opere, edizione diretta da Mario Lavagetto, vol. II, Racconti scritti e autobiografici, Edizione critica con apparato genetico e commento di Clotilde Bertoni, saggio introduttivo e cronologia di Mario Lavagetto, Collana “I Meridiani”, Arnoldo Mondadori editore, Milano 2004.

2 Cfr. FUSCO M., Italo Svevo. Conscience et réalitè, Gallimard, Paris 1973.
3 TELLINI G., Svevo, Salerno editrice, Roma 2013, p.67.
4 SARTRE J.P., L’antisemitismo. Riflessioni sulla questione ebraica, trad.it. di WEISS I., Edizioni di Comunità, Milano 1960, p.68.
5 Nel Diario per la fidanzata, 12.01.1896, I. SVEVO scrive: «L’indifferenza per la vita è l’essenza della mia vita intellettuale», in ID., Opere, cit., III, pp.772-773.
6 ID., Lettera alla moglie, 6 giugno 1900, in ID., Epistolario, I.
7 ID., Lettera alla moglie, 17 maggio 1898, in ID, Epistolario, I, pp.90-91.
8 MAXIA S., Lettura di Svevo, Liviana, Padova 1965, pp. 113 sgg., in BARONI G., introduzione a Italo Svevo. «Quella mia certa assenza continua ch’è il mio destino», Colloqui Fiorentini, Firenze 2006, p.8.
9 BATTAGLINI I., Il sentimento di inettitudine «il mondo delle passioni tristi». Lezioni di Epochè. Scuola di Psicoterapia Erich Fromm di Prato, 21 febbraio 2016.
10 CASPANI A., L’inetto: storia di un testo imprevedibile, in Italo Svevo. «Quella mia certa assenza continua ch’è il mio destino», Colloqui Fiorentini, Firenze 2006, p.42.
11 SVEVO I., Una vita, in Tutte le Opere, Edizione diretta da Mario Lavagetto, vol. I, Romanzi e “continuazioni”, edizione critica con apparato genetico e commento di Nunzia Palmieri; saggio introduttivo e Cronologia di Mario Lavagetto, Cap. IV.
12 SVEVO I., Una vita, in ID., Tutte le opere, edizione diretta da Mario Lavagetto, Edizione critica con apparato genetico e commento di Clotilde Bertoni, saggio introduttivo e cronologia di Mario Lavagetto, Collana “I Meridiani”, Arnoldo Mondadori editore, Milano 2004, p.17.
13 Cfr. TELLINI G., Il personaggio suicida, in ID., Il romanzo italiano dell’Ottocento e Novecento, Bruno Mondadori, Milano 1998, pp.277-280.
14 ID., Svevo, p.101.
15 SVEVO I., Una vita, p.395.
16 TELLINI G., Svevo, cit., pp.102-103.
17 SVEVO I., Senilità, in ID., Tutte le opere, edizione diretta da Mario Lavagetto, Edizione critica con apparato genetico e commento di Clotilde Bertoni, saggio introduttivo e cronologia di Mario Lavagetto, Collana “I Meridiani”, Arnoldo Mondadori editore, Milano 2004, p.403.
18 ID., cit., p.410.
19 ID., cit., p.404.
20 ID., cit., p.403.
21 ID., cit., p.403.
22 FIGHERA G., Il senso di inettitudine e deliri di onnipotenza tra Ottocento e Novecento (http://www.giovannifighera.it/novecento/il-senso-di-inettitudine-e-deliri-di-onnipotenza-tra-ottocento-e-novecento/pagina-2).
23 SVEVO I., cit., p.429.
24 ID., cit., p.429.
25 DI NUNZIO N., La differenza tra il concetto di inettitudine e il concetto di senilità nell’opera di Italo Svevo
(https://weblearn.ox.ac.uk/access/content/user/5076/ATTI/DI%20NUNZIO.pdf).
26 ID., cit., p.615-616.
27 TELLINI G., Svevo, cit., p.124.
28 Cfr. SVEVO I., Soggiorno londinese, in PAZZAGLIA M., Letteratura italiana, Bologna, Zanichelli, 1992, vol. 4.
29 TELLINI G., I romanzi: i tre volti dell’inetto, in Italo Svevo. «Quella mia certa assenza continua ch’è il mio destino», Colloqui Fiorentini, Firenze 2006, p.69.
30 Cfr. KEZICH T., Sorpresa a Trieste: Svevo ha cambiato psicoanalista, in “Corriere della Sera”, 2 marzo 1993.
31 GIOANOLA E., Un killer dolcissimo. Indagine psicanalitica sull’opera di Italo Svevo, Mursia, Milano 1995, p. 285.
32 Cfr. DEBENEDETTI G.., L’ultimo Svevo, in Saggi critici II, Il Saggiatore, Milano 1971, pp. 81-90.
33 PANELLA G., Le immagini delle parole. La scrittura alla prova della sua rappresentazione, Clinamen, Firenze 2013, p.336.
34 GIOANOLA E., cit., p.285-286.
35 SVEVO I., La coscienza di Zeno, a cura di B.Stasi, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2008, p.3..
36 Cfr. LAVAGETTO M., La cicatrice di Montaigne. Sulla bugia in letteratura, Einaudi, Torino 1992.
37 CONTINI G., Il romanzo inevitabile. Temi e tecniche narrative della Coscienza di Zeno, Mondadori, Milano 1983, pp. 124-125.
38 LAVAGETTO M., cit. p.181.
39 SVEVO I., La coscienza di Zeno, cit., p.5-6.
40 LAVAGETTO M., La cicatrice di Montaigne, cit., p.187-188.
41 SVEVO I., La coscienza di Zeno, cit., p.385.
42 ID., cit., p.416-417.
43 MAXIA S., cit., p.142.
44 SVEVO I., Il fumo, da La coscienza di Zeno.
45 TELLINI G., I romanzi: i tre volti dell’inetto, cit., p.74.
46 LAVAGETTO M., p.190.
47 ESPOSITO C., «Quella mia certa assenza continua ch’è il mio destino», in Colloqui Fiorentini, Firenze 2006, p. 92.
48 ROBBE-GRILLET A., Il nouveau roman, Sugar, Milano 1965, p. 105.
49 SVEVO I., La coscienza di Zeno (1923), a cura di Mario Lavagetto, Torino, Einaudi, 1987, pp. 441-442.
50 DEBENEDETTI G., Il romanzo del Novecento, Garzanti, Milano 1971, pp. 540-541.
51 Cfr. LAVAGETTO M., Il romanzo oltre la fine del mondo, in Svevo I., Romanzi e «Continuazioni», Milano, I Meridiani, Mondadori, pp. XIV-XC.
52 SVEVO I, La morte di mio padre, da La coscienza di Zeno.
53 ESPOSITO C., cit., pp.93-94.

Bibliografia essenziale

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BARONI G., introduzione a Italo Svevo. «Quella mia certa assenza continua ch’è il mio destino», Colloqui Fiorentini, Firenze 2006.
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VITTORINI F., Guida a La coscienza di Zeno, Carocci, Roma 2003.

I collegamenti tra Erich Fromm e Alice Miller

di Marco Bacciagaluppi 18 ottobre 2015

leggi in pdf I collegamenti tra Erich Fromm e Alice Miller

Questa è la traduzione italiana, fatta dall’autore, di un articolo pubblicato in inglese su Fromm Forum. La pubblicazione della traduzione italiana avviene col permesso del Direttore di Fromm Forum, Rainer Funk. Il copyright della traduzione è dell’autore.

ImmagineAlice Miller era una psicoterapeuta svizzera. Quando morì, il 12 aprile 2010, scrissi una commemorazione in inglese che venne pubblicata su Academy Forum (Bacciagaluppi, 2010). Ora vorrei indicare dei collegamenti tra lei ed Erich Fromm. Entrambi erano autori molto vitali e creativi; entrambi avevano una formazione nelle scienze umane (Fromm in sociologia, la Miller in filosofia); entrambi passarono dalla psicoanalisi freudiana ad una sua contestazione; infine, entrambi si sono occupati di Hitler ed altri capi nazisti. Il primo libro della Miller, Il dramma del bambino dotato, venne pubblicato nel 1979, prima della morte di Fromm nel 1980. Tutti gli altri suoi libri vennero pubblicato successivamente, quindi Fromm non conosceva la sua opera. La Miller, invece, fa riferimento al libro di Fromm del 1973, Anatomia della distruttività umana, nel suo secondo libro, La persecuzione del bambino, dove, nel capitolo su Hitler, cita la definizione che Fromm dà di Hitler come di “una bestia necrofila”. Già all’inizio del capitolo aveva citato Fromm, quando dice che l’essere umano e la bestia non si escludono. Da allora la Miller non ha più citato Fromm. In ciò che segue farò notare altri collegamenti impliciti tra di loro. Questo articolo è un omaggio a due autori che mi sono cari. Nella bibliografia sono elencate tutte le opere della Miller in ordine cronologico. Cito la data dell’edizione originale tedesca, seguita dal titolo e dalla data della traduzione italiana.

La Miller, di professione psicoanalista, si mise ad esprimere la sua creatività nel 1973 con la pittura. Nei suoi dipinti mostrava la verità e la sofferenza della sua infanzia. Un saggio di questa sua attività artistica, con la riproduzione di 66 acquerelli, venne pubblicato nel 1985 col titolo Bilder einer Kindheit (Quadri di un’infanzia). Cinque anni dopo l’inizio della pittura cominciò a scrivere i suoi libri. Nel quarto capitolo del suo terzo libro, Il bambino inascoltato, affermò che le esperienze traumatiche della prima infanzia trovano spesso espressione nelle opere creative di pittori e di scrittori, che poi esaminò in molti altri suoi libri.

Per quanto riguarda il suo allontanamento dalla psicoanalisi freudiana, esso risulta molto evidente dal confronto tra le due edizioni del Dramma. Nella prima edizione, nel titolo del primo saggio parla del disturbo narcisistico dello psicoanalista. Nella seconda edizione, apparsa in Germania nel 1997, parla invece di come si diventa psicoterapeuti. Nella prima edizione dice che i suoi assunti di base sono vicini al lavoro di D.W. Winnicott, di Margaret Mahler e di Heinz Kohut. Nella seconda edizione questi nomi scompaiono. La Miller nomina Winnicott una sola volta, benché rimanga un riferimento implicito a lui nel “vero sé” del titolo inglese del libro. Nella prefazione di La persecuzione del bambino parla della sua seconda analista, Gertrude Boller-Schwing, poi non la nomina più.

Dopo i suoi primi due libri la Miller smise di vedere pazienti e si dedicò a scrivere. Dopo il suo terzo libro, nel 1983 fece una terapia con Konrad Stettbacher, uno psicoterapeuta svizzero, al quale poi rimase sempre grata. Nella sua premessa al libro di Stettbacher, Wenn Leiden einen Sinn haben soll (Se il dolore deve avere un significato), rende omaggio al suo metodo graduale di “un passo alla volta”.

Nel 1988 la Miller si dimise dall’IPA e non volle più essere chiamata psicoanalista. Di conseguenza, gli ortodossi reagirono costruendo attorno a lei il muro del silenzio (che compare nel titolo tedesco del suo settimo libro, tradotto in italiano come La fiducia tradita), così come avevano fatto con altri eretici come Ferenczi e Fromm.

Il suo interesse costante fu rivolto ai traumi infantili, dovuti sia all’incuria che agli abusi. Specialmente in La rivolta del corpo, la Miller fece notare che il corpo manifesta sintomi se il trauma viene esaminato a livello soltanto intellettuale e non anche a quello emotivo.

Un’altra conseguenza della negazione del trauma è la distruttività, trattata da Fromm in Anatomia della distruttività umana, dove in particolare esamina Hitler. La Miller descrive questa situazione ripetutamente nel caso di Hitler, trattato in cinque dei suoi libri (La persecuzione del bambino, Il bambino inascoltato, La chiave accantonata, L’infanzia rimossa, e nel suo ultimo libro, Riprendersi la vita), ma nominato anche in tutti gli altri. Nell’ultimo libro afferma che i seguaci di Hitler erano vittime della loro educazione, ossia che condividevano la medesima struttura caratteriale. Questo è il concetto di Fromm del carattere sociale (Fromm, 1941), secondo il quale la società, attraverso la famiglia, crea nei bambini la struttura di carattere adatta al perpetuarsi della società stessa. In La persecuzione del bambino, la Miller esamina anche altri capi nazisti: Eichmann, Goering, Hess, Himmler e Höss. Fa notare che per tutta la vita essi eseguirono gli ordini senza mai metterne in discussione il contenuto.

Vi sono altri punti di convergenza con Fromm. Fromm tratta di questi argomenti in varie parti della sua opera, e li ricapitola quasi tutti in Anatomia della distruttività umana. Nel Dramma la Miller critica “l’adorazione della normalità”. Nel suo secondo libro, La persecuzione del bambino, nella prefazione all’edizione britannica essa condivide con Fromm la preoccupazione per la guerra atomica, e più avanti critica l’obbedienza come “principio supremo”, così come Fromm nel suo libro postumo su questo argomento (Fromm, 1981). In questo libro essa contesta la pedagogia, non soltanto quella apertamente traumatica del padre di Schreber, vissuta da Schreber in maniera delirante, ma l’idea stessa di pedagogia. Essa sostiene che la pedagogia va incontro ai bisogni dei genitori, non a quelli dei bambini. Tra i bisogni dei genitori essa elenca la “paura della libertà”, che è il titolo dell’edizione britannica del primo libro di Fromm, Fuga dalla libertà (Fromm, 1941). La critica della pedagogia, da parte della Miller, vista come il tentativo degli adulti di estirpare il “male” dai bambini, ricorda la critica da parte di Fromm, in Il linguaggio dimenticato (Fromm, 1951), della visione “agostiniana” di Freud del bambino come piccolo peccatore, spinto da impulsi sessuali ed aggressivi. In La persecuzione del bambino la Miller parla dell’unità narcisistica e simbiotica tra il Führer ed il popolo. Qui, di nuovo, adopera termini spesso usati da Fromm. In Il bambino inascoltato, e in molti altri passi, la Miller parla del potere degli adulti sui bambini, così come Fromm distingue tra “potere su” e “potere di”. Infine, sia Fromm che la Miller si sono occupati delle fiabe, dei sogni e dei miti, ed in particolare di quello di Edipo, Fromm in Il linguaggio dimenticato, e la Miller in Il bambino inascoltato.

Per quanto riguarda i sintomi somatici, in L’infanzia rimossa la Miller esamina due casi estremi: Galileo, che divenne cieco dopo che la Chiesa lo obbligò a rinnegare la verità, e Freud, che manifestò un cancro alla mascella dopo avere rinnegato la teoria della seduzione nel 1897. Bowlby definì questo cambiamento di opinione un “voltafaccia disastroso, in “La violenza nella famiglia”, un articolo del 1983, poi ristampato in Una base sicura, in cui si occupò degli abusi fisici, piuttosto che di quelli sessuali, dopo avere ammesso di avere in precedenza trascurato questo argomento. L’abbandono della teoria della seduzione è anche l’argomento del libro di Masson del 1984, Assalto alla verità. Questa mossa di Freud, da lui annunciata a Fliess nella lettera del 21 settembre 1897, era stata preceduta da due avvenimenti: nel 1896 era morto suo padre, ed in una lettera precedente a Fliess, dell’8 febbraio 1897, Freud aveva parlato della “perversione” di suo padre manifestata nell’abuso sessuale dei suoi figli. Quindi, Freud negò i traumi nelle sue pazienti e li sostituì con le loro fantasie, allo scopo di negare i propri traumi e di proteggere la buona fama del padre. Egli poi impose questa visione a molte generazioni di psicoanalisti. La corrispondenza tra Freud e Fliess era già stata pubblicata nel 1985 quando la Miller scrisse il suo libro nel 1988. Probabilmente non ne era a conoscenza, altrimenti l’avrebbe certamente citata. Essa aveva già trattato più brevemente dell’abbandono della teoria della seduzione da parte di Freud in La persecuzione del bambino.

La manifestazione di gravi sintomi somatici è un concetto della Miller che può essere molto pertinente a Fromm. Nell’introduzione al loro recente libro su Fromm, Funk e McLaughlin (2015) parlano di certi “limiti” di Fromm. Nella sua biografia di Fromm del 1983, Funk riferisce che, quando Fromm ebbe due episodi di tubercolosi negli anni Trenta, Groddeck, il fondatore della medicina psicosomatica, affermò molto decisamente che ciò era dovuto alla difficoltà che Fromm aveva a separarsi da Frieda Reichmann. Questo è molto plausibile, ma solleva il problema del perché Fromm abbia dovuto esprimere questa difficoltà in termini somatici. Qui la Miller è molto pertinente, quando dice che è essenziale raggiungere le emozioni del bambino nell’adulto. Ad un livello intellettuale adulto, Fromm era ben consapevole del fatto che aveva avuto una madre fortemente depressa (Funk, 1983, p. 21) ed un padre ansioso, e che entrambi avevano cercato di tenerlo legato a loro. A livello adulto, e con l’aiuto di modelli alternativi, Fromm si liberò. Tuttavia, se manifestò dei sintomi somatici, ciò significa che non era in contatto con le emozioni del bambino dentro di sé. Frieda Reichmann aveva 10 anni più di lui e, prima di diventare la sua prima moglie, era stata la sua prima analista. Essa era ovviamente una figura materna per lui. La separazione reale da Frieda Reichmann riattivava in Fromm la separazione emotiva dalla madre depressa. La separazione prolungata, come dimostra Bowlby (1973), porta alla rabbia della disperazione. Le emozioni di Fromm da bambino devono essere state, dapprima la rabbia verso la madre depressa, e poi la rabbia verso entrambi i genitori per ciò che Bowlby (1973) chiama l’inversione del rapporto genitore-bambino, che porta ad una duplice frustrazione dei bisogni di base: dapprima il bisogno di un attaccamento sicuro, e poi il bisogno dell’autonomia. Tale rabbia, ritorta su di sé, ha dato origine in Fromm ai sintomi somatici. Beninteso, la tubercolosi comporta la presenza del bacillo di Koch. La componente psicologica consiste nell’indebolimento del sistema immunitario. Fromm stesso, quindi, può essere stato vittima di ciò che egli chiamava “cerebralizzazione”. Come giustamente dice il titolo della traduzione inglese di La rivolta del corpo, The Body Never Lies (il corpo non mente mai). A questo proposito, è pertinente ciò che la Miller dice in Il bambino inascoltato della tubercolosi di Kafka.

Ferenczi, il quale, dopo avere riscoperto il trauma, venne scomunicato dagli ortodossi, e morì a 59 anni di anemia perniciosa, è un altro esempio, più estremo. Non a caso, in La persecuzione del bambino, e da altre parti, la Miller usa l’espressione “identificazione con l’aggressore”, dapprima usata da Ferenczi. Essa mostra la sua affinità con Ferenczi anche nel rivolgersi costantemente al bambino nell’adulto. Eppure, lo nomina brevemente soltanto in L’infanzia rimossa, mentre Fromm lo difese strenuamente a due riprese, sia prima che dopo la guerra.

Un’altra cosa che manca alla Miller, in confronto a Fromm, è la dimensione temporale della preistoria, con la sua dialettica tra evoluzione biologica ed evoluzione culturale. Essa attribuisce le esperienze traumatiche dell’infanzia all’osservanza del Quarto (che per molti è il Quinto) Comandamento di onorare i genitori. Ciò può essere vero, ma risale soltanto alla cultura patriarcale dell’Antico Testamento. La Miller non contrappone questa cultura a quella matriarcale, precedente, e ben più antica, come fece invece Fromm, quando nel 1934, in un saggio ristampato nel 1970, trattò di Bachofen, che per primo, nel 1861, descrisse la cultura matriarcale. Eppure la Miller stessa, come Ferenczi, Fromm e Bowlby, appartiene alla cultura matriarcale innata. La cultura patriarcale è troppo recente per essere entrata nel nostro genoma, è soltanto un’espressione dell’evoluzione culturale, e ad ogni generazione si deve imporre con la socializzazione violenta e traumatica dei bambini. Con i suoi riferimenti a Marx e Bachofen, Fromm rivela le radici storiche e preistoriche della nostra società alienata, e verso la fine della sua vita, in Anatomia della distruttività umana, si è impadronito dell’etologia e dell’evoluzionismo, così come ha fatto Bowlby per costruire la teoria dell’attaccamento.

In conclusione, si possono vedere Erich Fromm e Alice Miller come complementari. Il contributo principale della Miller consiste nel rilievo dato alle esperienze traumatiche dell’infanzia, mentre Fromm fornisce il contesto più ampio, preistorico ed evoluzionistico, nel quale porre queste osservazioni.

Bibliografia

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Fromm, E. (1981). On Disobedience and other essays. New York: The Seabury Press. Trad. it.: La disobbedienza e altri saggi. Milano: Mondadori, 1982.
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Funk R. & McLaughlin (Eds.) (2015). Towards a Human Science. The Relevance of Erich Fromm for Today. Giessen: Psychosozial-Verlag.
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Stettbacher, J.K. (1990). Wenn Leiden einen Sinn haben soll. Die heilende Begegnung mit der eigenen Geschichte. Hamburg: Hoffmann und Campe.

Open Day 23 settembre 2015, Perchè diventare psicoanalisti oggi?

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Perché diventare psicoanalisti? Una intervista agli Allievi della Scuola di Specializzazione Erich Fromm lo spiega con un invito all’Open Day
di Sara Ginanneschi

Durante le giornate Open la SPEF, apre le porte ai professionisti per presentare il modello teorico, le tecniche utilizzate, le modalità con cui la psicoanalisi di Erich Fromm trova attuazione ai giorni d’oggi.
Le parole” Psicoanalisi” e “Pratica”, “Tecnica”, o tantomeno “Scienza” non si trovano spesso nella stessa frase! Perché la Scuola di Specializzazione Erich Fromm sarebbe diversa?
Gli incontri di Settembre ed Ottobre, si sono focalizzati sull’illustrazione della triade dei gruppi sul quale l’identità della SPEF si fonda e si sostanzia: i gruppi psicodinamici, lo Psicodramma e i gruppi alla Balint.
Oltre alle lezioni teoriche frontali, fondamentali per acquisire un metodo clinico e scientifico, “gli studenti avvertono sempre più il desiderio di un apprendimento dove sia possibile sporcarsi le mani per imparare l’arte del mestiere” suggerisce Laura, al termine del primo anno di studi ed è andando incontro a questa esigenza che la SPEF offre tre tipi di esperienze gruppali: Gruppi di Psicodramma, Gruppi alla Balint e Gruppi Psicodinamici.
Con lo Psicodramma si acquisisce una vera e propria tecnica di intervento che, vissuta prima “sulla propria pelle” diventerà poi fondamentale strumento terapeutico, unico nel suo genere; gli allievi, alternandosi nei ruoli di paziente e di psicoterapeuta, si calano di volta in volta nei panni dell’altro, imparando ad sviluppare e controllare, l’empatia e la risonanza emotiva, fondamentale per il ruolo di psicoterapeuta che andranno a rivestire.
I gruppi alla Balint si configurano invece come momenti di supervisione e confronto alla pari con i colleghi e permettono agli psicoterapeuti in formazione di migliorare la propria professionalità con il confronto diretto con le esperienze degli altri, andando quindi ad arricchire il bagaglio individuale, con quello portato da tutto il gruppo.
I gruppi psicodinamici sono dei gruppi dove gli studenti “mettono a tema il proprio percorso e vissuto personale per guardarsi con gli occhi dell’altro e capire il proprio percorso”. Racconta Giulia al quarto anno di studi. “La scuola è un luogo dove nascono relazioni che vengono analizzate in senso psicodinamico quindi, oltre che vivere l’esperienza dall’interno si sfrutta la possibilità di analizzare la dinamica di una situazione di gruppo reale.”
Le attività di tirocinio sono strettamente supervisionate e come più volte è stato affermato dai colleghi già iscritti, questa condizione è fondamentale per porre le basi di una più completa professionalità direttamente sul campo; con la sicurezza di non essere abbandonati a se stessi e la fiducia crescente nelle proprie capacità di problem solving.
La scelta di diventare psicoanalista o psicoterapeuta deve assolutamente rispecchiare l’idea di ognuno di noi nel futuro e basarsi su una teoria che rispetti il più possibile la forma mentis originaria della persona pur restando sempre aperta a nuove integrazioni.
La SPEF ed il Polo Psicodinamiche hanno inoltre una Rivista on Line, iscritta al Tribunale di Firenze, che, oltre a offrire materiali di approfondimento scientifico è anche strumento per possibili pubblicazioni.
Abbiamo parlato di modello teorico che di Erich Fromm e dei neo-positivisti, che non va a disconoscere il Positivismo Freudiano e l’impostazione relativa alle pulsioni, ma ne rivaluta e integra il nucleo dell’individuo, non più soggetto a impulsi soltanto interni, ma anche esterni, teoria che, con nomi diversi vediamo sposare dalla maggior parte degli orientamenti psicoterapeutici attuali.
È alla luce di questa similitudine che si può affermare che anche la SPEF offre tecniche psicoanalitiche più chiaramente inquadrabili in un piano didattico; lo stesso Erich Fromm parla di regole nella terapia ed anzi, sostiene che queste andrebbero condivise anche col paziente: “con le sole parole non è mai guarito nessuno” e non è pensabile che il paziente resti passivo nella relazione. L’approccio Center to Center risponde poi al quesito circa che tipo di rapporto interpersonale si vada a creare con il paziente: centro con il centro, non Super Io del terapeuta con Io del paziente!
Perché diventare psicoanalisti dunque? Perché è un modello che gode di un’esperienza storica pur restando attuale e moderno, è supportato da studi di efficacia neurobiologici che ne attestano i risultati terapeutici e trova la sua maggiore forza nella relazione interpersonale; È fondamentale il ruolo svolto dal terapeuta nella stessa relazione: non più in una posizione oggettivistica di fronte al transfert, ma alla sua azione all’interno di un modello interpersonale.

Il mito di Facebook. Rapporti tra psicologia, dipendenza e tecnologia

XVII Congresso Mondiale di Psichiatria Dinamica, San Pietroburgo 2014

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Professor Ezio Benelli (Florence, 1947) is Chairman of the Italian Branch for the 17th World Congress of the World Association for Dynamic Psychiatry WADP – XXXth International Symposium of the German Academy for Psychoanalysis (DAP) eV; degree in psychology at the University of Padua and then in Florence who specialized in psychotherapy at the Institute of Psychotherapy HS Sullivan, is actually Psychoanalyst in neo-Freudian, interpersonal and humanistic paradigm. He is currently Director of the School of Psychotherapy Erich Fromm di Prato (recognized by the Italian Ministry of University and Research), for which he is supervisor training analyst; and Professor of Clinical Psychology and Psychoanalysis Theory and Techniques of individual and group. He is President of the International Erich Fromm Foundation, scientific and cultural institution based in Palazzo Vecchio in Florence, and director of the editorial series “L’Immaginale”, for publishing Aracne, Rome. Judge at the Court of Florence for children, and vice president of the Order of Psychologists of Tuscany Region, has now been re-elected councilor of the Order of Psychologists of Tuscany, and regional contact for the Penitentiary Psychology and Criminology. Ezio Benelli is also coordinator of the Center for Mediation and Family Resources at the Polo Psicodinamiche- Training Agency accredited by the Region of Tuscany, site in Prato.

Italian Branch
Chairman Doctor Ezio Benelli, International Foundation Erich Fromm, Florence

Abstract

The article deals the issue of new dependencies: in particular those from Internet and social networks. Having distinguished between “dependent” (dependence from substances) and “addicted” (psychological dependence), the article refers to some neuroscience researches that confirm the empirical data. Then, it is stated how psychodrama, as it is practiced at the Pole Psychodynamics of Prato in Italy, can be an effective and powerful tool also for the treatment of new dependencies and reasons of it are explained. At last, after providing a brief history about the birth of psychodrama and its inventor, J.L. Moreno, the article describes building blocks, basic steps and different ways of interaction of psychodramatic practice.

Summary

The article, first, distinguishes between the concepts and terms of English language “dependent” and “addicted”: in the first case it is an addiction to substances such as alcohol, drugs or tobacco; in the second, addiction is psychological and the subject depends on behaviors, practices and situations, it is the case of the dependence on new technologies and on Internet. Erich Fromm, in his book Escape from freedom, he highlighted how the human beings become slaves to addictions because they can not accept the emptiness, that feeling of “not being”, which lead them to give up the freedom and to isolate more and more from society. Fromm had somehow foreseen practices and effects of new dependencies, those from excessive exposure to Internet and to social networks. And then in the article it is stated that Psychodrama analytical, as is practiced at the Polo Psychodynamic of Prato in Italy, may represent an innovative approach in the treatment of addictions from new technologies. For its being a cure through the action, the dramatic action (and not just through words), for being a group therapy and for being very close to the patient’s daily life, psychodrama, more than others care systems, can achieve stable and lasting outcomes. Subsequently, the article recounts the experience, made in person by the writer in the summer 2013 at the Hotel Byron in Forte dei Marmi (Lucca) in Italy, that is the use of psychodrama in the treatment of psychological dependency. Empirical data and conclusions of this experience are similar to those which have come neuroscientific studies on new dependencies. And in the article are cited two of these studies: that one of Diana Tamir and Jason Mitchell of Harvard University and that one of Dar Meshi at the Freie Institut of Berlin. Then the discourse moves on to analyzing from a historical point of view the birth of psychodrama: its being rooted in some phenomena of the history of theatre and the human and cultural formation of its inventor, Jakob Levi Moreno, an eclectic and complex figure, which has been able to put together and summarized ideas, suggestions, contributions coming from different fields. Then briefly it is mentioned some reworkings of psychodrama practice occurred in the twentieth century and it is underlined that psychodrama has assumed over time not only a therapeutic value, but also educational and social. Finally, it is described basic components of psychodramatic practice: the four key characters (therapist, patient or protagonist, auxiliary-ego, group), the three different steps in which is subdivided the dynamics (warm-up, scene or action, return) and main modalities of interaction (the double, the mirror and the role reversal).

leggi in pdf The Myth of Facebook. Relationship between Psychology, Addiction and Technology

Non sarò io a vincere ma il discorso di cui sono servo.
J. LACAN

Per gli inglesi il termine dipendenza si traduce in due modi. Nel primo: “Dependent”, il soggetto è fisiologicamente dipendente, come avviene per sostanze quali alcool, droga, tabacco; nel secondo: “Addicted”, la dipendenza è psicologica.
Addicted viene dal latino addictio, addicere che vuol dire “rendere schiavo a causa di un debito”.
Quale debito devono pagare i nuovi “dipendenti“? O meglio: quale condizione di inferiorità li porta ad essere dipendenti?
I debiti, va da sé, hanno da sempre condizionato l’essere umano a vivere una condizione d’inferiorità rispetto al proprio debitore, il quale può essere, di volta in volta, rappresentato da una persona, un oggetto, un ideale di comportamento ecc.
Secondo Erich Fromm, il vero problema della società moderna è la mancanza di autonomia: l’uomo dipende patologicamente da un’entità considerata superiore, che lo condiziona ad essere uno schiavo; è un essere mancante che, non potendo accettare la condizione di “assenza” e condividerla con gli altri, ricerca disperatamente qualcosa che possa compensare il proprio vuoto.
Fromm è morto negli anni ’80, quando le nuove dipendenze iniziavano ad essere visibili solo negli USA, ma in questi ultimi anni il fenomeno si è diffuso rapidamente in tutte le nazioni, influenzando velocemente ogni strato sociale, dai giovani agli anziani, dai ricchi ai più poveri.
Nel suo libro Fuga dalla libertà, Fromm evidenziava come il fuggire da se stessi e dagli altri, sentirsi completamente isolati e solitari, porta alla disgregazione mentale.

La questione del “non essere”, del non sentire di avere un’identità, quindi, sfocia e si risolve nell’evasione, nella fuga dalla realtà.
Pensiamo all’isolamento dei dipendenti da internet e dai social network, pensiamo agli acquisti solitari dei compulsive buyer, al giocatore d’azzardo che incatena lo sguardo solo sul risultato del suo gioco.
Questo è quello che appare, ma se approfondiamo il “dipendere da chi e da cosa”, la realtà cambia.
Le new addictions portano le persone ad essere dipendenti da esperienze e situazioni che possono in qualche modo modificare l’umore e le sensazioni; quelle stesse esperienze e situazioni sono costantemente create e favorite dalla nostra società, in quanto sottostanno alle leggi economiche del guadagno ma, rispetto alle dipendenze da sostanze, possiedono, paradossalmente, una caratteristica: rispondono illusoriamente al bisogno profondo di essere parte di… considerati da…
Quando il dipendente accetta di curarsi, accetta anche di riconoscere l’impossibilità di essere ciò che Lacan chiamava “essere il desiderio dell’altro”1, accetta l’angoscia della sua condizione infantile e subordinata, sperimenta il buio, privo di false certezze, di chi non riceve l’approvazione necessaria per sentirsi “necessario”.
Lo Psicodramma Analitico, svolto abitualmente al Polo Psicodinamiche di Prato e praticato anche durante l’estate 2013 presso l’Hotel Byron di Forte dei Marmi, è stato da noi sperimentato anche nelle dipendenze psicologiche, offrendo un innovativo approccio per le new addictions.
Ma che cosa è lo psicodramma? E perché proprio lo psicodramma per la cura delle dipendenze da Internet?
La parola “psicodramma”, formata dal greco antico psiche, cioè anima, e drama, a sua volta proveniente dal verbo drao, draomai che vuol dire agire e rappresentare sulla scena, significa dunque “l’azione della psiche”, o se volete “il teatro della psiche”.
Si può dire che se la psicanalisi di Freud fu definita “la cura attraverso la parola”, lo psicodramma può essere definito come “la cura attraverso l’azione”, l’azione scenica e teatrale.
E con questo ho già dato una definizione di massima dello psicodramma: si tratta essenzialmente di un metodo di cura, una tecnica terapeutica, un sistema per curare i disturbi e i disagi psicologici ed emotivi. Tuttavia lo psicodramma può avere valenze ed utilità non solo terapeutiche, ma anche educative, formative, istruttive, sociali ecc.
Per rimanere nel nostro ambito, lo psicodramma è dunque un metodo di cura che si serve essenzialmente del Teatro per raggiungere i suoi scopi, cioè consiste nella messa in scena diretta, nella rappresentazione, per così dire, “dal vivo” dei conflitti e dei problemi psichici del paziente, al fine di fargli prendere consapevolezza di essi e il più possibile liberarlo dai loro effetti negativi. Nello psicodramma non si parla dei problemi del paziente, ma si agiscono quei problemi, si rappresentano, si dà vita sulla scena all’interiorità del paziente, si conferisce spazio, tempo, corpo, parola e suono reali e materiali a ciò che altrimenti rimarrebbe confinato e rinchiuso dentro la psiche del paziente. In breve: con lo psicodramma si cerca di dare il massimo di oggettività alla soggettività. Il paziente tira fuori da se stesso i suoi vissuti e, con l’aiuto del Terapeuta e del Gruppo, li mette sul palcoscenico e così li rende oggetti, cioè qualcosa fuori da sé, li pone a distanza da se stesso, cominciando quel lavoro di presa di coscienza che è l’inizio di una liberazione.
Altra caratteristica importante: lo psicodramma è una tecnica terapeutica di gruppo. Ed è già molto significativo, a mio avviso, che per combattere l’Io solitario, isolato, solipsistico, disperso, decostruito e frammentato di coloro che sono dipendenti da internet, possa essere utile quella tecnica terapeutica che è una delle più “sociali” che esista, lo psicodramma, appunto. Sociale come lo era e lo è ancora a volte il Teatro. Sociale perché lo psicodramma è possibile solo se esiste un gruppo, una comunità di persone che fa da testimone, da contenitore e da contenuto alla scena psicodrammatica.
A questo punto occorre una precisazione: il teatro che vediamo nello psicodramma non è quello che nella maggior parte dei casi vediamo sui palcoscenici dei teatri: è teatro d’improvvisazione, o se volete il teatro della spontaneità, un teatro, cioè, creato e inventato lì per lì, all’impronta. Nello psicodramma non ci sono copioni scritti da memorizzare e recitare, ma tutto succede momento per momento e tutto può cambiare da un momento all’altro: nello psicodramma si lavora su quello che emerge via via, attimo dopo attimo.
Come è noto, lo psicodramma, nella sua prima forma, è stato messo a punto da Jacob Levi Moreno, medico, psichiatra, sociologo, filosofo, studioso di matematica… una straordinaria figura che ha messo in relazione, con la sua concreta ricerca, discipline e idee diverse e lontane fra loro. Rumeno di nascita, ma proveniente da una famiglia di origine ebraica, Moreno si formò in gioventù nella Vienna di inizio Novecento, una realtà multietnica e multilinguistica, un ambito culturale e artistico vivo e vitalissimo che, si può dire, è alla base della nostra cultura contemporanea. Moreno conobbe Freud, Adler e Schnitzler. Studiò Bergson, Rousseau, Pestalozzi, Nietzsche, Kierkegaard e Marx. E in quegli anni inventò “Il Teatro della Spontaneità” e “Il Giornale Vivente”, forme di teatro di improvvisazione, in cui gli stessi spettatori venivano chiamati a partecipare alla messinscena come personaggi.
Uno dei meriti di Moreno fu anche quello di raccogliere e fare sintesi di una serie di elementi tratti dalla tradizione teatrale, per costruire la sua grande invenzione. Se si guarda, infatti, alla storia del teatro occidentale, molti sono gli elementi che hanno favorito la nascita dello psicodramma. Accenno molto brevemente qui di seguito ad alcuni:

• il concetto di catarsi, cioè l’effetto che, secondo i greci antichi e Aristotele, doveva avere la rappresentazione teatrale sugli spettatori. Catarsi vuol dire purificazione, vale a dire in sostanza la liberazione dalle passioni e dalle emozioni negative;

• il cosiddetto Teatro nel Teatro (chiamato anche Metateatro), cioè quell’artificio drammaturgico che si afferma nel teatro del Rinascimento e che consiste nel dare vita a una rappresentazione teatrale dentro un’altra rappresentazione teatrale. Così, in questa modalità, i personaggi di una commedia o di una tragedia si trovano a essere a loro volta spettatori di un’altra e diversa rappresentazione, e quindi si trovano ad identificarsi più o meno con la rappresentazione a cui assistono, un po’ come succede, appunto, al gruppo nello psicodramma. Un genere di teatro, quello del teatro nel teatro, che ha avuto molta fortuna nel corso dei secolo: pensiamo all’Amleto di Shakespeare fino ai Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello…
• la Commedia dell’Arte, con il suo essere un genere di teatro di improvvisazione, costruito su una struttura di ruoli fissi (le Maschere), può essere considerata un illustre precedente dello psicodramma;
• lo stesso sistema stanislavskijano per la recitazione, perché no? con il suo fare appello alla introspezione psicologica, alla reviviscenza delle emozioni, all’autenticità dell’arte dell’attore, può essere considerato un elemento che ha favorito la nascita dello psicodramma.

Alla metà degli anni Venti Moreno emigra negli Stati Uniti ed è là che mette a punto la sua grande intuizione: la fa diventare una tecnica tearapeutica, una scuola, un apparato teorico, una modalità di ricerca sociale, un metodo formativo ed educativo.
Nel corso del Ventesimo Secolo la tecnica psicodrammatica ha incontrato altri orientamenti e approcci teorico-pratici, dando vita a tanti e diversi modi di praticare e utilizzare l’invenzione moreniana. Particolarmente fecondo è stato l’incontro con la psicoanalisi, e soprattutto con la psicoanalisi neofreudiana che discende da Erich Fromm…

A questo punto una domanda è rimasta sullo sfondo: perché proprio lo psicodramma? Ci sono molte buone ragioni. Per non dilungarmi troppo, mi limito ad indicarne tre:

a) Perché lo psicodramma è un metodo esperienziale, che si basa, cioè, sull’esperienza, sull’azione agita e vissuta. Nello psicodramma l’insight, l’apprendimento, il progresso terapeutico possono avvenire solo se si è agito e rappresentato le dinamiche, i conflitti e i problemi del paziente. Ed è ormai risaputo che l’apprendimento e la consapevolezza attraverso il “fare” sono più durevoli e stabili di quelli attraverso semplicemente il “dire”.

b) Perché lo psicodramma è la tecnica terapeutica che più si avvicina alla cosiddetta vita reale; lo psicodramma è straordinariamente prossimo e affine alle situazioni, alle relazioni, alle dinamiche del paziente nella sua vita di ogni giorno. E quindi più facilmente e direttamente può incidere su di esse.

c) Lo psicodramma è “specchio di vita” non solo per il singolo paziente che mette in scena le sue dinamiche emotive, ma anche per tutto il gruppo partecipante, che può identificarsi in parte o del tutto con le dinamiche del singolo paziente. Il gruppo può mettere in comune esperienze, ricordi, racconti, emozioni che abbiano a che fare con quanto vissuto dal singolo paziente. O per meglio dire: il gruppo entra in risonanza emotiva con il singolo e il singolo, a sua volta, con il gruppo.

Ma torniamo al racconto di quanto abbiamo fatto nell’estate del 2013 all’Hotel Byron di Forte dei Marmi…

I partecipanti venivano sottoposti ad un test di entrata, composto dalle seguenti domande:

1. Vi ritrovate su Facebook più a lungo e più spesso di quanto previsto?
2. Avete rinunciato o ridotto il vostro coinvolgimento in attività sociali, lavorative o ricreative a causa di Facebook?
3. Avete trascurato la famiglia?

4. Avete fatto uno sforzo cosciente, ma senza successo per ridurre l’uso di Facebook?

Attraverso il test volevamo indagare su questa nuova dipendenza, non più su chi usa sostanze quali alcool, eroina o cocaina. Ciò ha creato non pochi problemi sull’efficacia dei criteri diagnostici abitualmente usati per chi fa uso di sostanze: tali criteri, infatti, sono risultati difficilmente adattabili alla dipendenza da un sito di social media.
Interessante fu vedere la trasformazione dell’ “affect facial expression” dei partecipanti quando spiegavano e raccontavano di quanto la funzione “mi piace” sui post pubblicati poteva renderli irritati e ansiosi, se non otteneva il successo auspicato, oppure appagati e soddisfatti se i post ottenevano consensi. Abbiamo notato nei soggetti che partecipavano al gruppo di studio un aumento dell’ansia al pensiero di non poter attuare il web feed.
Abbiamo notato, invece, piacere e gratificazione nei partecipanti al pensiero di parlare di se stessi, di pubblicare proprie foto e nel comunicare i propri pensieri. La nostra indagine empirica ha confermato alcuni studi fatti da ricercatori che hanno utilizzato metodi neuroscientifici.

Diana Tamir e Jason Mitchell ad Harvard,2 hanno sottoposto ad un esperimento di neuroscienze alcuni abituali utilizzatori di Facebook. In una pagina programmata hanno proposto loro tre opzioni: (1) parlare delle proprie opinioni e atteggiamenti; (2) giudicare l’atteggiamento di un’altra persona; (3) rispondere a domande frivole. Durante l’esperimento hanno misurato l’attività cerebrale dei partecipanti. Ogni scelta è stata associata ad un payoff monetario; ciò ha permesso agli scienziati di testare se gli individui sono stati sostanzialmente disposti a dare i soldi per parlare di sé.
In media, i partecipanti hanno perso una media del 17% dei potenziali guadagni per parlare di se stessi! Perché qualcuno dovrebbe rinunciare a dei soldi per fare questo? Ciò non è dissimile dal comportamento di quelle persone che rinunciano alle proprie responsabilità lavorative e familiari, a causa della dipendenza da droga e da gioco. Durante la self-disclosure, questi partecipanti hanno attivato il nucleo accumbens. Il nucleo accumbens è integrato nelle vie del sistema limbico e riceve afferenze dalla corteccia prefrontale e dai neuroni dopamminergici dell’area tegmentale ventrale (regione mediobasale del mesencefalo). Svolge un ruolo di rilievo nei circuiti di rinforzo, legati all’assunzione di sostanze d’abuso, che provocano un aumento della concentrazione di dopammina nella parte esterna del nucleo accumbens; quest’area è coinvolta anche nell’effetto e nella percezione gustativa.
In un secondo studio fatto da Dar Meshi e colleghi presso l’Istituto Freie di Berlino3 si è misurato l’attività cerebrale dei volontari mentre hanno ricevuto molti feedback positivi. La ricerca, simile allo studio di Harvard, ha anche rilevato che in alcuni individui il nucleo accumbens è diventato più attivo quando hanno ricevuto feedback gratificanti. I ricercatori inoltre hanno fatto compilare ai partecipanti un questionario che ha determinato un punteggio “Facebook intensità”, che includeva il numero di amici di Facebook e la quantità di tempo al giorno che si passa su Facebook. (Il punteggio max in questo caso era > 3 ore per giorno). Quando il tempo passato su FB era correlato con un attività piacevole e gratificante, il nucleo accumbens era intensamente più attivo. Da ciò si deduce che le due variabili, tempo passato su FB e attività gratificante, rende il nucleo accumbens intensamente più attivo.

Tutto questo dal punto di vista delle neuroscienze. Ma se riprendiamo il tema del “dipendere da chi e da che cosa”, scopriamo qualcosa di più…
Nessun dipendente da sostanze ritiene che soddisfacendo le proprie necessità sarà più integrato nella società, mentre il “nuovo dipendente”, quando eccede nel comprare, nel lavorare, nel comunicare sul web, etc., pur con un senso di disagio e di colpa per il suo comportamento, spera che “l’altro” possa riconoscerlo proprio nel suo essere come “l’altro”, anche se questo può avvenire attraverso azioni solitarie e compulsioni nascoste. Spera di essere visto diversamente da come lui stesso si vede, spera infine di essere considerato per quello che vorrebbe essere e non per quello che realmente è.
La risposta può arrivare dal computer, dagli oggetti acquistati ed ammirati dal contesto sociale, oppure dalla falsa certezza di vincere ed essere ammirati.
La differenza tra le vecchie e le nuove dipendenze, dunque, si esprime attraverso due poli: l’individuale ed il sociale. L’assunzione di sostanze deve arrecare benessere alla persona, meglio se nessuno vede; le new addictions sottendono alla realizzazione di quel sogno che ci accompagna fin dalla nascita, il già citato lacaniano “essere il desiderio dell’altro”.
Nel gioco psicodrammatico la visione diventa l’elemento fondamentale: il soggetto parlante, cioè il partecipante che esprime se stesso, guarda e viene guardato in una dimensione di verità e di riconoscimento. Il nuovo dipendente, così desideroso di una conferma sociale, si rende conto del suo “non sé”, cioè del non poter diventare qualcosa per qualcuno, attraverso comportamenti distruttivi ed alienanti.
Il gruppo diventa così il contesto nel quale è possibile analizzare le relazioni e le loro implicazioni, le dinamiche e le conseguenti reazioni.
In Francia, Kaes e Anzieu, riprendendo alcuni concetti espressi da K. Lewin e sviluppando le teorie espresse precedentemente dagli altri studiosi che si erano serviti di loro come supporto pedagogico, svolsero un accurato lavoro analitico e proseguirono l’opera di cambiamento della psicoterapia di gruppo. Essi si concentrarono sugli atteggiamenti interni più profondi, sulle istanze inconsce.

Quanto sopra descritto consente di comprendere meglio la funzione che lo psicodramma analitico esercita sui partecipanti. Lo psicodramma contiene in sé due funzioni: una sociopedagogica e l’altra analitica.
Le ragioni che promuovono questa duplicità vengono evidenziate nella collocazione spaziale e nella azione che si svolge nel setting dello psicodramma.
La tecnica utilizzata nello psicodramma è quella di Moreno, pertanto l’azione o il gioco acquistano un valore significativo all’interno della seduta analitica.
Il gioco “diretto”, ossia immediato e guidato dal terapeuta, mette in luce le pulsioni individuali del “qui e ora”, riferite a un contesto e ad una situazione già vissuta nel “là ed allora”.
Lo psicodramma diventa, quindi, il gioco del disvelamento, dove ogni partecipante si riconosce come soggetto non più nascosto, ed il gruppo, inteso come entità altra, rivela continuamente l’inganno di ognuno.
Sempre nello psicodramma avviene la messa in gioco di un accadimento o di una situazione concreta che il soggetto evidenzia durante la seduta.
Per comprendere cosa e come avviene nello psicodramma, conviene ricordare le componenti, la struttura e le modalità fondamentali della tecnica psicodrammatica. Innanzitutto quattro sono i personaggi fondamentali:

Il Direttore o Regista o Psicodrammatista o più semplicemente Terapeuta: cioè colui che conduce il gioco psicodrammatico, colui che consente ai materiali e ai vissuti emotivi dei componenti del gruppo di uscire fuori, colui che cura la messa in scena di quei contenuti emotivi e delle situazioni concrete a essi legati.

Il Paziente o Protagonista: la persona che in un determinato momento è al centro della scena psicodrammatica, la persona che racconta e descrive conflitti e problemi emotivi e di cui si mette in scena una situazione, un evento o un ricordo che è la rappresentazione concreta di quei contenuti emotivi.

L’Io ausiliario: possono essere anche più di uno e sono quei componenti del gruppo chiamati a incarnare sulla scena psicodrammatica i personaggi fondamentali della scena del Protagonista: possono impersonare di volta in volta genitori, mogli, mariti, amanti, figli, colleghi e datori di lavoro, personaggi immaginari ecc.

Il Gruppo: il resto del gruppo che assiste allo psicodramma. Ha le funzioni di testimonianza, accoglienza e sostegno delle emozioni del Protagonista; può identificarsi più o meno con la scena del Protagonista e al finale può condividere le proprie esperienze con quelle del Protagonista.

Lo psicodramma si articola e si svolge in 3 fasi successive:

Riscaldamento: in essa dapprima il Protagonista racconta e descrive liberamente il suo vissuto emotivo, poi, con l’aiuto del Terapeuta e del Gruppo individua un tema, particolarmente importante per il Protagonista, e una situazione concreta legata al tema, che sarà poi oggetto della Scena.

Scena o Azione: consiste nella rappresentazione della situazione concreta precedentemente scelta. E’ interpretata dal Protagonista nel ruolo di se stesso e dai diversi Io Ausiliari che incarnano gli altri personaggi fondamentali della scena.

Discussione o Dibattito o Restituzione: è la fase in cui si interpreta ciò che è venuto fuori in precedenza, è la fase in cui il Gruppo esprime quanto e come è stato coinvolto nella scena del Protagonista, attraverso il racconto di pensieri, emozioni, ricordi, sogni, eventi legati più o meno a quella stessa Scena.

E infine nel corso dello psicodramma possono essere utilizzate le seguenti tre modalità di azione o interazione:

Il Doppio: è quella modalità che consente a un qualunque componente del Gruppo, anche un Io Ausiliario, di dar voce e corpo a emozioni e sentimenti che il Protagonista immagina e prova e che però non riesce ad esprimere. Ha dunque una funzione di chiarificazione e di sostegno.

Lo Specchio: è quella modalità per cui, nel caso il Protagonista abbia difficoltà ad autopresentarsi, un Io Ausiliario può “imitare” lo stesso Protagonista. Egli dunque può vedersi riflesso, come in uno specchio, come gli altri lo vedono.

L’Inversione di ruolo: si può attuare quando il Protagonista è profondamente implicato in una relazione duale. Allora il Protagonista assume il ruolo, la funzione e il posto dell’Altro, si mette “nei panni dell’altro”, calandosi in una nuova realtà e scoprendo emozioni, sentimenti e punti di vista del soggetto con cui è in conflitto e in relazione.

È quasi inutile aggiungere che il tutto avviene in un clima di grande partecipazione emotiva…

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1 J. LACAN: «Il desiderio è sempre il desiderio dell’altro». In Il seminario, vol. I, in Gli scritti tecnici di Freud (1953-1954), traduzione di Giacomo Contri, Einaudi 1978).

2 D. TAMIR and J.P. MITCHELL, Disclosing information about the self is intrinsically rewarding. Department of Psychology, Harvard University, Cambridge, MA, 2012. http://www.pnas.org/content/109/21/8038.full.pdf

3 D. MESHI, C. MORAWETZ, and H. HEEKEREN: Nucleus accumbens response to gains in reputation for the self relative to gains for others predicts social media use, in: Frontiers in Human Neurosience, DOI: 10.3389/fnhum.2013.00439.

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TAMIR, D. & MITCHELL J.P., Disclosing information about the self is intrinsically rewarding. Department of Psychology, Harvard University, Cambridge, MA, 2012. PNAS (Proceedings of the National Academy of Sciences, Washington, DC 20001 USA; DOI10.1073/pnas.1202129109; PubMed ID22566617. http://www.pnas.org/content/109/21/8038.full.pdf

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Ezio Benelli, 2014 ezio.benelli@gmail.com

I contenuti di questo articolo sono parte integrante e sono pubblicati in versione tradotta sul Dynamic Psychiatry Intl. Journal, Pinel Verlag Human Psychiatrie, Berlin.
Per gentile concessione della Prof.ssa Maria Ammon, Dap, Berlino, sono stati pubblicati on line in:
Frontiera di Pagine, Prato www.polimniaprofessioni.com/rivista/ e Psicoanalisi Neofreudiana, Prato www.ifefromm.it/rivista.php

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È severamente vietata la riproduzione parziale o totale senza autorizzazione dell’autore.

Lo psicodramma psicodinamico: il volto emotivo della formazione

Baldassare PERUZZI, “Apollon et les Muses”, (1514-23), Galleria Palatina (Palazzo Pitti), Firenze

Intervista di Sara Ginanneschi, Ufficio Stampa Polo Psicodinamiche
Ai Docenti e agli Allievi della Scuola di Psicoterapia Erich Fromm
Open Day – Prato, Mercoledì 24 Giugno 2015

leggi l’intervista in pdf PSICODRAMMA OPENDAY 24.6.2015

Durante la presentazione della Scuola, Ezio Benelli, Direttore e docente e Giuseppe Rombolà Corsini, Vice-Direttore e docente, hanno presentato l’offerta formativa attraverso un excursus professionale e personale, farcito di aneddoti personali non necessariamente autocelebrativi, piuttosto sottolineando lo sforzo e la dedizione di creare un Centro di Psicoterapia che destinasse una proposta formativa all’avanguardia, pur rispettando i principi della Psicoanalisi di Erich Fromm.

Il valore aggiunto della presentazione è certamente dato dal vissuto diretto degli studenti in corso i quali hanno saputo ampiamente argomentare il loro percorso verso la psicoterapia, dove l’individuazione e l’emancipazione dal docente vengono vissute con una doppia gradualità: quella che deriva dall’apprendimento teorico e quella che si matura con un percorso emotivo personale.

Non si è mai soli; terapia personale, supervisione, gruppi…c’è sempre la possibilità di avere uno scambio; sei da solo, ma insieme al gruppo” dice il Dr. Lino Arnone, medico e specializzando presso la SPEF.
La Dr.ssa Giuditta Perri invece, riporta delle proprie esperienze durante il tirocinio e sottolinea l’importanza di aver imparato a gestire le proprie emozioni, contemporaneamente alle tecniche terapeutiche del paziente: “una formazione di questo tipo, permette che non prevalga la paura del terapeuta nel momento in cui deve essere più presente al proprio paziente”.
Poiché è da Fromm che si parte, nel documentario-intervista mostrato in sala, vediamo che l’approccio center-to-center, da uomo a uomo, è uno dei presupposti fondamentali della SPEF; il terapeuta non è il Super Io del paziente, come Rombolà Corsini sottolinea, abbiamo già avuto un padre che ci ha detto cosa fare, non abbiamo bisogno di un terapeuta che faccia lo stesso; il terapeuta è una persona che ha fatto il proprio cammino ed in quanto tale, conosce quello che il paziente sta provando e con la dovuta preparazione tecnica, lo sostiene nel suo percorso terapeutico.
Lo stesso Erich Fromm si definisce un nevrotico, cresciuto in una famiglia nevrotica con padre ossessivo e madre ambivalente: se si comportava correttamente era un Krause [nome da nubile della madre], se invece avesse avuto una condotta non consona ai precetti materni era un Fromm.
È grazie a questa esperienza “universale” di essere uomo che viene inquadrato il futuro terapeuta.

L’Open Day della SPEF ha poi esplorato brevemente i temi principali della teoria di base: l’amore, come forza che unisce tutto; la fuga dalla libertà; il tema dell’autorità.

L’esperienza formativa è esperienza in senso stretto, con attività non soltanto didattiche frontali, ma simulate di casi, role playing, tirocini, esperienze di gruppi dinamici dove, Benelli dice: “si elaborano e si esprimono i propri vissuti fino a sviluppare la capacità di cogliere i segni che l’inconscio dei futuri terapeuti manda loro durante il lavoro sul campo.” La SPEF offre Gruppi di Supervisione alla Balint, Gruppi Psicodinamici e Gruppi di Psicodramma; di quest’ultimo dopo lapresentazione della Scuola, Corsini Rombolà, con l’aiuto degli studenti al terzo e quarto anno ha “messo in scena” lo psicodramma, facendo vivere un’esperienza intensa, seppur solo come rappresentazione e non momento di terapia.
Sullo Psicodramma, la Dr.ssa Linda Gargelli, una delle persone che ha partecipato attivamente alla dimostrazione pratica dice: “Lo psicodramma psicodinamico è un processo naturale, tutti hanno in testa un dramma che necessita di diventare storia. I conflitti intrapsichici, che vengono verbalizzati nelle sedute con il proprio terapeuta, possono nella scena psicodrammatica prendere forma e sostanza. Accade così che le persone del gruppo, tramiti meccanismi proiettivi (ma non solo), possono diventare i personaggi della propria storia interiore, una madre o un padre simbolici ai quale si può dire finalmente tutto. Lo psicodramma che ho avuto la fortuna di incontrare nel mio percorso formativo, grazie ai miei maestri, il Dott. Giuseppe Rombolà Corsini e il Dott. Ezio Benelli, è un metodo per entrare in contatto con i propri nuclei emotivi in un contesto protetto e altamente contenitivo“.
Chiediamo a Irene Battaglini, CEO di Polo Psicodinamiche, qual era la sua idea formativa e come è riuscita a svilupparla:
Il mio compito è coagulare ogni giorno le energie del team di didatti, docenti e allievi affinché si raggiungano gli obiettivi formativi a breve e medio periodo. Le strategie devono contemplare traiettorie molto più estese: l’orizzonte di ciascun professionista non si esaurisce in quattro anni, e la scuola rappresenta un investimento che darà frutti lungo tutto l’arco della vita, con ricadute a cascata nella vita dei pazienti e delle loro famiglie. Dunque è una grossa responsabilità. Se gli obiettivi sono suggeriti dall’analisi della domanda, la strategia di approccio alla psicoterapia – parafrasando Nietzsche nella Gaia scienza – deve tenere accesa una fiaccola, come nel passaggio della torcia olimpica, traendo il fuoco da un incendio che fu acceso da Freud, Jung, Adler, Fromm, Ferenczi, e molti altri grandi psicoanalisti, ormai più di un secolo fa, i quali lo hanno tratto a propria volta dalla psicologia, dalla medicina, dalla filosofia, dalla letteratura, dall’arte e dalle scienze naturali. Questo non è un compito, bensì una chiamata: il mio ruolo è promuovere una strategia che contribuisca a tenere viva questa energia“.
Conclude così Irene Battaglini: “La sfida, oggi, è mantenere credibile la luce di questa storia bellissima, che molti di noi hanno dimenticato precipitando in una diatriba tra metafisica e neopositivismo. Noi abbiamo una storia vera da raccontare, ma anche da vivere e trasmettere alle successive generazioni: questo è necessario trasmettere agli allievi e ai docenti, questa forma di amore“.
Relativamente ai Gruppi di Supervisione alla Balint, la Scuola offre un altro Open Day gratuito Mercoledì 1 Luglio 2015
L’Open Day alla SPEF è stato Open in tutti i sensi, mostrando i locali, l’offerta formativa, i metodi, i docenti ed i colleghi specializzandi per quello che sono nella realtà dei fatti.
Quello che certamente si respira entrando alla SPEF è un clima di reciprocità e rispetto, ma ancor prima di quello dovuto come colleghi, indipendentemente dal ruolo o dal grado di preparazione che ognuno riveste, si coglie la sincera attenzione verso la persona, ciascuna con la propria storia di vita.

Sara Ginanneschi