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“Ferita donna”. Una lettura critica del femminile con uno sguardo rivolto al maschile

di Serena Baroncelli 2 dicembre 2016

leggi in pdf Ferita-donna. Una lettura critica del femminile con uno sguardo rivolto al maschile

lucio-fontana-concetto-spaziale-attese-1968La nascita di una perla è un evento davvero miracoloso. A differenza delle pietre o dei metalli preziosi, che devono essere estratti dalla terra, le perle sono prodotte dalle ostriche che vivono nelle profondità marine. Le pietre preziose devono essere sottoposte al taglio e levigate per farne emergere la bellezza: le perle invece, non hanno bisogno di questo processo complementare. Nascono dalle ostriche con una naturale iridescenza brillante, una lucentezza ed una morbida luminosità intrinseca che nessun’altra gemma al mondo possiede.

Una delle ferite che la donna moderna è costretta a risanare è quella relativa al rapporto padre-figlia.

Le radici di questa ferita sono antiche e profonde: possiamo analizzarle chiaramente prendendo in considerazione l’Ifigenia in Aulide di Euripide, scritta nel 405 a.C.

Ifigenia è la figlia maggiore e prediletta del re Agamennone, eppure, nel dramma, è sacrificata, condannata a morte, proprio dal padre che la ama profondamente. Per la maggior gloria della Grecia, l’oracolo consiglia al re di sacrificare la sua primogenita. Disperato, alla fine Agamennone acconsente e manda a chiamare Ifigenia, dicendole di venire ad Aulide per sposare Achille. In seguito, il re capisce di aver commesso una pazzia, ma ormai è troppo tardi; si sente costretto a compiere tale sacrificio perché teme la rivolta delle masse inferocite e perché l’obbedienza al potere e alla gloria della Grecia prevalgono sulla sua capacità decisionale. Intanto litiga furiosamente con Menelao, il fratello sposo di Elena, accusandolo di essere uno sciocco che si lascia abbagliare dalla bellezza. Ifigenia e la madre Clitemnestra scoprono il complotto e, disperate a causa dell’orrenda verità, si scagliano contro Agamennone. Clitemnestra lo accusa di aver commesso altre infamie, cerca di farlo vergognare mentre Ifigenia lo implora di salvarle la vita. Dapprima maledice il padre assassino, Elena e gli avidi soldati diretti a Troia, ma alla fine si risolve a morire nobilmente per la Grecia, assolvendo suo padre e dicendo alla madre di non essere adirata e di non odiarlo.

In questo dramma tutte le donne sono viste come proprietà dell’uomo, di conseguenza il femminile non può manifestarsi a partire dal suo vero nucleo, ma è ridotto inevitabilmente a quelle forme compatibili con la visione del maschile. Il dramma del femminile parte allora da qui, dal predominio del maschile sul femminile, dal non riconoscimento del principio femminile, dalla negazione della possibilità di rivelarsi ed esprimersi nelle sue molteplici forme. Il femminile, quando è così svalutato e represso, si adira ed esige ciò che gli spetta in modo primitivo, come Clitemnestra che per vendetta uccide Agamennone.

Come si caratterizza dunque la ferita padre-figlia?

Menelao ed Agamennone portano nel dramma un’evidente scissione del maschile tra la cupidigia per la bellezza e l’avidità per il potere alle quali corrisponde un’analoga scissione del femminile tra la bellezza, incarnata da Elena e l’obbedienza, personificata da Clitemnestra. Il maschile diviso così in due opposti a sua volta riduce l’ideale femminile alla bellezza e all’obbedienza. Tutti e due i fratelli si servono delle donne, uno per il piacere, l’altro per il potere. Ifigenia rappresenta il potenziale femminile che, alla fine, si sottomette alla situazione e agli obiettivi del potere. Il mondo femminile è perciò svalutato, perché è ridotto al servizio dell’uomo sotto le due forme della bellezza e dell’obbedienza. La donna, quindi, non esiste in se stessa e per se stessa, poiché risulta in ogni momento l’oggetto della proiezione del desiderio maschile, ricavandone in questo modo la sua identità. Un’identità che però la pone in una posizione di Puella, cioè di dipendenza fanciullesca; inoltre l’obbedienza pedissequa la riduce al rango di serva di un padrone uomo.

La stessa situazione si perpetua ancora oggi nella cultura occidentale: il femminile è purtroppo ancora troppo spesso ridotto ai ruoli di moglie obbediente o bella amante e la reazione delle donne si conforma a queste aspettative: molte si trovano a vivere per gli uomini e non per loro stesse; altre, per liberarsi della dipendenza da Puella, imitano il modello maschile perpetuando così la svalutazione del femminile; altre invece si conformano al sistema ma, come Clitemnestra, esprimono di nascosto la loro ira, per esempio eliminando il sesso, bevendo troppo, indebitandosi con le carte di credito del marito o diventando malate…

In conclusione, il mito di Ifigenia ci fornisce un’immagine del rapporto uomo-donna quanto mai attuale. Un uomo che calpesta il femminile calpesta se stesso, perdendo così il proprio rapporto con il femminile stesso. Molti padri che credono di dover mantenere il controllo, l’autorità o perseguire potere e successo, si trovano spesso a vivere questa situazione con le loro figlie: essi hanno perso il potere delle lacrime e non riconoscono la propria ferita personale. D’altro canto, esistono molte Ifigenie moderne che hanno una visione ristretta del femminile, una visione ristretta che è nascosta nella cultura e anche nei padri e nelle madri personali.

Nella pratica psicoterapeutica è possibile trovarsi spesso di fronte donne ferite: donne che dietro la vernice del successo e della soddisfazione nascondono un sé ferito, lacerato, disperato, sanguinante. Sono donne minate nella fiducia di sé, nella capacità di costruire rapporti duraturi e, più in generale, nella capacità di operare nel mondo. Lo scopo della terapia è allora quello di affrontare questa ferita del femminile, di accettarla e risanarla, per dare voce e giustizia alla sofferenza patita.

Prendiamo una seduta tra paziente e terapeuta e consideriamo le lacrime che immancabilmente segnano il percorso di crescita e di cambiamento. Ecco, accade ora qualcosa di incredibilmente vero, puro ed autentico: le lacrime appartengono alla donna ferita. Perché le lacrime rappresentano la disillusione, simboleggiano l’abbattimento delle difese psichiche che fino a quel momento hanno permesso alla paziente di sopravvivere, comunicano che è giunto il momento di prendersi cura di se stessi e che non è più tempo di soffrire. Questi sentimenti devono essere portati alla luce ed elaborati in terapia, per far sì che quella antica ferita si rimargini. Si rimarginerà, ma non guarirà mai completamente, dal momento che la cicatrice dell’anima rimarrà visibile per sempre: tuttavia, non farà più male sbattendoci contro.

Le lacrime costellano in modo così specifico il percorso di guarigione che, in qualche modo, diventano parte essenziale di esso. Le lacrime aprono un varco nell’anima: possono dunque liberare una donna e partecipare alla sua guarigione e alla sua vita con la ferita. Le lacrime possono cadere come pioggia benefica che permette la rinascita e la crescita primaverili: precipitano nell’anima stanca e ferita così che, laddove c’era terra bruciata, arida e secca, adesso possono germogliare verdi ciuffi d’erba, possono sbocciare i semi delle proprie potenzialità, della propria essenza e donare colore, forma e musica alla vita. Anche l’ira può liberare la donna ferita, poiché la sua ferita ha un centro che duole, brucia e fa male. La rabbia è senza forma ed obiettivi, è esplosiva, fa paura. Alcune donne rimuovono il dolore e la rabbia che accompagnano la ferita: la rabbia si rivolge quindi all’interno sotto forma di sintomi fisici, pensieri depressivi, suicidi, ipocondriaci, che paralizzano la loro vita e la loro creatività. La rabbia porta però con sé anche energia, potenza che, se ben utilizzate, possono liberare le potenzialità in quanto donne e trasformare il femminile.

Il cammino verso la guarigione della donna ferita assomiglia a quel processo che rientra a pieno titolo tra i misteri più affascinanti della natura, quello che porta alla formazione della perla all’interno di un’ostrica, di cui la citazione iniziale. Una perla naturale comincia a nascere infatti quando un corpo estraneo (quasi sempre un parassita) accidentalmente penetra nel mantello soffice di un’ostrica, da dove non può essere espulso. Nel tentativo di alleviare l’irritazione, il corpo dell’ostrica assume un’azione difensiva secernendo una sostanza cristallina liscia e dura intorno all’oggetto estraneo, definita sostanza madreperlacea. Fino a quando il corpo estraneo resta nel mantello, l’ostrica continua a secernere intorno ad esso la sostanza madreperlacea, strato su strato. Dopo pochi anni, il corpo estraneo viene completamente coperto dal lucente rivestimento cristallino. Il risultato è quella bella e splendente gemma che chiamiamo perla.

L’infezione è la conditio sine qua non per la formazione della perla preziosa. Così, solo una ferita profonda, se elaborata e digerita, può condurre all’espressione piena del sé e del talento creativo di un individuo.

BIBLIOGRAFIA

Leonard, L.S (1985). La donna ferita. Modelli e archetipi nel rapporto padre-figlia. Astrolabio: Roma

 

 

Il ciclo Antoine Doinel. Disavventure di una autorealizzazione

di Giovanna Nicolò 25 novembre 2016

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  • Introduzione

Era il 2009. Frequentavo allora il corso di Laurea triennale in Psicologia dei processi relazionali e di sviluppo, le cui lezioni si tenevano in Aula Piovani – Facoltà di Lettere e Filosofia – via Porta di Massa, 1 – Napoli. Proprio in quella stessa aula si tenne la Giornata di Studio Internazionale “La famiglia nel cinema: un oggetto della psicoanalisi applicata”, alla quale partecipai. Fu in quell’occasione che ebbi modo di assistere alla proiezione del film “I quattrocenti colpi” di François Truffaut. Ricordo che ospitammo Anna Loncan[1], il cui intervento (Bambini trascurati: potenziamento dei legami tra distruttività e creatività. A proposito de “I 400 colpi” di François Truffaut) fu per me particolarmente interessante.

All’epoca, pur rimanendo profondamente colpita sia dal film che dalla storia e dalla lettura squisitamente psicoanalitica che era stata proposta, non mi appassionai a tal punto (e me ne meraviglio ancora!) da scoprire e voler conoscere l’intero ciclo Antoine Doinel, che consta di cinque film, quattro lungometraggi ed un cortometraggio. L’anno scorso mi capitò poi di rivedere, da sola, quel film visto per la prima volta in una aula universitaria allestita a sala cinematografica, ma stavolta volli seguire la storia “fino in fondo”, o meglio sino all’ultimo film del ciclo, “L’amour en fuite”, che io definirei un amabile punto di integrazione, sotto tanti aspetti, come si vedrà. Avendo suscitato in me nuove riflessioni, connessioni e considerazioni non slegate da tematiche che mi sono care sul piano formativo-professionale.

Ma facciamo un passo indietro …

 “Les Quatre Cents Coups”. Il primo lungometraggio di un giovane regista, François Truffaut, allora ventisettenne, diventò immediatamente celebre, inaugurando, nel 1959, la corrente cinematografica «La Nouvelle Vague», di cui costituisce l’emblema. La presentazione a Cannes, dove vinse la Palma d’Oro, sancì per il regista l’inizio di una carriera tutta in rapida ascesa, rappresentando per i giovani cineasti della corrente La Nouvelle Vague l’occasione di affermare, dinanzi al grande pubblico, la loro presenza a livello internazionale.

“Les Quatre Cents Coups” viene tradotto letteralmente in italiano con il titolo “i 400 colpi”, erroneamente, distorcendone il reale significato, che voleva essere inteso come il modo di dire “combinarne di tutti i colori” o anche “fare il diavolo a quattro”. Del resto, non ci si riferisce semplicemente alle stupidaggini compiute da un adolescente, ma, più profondamente, si rinvia ai “duri colpi” che Antoine, nella sua breve ma complicata storia, ha subìto e continua ad attirare a sé, in un circolo vizioso.

I 400 colpi non vuole essere né saggio pedagogico né opera leggera, ma lo specchio di una verità intima e profonda, che fa incontrare ed integra amabilmente coppie antinomiche (nomotetico/idiografico; tragedia/commedia, ecc.), in un itinerario unitario ed unico.

Un film mitico, una novità, dal punto di vista concettuale, stilistico ed espressivo, capace di meravigliare critica e pubblico. Un capolavoro che inizia una impresa unica nel suo genere: sarà il primo film di un ciclo – quattro lungometraggi, un cortometraggio, distribuiti nell’arco di vent’anni (Les 400 coups, 1959; L’ amour à vingt ans, 1962; Baisers volés, 1968; Domicile conjugal, 1970; L’ amour en fuite, 1979) – che vedrà lo stesso protagonista, interpretato dallo stesso attore (Jean-Pierre Léaud), crescere (da adolescenza a età adulta), lungo un percorso esistenziale di difficile auto-realizzazione.

L’asse narrativo è la figura in divenire di Antoine Doinel, sotto molti aspetti autobiografica, “alter ego” del regista Truffaut. In “Les 400 coups”, il dodicenne parigino Antoine è un figlio non desiderato e non amato, manipolato all’occorrenza, e lo sa: cresciuto dalla nonna durante la sua infanzia, vive ora con la madre e il padre adottivo, una coppia finta, formale, esito di un matrimonio riparatore, in una casa nella quale Antoine non ha diritto neppure a spazi fisici (dorme nell’ingresso).

Antoine esprime fame di attenzione e amore che gli adulti, autorità rigide, non sono disposti a concedergli; egli ricerca limiti e confini che possano placare, seppur provvisoriamente, i suoi bisogni di essere visto e contenuto, mediante tendenze e comportamenti antisociali in adolescenza (bugie, furti, fughe), che si traducono, in età adulta, nella reiterazione di meccanismi di difesa fallimentari (si pensi all’incapacità di Antoine di tenersi un lavoro, alla frequentazione occasionale di bordelli, alle molteplici relazioni sentimentali ed extraconiugali).

In una delle prime sequenze di Domicile Coniugale, Antoine, parlando con un ex collega del suo matrimonio con la giovane violinista Christine, afferma: «Non ho mai amato una donna in particolare. Sono amante della famiglia, padre madre …, e finalmente non sono più solo». Di Christine ama il suo essere dolce e pulita e la gentilezza della sua famiglia, elementi che gli consentono di sperimentare, almeno superficialmente, un senso di sicurezza e fiducia. Sarà proprio lei, Christine, la madre di suo figlio, che Antoine chiamerà Alphonse a dispetto del parere materno. Doinel tenderà a mentire e a tradire, continuamente, senza provare alcun senso di colpa e rimorso. Dopo un tradimento, dichiarerà a Christine: “sei la mia sorellina, sei mia figlia, sei mia madre”, la quale gli risponderà: “avrei preferito essere la tua donna”. L’ultimo film della saga vede il divorzio da Christine, ma anche l’incontro con una figura “terapeutica”, che gli consentirà di prendere consapevolezza dell’irrisolto, di ri-conoscere sua madre, oramai morta, e di lasciarsi andare ad un amore incondizionato (quello per Sabine). Direbbe Erich Fromm alla “libertà di” … sperimentare l’unità prodotta da un attivo amore che trascende l’ego, supera le modalità dell’avere e sceglie l’autenticità dell’essere.

Con queste parole il regista Truffaut racconta chi è Antoine: “Antoine Doinel procede nella vita come un orfano e cerca famiglie sostitutive. Purtroppo quando le trova tende a scappare perché rimane un individuo incline alla fuga. Doinel non si oppone apertamente alla società, e in questo non è un rivoluzionario, ma fa la sua strada ai margini della società, diffidando di essa e cercando di farsi accettare da coloro che ama e che ammira perché la sua buona volontà è totale. Antoine Doinel non è quello che si potrebbe chiamare un personaggio esemplare, ha fascino e ne abusa, mente molto, chiede più amore di quanto non ne abbia da offrire lui stesso, non è l’uomo in generale è l’uomo in particolare. Antoine Doinel ama la vita, ma soprattutto gli piace di non essere più bambino, cioè qualcuno di cui si può disporre senza chiedergli un parere, qualcuno che si può lasciare da parte, dimenticare o rifiutare con crudeltà”[2].

Antoine è un uomo “terreno”, al quanto egocentrico, in alcune circostanze sembrerebbe poco empatico o addirittura egoista. Un essere umano “tragico”, alle prese con il perenne oscillare tra voglia bramosa di vivere e senso di alienazione; al contempo, assistiamo però al dispiegarsi del suo processo di autorealizzazione. D’altronde l’umanesimo di Truffaut, ereditato da Renoir, è da ritrovarsi in ogni suo personaggio.

Il pubblico ben accoglie questo protagonista, per il quale sente di nutrire un affetto insolito: lungi dall’incarnare il prototipo dell’eroe cinematografico, la sua insicurezza e il suo brancolare nella vita, tra gioie e dolori, conquiste ed errori, fortuna e disgrazia, lo rendono un anti-eroe automaticamente simpatico, in quanto vicino alla realtà ordinaria, tessuta di circostanze ed esperienze che non fanno che confermare la precarietà e le contraddizioni di una esistenza umana, alla ricerca di una felicità ideale ed impossibile, ma testimoniano anche l’apertura, nelle mani dell’uomo, di un ventaglio di infinite potenzialità.

  • Una anamnesi in celluloide

In “Les 400 coups” (- I 400 colpi) il dodicenne parigino Antoine, frutto di una relazione prematrimoniale, è un figlio non desiderato e non amato, manipolato all’occorrenza, e lo sa: affidato alla nonna materna (l’indebolimento fisico di quest’ultima deciderà l’accesso di Antoine al domicilio coniugale), vive ora con la madre e il padre adottivo, una coppia finta, formale, in una casa nella quale Antoine è tenuto in uno stato di abbandono affettivo e materiale dalla madre (basti pensare che non ha una camera da letto propria, dorme nell’ingresso, senza coperte, in un sacco a pelo).

La madre, Gilberte, donna bella e affascinante, salvata la faccia con un matrimonio riparatore, intreccia relazioni extraconiugali. Non presta attenzione ai bisogni di Antoine e non si prende cura di lui, pensa solo a se stessa; il padre adottivo, apparentemente bonario, strumentalizza il bambino per irritare o compiacere la moglie, a seconda delle circostanze, e non è certo una figura autorevole, rinfacciando e facendo pesare il fatto di aver riconosciuto un figlio non suo. Antoine, una notte, ascolterà una conversazione tra i coniugi a tal proposito, scoprendo la sua condizione di “bastardo” nato da padre ignoto attraverso gli echi ovattati ma distinti di una “scena primaria” burrascosa, provenienti dalla camera dei genitori.

A scuola Antoine manifesta la sua irrequietezza. Per questa ragione, lo scarso rendimento e gli scherzi, diventa, in diverse occasioni, il capro espiatorio di marachelle di altri. Il solo conforto alla sua solitudine è la lettura e l’amicizia con il suo compagno di scuola René, migliore (ed unico) amico, compagno di disavventure, appoggio per l’evasione. È con lui che marina la scuola per andare al cinema, nei parchi parigini e al Luna Park, alla ricerca di esperienze e attrazioni eccitanti (molto toccante la scena della giostra in cui il ragazzo sembra vivere un momento di puro divertimento). Un giorno, marinata la scuola in compagnia di René, scopre per caso la relazione adulterina della madre, incrociandola per strada e assistendo al bacio tra Gilberte e l’amante; l’indomani a scuola giustifica la sua assenza con una eclatante quanto simbolicamente carica bugia: “mia madre è morta”. Scoperta la bugia, la madre domanderà al marito: “Perché ha fatto morire me e non te?”. Accorrono a scuola la madre e il padre adottivo, il quale lo punisce dandogli un ceffone davanti a tutti i compagni di classe. Umiliato per la sua menzogna, Antoine fugge di casa e si rifugia nella stamperia dello zio di René, vagando poi di notte per le strade di Parigi. Rientrato a scuola, viene “perdonato” dalla madre, la quale, temendo che il figlio denunci la sua infedeltà coniugale, tenta di conquistarne la complicità, promettendogli una forte somma di denaro se migliora i voti in francese; così Antoine prende in prestito da Balzac uno stralcio che descrive la morte di un vecchio (riscrive una pagina letta dal romanzo La ricerca dell’assoluto) per scrivere un tema che riguarda la descrizione di “un fatto grave a cui avete assistito e che vi ha profondamente commosso” (parlerà della morte del nonno). Tornato a casa accende un cero a Balzac appiccando fuoco alle tende, ma non basta perché per quel compito il ragazzo verrà accusato di plagio dal maestro e punito.

Deluso e disperato, Antoine fugge ancora e va a vivere in casa di René. Escogita di rubare una macchina da scrivere nell’ufficio del padre, per pagare, per sé e per l’amico, una gita al mare, che non ha mai visto. Una volta realizzato il furto, i due ragazzi cercano, senza successo, di venderla a un ricettatore, Antoine viene scoperto dal custode nell’atto di restituirla. Il padre lo denuncia, punendolo senza esercitare una reale funzione paterna. Il ragazzo passa, così, una notte in cella con un delinquente e alcune prostitute. La madre, per liberarsene, acconsente con durezza, “per dargli una lezione”, a che venga rinchiuso in un riformatorio lontano da Parigi, dove la disciplina è molto rigida, tanto che Antoine viene punito fisicamente con un sonoro ceffone per aver consumato anzitempo il suo pane. Viene poi interrogato da una psicologa sulla sua vita intima e sui difficili rapporti con i genitori, rispondendo alle domande con sconcertante franchezza: è in occasione di questo colloquio che viene fatta, dal diretto interessato, una sintesi più completa della propria storia infantile, fornendo elementi che prima non erano emersi del tutto. Antoine evoca anche una conversazione burrascosa udita tra la nonna e la madre, dichiarando “Mi ha voluto far abortire” (il doppiaggio in italiano non traduce il lapsus, A. dice della madre solo che “aveva voluto abortire”).

René va a trovarlo ma, per le regole dell’istituto, non può parlargli. La madre gli comunica in modo brusco la decisione di abbandonarlo a se stesso e che il padre non avrebbe più voluto incontrarlo, colpevolizzando del rigetto paterno e, meno esplicitamente, del proprio. Durante una partita di pallone Antoine approfitta della disattenzione dei sorveglianti e fugge, in una lunga corsa sino al mare. Si spinge sino alla battigia e si volta, dopo essere entrato con le scarpe in acqua. La scena finale vede un fermo immagine, in cui viene inquadrato lo sguardo del giovane Antoine verso lo spettatore, uno sguardo di dolore, ma privo di retorica, carico di speranza e di desiderio di libertà.

Nel cortometraggio “Antoine e Colette” (- Antoine e Colette, in L’amore a vent’anni) si assiste alla prima storia sentimentale di Antoine. Antoine, giovanissimo, lavora alla Philips e vive da solo. Innamorato di Colette, una studentessa che ha incontrato ad un concerto della Gioventù musicale, Antoine, romantico e sognatore, si sforza di avvicinarsi a lei e di conoscerla, ma Colette è sfuggente; non esita a traslocare per andare ad abitare di fronte a casa sua, diventando amico dei genitori della ragazza. “E questo, appunto, spiega l’insuccesso di Antoine in “L’amore a vent’anni”: Colette non sa che farsene di un ragazzo che ha sedotto i suoi genitori!” – dichiara il regista in “Il piacere degli occhi”.

In “Baisers volés” (- Baci rubati) ritroviamo 5 anni dopo Antoine Doinel che, partito volontario per il servizio militare (per dimenticare la delusione amorosa), è stato riformato dall’esercito per instabilità di carattere. Va in un bordello, dove la freddezza di una prostituta, giovane e bella, lo spinge fuori dalla camera, ma si imbatte in un’altra donna del mestiere, più grande e più materna, che preferisce alla prima. Si reca a casa della sua vecchia amica Christine Darbon, dove i genitori della ragazza lo accolgono volentieri mentre Christine lo tratta con distacco. Il padre di Christine gli procura un lavoro come portiere di notte dell’Hotel Alsina. Antoine è entusiasta in quanto ha la possibilità di leggere indisturbato, ogni tanto va a cena dai genitori di Christine; una sera, in cantina, ruba alla ragazza un bacio.

Antoine perde il posto perché lascia entrare un investigatore privato che sorprende una coppia clandestina in una stanza dell’albergo. Proprio l’investigatore, però, lo fa assumere nella sua agenzia, la Dubly. Antoine si dedica a maldestri pedinamenti; nel frattempo frequenta Christine, ma sembra essere lui ora quello distaccato, sfuggente. Gli viene affidato il caso del Signor Tabard, facoltoso proprietario di un negozio di calzature, che lo ingaggia come finto magazziniere per portare avanti indagini sul “perché è detestato da tutti” (questo l’interrogativo posto dall’uomo all’investigatore a capo dell’agenzia), ma si innamora della idealizzata Signora Tabard. Nel frattempo Christine si reca al negozio, per avere notizie di Antoine, il quale reagisce in malo modo a quelle che percepisce come pretese improvvise della ragazza: durante questo incontro Antoine, preso dalla rabbia, dice a Christine che non la stima e che non la stimava neppure quando credeva di amarla. La Signora Tabard, capito il debole di Antoine per lei, si reca a casa del giovane e lo seduce, trascorrendo qualche ora lieta con lui. “Io non sono un’apparizione … sono una donna” – afferma Fabienne Tabard, aggiungendo che tutti siamo unici ed insostituibili e che il padre sul letto di morte disse: “la gente è eccezionale”. Antoine viene licenziato per la storia con la Tabard, in quella circostanza un infarto stronca l’investigatore che aveva fatto assumere Antoine, il quale, dopo i funerali, alla ricerca di attenzione e consolazione, finisce con una prostituta.

Viene assunto poi dalla ditta SOS che ripara tv a domicilio. Christine viene a saperlo dal padre, che fa un incidente con il furgoncino della ditta, incontrando casualmente Antoine. La ragazza, approfittando dell’assenza dei genitori per il weekend, manomette la televisione e chiama il servizio di assistenza per rivedere Antoine. Quest’ultimo, inizialmente freddo e distaccato, infastidito dai modi gentili di Christine, si scioglierà poi fra le sue braccia. Scocca la scintilla tra i due, che si fidanzano. Il film termina con la scena che vede i due passeggiare in un parco mano nella mano e con la dichiarazione d’amore eterno che uno sconosciuto (che dall’inizio del film seguiva Christine) fa alla ragazza: “Io sono definitivo … voglio che lei rompa legami provvisori” … Quello sconosciuto viene forse a rappresentare lo stesso Doinel, che dichiara la sua intenzione di iniziare una storia seria, che sia per sempre, con Christine.

In “Domicile Coniugale” (italianizzato con il titolo “Non drammatizziamo … è solo questione di corna) Antoine e Christine sono due giovani coniugi che conducono una esistenza modesta ma tranquilla, sempre supportati dai genitori di lei. Christine, concertista, dà lezioni di violino, mentre Antoine prepara colorazioni artificiali di fiori destinati ad un negozio non lontano da casa. Il vicinato è amico, durante tutto il film presente come risorsa della coppia. In una delle prime sequenze, un vecchio compagno dell’officina di riparazioni ritrova Antoine mentre sta tingendo dei fiori nel cortile, viene a sapere che è sposato con una giovane violinista e gli dice: “In fondo, ti sono sempre piaciute le ragazzine beneducate, quelle borghesi, vero?” E Antoine gli risponde: “Non ho mai amato una donna in particolare. Sono amante della famiglia, padre madre …, e finalmente non sono più solo”. In Domicile Coniugale per la prima volta Antoine si oppone apertamente, seppure in una sola occasione, al fare borghese della famiglia della moglie e alle buone maniere obbligate nei confronti delle persone influenti (la lettera al senatore che ha permesso loro di attivare tempestivamente la linea telefonica di casa), e in una discussione a tal proposito con Christine Antoine afferma che non ha tempo di annoiarsi  – lui – e che non vede l’ora di invecchiare per potersi dedicare a passioni che non ha tempo di coltivare adesso.

Non del tutto soddisfatto del proprio lavoro, si mette alla ricerca di qualcosa di nuovo e, scambiato per un altro uomo, raccomandato, viene assunto in un’industria idraulica, come addetto alla guida di un modellino di nave. Christine nel frattempo, rimasta incinta, dà alla luce un maschietto, che vorrebbe chiamare Ghislain ma che Antoine registra all’anagrafe con il nome di Alphonse. In clinica, quando prende il braccio per la prima volta il figlio Antoine afferma: “È il più bel bambino del mondo anche perché è mio figlio … crescerà più forte e intelligente del padre e sarà un uomo importante, più importante di Victor Hugo. Tutte le cose che ho sognato e non ho fatto tu le realizzerai”. Antoine dimostra a suo modo vicinanza alla moglie, ma pare più concentrato su se stesso; Christine si sente poco capita, gli dice che è stanca e nervosa e preferisce, per quella notte in clinica, stare da sola.

Antoine, trascurato da Christine, si lascia sorprendere dal fascino esotico di Kyoko, la moglie di un cliente dell’industria per cui lavora, della quale diviene l’amante. La donna invia dei fiori con all’interno dei messaggi d’amore indirizzati ad Antoine, quest’ultimo li getta, ma un bambino vicino di casa va a trovare il piccolo Alphonse e porta quei fiori trovati nella spazzatura a Christine. Qualche giorno dopo i fiori si aprono lasciando cadere i messaggi e facendo scoprire alla moglie il tradimento di Antoine. Christine attacca violentemente Antoine e, dopo una parentesi di finzione in cui ricevono a casa la visita dei nonni materni, costringe Antoine a trasferirsi in un hotel. Christine gli urla: “Non è stato un tradimento ma qualcosa di più grave … mi hai tolto la fiducia, mi hai distrutto la vita, non crederò più a niente”. Antoine si arrabbia, non tenta più di giustificarsi, se ne va. Ma gli incontri con Kyoko, tipica donna geisha, perdono il fascino iniziale ed annoiano Antoine. Christine, del resto, non ha smesso di amare il marito e glielo dice apertamente. Non approva, però, il progetto di Antoine di scrivere un romanzo, che secondo Christine «non può essere un regolamento di conti». Quando Antoine la bacia dolcemente e le confida: “Sei la mia sorellina, sei mia figlia, sei mia madre”, Christine risponde: “avrei preferito essere la tua donna”. Dopo un incontro con Christine, nel quale hanno espresso affetto e tenerezza reciprocamente, Antoine va in un bordello (qui confida alla prostituta Marie: “io odio tutto quello che finisce, che ha termine, che muore”). Successivamente ricerca nuovamente la sua dolce Christine e si riappacificano.

In “L’amour en fuite” (- L’amore fugge) Antoine ha superato la trentina e lavora come correttore di bozze. È innamorato di Sabine, commessa in un negozio di dischi, e sta per divorziare da Christine, dalla quale è separato da 5 anni. Circa due anni fa Antoine ha pubblicato il suo romanzo autobiografico (Les salades de l’amour – Le insalate dell’amore). Il giorno dell’udienza per il divorzio, Antoine e Christine, che hanno optato per il divorzio consensuale, si lasciano andare ai ricordi: non c’è rabbia, non mancano invece il bene reciproco ed il rispetto. Colette (la prima cotta di Antoine in “L’amore a vent’anni”), oggi avvocato, intravede e riconosce Antoine Doinel e va ad acquistare il suo romanzo.

Antoine e Colette si rincontrano alla stazione, dove Antoine ha accompagnato il figlio Alphonse (in partenza per il mare) mentre Colette è diretta ad Aix en Provence per seguire un caso in cui è chiamata a difendere il colpevole in un caso di infanticidio, il ché le risulta difficile e penoso (durante il film emergerà che Colette ha perso sua figlia, morta investita da una automobile quando aveva appena 3 anni; quel trauma ha determinato la separazione dal marito, 5 anni fa, mentre oggi Colette è innamorata del libraio Xavier, che si scoprirà essere il fratello di Sabine). Antoine non esita a salire sul treno, pur senza biglietto, per poter incontrare Colette e parlarle, ma i due finiscono per discutere in quanto la donna dichiara una volta per tutte di non aver mai amato Antoine e di essersi anzi sentita oppressa dalla sua insistenza.

Nel frattempo Sabine, stanca delle continue assenze di Antoine, lo lascia. Sarà Antoine a ritornare da lei, con una sicurezza mai provata ed espressa prima in campo sentimentale. Un passaggio importante e determinante per questa svolta è rappresentato dall’incontro casuale tra Antoine e Lucien, “L’amante numero 1” (così lo definisce Antoine in una lettera a Sabine) della madre Gilberte, quel tale che da ragazzo Antoine aveva visto baciare la madre per strada: Antoine Doinel può in questa circostanza ri-conoscere la madre (descritta da Lucien come una donna “anarchica”, che soffriva l’ipocrisia della società, e al contempo un “pulcino” da difendere, che “voleva bene” ad Antoine) e, in un certo senso trovare quella figura reale e vera di riferimento che da tempo ricercava (Lucien ha assistito fino ai suoi ultimi giorni di vita la madre Gilberte, morta all’età di 47 anni). Con Lucien, Antoine si reca per la prima volta a trovare sua madre al cimitero di Montmartre. “Somigli a tua madre” – dice Lucien ad Antoine.

Antoine, con la benedizione di Christine e Colette, ritorna da Sabine per farle capire che è stata la prima donna che ha amato ciecamente e ha voluto conquistare davvero sin dall’inizio: le confida di essersi innamorato di lei trovando una sua foto strappata, e di essersi messo alla ricerca, fino a trovarla (il primo incontro proprio al negozio di dischi) e a “farla innamorare”. Antoine dice: “Ho finto di non provare nulla … ma il cuore mi batteva a cento all’ora …” e aggiunge: “La vita mi ha abituato a nascondere le emozioni, a non dire le cose in faccia”, Sabine allora afferma: “Perché non hai fiducia negli altri” e Antoine: “ma in te sì”. Si riconciliano con un bacio e con la passione che aveva fatto da apertura al film. Il loro affermare “Poi si vedrà” diventa un motto beneaugurante ed un inno all’età adulta, alla vita in tutte le sue sfumature e alla sua continuità.

  • Esperienze e relazioni familiari, affettive e sociali

Il materno. Antoine incarna probabilmente per Gilberte l’abbandono subìto dall’amante dell’epoca. Lo stile materno di attaccamento è distanziante, il rapporto che la lega al figlio è intriso di autoritarismo: lo rimprovera in maniera assillante e lo tratta da domestico più che da membro della famiglia, designandolo come “il ragazzo”. Quando si sfila le calze davanti a lui non tenta di sedurlo quanto di ignorarlo, non guardando alla sua sensibilità di adolescente. Quando Antoine scopre la sua infedeltà coniugale, Gilberte mostra una “preoccupazione materna primaria” fittizia e manipolatoria: nella scena del bagno, al ritorno dalla prima fuga notturna, la donna lava e asciuga Antoine, recitando il ruolo di una madre amorevole per comprare il suo silenzio, ma non è affatto convincente agli occhi del ragazzo, evidentemente imbarazzato per tanta regressiva ed inconsueta intimità. Antoine non si ribella mai apertamente alla madre, anzi adotta spesso un atteggiamento complice (quando il padre si rende conto che dorme senza coperte, sebbene abbia dato alla madre soldi per comprarne, Antoine va in soccorso della madre, affermando che gli va bene così, dormire nel sacco a pelo), ma la sua passività e la sua indifferenza dinanzi a negligenze ed aggressioni sono solo difensive, apparenti: il suo inconscio tiene in fresco l’odio per la madre con una rimozione possente, basti pensare alla scusa di Antoine, che si giustifica a scuola per la sua assenza rivelando al maestro che “la madre è morta”, esprimendo così in maniera forte ed eclatante i suoi sentimenti ostili, la sua rabbia, il suo rancore per il rifiuto materno. Scoperta la bugia, la madre domanderà al marito: “Perché ha fatto morire me e non te?”. E lui risponderà: “la mamma innanzitutto, no?”.

Una madre distante e inaccessibile. Toccante la scena in cui Antoine prende il posto della madre davanti allo specchio della toilette, tocca i suoi oggetti intimi e si passa la sua spazzola tra i capelli: potrebbe sembrare il bisogno di un contatto, ma condensa in sé anche la ricerca di verità, di risposte a domande che nutrono le esitazioni identitarie dell’adolescente: Chi è mia madre? Cos’è una donna? Ed io chi sono? In cosa somiglio a mia madre? In un film successivo, Baci rubati, Antoine giovane adulto, di fronte allo specchio si troverà a rivivere un momento simile: guarda la sua immagine ripetendo ad alta voce il nome di Fabienne (la donna sposata, ricca e “superiore”), quello di Christine (la dolce e pura ragazza della porta accanto) e, infine, il proprio: pronunciare, in modo ecoico e differenziato, il nome delle due donne che egli crede di amare e poi il proprio rappresenta un tentativo di far chiarezza in se stesso.

La scena della visita in riformatorio, in cui Gilberte colpevolizza il figlio e lo abbandona definitivamente, è l’ultima volta in cui Antoine vedrà sua madre. Sarà l’incontro speciale con il compagno di vita della donna, oramai morta, a portare l’adulto Antoine a perdonarla e a porgerle un saluto al cimitero.

Il paterno. “Where is the father?” è la domanda del professore di inglese. Il padre di Antoine strumentalizza il bambino per irritare o compiacere la moglie, a seconda delle circostanze, e non è certo una figura autorevole, ponendosi come benefattore che attende riconoscenza e punendo Antoine con la violenza e il tradimento pubblicamente inflitti (gli schiaffi che gli dà a scuola, dinanzi ai compagni e al maestro, per aver detto una bugia, corrispondente ad una verità inconscia – la morte della madre, e la denuncia per il furto della macchina da scrivere nell’ufficio paterno, il cui bersaglio inconscio era del resto proprio il narcisismo del genitore affettivamente indifferente). Quest’uomo non ha mai veramente riconosciuto Antoine come suo figlio, e non si sa nulla sulla sua stessa famiglia (non si allude minimamente ai nonni paterni).

La coppia genitoriale. Il legame di coppia si basa su un vero e proprio contratto che ha consentito a Gilberte di riconquistare la propria rispettabilità e a suo marito di “acquisire” una giovane e bella moglie. L’unica cosa che condividono è la mancanza di considerazione reciproca, rinforzata dall’aggressività della moglie e dal cinismo del marito.

Interazioni patologiche fra genitori e adolescente. Ladame (1978)[3] scrive: “Quello che abbiamo potuto osservare in forma ripetitiva nelle famiglie dei nostri adolescenti “con disturbi” è l’estrema importanza dell’identificazione proiettiva e la sua utilizzazione da parte dei genitori degli adolescenti. Fintantoché questo meccanismo resta all’opera in modo preponderante, e che i bisogni difensivi dei genitori sono particolarmente intensi, le possibilità, per l’adolescente, di una vera e propria separazione-individuazione sono bloccate”. Queste identificazioni proiettive, che rendono confusi i confini del Sé dell’adolescente, rinforzano, in associazione con altri meccanismi di difesa arcaici, le credenze che alimentano il romanzo familiare. Un aspetto che ritroviamo nella storia di Antoine.

La parte degli avi. Dell’ambiente primario e dell’attaccamento primario di Antoine sappiamo ben poco, se non che la nonna materna ha salvato il nipote, impedendo alla figlia di abortire e si è occupata di lui sino a che ha potuto. Antoine è consapevole di questo, il rapporto con la nonna è fatto di tenerezza e amore nonostante il furto di cui il ragazzo si rende colpevole ai suoi occhi (“ero certo che non se ne accorgeva … e la prova è che non se n’è accorta” – con queste parole l’adolescente ci dice che non credeva di farle del male, o perlomeno che non era quella la sua intenzione). Nel tema scolastico prenderà poi a prestito anche un eroe balzacchiano per inventare e raccontare la morte del nonno, personaggio che in un certo senso sembrerebbe incarnare il rappresentante della stirpe sconosciuta e l’interdetto che pesa sulle sue origini.

L’amicizia libera. René, compagno di banco e di sventure, unico amico di Antoine, non è mai triste, almeno apparentemente; nonostante sia l’istigatore delle stupidaggini e dei comportamenti antisociali che mettono in atto, è portatore di una vitalità sana. A differenza di René, Antoine è più riservato, introverso, ma i due amici hanno molto in comune: sono entrambi figli unici, trascurati dai genitori, abbandonati a se stessi, adolescenti soli e solitari, che insieme alimentano la capacità di resistere alle avversità e il piacere della ricerca della libertà.

Christine, moglie e madre. “Non ho mai amato una donna in particolare. Sono amante della famiglia, padre madre …, e finalmente non sono più solo”, racconta Antoine a proposito del suo matrimonio con Christine. Quest’ultima, con il suo essere dolce e rassicurante, è l’opposto di Gilberte, la madre di Antoine: è stata da lui scelta per il suo poter essere una brava moglie e madre. Gli darà un figlio, Alphonse. Antoine e Christine si separeranno poco dopo.

I rapporti sentimentali ed extraconiugali in cui prevale la componente del desiderio sessuale testimoniano l’accesso difettoso di Antoine all’ambivalenza. In questi incontri provvisori Antoine sente di potersi abbandonare completamente (ad esempio con la signora Fabienne). Christine, in quanto proiezione dell’oggetto buono, che Antoine ha designato come “definitivo”, perché sicuro, viene protetto dalla fusionalità e dall’aggressività che Antoine ha bisogno di esperire ed esprimere e che potrebbero, secondo lui, mettere in pericolo quel legame di attaccamento. Dopo un tradimento, in un incontro ambiguo e contraddittorio, in cui sembra volersi riavvicinare alla moglie, Antoine le dice: “Sei la mia sorellina, sei mia figlia, sei mia madre”, Christine risponde: “avrei preferito essere la tua donna”.

Paternità. In clinica, quando prende il braccio per la prima volta il figlio Antoine afferma: “È il più bel bambino del mondo anche perché è mio figlio … crescerà più forte e intelligente del padre e sarà un uomo importante, più importante di Victor Hugo. Tutte le cose che ho sognato e non ho fatto tu le realizzerai”. Lo chiamerà Alphonse, a dispetto del parere di Christine, che avrebbe voluto dargli un altro nome. Si tratta di una paternità narcisistica, in cui si fatica a riconoscere il figlio come altro da sé; del resto Antoine non ha avuto un padre. Dimostra una vicinanza quasi imbarazzata alla moglie, focalizzandosi sulla propria difficoltà nel provare e gestire emozioni nuove e tanto intense. Si sentirà anche trascurato da Christine, neomamma alle prese con il piccolo Alphonse. Dopo il divorzio da Christine, il figlio vivrà con la madre, pur continuando Antoine, forse meglio di prima, ad essere per lui un padre presente (seppur distratto).

Il vero amore, Sabine. Con lei Antoine vive l’amore maturo, incondizionato, trovato più che scelto, indipendentemente da fattori terzi. È vero amore in quanto contempla e integra buono e cattivo, bene e male, dando la possibilità a ciascuno di essere se stesso e di condividere con l’altro una vita autentica.

Il terapeutico Lucien. “L’amante numero 1” (così lo definisce Antoine in una lettera a Sabine) della madre Gilberte: l’incontro con lui rappresenta per Antoine Doinel l’occasione di ri-conoscere la madre, descritta da Lucien come una donna “anarchica” e dolce, che amava suo figlio, e, in un certo senso, di trovare in questo signore, più o meno sconosciuto, tanto “normale”, una figura integrata, che incarna l’uomo capace di quell’amore libero ed incondizionato che può durare in eterno, o perlomeno una vita intera (Lucien ha assistito fino ai suoi ultimi giorni di vita la madre Gilberte).

Sfera sociale e lavorativa. La storia che i film raccontano vede il ragazzino scontroso e provocatorio lasciare il posto ad un giovane senza famiglia che, congedato dal militare, ben si adatta alla società: lavora e vive da solo, ha pochi (ma buoni) amici e sentimentalmente è alle prese con sperimentazioni se vogliamo “tipiche” della sua età, per quanto condizionate nel profondo da un modello di attaccamento insicuro. Quest’ultimo è alla base di quella insoddisfazione di fondo (tesa alla ricerca incessante del pezzo mancante!) che inciderà anche sulle scelte sentimentali future (matrimonio, rapporti e relazioni extraconiugali), e non meno in ambito lavorativo, con il continuo abbandono del vecchio lavoro in favore di uno nuovo.

Risorse

Va pur detto che il temperamento di Antoine, la sua brama di vita e la sua determinazione a riscattarsi costituiscono elementi che mettono il soggetto sulla retta via. È sorprendente come Antoine serbi in sé, nonostante le deprivazioni dell’infanzia, valori positivi di famiglia (le cui radici possono forse essere identificate nel legame di attaccamento con la nonna materna): lo vediamo prima alla ricerca di una famiglia sostitutiva (è determinante nel primo innamoramento e nella scelta di Christine come moglie), poi costruire una propria famigliola come tante altre (madre-padre-figlio), una normalità di cui non ha mai potuto fare esperienza in qualità di figlio.

La gioia di vivere che Antoine esprime in età adulta attesta la presenza di un’altra risorsa fondamentale nel suo faticato processo di auto-realizzazione, la speranza. Quest’ultima nutre l’apertura mentale e sociale di Antoine, alimentando esperienze e relazioni buone, salvifiche. Lo spettatore si meraviglierà, guardando gli ultimi film, delle interazioni e dei buoni rapporti di Antoine con vicinato, colleghi, amici: se ci fossimo fermati al primo film, Les 400 coups, non avremmo scommesso su queste competenze sociali.

  • La personalità in divenire di Antoine

L’Antoine che incontriamo per la prima volta è un dodicenne irrequieto. L’adolescenza, è risaputo, è una fase, estremamente delicata, di rinnovamento e cambiamento, portatrice di per sé di conflitti e problematiche. Se poi sei un ragazzo ‘difficile’ con un vissuto ‘difficile’ le cose si complicano ulteriormente. In “Les 400 coups”, con piccoli tocchi, lo svolgersi del film fornisce elementi della sua storia infantile, segnata da attaccamento e relazioni primarie claudicanti, la cui sintesi viene fatta, dallo stesso protagonista, durante il colloquio con la psicologa del centro di detenzione per minori.

L’Antoine che veniamo a conoscere in questo periodo della sua vita è apparentemente ‘mansueto’, obbediente e passivo in famiglia, ma ribelle e provocatorio fuori, dove rivendica attenzione, affetto, ma soprattutto identità e libertà. Frutto di una relazione prematrimoniale, è stato “riconosciuto”, formalmente, dal marito della madre, mentre per quest’ultima è solo “il ragazzo” (così lo chiama), figlio di padre ignoto, “colpevole” a sua insaputa e indegno persino di un nome proprio e di un proprio spazio vitale, tant’é che dorme nell’ingresso in un sacco a pelo. È un figlio non desiderato e non amato, manipolato all’occorrenza, e lo sa.

L’esame di realtà è conservato e le funzioni psichiche sono nel complesso buone, ma l’affettività di Antoine pare essere coartata, è ciò incide sulla sua impulsività: le sue azioni prevalgono sulla riflessione.

Alberga in lui un vissuto di abbandono e di ingiustizia che gli permette di non tenere conto della colpa e di nutrire il desiderio di vendetta. Pensiamo a quando il maestro lo priva della ricreazione dopo averlo sorpreso a far passare tra i banchi una rivista con in copertina una foto eccitante e Antoine scrive, in risposta, un poema sul muro della classe: “qui fu punito il povero Antoine Doinel per una pin up caduta dal cielo ma non è giusto e avrà la sua vendetta”; e alle spropositate minacce di Antoine (ben oltre la legge del taglione che esigerebbe un castigo commisurato al torto causato!) al compagno di classe, che ha fatto scoprire le sue iscrizioni murali (“carogna, traditore, hai i giorni contati, Morrissette!”).

Nei vagabondaggi con René, Antoine ricerca esperienze eccitanti (la scena del Luna Park). Egli condivide con l’amico la passione per il cinema, dove, marinata la scuola, vanno spesso, ma si rifugia anche nella lettura, essendo più riservato ed introverso di René.

Al quanto egocentrico, a volte sembrerebbe addirittura egoista, Antoine adulto è riservato, ed ha ancora qualche difficoltà ad esprimere e gestire le emozioni e a provare empatia; conserverà per molto tempo la tendenza a mentire e tradire. D’altra parte, però, controlla maggiormente la propria impulsività e mostra una maggiore tolleranza alla frustrazione. Il funzionamento globale della sua personalità può dirsi buono. Intelligente, brillante, a volte un po’ ingenuo ma comunque piuttosto realistico, Antoine è un treno in corsa, iperattivo e testardo; se la cava in tutte le occasioni, mostrando buone capacità di problem solving. Gioioso e ironico, apprezza l’ilarità e i momenti di svago e aggregazione (si pensi alla comicità dei momenti di scherzo con Christine o Sabine e delle interazioni con vicini e colleghi).

Insomma, Antoine appare ben adattato, non è radicalmente anticonformista e non disdegna i rapporti e le situazioni sociali, per quanto arrivi ad esprimere il sentirsi come “un pesce fuor d’acqua” rispetto alla borghesia di cui è entrato a far parte (attraverso il matrimonio con Christine), società alla quale muove per la prima volta un’aperta critica in Domicile coniugale, penultimo film del ciclo. Preferisce pur sempre i ritagli di intimità domestica in cui si dedica alle proprie passioni, lettura e scrittura.

Aspetti psicopatologici

In un contesto familiare e sociale che sovverte logiche, relazioni, ruoli e regole, destinatario di messaggi ambigui e anaffettivi, Antoine rivendica attenzione, ricerca disperatamente amore, uno sguardo che lo com-prenda, ma forse ancor di più va a caccia di senso e verità, che gli adulti non sono capaci e disposti a concedergli, mostrando essi una formalità rigida e coatta, che innalza un muro di indifferenza e insensibilità.

Come già detto, fintantoché prevalgono i bisogni difensivi dei genitori (della madre nella fattispecie), ed è preponderante la loro utilizzazione di identificazioni proiettive, le possibilità, per l’adolescente, di una vera e propria separazione-individuazione sono bloccate. Queste identificazioni, che rendono confusi i confini del Sé dell’adolescente, si associano ad altri meccanismi di difesa arcaici, scissione e idealizzazione, con il rischio – rispettivamente – di una patologia borderline dominata dal manicheismo buono-cattivo e di una patologia narcisistica dominata da un Sé grandioso. In famiglie tanto fragili l’adolescente può considerare necessaria, per la risoluzione della crisi genitoriale, l’espulsione, “modalità di transazione patologica” che si può manifestare attraverso tentativi di suicidio, fuga o viaggio patologico (Marcelli, Braconnier, 1983).

Bugie, furti e fuga impulsiva sono tentativi di ribellarsi all’indifferenza e affermare se stesso, placando, seppur provvisoriamente, i suoi bisogni di essere visto e contenuto.

Ciò che gli è assolutamente necessario è liberarsi dai legami deleteri, rispetto ai quali è rassegnato e indignato, primo fra tutti dal legame, che dovrebbe essere sacro, primario e vitale, con la madre. Gli è necessario trovare limiti e confini che gli consentano di identificarsi come soggetto intero, in relazione con soggetti interi, capaci di guardare, ascoltare e contenere anche il suo lato oscuro fatto di sentimenti ostili. Confini e limiti che gli diano possibilità di essere, di costruire un percorso libero definibile e narrabile, laddove le sue origini sono “marchiate” dall’ irriconoscibile ed indicibile.

L’agito, mettere in atto tendenze antisociali, costituisce per lui l’unica difesa, in questo caso egosintonica e adattiva, rappresentando la sola possibilità di salvaguardare sopravvivenza e affermazione di sé; al contempo le sue provocazioni sembrano voler comunicare ai genitori, agli adulti insensibili, al mondo intero, che non ha bisogno della loro sufficienza, della loro assenza presente (o finta presenza), che può fare a meno di loro, preferendo addirittura la “galera”.

Con l’amico di sventure René, l’adolescente Antoine ricerca esperienze attraverso cui sperimentare eccitazione, che confonde con quel senso di vitalità mai provato. Molto toccante la scena del Luna Park, nella giostra in cui il ragazzo vive un momento di pura adrenalina e ha la faccia di colui che è “senza pensieri”.

Antoine adulto, nei momenti più emozionanti, difficili o tristi, è ancora spinto a rispondere ad un bisogno impellente di scarica dell’eccitamento ingestibile, basti pensare, ad esempio, alla sua frequentazione di prostitute in due circostanze: congedato dal militare e dopo il funerale del collega investigatore privato.

L’accesso parziale all’ambivalenza genera in lui una doppia tendenza, da un lato a preservare quanto ha assunto come rassicurante “base sicura” (ideale assoluto da non contaminare!), dall’altro a ricercare in un altrove, nuovo e provvisorio, ciò che gli manca. Questa spinta condiziona profondamente tanto la vita sentimentale quanto quella lavorativa di Antoine, costellate da alti e bassi.

Il cinema in età adulta viene superato di gran lunga dalla passione per la lettura, che gli consente anche di attuare un meccanismo di intellettualizzazione, volto a mantenere lontani dalla coscienza pensieri, immagini ed emozioni potenzialmente pericolosi. In tale direzione si può spiegare la sua dichiarata avversione per la “noia”: il suo voler riempire le giornate di “fare”, il suo non fermarsi mai, sembra essere una strategia per non pensare troppo.

Attaccamento insicuro

Alla ricerca di una figura di riferimento, Antoine adolescente trova il suo personale dio (costruisce persino una sorta di altarino con tanto di santino!), maestro che in un certo senso lo accompagnerà per la vita, in Balzac, il quale in “Le père Goriot” scrive: «La società, il mondo vertono sulla paternità, tutto crolla se i figli non amano i padri».

Le dinamiche della vita affettiva di Doinel, ancor prima che essere riferite all’assenza del padre e di una figura paterna, possono essere messe in relazione con lo stile materno di attaccamento, distanziante, che ha reso inaccessibile ad Antoine il mondo affettivo della madre, impedendogli di imparare a ri-conoscere e “digerire” le emozioni, proprie e altrui.

Rivendicando la sicurezza di cui è stato deprivato (ricordiamoci che deve la vita alla nonna materna, la quale ha rifiutato alla figlia il permesso di abortire e che ha avuto amorevolmente cura di lui finché ha potuto), Antoine difende come può la sua integrità precaria e l’amore di cui è capace, seppure con modalità inappropriate e disfunzionali: se in adolescenza ne sono espressione tendenze e comportamenti antisociali, nell’età adulta di Antoine troviamo ad esempio, costanti ed esemplificative, l’irresponsabilità nell’abbandonare sempre il lavoro vecchio per uno nuovo, la promiscuità sessuale (la frequentazione di prostitute), la tendenza a mentire e tradire (relazioni extraconiugali).

Queste modalità, che rimandano ad uno stile di attaccamento tipo A insicuro-evitante (Ainsworth et al., 1978), sono accomunate dallo schema di attaccamento dell’“evitamento angoscioso” (Bowlby, 1989)., in cui “l’individuo non possiede la fiducia che, quando ricercherà delle cure, gli si risponderà soccorrevolmente, ma, al contrario, si aspetta si essere rifiutato seccamente. Quando un tale individuo tenta, in grado marcato, di vivere la propria vita emotiva senza l’amore e il sostegno degli altri, egli cerca di divenire autosufficiente sul piano emotivo e può venire in seguito diagnosticato come narcisista o come persona con un falso sé, del tipo descritto da Winnicott (1960). Questo schema, in cui il conflitto è più nascosto, è il risultato di una madre che respingeva recisamente e costantemente il figlio” (Bowlby, 1989, p. 120).

Potremmo affermare che un tale modello di attaccamento insicuro, attraverso il consolidarsi di modelli operativi interni, può segnare l’orientamento caratteriale del soggetto in senso improduttivo (Fromm, 1947), ostacolando l’autentica espressione e realizzazione di sé. Ma va tenuto conto del fatto che l’esito psicopatologico non è l’unico possibile, così come non sono da escludere successive modificazioni e trasformazioni dei modelli disfunzionali. Più recenti studi sull’attaccamento, evidenziando aspetti quali la bidirezionalità e transgenerazionalità, sembrano porre il focus dell’attenzione su una dimensione interpersonale nella quale può giocarsi un “potenziale continuo di cambiamento” (Bowlby, 1989, p. 131), che Antoine saprà cogliere e dispiegare.

Orientamento produttivo

Nell’ultimo film del ciclo, L’amour en fuite, il cambiamento di Antoine, iniziato già nel precedente, Domicile coniugale, mostra anche la possibilità di una trasformazione caratteriale, laddove intervengano fattori (principalmente interpersonali) che favoriscono una presa di coscienza e un comportamento proattivo.

Il cambiamento di Antoine trova spinte forti sia nei nuovi legami di attaccamento (in primo luogo quello con la rassicurante, sicura, Christine, per lui “sorellina, figlia e madre”) sia nelle esperienze che contrassegnano l’età adulta di Antoine (come quella della paternità). Ma momento cruciale sarà l’incontro con Lucien, amante della madre, oramai morta, il quale fungerà da figura terapeutica, consentendogli di ri-conoscere e riscrivere la sua storia. Potrà allora essere e amare in modo autentico, nell’hic et nunc, sentire e relazionarsi in modo autentico, rispetto a se stesso e agli altri. La relazione con Sabine nasce e si sviluppa come risorsa fondamentale, spazio fecondo del cambiamento in atto, in quanto imperniata su un amore incondizionato, che implica il riconoscimento dei reciproci limiti e la condivisione di un progetto comune in cui le potenzialità di ciascuno trovano espressione e il coraggio di realizzarsi.

  • Bisogni di attaccamento, vita affettiva e realizzazione di sé

Attachment Theory e Psicoanalisi Umanistica Frommiana

Intendo proporre, in questa sede, una ipotesi di raffronto che coinvolge ed integra la teoria dell’attaccamento di Bowlby e la psicoanalisi umanistica di Fromm.

Secondo me il punto essenziale di congiunzione, che mi accingo ad approfondire, risiede nei concetti di amore e sicurezza affettiva, di cambiamento e di autenticità che, seppur in maniera diversa, sono stati elaborati dai contributi a cui si fa riferimento.

Il contributo di John Bowlby è fondamentalmente legato alla nozione di attaccamento, approfondita nei tre volumi di Attaccamento e perdita (1969, 1970, 1980). Per Bowlby come per Freud la psicoanalisi ha profonde radici nella teoria di Darwin, ma quello di Bowlby è un darwinismo del XX secolo: per l’autore l’attaccamento è istintivo e primario, indipendente dalla mera soddisfazione dei bisogni fisici, il bambino è individuo attivo e biologicamente preadattato, che ricerca la maggiore prossimità alla madre mediante schemi di comportamento propri della specie volti allo stabilirsi di un “legame affettivo intimo e costante” tra madre e bambino; il sistema di attaccamento ha l’obiettivo esterno di garantire la vicinanza con il caregiver (per assolvere la funzione biologica che B. individua nella “protezione dai predatori”) e quello interno di motivare il bambino alla ricerca di una sicurezza interna. Due sono quindi le ipotesi centrali, ampiamente convalidate dalle ricerche empiriche, nella costruzione teorica di Bowlby: 1) lo stile di attaccamento che il bambino sviluppa dipende strettamente dalla “qualità” delle cure materne ricevute; 2) lo stile dei primi rapporti di attaccamento influenza in misura considerevole l’organizzazione precoce della personalità e soprattutto il concetto che il bambino avrà di sé e degli altri, quindi le future relazioni. Bowlby considera il comportamento di attaccamento come “caratteristico della natura umana in tutto il corso della vita – dalla culla alla bara”, e parla di un “potenziale continuo di cambiamento” (1989).

Nel concetto frommiano di situazione umana “possiamo vedere un intreccio di esistenzialismo e di evoluzionismo, anche se solo il secondo è dichiarato. Le posizioni evoluzionistiche diventano più esplicite nel corso delle opere di Fromm, anche con riferimenti a Bowlby” (Biancoli, 2000). Fromm, rivedendo la teoria freudiana della sessualità, sostiene che, pur esistendo una sessualità infantile, l’attaccamento del bambino alla madre non è di natura essenzialmente sessuale, piuttosto la dipendenza dalla figura materna esprime principalmente il desiderio di protezione e sicurezza, l’aspirazione ad una situazione paradisiaca di soddisfacimento e amore (Biancoli, 1986). L’autore, pur essendosi tanto occupato della società e della sua influenza sull’individuo, accentua, rispetto a Freud, l’importanza del dato costituzionale, il ché gli consente di dare un più solido fondamento teorico alla possibilità di trasformazioni caratteriali: Fromm sostiene che nella personalità entri la natura col temperamento e la società col carattere, quest’ultimo, pertanto, “può fare perno sul lato naturale delle potenzialità e assumere un orientamento diverso, relativo a un altro ambiente o anche, come dovrebbe accadere con una esperienza terapeutica, più autonomo da ogni ambiente, se la produttività che è propria della natura umana si libera e si esprime” (ibidem, p. 21).

Tutto ciò rinvia al concetto di “persistente potenziale di cambiamento” e al “modello dei percorsi di sviluppo” di Bowlby (1989): “Quei bambini che hanno dei genitori insensibili, lenti a rispondere, tendenti a trascurarli, o che li respingono, si svilupperanno con ogni probabilità seguendo un percorso deviante che è in certo grado incompatibile con la buona salute mentale e che li rende vulnerabili a un crollo, qualora si imbattessero in esperienze gravemente negative. Anche in tal caso, dato che il corso dello sviluppo successivo non è fissato, cambiamenti nel modo in cui un bambino viene trattato possono far deviare il suo percorso in una direzione più favorevole o in una più sfavorevole (…) in nessuna età della vita una persona è invulnerabile di fronte alle possibili avversità e anche (…) impermeabile a un’influenza favorevole” (ibidem, p. 131).

Difatti, pur essendo stato dimostrato come l’attaccamento insicuro sia associato significativamente a successivi problemi comportamentali, a problemi nel controllo degli impulsi, a scarsa autostima, a scarsa regolazione emozionale e a difficili relazioni con i pari (Sroufe, 1983; Turner, 1991; Zimmermann, Grossmann, 1994) , i modelli insicuri (evitante e ambivalente) non costituiscono di per sé un indice di patologia, rappresentando in alcuni casi strategie adattive impiegate in relazione a caratteristiche dell’accudimento non ottimali.

Lo stile di attaccamento insicuro-evitante viene comunque a configurare, in ogni caso, anche se in misura e qualità differenti, una situazione umana di inautenticità, determinata in primo luogo dalla messa in atto di un processo di esclusione difensiva dei propri bisogni affettivi e di protezione, che impedisce lo sviluppo di una adeguata consapevolezza ed intelligenza emotiva: “Quando un tale individuo tenta, in grado marcato, di vivere la propria vita emotiva senza l’amore e il sostegno degli altri, egli cerca di divenire autosufficiente sul piano emotivo e può venire in seguito diagnosticato come narcisista o come persona con un falso sé, del tipo descritto da Winnicott (1960)”, scrive Bowlby (1989).

Ciò richiama il concetto di “alienazione” elaborato in Escape from freedom (1941) da Fromm, il quale descrive il falso sé come struttura di carattere improduttiva (Bacciagaluppi, 2000), risultante da rapporti alienati che soffocano la coscienza umanistica, cioè “la voce del nostro vero Sé che ci richiama a noi stessi” (ibidem).

  • Una lettura interpersonale umanistica

La “fuga dalla libertà” del vero Sé

Secondo Fromm l’uomo moderno è alienato, estraniato da se stesso, in fuga dalla parte più autentica di sé. C’è infatti una bella differenza tra “libertà da” e “libertà di”: sono tanti coloro che si autodefiniscono liberi, ma in realtà non sono poi così tanti gli uomini che lo sono davvero, che scelgono la libertà di essere umani.

Sotto la pressione di una evoluzione culturale distorta la specie umana fugge dalla propria natura, fatta di infinite potenzialità, preferendo l’immagine ipertrofica di un falso sé che fa da altarino ad una nicchia di isolamento e impotenza. Non a caso Fromm parla, riferendosi ad autoritarismo, distruttività e conformismo da automi, di meccanismi “di fuga”, intesi come modi in cui i caratteri non produttivi si rapportano socialmente.

La fuga impulsiva, lo abbiamo visto, è la tendenza difensiva privilegiata da Antoine. Memorabile la scena finale di Les 400 coups, in cui l’adolescente corre verso il mare, si spinge sino alla battigia e si volta, dopo essere entrato con le scarpe in acqua: lo sguardo di Doinel verso lo spettatore è uno sguardo di dolore, ma privo di retorica, carico di speranza e di desiderio di libertà. Mi viene in mente a tal proposito anche un’altra scena dello stesso film, quella del Luna Park, nella quale appare evidente come il ragazzo ricerchi nelle esperienze eccitanti un senso di vitalità che non ha mai provato. E l’impulsività, come scarica dell’eccitamento, diviene per lui il modo per aggirare il riconoscimento e l’elaborazione delle emozioni.

Seguendo la storia attraverso i film, e quindi lo sviluppo del personaggio, possiamo però osservare il passaggio di Antoine dalla ribellione provocatoria e liberatoria dell’adolescenza ad un rassicurante conformismo, difensivo, che gradualmente si sgretola. Esso lascia posto ad una presa di coscienza e ad una scelta attiva che rendono possibili il cambiamento.

Ciò è stato possibile in quanto il temperamento di Antoine, la sua parte “naturale”, incontaminata nella sua essenza, ha incontrato relazioni buone nell’ambito delle quali fare esperienze correttive e trasformative. I valori e la gioia di vivere che Antoine esprime, nonostante tutto, in età adulta attestano la presenza di una risorsa fondamentale che egli riesce gradualmente e faticosamente ad attivare, la speranza. Secondo Fromm “Alberga nel carattere produttivo un’attiva speranza, che non si aliena nell’attesa del tempo futuro e non forza il presente ma lo vive come stato di gestazione” (Biancoli, 1986).

In Antoine, il passaggio dalla lettura alla scrittura autobiografica è emblematico, dando espressione a quel produttivo atteggiamento di apertura e attivazione che tende ad un cambiamento costruttivo, personale e al contempo socialmente condivisibile. L’uomo che egli diventa si dispiega nel progredire dalla compiacenza ad una sempre maggiore autenticità.

L’incontro con Lucien: “arte” della psicoanalisi e attivazione psicoterapeutica

La vita è fatta di paradossi nei quali, talvolta, si nasconde la verità. Chi l’avrebbe detto che proprio Lucien, che conosciamo per la prima volta in Les 400 coups come l’amante di Gilberte, sarebbe stato il volano del cambiamento di Antoine? Quest’ultimo lo definisce “L’amante numero 1” della madre, d’altronde quell’uomo aveva rappresentato proprio un nemico numero 1 per Doinel adolescente, bambino trascurato e arrabbiato, alle prese con il rifiuto materno e con l’assenza paterna.

In L’amour en fuite ritroviamo questo personaggio, Antoine lo ritrova, guarda a lui con nuovi occhi. Questo incontro interviene in un cambiamento già parzialmente in atto, segnando un momento cruciale, di svolta esistenziale per il nostro protagonista, in quanto gli consente di ri-conoscere sua madre (e di perdonarla), di ricucire ferite e ricomporre fratture che fino ad allora, avendo generato una copertura difensiva, lo avevano reso scisso e alienato, impedendo l’autentica espressione e realizzazione di sé. Da questo momento, Antoine può ri-conoscere se stesso, scoprirsi integro e integrato, nonostante una storia da riscrivere; guardare in se stesso, superando i limiti di un narcisismo difensivo e patologico, gli consente di accettare la propria fragile umanità, e di prendersi cura della propria vita autentica, del proprio essere. “Il narcisismo pone la persona nella modalità dell’avere e la rende facilmente vulnerabile, poiché ciò che si ha si può perdere, suscettibile ed esposta a sentimenti di rancore. L’odio nasce dal narcisismo ferito. (…) Al contrario l’essere io, che è esercizio di vitalità e generatività, sottrae dal rischio di perdere l’identità, che non è alienata in cose ma persistente nella sua stessa esperienza” (Biancoli, 1986).

L’incontro tra Lucien e Antoine è un “confronto vivente” (ibidem), che, nel rispetto dell’interezza dell’altro essere, consente di fare propria la prospettiva altrui. Lucien com-prende il bisogno e desiderio di verità di Antoine, e quest’ultimo ha modo, a sua volta, di com-prendere, la madre e quell’uomo più o meno sconosciuto (che ha amata sua madre sino alla fine dei suoi giorni), come anche se stesso. L’empatia di cui Antoine si mostra, forse per la prima volta, capace, è il risultato e, al contempo, la chiave del suo cambiamento.

Proprio come accade in psicoterapia. Una vera e propria arte, volta non all’adattamento sociale, quanto alla cura dell’anima. Atto creativo. Nell’hic et nunc di questo confronto non mancano resistenze, regressione e transfert, ma è la restituzione che chiama in causa il protagonista nel ruolo attivo di chi prende in mano le redini della sua vita, cosicché la presa di coscienza possa accompagnarsi al salto nell’azione, al cambiamento nel modo pratico di vita.

Lucien, analogamente alla figura del terapeuta, non si limita a fungere da specchio, bensì si mette a disposizione offrendo un rapporto stabile e ponendosi come presenza empaticamente partecipante, come reale e vera figura di riferimento, che sostiene ma non si sostituisce né si impone (ad esempio con interpretazioni selvagge). Egli è un essere umano capace di dedizione e di “prendersi cura” (rimane fino alla fine accanto alla sua Gilberte, morta all’età di 47 anni), esempio di chi sa amare produttivamente. “Il paziente può cogliere la propria interezza quando vede l’esempio dell’interezza del terapeuta. (…) Non le parole del terapeuta infondono coraggio ma il suo proprio coraggio” (ibidem).

Secondo Fromm la conoscenza sperimentata in analisi trascende quella puramente intellettuale, in quanto nel processo psicoterapeutico è possibile il rinvenire di quel volto originario, base dell’identità della persona: il paziente può riconoscere elementi della sua identità e distinguerli da quelli di pseudoidentità, insomma riconoscere il vero sé, scoprendo in esso la libertà di essere umano.

Il cambiamento di Antoine, che trova una spinta decisiva nell’incontro “terapeutico” con Lucien, è analogo a quello a cui tende la psicoterapia, che “può condurre a una triangolazione interiore dei rapporti col padre e colla madre, dove l’autoritarismo e la fissazione incestuosa lascino il posto all’intimo dibattito tra coscienza paterna e coscienza materna della persona, che è divenuta padre e madre di se stessa. La contraddizione rimane, ma non più fissata a vecchie controversie familiari, bensì come permanente tensione insita nella natura umana tra senso del dovere derivante dalla propria socialità e senso di amorevole accettazione di sé proveniente dalla vita stessa e permanente in essa anche se il dovere non venga adempiuto” (Biancoli, 1986)[4].

  • Conclusioni

Il ciclo Antoine Doinel ben viene a rappresentare la “situazione umana” (Fromm, 1947), costellata di dicotomie esistenziali e potenzialmente pro-tesa. Il protagonista non è l’uomo “colpevole” freudiano, lacerato dal senso di colpa per desideri proibiti, bensì un uomo terreno, che soffre di alienazione e insoddisfazione cronica, ma, al contempo, si impegna in una ricerca attiva di senso e verità che sostanzia il suo percorso di autorealizzazione. Sceglie di superare il passato, pur senza aggirarlo (arriverà infatti a raccontarlo nel suo romanzo autobiografico), di ri-conoscere la propria storia per cambiarne il corso, Doinel, che vive l’hic et nunc gestativo (Fromm, 1976) come artefice del proprio destino.

Fromm scrive: “l’etica umanistica prende la posizione che se l’uomo è vivo, sa che cosa è permesso; ed essere vivi significa essere produttivi, non impiegare le proprie capacità per nessuna finalità che trascenda l’uomo, bensì per se stessi, dar senso alla propria esistenza, essere umani. Finché c’è chi ritiene che il suo ideale e la sua finalità sono posti al di fuori di lui, vale a dire al di sopra delle nuvole, nel passato o nel futuro, uscirà da se stesso e cercherà adempimento dove non lo potrà trovare. Cercherà soluzioni e risposte in qualsiasi punto salvo che dove potrebbe rinvenirle: in se stesso” (1947).

Alla fine scopriamo, con lo stesso Antoine, che quando troviamo noi stessi, riconoscendo e accettando la nostra parte più autentica, possiamo incontrare davvero gli altri: smettiamo allora di ricercare la chimera dell’assoluta felicità e possiamo ‘semplicemente’ essere, essere umani.

 

[1] All’epoca neuropsichiatra infantile, psicoterapeuta, membro della Société Française de Thérapie Familiale Psychanalytique, redattore capo della Rivista Le divan familial, segretario generale e tesoriere dell’Association Internationale de Psychanalyse de Couple et de Famille.

[2] Jean Narboni e Serge Toubiana (a cura di) (1988). Il piacere degli occhi / François Truffaut. (Trad. It. Melania Biancat). Marsilio, Venezia.

[3] Citato in Marcelli D., Braconnier A. (1983). Adolescenza e psicopatologia. Masson, Milano, 2006 (sesta edizione italiana).

[4] Cita Fromm E. (1955). Psicoanalisi della società contemporanea.

La vergogna: breve storia d’un concetto

di Volfango Lusetti, 4 settembre 2016

leggi in pdf Breve storia della vergogna

Questo contributo è presente in Aa. Vv., Vergogna, un’emozione dimenticata, a cura di Maria Emanuela Novelli e Guglielmo Pallai, Edizioni Universitarie Romane, Roma 2016, e sulla rivista «Attualità e Psicologia».

vergogna-l-emozione-dimenticataLa vergogna è uno di quegli aspetti della psicologia umana che maggiormente si prestano ad essere fraintesi.

Essa infatti si situa a cavallo fra le dimensioni antropologico-religiosa e politico-ideologica da un lato, e quella psicopatologica dall’altro lato.

E’ proprio in ragione di questa sua “posizione di confine” fra antropologia e psicopatologia, che la vergogna viene molto spesso confusa con la colpa, ossia con un’altra categoria psicologica, ugualmente “di confine” fra antropologia e psicopatologia, da cui invece è strutturalmente diversissima e per certi versi opposta.

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Fra la colpa e la vergogna esistono, beninteso, delle indubbie analogie: esse, peraltro, a ben vedere si riducono ad una sola, però essenziale, che consiste nell’essere entrambe dei disturbi della relazione con gli altri, introiettati come percezione d’una propria esclusiva responsabilità circa un eventuale svolgimento negativo e/o distruttivo della relazione medesima.

Abbiamo però anche alcune differenze, che sono altrettanto capitali:

  • mentre la colpa, dal punto di vista antropologico-culturale e religioso, ha una matrice soprattutto giudaico-cristiana, la vergogna è assai più arcaica, universale e conosciuta in tutte le epoche, religioni e culture;
  • mentre la colpa, dal punto di vista psico-dinamico, ha una connotazione essenzialmente attiva (poiché trae origine soprattutto da un presunto comportamento volontario del soggetto, che si ritiene possa essere ricaduto, per l’appunto “colposamente”, su altri), la vergogna ha una connotazione nettamente più passiva, poiché riguarda all’inverso comportamenti e/o atteggiamenti altrui che si teme di dover subire, contro la propria volontà, in ragione di proprie insufficienze e caratteristiche negative, vere o presunte. Sono proprio questi comportamenti e/o atteggiamenti altrui, dunque, quelli che dall’esterno potrebbero ricadere su un soggetto il quale, entro una certa misura, ne è del tutto “incolpevole”, anche se se ne sente per qualche motivo come il destinatario “obbligato” e quasi la vittima designata.
  • mentre la colpa, dal punto di vista psico-patologico, riguarda un vissuto inerente azioni o atteggiamenti che sono state commessi o assunti dal soggetto (o quanto meno da lui desiderati e/o fantasticati) in forma pienamente consapevole, e che quindi sono non solo perfettamente conosciuti ma addirittura “rivendicati”, seppure per pentirsene, la vergogna, oltre che “ricadere in capo al soggetto” senza un’apparente colpa di quest’ultimo, appartiene in gran parte al regno dell’immotivato e dell’inconsapevolezza delle sue cause ultime, e dunque, almeno in parte, a qualcosa di sotterraneo, d’indefinito nei suoi contorni reali e di tendenzialmente inspiegabile.
  • mentre la colpa, usando categorie freudiane, riguarda soprattutto l’Io, quindi la sfera delle decisioni operative assunte da un determinato soggetto sia verso se stesso che verso l’ambiente esterno, la vergogna riguarda essenzialmente la sua modalità percettiva, e più precisamente la sua auto-percezione in rapporto al giudizio che su di lui può ricadere più o meno arbitrariamente dall’ambiente esterno, nonché il senso stesso del proprio valore e della propria identità personale (ovvero, ciò che in ambito psicoanalitico è stato denotato con il concetto di “Sé”). Inoltre la vergogna riguarda spesso ciò che a partire dall’ambiente investe direttamente e senza mediazioni razionali la corporeità del soggetto, ed insomma una sfera dell’interazione profonda fra il Sé e gli altri che per definizione non è, almeno nella maggior parte dei casi, sotto il controllo cosciente del soggetto.
  • Mentre la colpa si accompagna ad un preciso “potere” che il soggetto detiene sia sugli altri che su se stesso (su se stesso nel senso dell’auto-inibizione e dell’auto-padroneggiamento, sugli altri nel senso del loro “rabbonimento” ed anche della loro colpevolizzazione di risulta, con il potere di ricatto che da ciò consegue), la vergogna si accompagna ad un’impotenza pressoché assoluta: chi si vergogna si trova, letteralmente, “in balìa degli altri” e non possiede nessun arma da “brandire” nei loro confronti, cosa che non avviene affatto a chi è “preda dei sensi di colpa”.

In definitiva, le coordinate attraverso cui si declinano le cinque principali differenze fra colpa e vergogna che abbiamo elencato, corrispondono alle seguenti quattro dicotomie, delle quali solo la prima è d’ordine antropologico-religioso, mentre le altre tre sono prettamente psicopatologiche:

  1. a) la particolarità giudaico-cristiana della colpa, di contro all’universalità culturale della vergogna
  2. b) la connotazione volontaria, paradossalmente “potente” ed attiva della colpa, di contro alla passività ed impotenza della vergogna
  3. c) la consapevolezza della colpa, di contro alla frequente inconsapevolezza della vergogna (o meglio, di contro all’inconsapevolezza delle sue fonti)
  4. d) l’operatività etero-diretta della colpa, di contro alla percezione auto-riferita della vergogna.

Queste quattro differenze, come si vede, sono accomunate dall’essere la vergogna qualcosa che investe il soggetto e ne muta l’auto-percezione provenendo dal di fuori, anziché partire da lui stesso come avviene nel caso della colpa.

Dalle ultime tre di esse deriva poi la conseguenza che il “senso di colpa”, ovvero un vissuto nel quale il soggetto sceglie attivamente di auto-esporsi al giudizio altrui, è solo in pochissimi casi collegato, sul piano psicopatologico, con vissuti di riferimento, ovvero di tipo psicotico e delirante e/o di trasformazione corporea: per la precisione, un tale collegamento si ha solo nei “deliri di colpa”, ovvero in una tipologia della colpa in cui l’aspetto dell’esposizione passiva agli altri ed alla strapotenza del mondo acquista una particolare rilevanza, ma in compenso appare completamente mascherato da una formazione reattiva di tipo maniacale, iper-attiva ed etero-diretta la quale parte ancora una volta dall’Io, come avviene ad esempio in quei “deliri di rovina o di negazione del corpo e del mondo” nei quali si sviluppa una chiara, seppur paradossale, “ipertrofia” del senso d’una propria personale “potenza” che annulla il mondo).

La vergogna, invece, essendo in base a quanto sopra collegata ad un’esposizione puramente passiva, e senza tracce di reazione para-maniacale, al giudizio altrui, contiene sempre in se stessa un embrione d’ideazione di auto-riferimento e/o persecutoria di tipo centripeto, quindi “delirante” nel senso più classico del termine: ciò al punto che alcuni psicopatologi (ad esempio Arnaldo Ballerini) la hanno addirittura collocata nell’ambito d’un unico “continuum” con il delirio in sé (seppure attraverso gli anelli intermedi rappresentati dalle idee ossessive cosiddette “prevalenti” e dal delirio auto-riferito di tipo “sensitivo”), cosa che per quanto riguarda la colpa, almeno se presa nel suo insieme, non è assolutamente possibile fare.

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Ora, il fatto stesso che una tale confusione fra colpa e vergogna possa essersi prodotta ed abbia completamente oscurato le cospicue differenze psicopatologiche ed antropologiche (peraltro universalmente note agli studiosi) che abbiamo elencato, è a prima vista sorprendente.

Tuttavia, a ben guardare, questa situazione possiede delle ragioni storiche precise: esse risiedono nell’essersi la cultura giudaico-cristiana (tutta imperniata sulla colpa) appropriata, in questo come in molti altri casi, di concetti ad essa in parte (ma solo in parte!) affini, come appunto la vergogna, i quali appartenevano a culture e religioni anche di molto antecedenti, deformandoli e successivamente piegandoli ai propri fini ideologico-religiosi.

Pe tutti questi motivi, della vergogna, almeno nel mondo occidentale, a tutt’oggi ha preso a prevalere un’accezione molto superficiale, di tipo “politically correct” e banalmente moralistica, la quale è divenuta a poco a poco assai popolare e si è ormai radicata, sia nei mass media che in buona parte dell’opinione pubblica.

In base a quest’idea, ormai da gran tempo dilagata non solo nel “senso comune” ma anche in gran parte degli intellettuali, e persino in alcuni degli “addetti ai lavori” o “operatori della psiche” meno avvertiti, la vergogna sarebbe solamente una versione superficializzata ed esteriorizzata della colpa, e come tale essa da gran tempo, in specie con l’attenuarsi dei codici morali cristiani e del senso di colpa che era ad essi connaturato, sarebbe “deperita”, anzi addirittura “non ci sarebbe più”: insomma oggi, a differenza di quanto accadeva in un non meglio precisato “buon tempo antico” (e lo si dice con un misto di compiacimento e di rammarico), “non ci si vergognerebbe più” di alcunché.

Tutto ciò viene in tutta serietà affermato in quanto la vergogna, secondo una tale “vulgata”, anziché quel fenomeno psicopatologico molto profondo che abbiamo visto, ossia collegato ad un senso ancestrale di esposizione al pericolo nonché d’invasione psichica e corporea al limite della persecuzione e del delirio, andrebbe intesa come una “categoria morale” o addirittura politico-ideologica, da collegarsi, piuttosto che con i vissuti persecutori, con il dovere morale del “vergognarsi” (un dovere, secondo i più, oggi sempre più disatteso).

Insomma la vergogna, lungi dall’essere riconosciuta per quel fenomeno psicopatologico ancestrale e sommamente enigmatico che è nella realtà (un fenomeno lontanissimo dalle categorie “morali” perché, lo ripetiamo, assai più primitivo del senso di colpa ed imperniato, anziché sulla “volontà” e sull’attività, sulla passività, sull’inconsapevolezza, sull’auto-percezione e sull’auto-riferimento), si è trasformata in una sorta di “dovere civico”: qualcosa che di per sé sarebbe strettamente affine al “senso di colpa” ma ancora più superficiale di esso, per cui ad esempio a livello di costume, nell’attuale cosiddetta “crisi di valori”, “i meno onesti” (i quali sono per definizione carenti di “sensi di colpa” ed anche, ahimè, almeno secondo i luoghi comuni correnti, “sempre più numerosi”), non avrebbero ovviamente alcuna difficoltà psicologica a sottrarvisi.

Inutile dire come una tale visione caricaturale della vergogna, oltre a non renderle minimamente giustizia, sia del tutto inadeguata, semplicemente, a descriverla.

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Ma accanto a queste considerazioni generali, esistono anche indizi potenti, sia a livello clinico-psicopatologico che di costume, del fatto che la vergogna, lungi dall’essere “deperita” o addirittura scomparsa dalla cultura attuale, come si pretende, è al contrario ben presente ed operante, specie nell’ambito dei fenomeni sessuali.

In realtà, almeno a prima vista, nulla appare più lontano dalla vergogna della fortissima liberazione della sessualità e dell’affermarsi di quella vera e propria concezione consumistica ed “usa e getta” che ha investito il comportamento sessuale medesimo da alcuni decenni a questa parte (per l’esattezza a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso).

In particolare, la suddetta “liberazione della sessualità” ha fortemente investito il comportamento delle donne, ed in subordine dei giovani e degli adolescenti.

Questo fenomeno ha sicuramente molto a che fare con l’introduzione massiccia degli anti-concezionali e con la conseguente divaricazione fra le categorie della sessualità/piacere e della riproduzione/dovere (quindi anche con una parziale liberazione delle donne dalla schiavitù dell’accudimento d’una famiglia che in passato, nell’ambito d’una coppia che era essenzialmente finalizzata alla riproduzione, contava nel suo seno un alto numero di figli).

Esso peraltro è suggestivamente parallelo ad un ulteriore fenomeno: lo svuotamento repentino delle Chiese nel mondo occidentale, detto anche “secolarizzazione religiosa”, ovvero un altro misterioso e repentino evento che è stato osservato proprio a partire dagli anni Sessanta del Novecento, e che denota un crescente venir meno della “presa culturale” d’un ente spirituale molto prestigioso e potente, fino ad allora dispensatore incontrastato di obblighi e di codici morali soprattutto in campo sessuale.

Questi tre fenomeni, poi (“liberalizzazione dei costumi sessuali”, “introduzione degli anticoncezionali” e “secolarizzazione religiosa”), possono a loro volta essere messi in relazione con un quarto, che possiamo complessivamente definire, in termini riassuntivi, la “crisi del modello culturale patriarcale”: si tratta in questo caso d’un fenomeno che investe assetti culturali pluri-secolari e forse millenari, e che probabilmente sta alla base degli altri.

La “crisi del modello culturale patriarcale” è caratterizzata, nell’ordine:

  • da una forte crisi dell’identità maschile, sia sul piano lavorativo che sessuale
  • dal crescente corrispettivo affermarsi del potere femminile, sia a livello socio-culturale che economico-politico
  • dal calo vertiginoso della natalità, ed insieme della mortalità infantile
  • dalla crisi del vincolo coniugale di tipo monogamico, e più in generale della “famiglia tradizionale”, e dal conseguente dilagare di famiglie, etero ed omo-sessuali, cosiddette “a geometria variabile”, ovvero con giustapposizioni varie di figli, di genitori e di “compagni” appartenenti a più matrimoni ed unioni, ecc.
  • dal venir meno crescente, in parallelo con il crescere dell’individualismo collegato al dissolvimento della famiglia tradizionale, del concetto di “dovere morale” (e conseguentemente, di quello di “colpa”), e dal corrispettivo crescere di quello di “diritto”, sia in campo sessuale e lavorativo che in tutti gli altri
  • dal diffondersi di comportamenti maschili sempre più violenti e efferati sulle donne, presumibilmente “reattivi” al crescere del potere femminile e al calo di quello maschile
  • dal diffondersi di problemi erettivi nel maschio, anche se molto giovane (un fenomeno che qualcuno ha addirittura calcolato, nella percentuale del 52% dei maschi occidentali); di tali problemi erettivi, presumibilmente anch’essi collegati con la crisi d’identità maschile, è indizio il diffondersi dell’uso del Viagra fra i giovani.

Ora, per tornare al tema della vergogna, questi fenomeni di mutamento culturale apparentemente assai eterogenei e disparati (anche se sul piano antropologico tutti riconducibili, come si è detto, alla crisi del “modello culturale patriarcale”), a ben vedere possono essere unificati, da un punto di vista psico-dinamico, sotto il comun denominatore d’una “maggiore esposizione sia delle donne che degli uomini a stimolazioni sessuali aggressive ed invasive, un tempo arginate e represse dalla cultura patriarcale e dalla sua ossessione monogamica (o quanto meno, dall’ossessione del controllo maschile sulla sessualità femminile)”.

Del cambiamento inerente la vergogna che si è accompagnato a tali mutamenti dell’antropologia e della psico-dinamica delle relazioni fra i sessi, portiamo quattro esempi, tutti particolarmente significativi.

Un primo esempio è prettamente psicopatologico:

  1. da un lato è deperita fino a sparire quasi del tutto una forma psicopatologica tradizionalmente femminile, ma non del tutto assente fra gli uomini, che imperava in epoche precedenti e che fu al centro dell’interesse di Sigmund Freud, ovvero l’isteria;
  2. dall’altro lato è cresciuta in termini esponenziali, anzi è addirittura esplosa, un’altra forma psicopatologica ugualmente prevalente fra le donne (ma che si diffonde sempre di più anche nel sesso maschile!), ovvero l’anoressia.

Ora, è lecito sospettare, sulla scia di Freud, che l’isteria fosse il sintomo (ed allo stesso tempo, il tentativo mascherato d’aggiramento) d’una repressione culturale, di chiara matrice patriarcale, di tutti quei comportamenti e “pulsioni” sessuali, anzitutto femminili, che potevano dar luogo non solo a comportamenti “trasgressivi”, ma anche ad un vissuto di esposizione diretta agli stimoli sessuali stessi (ovvero ad una forma di sessualità più o meno invasiva ed aggressiva, non filtrata da codici culturali repressivi e/o protettivi), e conseguentemente, ad un vissuto di “vergogna”.

Insomma l’egemonia culturale “patriarcale” si collocava non solo su un piano di repressione della sessualità, ma operava anche in un altro senso, finora per lo più trascurato dagli osservatori e dagli psicopatologi: essa si ergeva anche, per così dire, “a filtro e protezione” dall’esposizione sessuale medesima, e dunque dal senso della vergogna che ne conseguiva, rendendo così possibile una parziale e “mascherata” espressione di sessualità “libera” proprio attraverso la sintomatologia isterica, che in talune sue forme chiaramente la mimava. Ma come si può intuire, in un clima di “sessualità completamente liberata” dal venir meno dei codici patriarcali, come quello attuale, un tale meccanismo protettivo non è stato più necessario e nemmeno possibile, donde il declinare dell’isteria.

Analogamente si può sospettare, in maniera ugualmente legittima, che anche il crescere attuale dell’anoressia, e più in generale dei “disturbi dell’alimentazione” (fenomeno suggestivamente parallelo e inversamente proporzionale al declino dell’isteria!) rappresenti il risultato dell’odierno venir meno degli argini culturali patriarcali all’esposizione sessuale.

In altre parole, forse il venir meno del modello culturale patriarcale, nel suo “liberare” la sessualità (ed in primo luogo, la sessualità delle donne!), ha nello stesso tempo implementato la sua esposizione diretta (ovvero non più filtrata da codici culturali repressivi) alle possibili invasioni e/o predazioni  altrui, e di conseguenza il vissuto di “vergogna sessuale”.

Ciò, da un lato, potrebbe aver reso inutile ogni espressione della sessualità che fosse “mascherata” in forma isterica, e dunque ”protetta” rispetto ad un’esposizione sessuale diretta e potenzialmente aggressiva.

Dall’altro lato potrebbe aver reso necessaria, per compenso, una difesa “estrema” contro una vergogna e contro un’esposizione sessuale, ormai dilagante, da cui non ci si poteva più difendere in altri modi: ora, questa “difesa estrema” potrebbe essere stata rappresentata proprio da quel tentativo di “cancellazione del corpo e della sessualità” (ossia della fonte stessa dell’esposizione sessuale a possibili “invasioni”) di cui l’anoressia è un’evidente espressione: si pensi solo, a mo’ d’esempio, al repentino e frequentissimo cessare delle mestruazioni nella donna anoressica, ossia al venir meno, nell’anoressia, del cuore stesso dell’esposizione sessuale femminile al maschio, che coincide evidentemente con l’aspetto riproduttivo.

Un secondo esempio è di natura antropologica, ed è il seguente:

una difesa dalle invasioni predatorie per via sessuale, probabilmente, è stata rappresentata dalla riscoperta di forme di repressione religiosa che si credevano definitivamente superate o in via di superamento, per lo meno in Occidente.

Da questo punto di vista è singolare la “riscoperta” del velo, presumibilmente anche in qualità di antidoto alla vergogna, non solo da parte di donne islamiche sempre più “contaminate” dai costumi occidentali ma anche da parte delle donne occidentali stesse (seppure ancora in minima percentuale), talché si è assistito con stupore al trapasso più o meno repentino, a cavallo fra gli anni Ottanta e gli anni Novanta del secolo scorso, da costumi sessuali sempre più occidentalizzati e “liberi” come quelli che si erano affermati nello stesso mondo islamico fino agli anni Settanta, ad un rinnovato fondamentalismo etico, peraltro accolto con favore in buona parte dei casi (ed è proprio questa la sorpresa!), dal sesso femminile stesso: quest’ultimo, infatti, spesso dichiara esplicitamente, anche in un contesto culturale occidentale, di sentirsi, del tutto a prescindere da presunte “pressioni maschili”, molto “più protetto” da un codice morale repressivo di tipo patriarcale (e quindi anche dal velo che lo rappresenta), che non dalla “libertà” completamente de-ritualizzata che l’Occidente propugna.

Un terzo esempio, anch’esso antropologico, può essere rappresentato dal crescere nell’opinione pubblica, talora in forma giustificata ma talaltra spinta fino all’isteria ed alla caccia alle streghe, della preoccupazione per la pedofilia quale tipica fonte di invasione sessuale di tipo predatorio, e conseguentemente fonte di passività e di vergogna: ciò a fronte dell’assenza assoluta di dati statistici che dimostrino un reale aumento del fenomeno.

In altre parole, la pedofilia sembra costituire non solo l’ultimo tabù sessuale rimasto in vigore (insieme all’incesto, che però spesso viene stranamente vissuto come un pericolo “minore”), a fronte della caduta di tutti gli altri, ma una specie di “argine estremo” il quale ad un certo punto ha riassunto su di sé il senso generale e più riposto dei tabù sessuali in quanto tali (quello, appunto, d’essere un argine ai tentativi d’invasione predatoria che attraverso la sessualità assai spesso si esplicano). La pedofilia infatti, specie se praticata da figure genitoriali o para-genitoriali (ad esempio dal clero), è un comportamento perverso che, a differenza degli altri, investe direttamente ed alimenta, in una maniera assai evidente e difficile da occultare, proprio quei vissuti d’invasione predatoria strutturalmente collegati alla sessualità (“liberata” o meno che sia) di cui abbiamo fatto cenno e che la cultura attuale tende invece a negare, praticamente in tutte le forme di perversione tranne che nella pedofilia, così come nel comportamento sessuale in generale.

Saremmo insomma di fronte, in questo caso, ad una riscossa paradossale, almeno in un clima imperante di sessualità “liberata”,  dei tabù sessuali in generale, attraverso la riscossa dell’ultimo tabù inerente il sesso, la pedofilia appunto, rimasto miracolosamente in piedi (e rimastovi proprio grazie al suo stretto collegamento, allo stesso tempo, con tematiche d’”invasione predatoria” d’origine sessuale, nonché incestuosa e vagamente “genitoriale”, e con i vissuti di “vergogna”.

Un quarto esempio, ugualmente antropologico ma allo stesso tempo psicopatologico, è il crescere, nella parte meno “avvertita” dell’opinione pubblica ed in alcune fasce del radicalismo religioso, di forme anche violente di omofobia, le quali si sono recentemente tradotte addirittura in attentati terroristici e stragi di massa a danno di omosessuali “militanti”, o comunque riuniti in attività ricreative di carattere “pubblico” e/o politiche. Questo fenomeno, a fronte d’una diffusione dell’omosessualità da sempre relativamente ampia, seppure in forma sotterranea, anche nelle società e culture apparentemente più “omofobiche”, sembra indicare ancora una volta un’emersione persecutoria del vissuto di “vergogna” (intesa nella sua forma più tipica della “esposizione” ad invasioni sessuali predatorie), che l’affermarsi di un’omosessualità “vissuta in pubblico” ha evidentemente slatentizzato, in Occidente ma non solo, all’interno d’una certa fascia “retriva” di soggetti maschili.

A tale proposito si può ricordare come l’omosessualità maschile, in particolare, implichi per molti soggetti il sentirsi posti, anzi talora il porsi loro stessi in maniera volontaria ed ostentata, in una posizione potenzialmente passiva, quindi “esposta” e “soggetta”, nei confronti di invasioni sessuali predatorie d’origine maschile: ora, ciò è più che sufficiente a determinare in coloro fra tali soggetti che si sentono involontariamente esposti alla predazione sessuale (e che si presume siano particolarmente predisposti ai vissuti persecutori d’invasione predatoria), un senso di “vergogna”, con il conseguente scatenarsi di reazioni più o meno violente e paranoicali all’esposizione maschile medesima: è arcinoto ed universalmente riscontrabile nella clinica, a partire dal caso Schreber citato da Freud, il legame strettissimo che unisce “paranoia” ed “omosessualità” (un legame che per Freud era rappresentato dall’essere la paranoia la “copertura di un’omosessualità di cui ci si vergogna”, mentre secondo noi consiste ancor prima di ciò nell’essere l’omosessualità, accanto alla vergogna, un potente contrappeso ed uno strumento di neutralizzazione, in questo caso tramite il “piacere”, di invasioni predatorie); ed è altresì risaputo l’odio ed il comportamento omicida che gli omosessuali suscitano in taluni soggetti psicopatici, i quali li avvertono come “invasivi” e “minacciosi per la loro “identità sessuale maschile”, oppure per l’integrità stessa del loro Sé.

Una suggestiva conferma del possibile legame fra omosessualità e “vergogna” intuito da Freud, del resto, ci viene da un curioso fenomeno, inerente l’omosessualità, che chiama in causa proprio quel legame fra anoressia e “vergogna sessuale” cui abbiamo fatto cenno nel primo esempio da noi portato. Il fenomeno è il seguente: quegli stilisti che “vergano” i dettami della moda cui si ispirano in maniera crescente i soggetti anoressici (donne ed uomini!), sono per lo più dei maschi omosessuali di tipo “estroverso”, ovvero dei soggetti che propugnano al massimo grado, per lo meno nell’ambito della cultura attuale, l’esposizione sessuale alla predazione, ovvero la sua esplicita rivendicazione, e che talora addirittura la “provocano” (si veda, a controprova dell’oggettiva esistenza d’una tale “esposizione omosessuale” ai pericoli predatori, il sopracitato odio di moltissimi psicopatici verso l’omosessualità). Insomma, è come se quelli, fra gli omosessuali, che si sentono non solo sensibili ma anche particolarmente “reattivi” alle tematiche d’invasione predatoria per via sessuale, per un verso “sfidassero” quest’ultima “esibendo” costantemente agli altri la propria omosessualità e quasi “rivendicandola” (forse in quanto posizione “passiva” che aspira a divenire “attiva”), e per un altro verso “insegnassero” a chi non ha la loro stessa capacità reattiva come difendersene, per l’appunto, tramite comportamenti anoressici, ovvero fatti di auto-sottrazione e di “rifiuto”, insieme al cibo, del sesso.

In definitiva, è come se tali stilisti tentassero in qualche modo di codificare ad uso di “tutti gli altri”, attraverso la moda “anoressica” stessa, uno strumento efficace di “arginamento degli stimoli esterni” al fine di riparare la propria omosessualità dai pericoli dell’invasione predatoria nel momento stesso in cui la provocano.

 

In definitiva, si può affermare che la vergogna, espulsa a furor di popolo, al pari della colpa, dall’ambito del discorso pubblico e privato corrente, alla stregua d’un vero e proprio novello “tabù”, ad opera del paradigma “obbligatoriamente liberato” che sessualità e comportamenti “trasgressivi” hanno sempre più assunto nelle società occidentali (nelle quali non a caso il codice culturale patriarcale è ufficialmente in via di dissolvimento!), sembra paradossalmente essersi “rifugiata” nei recessi più profondi ed inattaccabili della Psicopatologia e dell’Antropologia Culturale: ma che da lì, poi, sia partita, per così dire, “al contrattacco”.

E la vergogna, in un tale “contrattacco” si è mostrata, a dispetto dall’apparenza, assai più dura a morire della colpa, anzi praticamente invincibile, per lo meno ad opera di codici culturali deboli, di superficie ed “alla moda” quali quelli correnti.

 

Concludendo, l’unica cosa utile che si può fare, rispetto ai luoghi comuni, alle confusioni ed alle banalizzazioni che investono attualmente il tema oggettivamente profondo e difficilmente sondabile della “vergogna”, è ritornare alle fonti della Psicopatologia e dell’Antropologia Culturale e riscoprire, con il loro aiuto (ed anche liberandoci per un attimo dalla lente deformante del Cristianesimo, nonché del suo retaggio culturale “illuminista”), il vero profilo della vergogna insieme con le sue tracce materiali, che sono tuttora profonde e consistenti sia nella mente che nella cultura umana.

Volfango Lusetti, Roma, 11 6 16

È l’amore uno strano uccello…(un oiseau rebelle)

A proposito di Vera Slepoj, La psicologia dell’amore, Milano, Mondadori, 2015

di Giuseppe Panella 15 giugno 2016

leggi in pdf Giuseppe Panella – è l’amore uno strano uccello… (on oiseau rebelle)

2962915Amor, ch’a nullo amato amar perdona / mi prese del costui piacer sì forte / che, come vedi, ancor non m’abbandona. // […] Nessun maggior dolore / che ricordarsi del tempo felice / ne la miseria; e ciò sa ‘l tuo dottore. //  Ma s’a conoscer la prima radice / del nostro amor tu hai cotanto affetto, / dirò come colui che piange e dice. // Noi leggiavamo un giorno per diletto / di Lancialotto come amor lo strinse; / soli eravamo e sanza alcun sospetto. // Per più fïate li occhi ci sospinse /
quella lettura, e scolorocci il viso; /  ma solo un punto fu quel che ci vinse. //  Quando leggemmo il disïato riso /  esser basciato da cotanto amante, / questi, che mai da me non fia diviso, // la bocca mi basciò tutto tremante. / Galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse: /quel giorno più non vi leggemmo avante
– sono forse i versi più celebri dell’Inferno dantesco (pari soltanto per risonanzae potenza a quelli del canto di Ulisse)… Quella di Dante è una fenomenologia del desiderio amoroso e contemporaneamente la sua analisi (psicologica) più fine perché individua in un terzo elemento (il libro che racconta la vicenda tragica di Lancialotto e Ginevra e del loro amore impossibile) la dimensione più profonda del suo emergere: il desiderio amoroso, infatti, come spiega splendidamente René Girard nel suo Menzogna romantica e verità romanzesca, è triangolare e prevede un riferimento ad un Altro che costituisce il suo punto di riferimento. Come accade, ad esempio, nella Nouvelle Héloïse di Jean-Jacques Rousseau dove alla vicenda di Julie d’Étanges e Saint-Preux, precettore dei suoi figli, si sovrappone il ricordo e l’imitazione “virtuosa” delle celebri vicende di Eloisa e Pietro Abelardo, la storia d’amore per eccellenza della cultura francese.

Dunque, l’amore è un percorso nella storia dell’umanità che ogni coppia di qualsiasi tendenza sia in realtà ricapitola nel corso della propria evoluzione emotiva e culturale.

Il testo letterario che forse è riuscito a ricapitolare in poche pagine la storia dei sentimenti amorosi in terra d’Europa è stato quel libro bellissimo (quanto sfortunato all’epoca sua) che è il De l’amour di Stendhal, vera e propria epitome delle modalità in cui l’innamoramento nasce, si rafforza e diventa amore come rapporto pro-duttivo e costitutivo della vita di una coppia (ovviamente, il saggio di Stendhal va molto al di là della pura e semplice psicologia dell’innamoramento come dimostreranno le sue “applicazioni” ai romanzi successivi del grande scrittore di Grenoble, Il rosso e il nero e La Certosa di Parma). Allo stesso modo, nel suo saggio più riuscito di sociologia dell’amore, Amore come passione del 1987, il mio vecchio maestro Niklas Luhmann è stato capace di riannodare le fila del discorso amoroso in chiave sistemica e ritrovare in determinati autori fondamentali al riguardo (primo tra tutti Rousseau) lo snodo fodamentale, il momento di svolta nella costruzione di un progetto di soggettività primario legato alla vicenda amorosa nella Modernità. Analogo obiettivo è quello di La psicologia dell’amore.

Il libro di Vera Slepoj parte, infatti, come una sorta di ricapitolazione della vicenda dell’Amore in Occidente (il celebre libro del 1939 di Denis de Rougemont) e attraversa prima la cultura greca con la sua celebre tripartizione tra eros (l’amore sensuale come attrazione reciproca), filía (come affetto e appartenenza reciproca tra membri della stessa famiglia o soprattutto tra amici) e agape (la condivisione del banchetto come forma di aiuto tra simili, un concetto poi ripreso dalla culltura cristiana per il tramite di San Paolo di Tarso), poi quella cristiana con la santificazione dell’accoppiamento tramite il sacramento del matrimonio e infine l’amor cortese e la tradizione troubadorica. Nel corso di una trattazione sintetica ma esauriente, la psicanalista milanese esamina con attenzione i diversi snodi storici della concezione dell’amore – dall’amour-passion dei Romantici (esemplari le pagine su Enrichetta Di Lorenzo, la compagna dell’eroe risorgimentale Carlo Pisacane e i rapidi accenni a colonne portanti della letteratura amorosa come I Dolori del giovane Werther di Goethe o Ultime lettere di Jacopo Ortis di Ugo Foscolo) all’evoluzione della concezione di questo sentimento dalla sua “sacralizzazione” all’attuale verifica delle sue potenzialità conoscitive-ermeneutiche nel percorso della psicoanalisi da Freud a Donald W.Winnicott e  Melanie Klein passando attraverso Jung e la sua teoria della libido fino ai suoi ultimi sviluppi sistematici.

Soprattutto su Winnicott la Slepoj ha intuizioni particolarmente rilevanti, in particolare riguardo al rapporto tra solitudine come costruzione di angoscia e l’”essere solo” come condizione di maturità esistenziale:

«La capacità di essere solo, che si basa su cure materne sufficientemente buone, è “uno dei segni più importanti di maturità nello sviluppo emotivo”. Questa capacità di essere soli è l’elemento fondante che, in una situazione di relazione amorosa, permette una valida strutturazione della relazione stessa, una relazione, cioè, in cui il legame d’amore non sia costituito dalla necessità di una ricerca angosciante (e spesso inconsapevole) di felicità e protezione da parte del partner. Spesso, onde evitare un’insostenibile solitudine, vengono fatte scelte azzqardate di partner distruttivi, o si costruiscono situazioni illusorie da “Mulino Bianco”, o, ancora, si trasforma la propria vita in una costante azione frenetica al fine di evitare “il silenzio della solitudine” o la paura di restare soli» (p. 125).

Questa paura della solitudine come pure il timore di non avere un rapporto fisso e stabile che sia rassicurante per se stessi, incide in misura assai rilevante nello svolgimento di un rapporto amoroso compiutamente gratificante. Questa stessa paura accade nelle storie d’amore che nascono su Internet e i suoi social network dove la virtualità dell’esperienza facilita i rapporti ma, nello stesso tempo, potrebbe renderne più difficile la realizzazione più felice e concreta: il “fantasma nella macchina” colpisce anche in questo caso rendendo più facile i contatti ma contemporaneamente più incerto il risultato duraturo di essi.

Opera volutamente complessiva e intesa alla sintesi, il libro di Vera Slepoj individua nell’amore la cerniera passionale e sentimentale dei rapporti umani e cerca di concretizzarne storia e sviluppi in maniera tale da evitare la tentazione accademica (molto forte in questi casi!) e giungere ad analisi di vicende esemplari (anche se non estreme o destabilizzanti).

Un libro, dunque, intenso – come deve e può essere solo una grande passione d’amore…

 

 

 

 

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The Violent narcissistic identification: a psychodynamic process

di  Federico Tagliatti 16 maggio 2016

leggi in pdf The violent narcissistic identification

TagliattiI would like you to picture what the psychodynamic paths of violence explains within the narcissistic personality disorder. Starting by comparing the concepts of violence and aggression, then carrying out the functions of violence within the relational world of the narcissist and how these are used by means of projective identification and the role he play in the consulting room.
In order to clarify the water, the use I’m doing of the “violence” term, is strictly psychological and not referred to any fiscal behavior.

The aggressive type is a person controlling his impulses and acts only when forced and therefore becomes, for internal or external necessity, violent. Aggression is a natural tendency that has more to do with the instinctive apparatus without necessarily becoming violence. In fact, when an aggressiveness creates determination and creativity, we are dealing with a person’s adaptive function, something that allows the individual to maintain physical and mental stability.
Violence, however, is an interpersonal expressive form resulting from aggressiveness. As the main feature, the violence has the goal of physical or emotional injury of other people, which is why it may be a very interesting element for dynamic Understanding of narcissistic personality disorders.
We know that the forms of violence can be extremely varied but, the one I would like to analyze now, is the one that develops in narcissistic people and, in particular, the forms that can be seen within the analytic space. (I am not speaking of physical violence?)
Projective identification is a valuable interpersonal psychological process for seeing the dynamics of aggressive material within the subject, especially if the person is suffering from narcissistic
personality disorder. Path Ogden was one of the last interpreters and researchers who have examined the subject of projective identification. According to him, this is primarily a defense, but at the same time a way of communication, a primitive form of object relation, as well as a route to psychological change. We also know that the content of projective identification relates very closely to transference / countertransference dynamics (although there would be important distinctions to make) which are significantly important for the conducting of any analysis, in other words, projective identification is a mechanism that can allow us, probably, more than any other, to access and to understand narcissistic aggressive currents.
The aggressiveness that I intend to analyze is expressed by three different main channels. Each of these allows the subject to compensate for internal tension; therefore the aggressiveness is nothing more than a way that is unconsciously “selected” and its purpose is to bring the internal tension to a sustainable level for the subject, in order to avoid an unpleasant condition (Freud).
This view derives from classical theory; it reminds us that the object, in this perspective, is considered useful to play the role of “target” or for “giving expression to internal energies”.

According to H.Kohut (1971) the etiology of narcissistic disorder is a traumatic failure of the empathetic function of the mother and the negative effect of the development of the idealization processes; of course these traumatic failures cause an evolutionary arrest, and an endless search for an idealized self-object. The NPD, according to Kohut, could be a psychoanalytic diagnostic category based the transference, which reflects the patient’s effort to maintain self-cohesion. He called it the first “mirror” by relating it to the efforts made by the patient to capture any signal of admiration in the maternal gaze, and now transferred to the analyst. The other form of narcissistic transference Kohut describes is “idealizing” and consists in giving to the analyst such exaggerated values as to border on perfection.

From a structural point of view, according to Kernberg, the main differences between a narcissistic personality and other forms of character disorders, are the differences in operation of the ego ideal. Normally, the idealized images of the parental figures are condensed into a structure called the “ego ideal” along with idealized parts of themselves.
This process is then edited by the integration of a more realistic understanding of parental demands. However, in the narcissistic personality, this early fusion of the self with the ego ideal, with the subsequent devaluation of external objects and self image objects acts to protect the Self from primitive conflicts of an oral character and frustration (O.Kernberg , 1975).

In other words, the ego acquires a kind of omnipotence that should have been rightfully frustrated. To better these intolerable sensations, the narcissist, basically organizes his life as a network of
“satellites of nourishment” from which he draws the material he needs.
This network, which will represent an object to brag about like a collection of precious toys, will be powered by his denigrating and demeaning character behaviors and thoughts that in any case will
head to a common denominator: aggression. Violence in the sense of his devaluation of the other will be the glue between the narcissist and these same people from whom he is nourished in the sense that they admire him.
The devaluation of others and the emptying of the internal world of object representations, are among the causes that contribute to the lack of a normal self-esteem and that determine a strong inability to empathize with other people. It follows that the need to control others, while looking in every way to squeeze as much admiration from others as possible, is essential to compensate for the sense of inner vacuum.
In the relational world, the narcissist is constantly developing relationships of dependence on himself, and this operation’s main work is violence itself in the sense that I have been discussing it. Without this, such relationships never would form. The narcissist is an infallible hound tracking down admiring others. The narcissist is able to choose the right people who will drive him along his (emotional) and professional life.

wounds

I introduce now a metaphorical not original representation to express the image of an important psychological mechanism that helps us to deepen some passages of this argument. I will use the term “wound” to indicate a malfunction in the structure of the analyst’s self.
The analysis of an analyst also has the aim to dissolve the “particles” of life which have not been absorbed in the course of individual development. Of course, the result of the analysis itself, may achieve different outcomes and what we certainly
all hope, is that these knots are positively reshaped offering to the analyst important equipment that he cannot ignore when dealing with certain personality disorders. In the case of the narcissistic disorder, expecting a total transformation of these undigested parts is a utopian perspective, even in the best case. What we really have to aspire to, is that the particles are sufficiently absorbed to become scar tissue rather than wounds, that means, brittle structural parts
through which the link with the patient can become infected. What suggests the entrance of aggressive material through the analyst’s “wounds”?
The image of a wound, only serves to give us an idea of how pathogens that may come into contact with the body are not only of a bacterial or viral order, but also in the form of unconscious communication, so even the aggressive material, coming into contact with wounds, causes the body to mount a defense. The consequent defenses of the therapist would be interpreted by the patient as a rejection and fear; eventually these feelings would come back to the patient dangerously reshuffled with its originally projected material.

In the consulting room

What happens in the consulting room is often an amplification of wounds. The narcissistic patient will feel the highly unbalanced relationship since Its structure allows him to mount a relational attack. If in this case the analyst is sufficiently free of “wounds”, a “constructive metabolic process” of “aggressive fragments” projected by the patient can occur.
As we know, one of the dynamics underlying the narcissistic disorder is precisely the need to acquire, via other people, a kind of admiration that could be described as “higher quality” or unconditional. An admiration that performs the function of real nourishment.
It is also important that this admiration has a definite quality to the narcissist, he will be able to choose it on the basis of his taste and his own personal experience comparing people who have qualities to offer him. Moreover, this admiration should be able to match the fantastic expectations developed by the narcissist. Then it will be considered more valuable and therefore sought carefully.
The specific relational qualities sought by the narcissist in the other, if obtained in the consulting room, would lead to an extremely disappointing outcome for the results of an analysis.
In fact, even within a therapeutic relationship, the narcissist will go testing the waters in search of what interests him more. I will try to show how he can get it.
In the consulting room, the patient is able to establish a relationship through projective identification.
The self representations and devaluing the object are split and projected. In this case we therefore expect a kind of transfer of primitive object relations and then defensive actions characteristics of the stages preceding object constancy.
This function can be conducted in the right direction, but depends largely on the ability to “feel” of the analyst.
Projective identification always keeps its main function of defense, that is a process through which the subject can exclude parts of the self that are frightening or irreconcilable. The therapeutic relationship can go back to being a primitive form of object relationship allowing the patient to relate to a separate part object.
In this case it is very important that the analyst has largely solved these aggressive cores closely linked to its internal objects (or parts thereof), otherwise, these “blind spots” of the analytical process will progressively widen to compromise the entire operation of the analytical process.
Through what we call reinternalisation (considered by Ogden the third and final phase through which projective identification develops), we can create structural change within the individual self
through active modification of the Self links with objects, thus favoring a decrease in libido investment in the ego ideal.
This is done through work of feelings and emotions against which the person is struggling. Part of the projection means that these feelings are grafted into a host who can process them and return them in an entirely different way. None of this happens through a person actually seen as separate, but through the self projected into another, and by maintaining contacts with him as though he were someone else (Steiner,1993). The patient’s omnipotent defenses are constantly used to secure his confidence and his needs. In this way, the analyst finds himself continually threatened by devaluing aggressions of his worthlessness and the patient’s lack of sense of the whole process.
We now take a step in a different direction and try to understand what are the normal flows of expressive violence, because what we are trying to do is to have a clearer perspective on the pattern of narcissistic violence. We have seen that aggression is a principle instinctively present in all people. This can take different forms of expression, including violence, but the violence of which we speak, fundamentally, can move in directions that convey it either inside or outside the individual.
In case of aggression directed at themselves, the target of aggressive attacks are those internal objects that are not integrated with the rest of the self and have thus remained detached, completely incomprehensible and inappropriate for the functioning of the rest of the structure of personality.
To obtain displacement instead of violence, the involvement of projective identification is important.
In all its forms, violence implies the presence of a victim, and then of a target on which the “aggressive fragments” are to be projected. As I said, these fragments may be driven out only under certain structural conditions: the personality is one of the consequences of the development of the self that provides a vector to vent aggression. Unconscious management of the metabolic pathways of aggressive fragments may take different forms.
The combinations of psychological factors behind aggressive behavior are potentially infinite, but one can, from my point of view, recognize three channels of aggressiveness that I will describe.

The aggression management channels

1 The aggression management through the first channel, takes place within the individual by means of fantasized aggression against those objects experienced as irreconcilable and dangerous. This is a management that could be called healthy because the individual is automous in the management of the static produced by the environment in which he lives. Thus, he does not need to borrow that skill from others, as does the narcissist.

Aggression may be fantasized and managed in this way only through a computer-like system that is part of human cognition (?) in ways entirely self-sufficient.
Just as in childhood developmental stages described by Klein, the adult maintains the ability to attack his own thinking through aggressive Fantasy.
This implies the presence of a pre-existing structure of the self sufficiently able to handle this type of material, a metabolic apparatus capable of tension reduction through imagination. In this way, the aggressive material is in a sense “attacked” by the imaginative function to obtain the reduction of the strong internal tension that this would continue to exert otherwise.
For example, observing the work of M. Klein, we know how the baby plays is a function necessary for the understanding of many elements of the reality that surrounds him. The acquisition of the “as
if” structure takes shape in the years in which play takes the place of actually providing the child a real artificial experimental laboratory where the endless internal realities are merged with the various ingredients of the external reality. The alloys that will come out as a result of the early years of play, and then interaction with the surrounding environment. This will be the same material with which the child plays, literally building structure. Play is one of the child’s ways to project out of more or less animated objects, a whole series of aggressive hypotheses that must be tested before using on human subjects.
During growth, the individual works with aspects of aggression that can be, through fantasy, deposited in another person, so that he does not notice that he had lost the connection both with himself and with the other person (T .Ogden p22).
The acquisition of this information allows the child to integrate new information with previous information obtained “in his laboratory” -. This experiential aspect is developed in every individual, either through experience from the environment, which through fantasy, freely attacks the objects that make up his inner world. What, for structural causes of the Self, cannot be processed internally, automatically reaches the level of inner sublimation or external action.

2 In the second channel, the aggressiveness is not able to find a way so that the drives can be processed in an appropriate manner, because the structures that should be developed within the Self do not exist, or are not sufficiently developed to allow reduction of tension.
In this case, both the real experiences and those imagined contribute in creating a state of tension that cannot be relieved due to the lack of mental structures that enable sublimation, which in turn, brings comfort.

It is important to remember that violence is almost always the basis of the trauma, and one of the consequences of the trauma is a deficiency in the formation of the Self structures able to manage an attack, so that’s why childhoods spent in violent environments, in our case we use the term “denigrating violence”, are the reason some individuals are incapable of creating interpersonal relationships based on love and affection.

3 In the third channel violence is ousted projective identification. This mental function is developed by the individual to get rid of emotions that do not fit in the object relations of the person’s system, they are expelled as “aggressive splinters” to settle in a host organism through his wounds. At this point it is important for the narcissist to play all the cards at his disposal so that he can establish a lasting relationship with the person hosting his projections. In this way, the experience can translate into unconditional admiration. Ogden identifies this step in projective identification with the term “interpersonal pressure”.
Managing the transference aspects of a therapeutic relationship linked to narcissistic dynamics is perhaps one of the most complex realities that we face in the space of a psychoanalysis.
Freud, based on the economic model that emphasized the importance of mental energy and instinctual investments, had come to the conclusion that patients suffering from narcissistic disorder were not analyzable because they could not develop the typical features of the transference neurosis. Many narcissistic patients appear in fact not involved for a long time with the analyst, contrary to what happens in neurotic patients. Only recently have clinicians understood that the apparent lack of transference of these patients is the characteristic transference itself. (Brenner, 1982)
This professional challenge is made even more complex if there are unresolved narcissistic nuclei in the analyst.
The analyst’s useful role in the consulting room may be at risk if he was not previously able to address and resolve sufficiently his own narcissistic issues.
The importance of solving the narcissistic aspects present in the analyst is the basis of his future ability to feel empathically, and empathy is one of those tools undeniably recognized as fundamental, so that we could call it essential for the smooth conduct of therapy. For the narcissist
it is extremely difficult, almost impossible, to relate to others with a positive empathy. However, he badly needs the positive empathy of the analyst. I do not think it is correct to say that the narcissistic patient is free of empathic tools. It is more appropriate to emphasize that empathy is one of the narcissist’s abilities, enabling him to experience the emotional state of those who come into contact with him, but the use that he makes of this information is solely and entirely in his favor.
So, it is quite normal to expect aggressive behavior of the devaluing type at first, in a session as well as in any relationship of his extra-analytic life.
Devaluations are certainly the behaviors which the narcissist knows best and benefits from. Devaluations that protect his satisfaction and survival, are nothing more than projections from aggressive splinters of which I spoke earlier.
The “patient request” in the narcissistic analytical framework is to have a certification of his grandeur, you are to restore cracked tools that allowed him to create and maintain the network of nourishment.
The screened material can enter the therapist through two roads:
1. Through the access route he has developed through clinical experience.
What the analyst needs to do is to handle the projected material via his own skills, to produce constructive change.
2. Through the “wounds” I mentioned above, genetically previous to his own analysis but that the analysis has not been able to suture in an adequate manner.

conclusions

The analyst’s ability to “feel” what can be a role or a thought that does not belong to him, and having developed the functional capacity for empathy in his analytical role is the basis for the recognition of the aggressive material projected by the narcissistic patient. Through the ability of this analytical sensing, we can more clearly trace the movements of aggression in both the intrapsychic dynamics of the person, and the interpersonal.
In the interpersonal reality of people with NPD, aggression has a well-defined communicative function, so it is necessary for therapists to recognize, intensity, nature and origin to untie themselves from the usual defensive reactions that would be raised. We also need to ask ourselves how we can get intimately in touch with this flow of important information, how to use it, and what tools we need to be able to investigate them and especially how to sharpen them.
We have seen that encouraging the development of the empathic ability of the analyst may be a condition that can make the difference between a success or a failure of the treatment, and perhaps this aspect needs to be deepened and made more and more receptive. you can accomplish this only in the analyt’s personal analysis time.
This may allow the analyst to isolate the expressive paths of violence within the consulting room maintaining a restraining-processing position of the projected material meaning that the analyst does not force to own the projected material. It is useless to get rid of a hot potato that we can not handle.

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78:279-293.

La pericolosità del malato di mente

di  Volfango Lusetti 11 maggio 2016

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*articolo apparso anche su “Etica & Politica” diretto dal filosofo Pier Marrone, Trieste

008Geri_HR_kleptoAl concetto di pericolosità del malato di mente non si fa più cenno, nella legislazione psichiatrica italiana, e più in generale nelle leggi sanitarie del nostro paese, a partire dalla legge n. 180 del 1978, poi recepita dalla legge 833 dello stesso anno: ovvero, da quella legge che ha istituito il Servizio Sanitario Nazionale e che è tuttora in vigore.

Occorre a tale proposito sottolineare un fatto curioso: neppure la recente legge 9 del 2012 (la cosiddetta “legge Marino”) e la susseguente legge attuativa (Decreto Legge 52 del 2014, convertito in legge il 24 4 2014), che pure ambivano a completare la riforma psichiatrica del 1978 (proponendosi il fine ultimo di superare gli unici Ospedali psichiatrici ancora rimasti in attività, ovvero gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, e di investire così in pieno il tema del trattamento dei malati di mente pericolosi), hanno osato toccare la pericolosità del malato di mente in quanto “nodo concettuale”, o tanto meno abolire il principio della pericolosità sociale in sé: questi provvedimenti hanno semplicemente stabilito che non potrà più esservi cura del malato di mente autore di reati in strutture che non siano “sanitarizzate” e nelle quali la sorveglianza della forza pubblica non sia al massimo “peri-muraria”, confermando così la pluri-decennale vocazione di tutti i riformatori della Psichiatria italiana a concentrarsi sui “luoghi” anziché sui problemi (il primo dei quali è, per quanto riguarda la pericolosità dei pazienti degli O. P. G., la sua più puntuale definizione, e soprattutto il frequente prolungarsi della degenza dei pazienti pericolosi oltre i limiti stabiliti dalle sentenze, a causa del reiterarsi d’una “valutazione di pericolosità” che può nei fatti fare durare la degenza stessa all’infinito).

Ancora una volta dopo il 1978, dunque, sembra che i Manicomi, agli occhi di molti, siano dei luoghi magici popolati da una sorta di “genius loci” della violenza e dell’arbitrio: un “genius loci” il quale, in caso d’una loro chiusura, si rifiuterebbe di abbandonarli, per cui il “chiudere i Manicomi”, pur senza minimamente preoccuparsi di preparare questo evento con forme di sperimentazione alternativa, e/o del modo in cui i loro ex degenti verranno trattati altrove (giuridicamente o dal punto di vista sanitario), equivarrebbe in ogni caso ad “avviare il problema a soluzione”.

La “pericolosità del malato di mente”, dunque, continua a tutt’oggi, a dispetto della cosiddetta “riforma Marino” e della successiva legge del 2014, ad essere menzionata solo nel diritto penale. Essa del resto, almeno fino a pochi anni fa, era trattata pochissimo anche nell’ambito della Psichiatria clinica, con l’ovvia eccezione della Psichiatria Forense.

In definitiva il tema della “pericolosità del malato di mente”, in parte a causa del suo carattere scottante sul piano dei principi, ed anche in ragione dell’enorme complessità delle problematiche pratiche che solleva, dopo ben trentacinque anni dalla legge 180, pur rimanendo ancora intatto davanti a noi, lo è alla stregua d’una montagna semi-sommersa ed in buona parte invisibile: una sorta di “iceberg” il quale, come appunto avviene con queste montagne di ghiaccio galleggianti, presenta una parte minima “emersa” (che poi corrisponde alla pericolosità del malato di mente autore di reati ed alla sua valutazione, ancora oggi possibile), e la parte maggiore sommersa (che corrisponde al problema della valutabilità della pericolosità del malato di mente non autore di reati, tuttora, trentotto anni dopo la promulgazione della legge 180, del tutto impossibile).

1

La rimozione della pericolosità del malato di mente

In base a quanto sopra, possiamo senz’altro dire che la questione della valutazione psichiatrica della pericolosità del malato di mente è stata per almeno trentacinque anni, e continua ad essere anche oggi, il grande rimosso della Psichiatria italiana.

Come tutti gli altri rimossi, però, essa tende a comportarsi come un “perturbante”, e ed a farlo precisamente nel senso freudiano del termine; infatti la pericolosità è un concetto del quale, in Psichiatria, nessuno parla nella sfera della teoria, ma a cui tutti pensano costantemente nella propria pratica professionale quotidiana, per lo più in maniera inconscia e comunque sempre inconfessata. Ciò avviene ovviamente con importanti conseguenze negative, che ciascuno può facilmente immaginare.

Ma perché mai si è creata, proprio in Italia, questa situazione?

La rimozione della violenza collegata alla malattia mentale avvenuta soprattutto nel nostro paese, è dovuta ad un duplice ordine di fattori.

  • Un primo ordine di fattori è di tipo ideologico, e consiste nella forte manipolazione, per l’appunto di natura ideologica, che sul tema della violenza del malato di mente è stata esercitata (in particolare ad opera del pensiero positivistico italiano) per circa un secolo: questa manipolazione è iniziata all’incirca nella seconda metà dell’Ottocento ed è durata, in varie forme, fino agli ultimi anni del Novecento, giungendo praticamente fino a noi.

Essa si è realizzata in due forme contrapposte, articolatesi in due distinti momenti: un primo momento è stato caratterizzato da un’enfatizzazione estrema del nesso esistente fra malattia mentale e violenza. Bisogna qui chiarire che ove si intenda correttamente la “violenza del malato di mente” nel suo duplice risvolto, ossia da un lato come auto-diretta e dall’altro rivolta verso gli altri, proprio a quest’ultima, benché  nella realtà clinica essa sia di gran lunga la meno frequente, è stato dato maggior risalto dai “mass media” e dagli intellettuali, di fronte ad un’opinione pubblica per lo più incerta e smarrita; all’inverso, alla violenza auto-diretta, molto più frequente e quasi “tipica” di certi disturbi psichici, è stato dato molto minor spazio agli occhi dei non addetti ai lavori, lasciandola, rispetto alla prima, quasi in ombra. Una tale enfatizzazione della violenza etero-diretta collegata alla malattia mentale, è poi sfociata nell’abuso più sfacciato (operato non solo a livello popolare, ma anche scientifico) dello stereotipo del malato di mente violento; il malato di mente è stato infatti visto come un soggetto, prima ancora che aggressivo, sempre e comunque carente d’ogni capacità di controllo sui propri impulsi d’ogni genere, quindi per definizione “pericoloso a sé ed agli altri”, e ciò in palese contraddizione con la realtà clinica.

In un secondo momento, in particolare a partire dagli anni Settanta del Novecento si è poi passati, come già accennato, ad uno stereotipo opposto: quello di dare per scontata l’assoluta equivalenza fra malati di mente e popolazione generale quanto a frequenza di comportamenti violenti.

Quest’ultimo stereotipo, anch’esso di matrice ideologica, si è alla fine tradotto, al contrario del primo, in una vera e propria negazione del problema della violenza nei malati psichiatrici (un problema che purtroppo talora esiste).

Quest’insieme di manipolazioni ideologiche di segno opposto sul tema della violenza del malato di mente, ha comunque gettato per lungo tempo discredito sull’argomento; si è allora ingenerato in relazione ad esso, almeno negli addetti ai lavori più sensibili all’esigenza d’un approccio scientifico alla malattia mentale, un forte senso di saturazione e di fastidio, ed un sentore di “stile giornalistico”, ovvero di “non serietà”, in relazione all’intera materia.

Tutto questo non ha certo facilitato l’approfondimento del problema, ed ha probabilmente favorito, fra molti degli operatori psichiatrici, una più o meno consapevole volontà di accantonarlo e non occuparsene più.

  • Il secondo ordine di fattori di rimozione del tema della violenza nel malato psichiatrico è per l’appunto di tipo psicologico: esso risiede anzitutto nelle fortissime risonanze emotive che l’argomento-violenza genera, da sempre, negli operatori della Psichiatria. Tuttavia, l’influenza di tali risonanze sugli psichiatri, nel nostro paese è stata potenziata, come accennato nel primo punto, dalla perdita graduale (dovuta alle suddette ragioni storico-ideologiche) d’ogni dimestichezza e motivazione a ragionare in termini di pericolosità.

Queste risonanze emotive hanno poi facilitato l’adozione della difesa più facile ed a buon mercato: quella costituita, per l’appunto, dalla rimozione.

Ma qual è, di preciso, la sostanza psicologica del problema?

Agli psichiatri, agli psicoterapeuti ed agli “addetti alla Salute Mentale” in genere:

  1. a) non piace l’idea di essere in qualche modo corresponsabili delle eventuali violenze che i propri pazienti potrebbero commettere, sia su sé stessi che su altri, in ragione delle ovvie conseguenze giuridiche che potrebbero ricaderne in capo agli psichiatri medesimi.
  2. b) non piace neppure, per molte ed intuibili ragioni, l’idea di potere essere con relativa facilità fatti oggetto essi stessi di violenza da parte dei propri pazienti.

Essi fanno molta fatica ad accettare, per comprensibili ragioni, sia l’una che l’altra idea, e perciò le rimuovono; ma ciò avviene, per lo meno in Italia, in misura assai maggiore di quanto sarebbe logico aspettarsi in uomini di scienza, ed in forme talora sconcertanti, nonché spesso a dispetto dell’evidenza.

Infatti:

  1. a) In primo luogo il riconoscimento della potenziale pericolosità del malato di mente implica una grave ferita ai vissuti d’onnipotenza degli operatori psichiatrici, al loro narcisismo, alla loro sicurezza in sé stessi (sentimenti, questi, che sono cospicuamente presenti in tali operatori, e talora paradossalmente lo sono, in misura assai più rilevante che in altre categorie professionali, proprio in quelli a più alto tasso di specializzazione). Gli psichiatri e gli psicoterapeuti, molto più d’ogni altro operatore sanitario, si sentono infatti assai spesso investiti d’un compito e d’una “saggezza” particolari, e di conseguenza ritengono, per lo più a torto, di essere latori di un qualche “messaggio di verità” nei confronti della società nel suo insieme.
  1. b) In aggiunta a ciò, la violenza mette in luce impietosamente problemi personali irrisolti, paure profonde, psico-dinamiche interiori di tipo patologico e insicurezze di vario tipo, aggressività latente e quant’altro, che appartengono alla dimensione soggettiva di tutti gli individui, ma che negli operatori psichiatrici sono spesso, sfortunatamente, assai più rappresentati che nella popolazione media. In ragione di ciò, la facile identificazione degli psichiatri con i loro pazienti, o al contrario con le loro potenziali vittime, innesca un gioco di proiezioni reciproche che ostacola gravemente il rapporto terapeutico, e la rimozione appare spesso un “facile rimedio” a tutto questo.
  1. c) Infine, ultimo ma non ultimo elemento, la violenza del paziente psichiatrico, in particolare se esercitata proprio su quelle figure professionali che dovrebbero “curarlo”, sembra fatta apposta per insinuare in esse un forte sospetto circa l’utilità stessa del loro agire terapeutico.

Per queste ragioni la violenza del paziente psichiatrico costituisce l’oggetto ideale per ogni possibile “rimozione”.

La violenza del malato di mente, in buona sostanza, ripropone nei fatti, a tutti i professionisti operanti nel settore della Psichiatria, siano essi di impostazione psico-terapeutica oppure psico-farmacologica, una certa visione custodialistica dei rapporti terapeutici (in sé avvilente sul piano personale, snaturante e dequalificante sul piano professionale, nonché inquietante sul piano culturale ed antropologico) che la maggioranza di loro sperava fosse stata da tempo superata dai progressi della Psichiatria (sia farmacologica che riabilitativa).

Non bisogna dimenticare infatti che, oltre ai progressi della Psichiatria scientifica che lo ha loro permesso, una delle principali motivazioni che hanno portato gli psichiatri ad operare attivamente per il superamento del Manicomio, è provenuta proprio dal vissuto psicologico di frustrazione e d’impotenza terapeutica, nonché di dequalificazione professionale, che l’idea custodialistica e violenta della Psichiatria aveva da gran tempo generato in loro.

Una conferma indiretta di ciò si è avuta nella legislatura 2001-2006, quando la Società Italiana di Psichiatria (S.I.P.) è scesa in campo, in tutte le sue componenti e tendenze tecnico-scientifiche (tra le quali sono cospicuamente rappresentate la Psichiatria Biologica e la Psico-Farmacologia), contro le proposte di modifica in senso regressivo e custodialistico della legge 180 avanzate da alcuni parlamentari dell’allora maggioranza di centro-destra.

Queste modifiche andavano per l’appunto nel senso del ripristino dell’idea d’una “pericolosità” perennemente connaturata al paziente psichiatrico, insieme con quella, ad essa necessariamente conseguente, della necessità d’una custodia coattiva per tempi medio-lunghi del malato di mente, preso in quanto tale ed a prescindere dai suoi comportamenti violenti e/o dalla commissione di reati, in strutture per cronici ad alto o altissimo indice di protezione.

Tuttavia, malgrado un tale complesso sistema di distorsioni, di negazioni e di rimozioni che nel corso del tempo è stato eretto e dispiegato attorno al tema della violenza del paziente psichiatrico, ultimamente esso è sembrato riemergere dal contesto strettamente penale nel quale la legge 180 lo aveva confinato.

La potenziale violenza del malato di mente, dunque, è finalmente tornata ad essere, anche in Italia, un argomento di riflessione clinica su cui si può ragionare con un minimo d’oggettività, restando almeno parzialmente al di fuori del clima d’esasperata emotività conferito a questo argomento dai due opposti schieramenti politico-ideologici che hanno monopolizzato il dibattito su di esso nel recente passato.

Ciò è stato facilitato anche dal fatto che un po’ in tutto il mondo, da gran tempo e già a partire dagli anni Settanta, è in svolgimento un grandioso processo di superamento del Manicomio nonché delle sue basi scientifiche e concettuali, le quali si basavano proprio sul concetto della “pericolosità sociale presunta” del malato di mente.

2

Le ragioni storiche del ridimensionamento in Occidente del concetto della pericolosità del malato di mente

Circa il ridimensionamento da un lato delle prassi inerenti la psichiatria custodialistica e dall’altro dell’apparato ideologico riguardante il concetto della pericolosità sociale presunta del malato di mente (due ambiti strettamente interconnessi), occorre però fare una distinzione fra l’Italia e ciò che è avvenuto nel resto del mondo, poiché si tratta di due ordini di fenomeni non del tutto coincidenti.

In questo paragrafo prenderemo in esame le tendenze internazionali in materia, nel prossimo ciò che di più peculiare è avvenuto in Italia.

Le ragioni di fondo per le quali dagli anni Settanta fino ad oggi, un po’ in tutto il mondo occidentale (ed anche oltre, come ad esempio in paesi emergenti quali il Brasile), si è andati verso un ridimensionamento del concetto di pericolosità del malato di mente, ed anche verso il superamento della psichiatria custodialistica (e con essa, dell’Istituzione Manicomiale), sono di quadruplice ordine:

  • si tratta in primo luogo di ragioni economiche: Ronald Reagan, negli anni Settanta Governatore dello Stato della California, chiuse rapidamente gli Ospedali Psichiatrici essenzialmente per ragioni di risparmio sul pubblico erario, e le conseguenze sui malati d’una tale motivazione (la quale a sua volta determinò delle linee di condotta abbastanza avventuristiche) furono spesso tragiche. Ma ciò che accadde in California alcuni decenni fa rappresenta solo l’estremizzazione d’una tendenza di fondo che da allora in poi pervase un numero sempre maggiore di paesi di tutto il mondo, e che non fu estranea neppure alle ragioni, ben più nobili ed articolate, che portarono alla promulgazione della “180” in Italia o alla promozione, in Francia, della cosiddetta “Politica di Settore”, imperniata sulla proiezione dei reparti dell’Ospedale Psichiatrico su “fette di territorio”. Nel corso delle esperienze italiane volte al superamento del Manicomio prima della legge 180, ad esempio, uno degli argomenti più ricorrenti che venivano usati allo scopo di dividere il “fronte conservatore”, era proprio quello che un’assistenza psichiatrica imperniata sul territorio, oltre che più “umana” ed “efficace”, sarebbe stata immancabilmente più “efficiente”, consentendo di risparmiare denaro. In realtà ciò non è stato mai dimostrato, anche a causa della difficoltà di comparare costi relativamente centralizzati e facilmente calcolabili quali quelli inerenti la gestione degli Ospedali Psichiatrici (sia pubblici che privati), con le infinite voci di costo che riguardano la Salute Mentale riformata, comprese le attività “indotte” private ma sovvenzionate dallo Stato (Cliniche private convenzionate, Comunità Alloggio, Case Famiglia, Comunità Terapeutiche, Centri Diurni, Ambulatori, sussidi e pensioni a carico degli Enti Locali e dello Stato, ecc. ecc.). Però è significativo che l’argomento sia stato uno dei “cavalli di battaglia” del fronte riformatore, in Italia, per lungo tempo.
  • In secondo luogo, si tratta di ragioni giuridiche: lo stabilire che dei cittadini di uno stato di diritto, in virtù di loro presunte e più o meno permanenti caratteristiche biologiche e senza che abbiano commesso dei reati, siano affetti da una condizione cronica che li rende sempre e comunque “socialmente pericolosi”, ed il rinchiuderli a tempo indefinito, per puri fini di prevenzione sociale, in una struttura di custodia a carattere permanente sotto la risibile parvenza della “cura psichiatrica”, è apparso a molti osservatori, secondo noi pienamente a ragione, una gravissima lesione del principio, ormai invalso in tutto il mondo civile, dell’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge a prescindere dal loro sesso, razza, religione, lingua, credo politico e stato di salute, ed anche una gravissima violazione del principio dell’inviolabilità dei diritti della persona.
  • In terzo luogo, si tratta di ragioni terapeutiche, legate alla sempre maggiore efficacia degli psico-farmaci sul controllo del comportamento alterato ed anche violento dei malati di mente, efficacia che, non si può negarlo, ha avuto un peso determinante per il superamento dei Manicomi. Un’efficacia pari alla Psico-farmacologia, poi, hanno dimostrato fin dai tempi di Conolly le Terapie Riabilitative e Comunitarie basate su metodi non coercitivi e non violenti.
  • In quarto luogo, si tratta di ragioni scientifiche e di natura teorica, ed in particolare, della serrata critica che dell’idea di “pericolosità del malato di mente” si è iniziato a fare, sin dagli anni Settanta, in tutto l’Occidente. Già a quell’epoca, infatti, gli studi di Hafner e Boker avevano fatto presente l’incidenza nei malati di mente violenti degli stessi fattori di rischio generico (età giovanile, sesso maschile, bassa scolarità, assunzione di sostanze stupefacenti e d’alcool, appartenenza a famiglie di bassa estrazione sociale) che giocavano un ruolo nel comportamento violento dei soggetti normali, sfatando il mito d’una “fatale” correlazione fra malattia di mente e violenza.

Gli studi sulla violenza nei malati di mente cominciarono ad essere effettuati, come accennato, negli anni Settanta; questi studi, però, detti anche “di prima generazione”, erano abbastanza rozzi ed imprecisi sul piano scientifico, ed infatti sono stati molto criticati, sul piano del metodo, per motivi più che validi.

Un primo motivo era rappresentato dal fatto che prendevano in esame solo campioni pre-selezionati di popolazione, spesso con una spiccata preferenza per popolazioni istituzionalizzate quali quelle carcerarie (di per sé, presumibilmente, molto più violente della popolazione generale, ed anche di quella psichiatrica).

Un secondo motivo è che questi studi, nell’insieme, fornivano risultati molto contraddittori: alcuni di essi andavano nel senso di una sostanziale equivalenza, quanto a comportamenti violenti, fra malati di mente e popolazione generale; altri andavano invece nel senso opposto, ossia rilevavano un’attitudine al comportamento violento nel malato di mente superiore a quella della popolazione generale. Queste discrepanze, peraltro, li rendevano nel loro insieme molto dubbi.

Gli studi cosiddetti di seconda generazione, ed in particolare quelli di J. W. Swanson, di B. Link e di A. Stueve, risalenti agli anni Novanta e Duemila, sono stati invece condotti con maggiore rigore metodologico, poiché hanno iniziato a prendere in esame popolazioni naturali e non campioni pre-selezionati, anche se nel loro complesso hanno continuato a manifestare forti discrepanze gli uni con gli altri.

Occorre dire, peraltro, che tutti gli studi sulla “pericolosità dei malati di mente rapportata a quella della popolazione generale” sono difficilissimi da condurre (quindi in genere poco attendibili), in ragione di due elementi:

  1. La mancanza in moltissimi paesi, anche per ragioni inerenti la “privacy”, di banche dati sufficienti a raccogliere e confrontare i dati epidemiolologici psichiatrici con quelli provenienti dalla polizia, dalle carceri e dai Ministeri della Giustizia (la Svezia è una delle poche eccezioni a questa regola).
  2. Il fatto, in sé ovvio ma spesso dimenticato, che la maggior parte degli ammalati di mente, dai primi anni 50 del Novecento in poi, a causa dell’introduzione del trattamento psico-farmacologico, non è più “drug free”, né può essere ricondotta a tale condizione a scopo di studio per ovvie ragioni etiche; perciò quello che in questi studi si esamina (la “pericolosità” d’un campione di malati di mente che si tenta di confrontare con quella d’un campione omogeneo di popolazione generale), non corrisponde più da moltissimo tempo all’effettiva condizione di pericolosità del malato di mente. I riferimenti più attendibili a quest’ultima condizione, dunque, provengono ormai quasi esclusivamente da dati aneddotici (alcuni dei quali in verità impressionanti, anche se potenzialmente attribuibili alla condizione di coercizione cronica) estrapolati dalle cartelle cliniche manicomiali d’epoca pre-psicofarmacologica. D’altra parte, qualora si adottasse un’altra strategia di ricerca e si focalizzasse l’attenzione proprio su quegli ammalati di mente che sfuggono al trattamento farmacologico, si andrebbe incontro ad un altro, non meno potente, fattore di distorsione: la possibile maggiore “pericolosità primaria” propria di quei malati che già in partenza rifiutano il trattamento o lo sfuggono. D’altra parte, che il problema dell’artefatto proveniente dal trattamento psico-farmacologico sia reale è dimostrato dal dato clinico che la maggior parte degli “incidenti” derivanti dalla pericolosità del malato di mente, si verificano in occasione del mancato rispetto delle prescrizioni terapeutiche e/o del mutamento o della sospensione della terapia.

Fatte salve tutte queste cautele, anche gli studi di “seconda generazione” in tema di pericolosità hanno finora fornito dei dati alquanto contraddittori: alcuni non rilevano differenze significative fra malati di mente e popolazione generale, altri invece le rilevano, suggerendo una sensibile maggior pericolosità dei “malati di mente”.

Però si è anche visto che anche in quest’ultimo caso il dato della “maggior pericolosità”, pur apparendo statisticamente significativo, cessa d’esser tale ove disaggregato in base alle differenze di diagnosi: per tali motivi, alla maggior parte dei ricercatori esso, comprensibilmente, non è sembrato in grado di giustificare l’adozione di misure preventive circa una presunta e generalizzata pericolosità sociale dei “malati di mente” (misure che fra l’altro hanno quasi sempre una conseguenza devastante sui principi giuridici liberali che sono propri d’uno Stato di Diritto).

Insomma, la “maggior pericolosità” dei malati di mente rilevabile secondo alcuni studi, riguarda un dato inerente l’insieme dei “malati di mente” che preso in sé non solo non significa nulla, ma conduce ad una visione fortemente distorta del problema.

Andando ancor più in particolare, si è visto che la pericolosità è sensibilmente più alta nei “disturbi antisociali di personalità” e “paranoidei”, oppure in alcune forme di psicosi schizofrenica paranoide o bipolare, che non in altre categorie diagnostiche.

Questa esperienza, insieme ad un maggior rigore metodologico degli studi più recenti, ha portato ad una conseguenza pratica rilevante: oggi, a livello di letteratura scientifica e di orientamenti giuridici internazionali, viene messa fortemente in dubbio la possibilità di trarre, dai dati di epidemiologia psichiatrica oggi disponibili, conseguenze d’ordine organizzativo e gestionale in ordine alla pericolosità.

In sintesi, contrariamente a quanto un tempo affermato dalla tradizione positivistica italiana (e particolarmente lombrosiana), oggi, a livello di letteratura internazionale, vengono messe fortemente in dubbio:

  1. a) la possibilità di prevedere scientificamente la pericolosità sociale d’un malato di mente, nel “lungo periodo” e semplicemente in quanto malato di mente.
  1. b) la possibilità di prevedere la pericolosità d’un malato in quanto esponente d’una categoria diagnostica psichiatrica particolare, quindi a prescindere dalla sua anamnesi individuale e dalle sue personali caratteristiche cliniche.

A questo proposito, è stato fatto autorevolmente osservare che gli autori di comportamenti violenti costituiscono un gruppo quanto mai eterogeneo (K. Tardiff), e che il comportamento violento costituisce per sua natura, più che il risultato d’un singolo fattore, un evento multi-fattoriale; in esso dunque il numero delle variabili (sia d’ordine clinico e psichiatrico, sia d’ordine relazionale, sia d’ordine ambientale) è elevatissimo, e comunque molto più elevato che in qualunque altro settore della Psichiatria. Perciò il confronto fra macro-popolazioni di “malati” e la popolazione generale può essere falsato da fattori di distorsione talmente numerosi da risultare, alla fine, scarsamente attendibile.

In definitiva, sull’interesse a confrontare statisticamente, con quelli della popolazione generale, i comportamenti violenti dei malati psichiatrici presi nel loro insieme (ossia in quanto generica ed onnicomprensiva categoria biologica dei “malati di mente”), o anche quelli di particolari categorie diagnostiche, specie al fine di trarne conclusioni rispetto ad una possibile prevenzione della violenza nel lungo periodo, oggi prevale un altro tipo d’interesse: quello ad effettuare una ricerca polarizzata sullo studio analitico della dinamica dell’atto violento preso in sé stesso, e sull’individuazione di fattori predittivi di pericolosità immediata che siano operativi nel singolo individuo, quindi anche nel singolo malato di mente, caso per caso.

Sulla base di queste considerazioni ormai si ricerca, più che l’evidenza scientifica di una generica “maggiore pericolosità media” del malato di mente rispetto alla popolazione generale, l’elaborazione di indicatori che permettano di effettuare, sul caso singolo, una previsione di pericolosità nel breve periodo; quest’ultima infatti è la più utile sul piano pratico e la più eticamente accettabile, ed inoltre presenta, sul piano dell’analisi dei dati, un numero di variabili molto più ridotto.

Questa impostazione di tipo completamente nuovo ha perciò conferito una rinnovata dignità scientifica da un lato alla pato-biografia, ossia allo studio approfondito del singolo caso clinico (una disciplina che, significativamente, in Italia, ancora oggi viene coltivata soprattutto dagli psichiatri forensi), dall’altro ad una Psicopatologia “basata sulla narrazione”, la quale affianchi ed integri quella “basata sulle evidenze” (cfr. ad es. A. Carlino, 2013). Essa infine ha conferito importanza allo studio dei fattori predittivi di pericolosità, la cui problematica individuazione nel lungo periodo aveva gettato discredito un po’ su tutto l’argomento (J. Monahan).

Tale orientamento si è riflesso, come vedremo in seguito, anche sulla legislazione americana concernente il ricovero coatto.

3

La situazione in Italia

Quanto ai motivi più particolari che hanno portato al ridimensionamento del concetto di pericolosità del malato di mente in Italia, occorre fare un passo indietro di trentacinque anni e riportarci per un attimo alla situazione della Psichiatria Italiana al momento della promulgazione della legge 180.

In Italia, negli anni precedenti il 1978 (anno del varo della riforma), non erano certo mancate, “a latere” d’un sistema manicomiale fra i più arretrati e repressivi d’Europa, esperienze avanzate di trasformazione/superamento del Manicomio, condotte sia all’interno dello stesso Manicomio (che ci si sforzava di trasformare in una cosiddetta “Comunità Terapeutica”), sia sul territorio, attraverso la creazione di Servizi di Salute Mentale fortemente innovativi e concorrenziali con l’istituzione manicomiale stessa: in particolare, furono significative le esperienze di Franco Basaglia (Gorizia e Trieste), di Giovanni Jervis (Reggio Emilia), di Carlo Manuali (Perugia), di Agostino Pirella (Arezzo), di Sergio Piro (Napoli), di Antonio Slavich (Ferrara), e diverse altre.

Queste esperienze furono però fortemente avversate, all’inizio, dal feroce spirito conservatore (o addirittura retrivo) che pervadeva in quell’epoca il resto della Psichiatria italiana; inoltre suscitarono, anche in virtù d’un certo radicalismo elitario ed iper-politicizzato che pervadeva alcune di esse e le rendeva relativamente isolate, dei seri interrogativi sulla loro reale capacità di fare “breccia” nel sistema, nonché di fungere davvero da “traino” per l’insieme dell’assistenza psichiatrica.

In questa situazione, profondamente contraddittoria ed in lentissima e faticosa evoluzione, sopravvenne tuttavia all’improvviso un evento il quale spinse tutti i suoi protagonisti in avanti e li costrinse a scelte drastiche, ma soprattutto rapidissime: la promozione da parte del Partito Radicale d’un referendum abrogativo della legge 36 del 1904 (la cosiddetta “legge manicomiale” d’ispirazione lombrosiana).

Il motivo ispiratore dell’iniziativa radicale, occorre chiarirlo in via preliminare, era assolutamente sacrosanto: occorreva sanare il gravissimo “vulnus” che la legge 36 del 1904 infliggeva al principio costituzionale dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, nel suo distinguere dagli altri cittadini quelli che, in virtù di loro supposte caratteristiche biologiche (la malattia di mente) che li rendevano presuntivamente “pericolosi per sé e per gli altri”, oppure “di pubblico scandalo”, dovevano essere reclusi in luoghi di detenzione travestiti da luoghi di cura (i Manicomi), e deprivati praticamente per sempre d’ogni diritto civile e politico, peraltro senza aver mai commesso alcun reato.

Ebbene, proprio il combinarsi delle due componenti rappresentate a) dal già citato radicalismo delle esperienze di lotta al Manicomio, in particolare di quelle di Trieste ed Arezzo (un radicalismo promosso soprattutto dalla fortissima personalità di Franco Basaglia, il quale tendeva a “mettere tra parentesi” la malattia mentale e la sua cura “medica” per dedicarsi invece, in via prioritaria, alle tematiche sociali e politiche della lotta all’esclusione) e, b) dalla minaccia dell’iniziativa referendaria (in caso di abrogazione della legge del 1904 si sarebbe avuta una “vacatio legis” che andava assolutamente prevenuta), fu ciò che produsse la legge n. 180 del 1978, poi impropriamente denominata “legge Basaglia” (Basaglia, in realtà, ne fu al massimo l’ispiratore ed il consulente, non l’autore materiale).

Insomma, questa legge nacque non già nel segno d’un meditato intento di profonda ed organica riforma della Psichiatria italiana (o tanto meno, sulla scorta della progressiva sperimentazione di soluzioni alternative al Manicomio, come stava già avvenendo nel resto del mondo civile ed in parte anche in Italia), bensì come rimedio urgente ad una situazione d’emergenza, preso anzitutto con criteri politici: un “rimedio” che, nella mente di alcuni dei parlamentari suoi autori, avrebbe potuto e dovuto essere successivamente completato da una riforma più organica e complessiva (cosa che come si sa non avvenne, o avvenne in misura assolutamente insufficiente).

In ragione di ciò, le norme attuative della legge n. 180 del 1978 (in particolare, quelle che dovevano istituire e finanziare le strutture terapeutico-riabilitative ambulatoriali e residenziali alternative al Manicomio), non furono varate contestualmente alla legge medesima, bensì rimandate a futuri Piani Sanitari Regionali che avrebbero dovuto definirle nel dettaglio, e che promanavano dalla più generale legge 833 istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale (anch’essa del 1978 ed allora in stato d’avanzata preparazione).

In base a tutto ciò, i due elementi del “problema psichiatrico” che gli estensori della legge 180 si trovarono di fronte nell’immediato, furono  i seguenti:

  • Occorreva creare quanto prima, affinché la nuova assistenza non ricalcasse le caratteristiche negative (di tipo custodialistico e liberticida) che i promotori del referendum contestavano, un modello d’assistenza non manicomiale, ossia basato non già su grandi strutture residenziali coattive e “di lungo periodo” (il Manicomio appunto), bensì su piccole ed agili strutture di ricovero (coatto e non) le quali fossero finalizzate al breve periodo e limitate all’urgenza (i S. P. D. C., o “Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura”), nonché su un modello di lavoro territoriale imperniato sull’assistenza domiciliare: un lavoro, quest’ultimo, che per i motivi sopra indicati andava svolto essenzialmente a partire dalle strutture già esistenti (i cosiddetti “Centri di Igiene Mentale”, o C. I. M., istituiti già nel 1968 dalla “legge Mariotti”, poi denominati “Centri di Salute Mentale” o C. S. M.).
  • Occorreva poi garantire gli psichiatri, stante l’improvvisa forte carenza di strutture di ricovero e di cura coattiva determinata dalla chiusura delle accettazioni degli Ospedali Psichiatrici, rispetto ad una minaccia molto concreta che avrebbe potuto presto abbattersi su di loro a causa dell’impossibilità, che questa situazione aveva creato, di dar luogo ad una “custodia di lungo periodo” della pericolosità: ora, questa “garanzia” venne dall’avere la legge n. 180 abolito ogni precedente riferimento al tema, appunto, della “pericolosità del malato di mente”, sostituendolo con quello, assai più sfumato, ambiguo e nella sostanza inafferrabile, ad una “comprovata necessità ed urgenza delle cure”, accompagnata dal “rifiuto” delle stesse da parte del malato e dall’”impossibilità di effettuarle in sede extra-ospedaliera”.

A proposito di quanto sopra, chi ha vissuto quegli anni dall’interno delle prassi psichiatriche all’epoca vigenti, in specie se, come lo scrivente, lo ha fatto in giovane età e da posizioni innovative, ricorda certamente un fatto prodigioso ed abbastanza sorprendente: le pervicaci e talora feroci resistenze ad ogni ipotesi d’assistenza psichiatrica non manicomiale, le quali provenivano dalla stragrande maggioranza della Psichiatria Italiana (accademica e non), sparirono quasi d’incanto con la promulgazione della legge n. 180: all’improvviso, si vide un gran numero psichiatri ultra-conservatori o addirittura reazionari divenire fervidi fautori della nuova legge, o quanto meno rinunciare ad ogni aperto ostracismo contro di essa e chiudersi in un benevolo silenzio e/o in una fattiva collaborazione.

Il motivo di ciò, oggi è del tutto chiaro, e secondo noi va ben oltre il ben noto trasformismo e “codismo” degli intellettuali italiani: la caduta della presunzione di pericolosità del malato di mente non solo sembrava proteggere gli psichiatri italiani da ogni possibile negativa conseguenza giuridica dell’affermarsi d’una psichiatria non manicomiale, ma appariva porli addirittura in una posizione professionalmente più comoda di quella dell’era manicomiale; infatti faceva cadere a priori (o almeno, così ci si illuse che fosse!) ogni possibilità di attribuire loro una colpa professionale grave, o addirittura un’omissione di atti di ufficio, qualora non avessero tempestivamente provveduto al ricovero d’un paziente, dal momento che la nuova normativa prevedeva che le competenze dello psichiatra, lungi dal dovere valutare la “pericolosità del malato” (un compito in cui era facilissimo inchiodarlo alle sue presunte inadempienze), si limitassero ormai ad una semplice “valutazione tecnico-professionale sulla necessità ed improrogabilità d’un ricovero”, elemento quest’ultimo difficilissimo da contro-valutare dal punto di vista legale, specie in assenza della pericolosità (le malattie mentali, a differenza di quelle mediche, non mettono a repentaglio la salute fisica e/o la vita se non in caso di suicidio, ed il suicidio non rientrava più neppur esso, già all’epoca del varo della legge 180, nella dizione di “pericolosità”, per cui ormai non era per niente facile contestare allo psichiatra il mancato adempimento ai suoi obblighi di valutazione tecnico-professionale sulla necessità d’un ricovero, ed il suo giudizio diveniva di fatto insindacabile).

Vedremo nei successivi paragrafi come l’altalena delle sentenze “per colpa professionale” a carico degli psichiatri, negli ultimi anni, abbia in gran parte vanificato queste illusioni: tuttavia l’aspettativa di essere maggiormente protetti dalla legge che non in passato, era sul momento in gran parte fondata: la nuova normativa, effettivamente, almeno per alcuni decenni rispose bene al suo scopo.

Come vedremo e come in parte abbiamo già anticipato, tuttavia, gli anni più recenti hanno ormai rivelato come il “paracadute giuridico” dell’abolizione della valutazione di pericolosità abbia cominciato a non aprirsi più con la tempestività e la sicurezza del passato: ciò al punto da insinuare in alcuni il dubbio se per caso, anche da un semplice punto di vista opportunistico, non sarebbe più saggio che gli psichiatri italiani cominciassero a rivedere l’intera questione, e ad esaminare la possibilità di riappropriarsi (come avviene nel resto del mondo!) della valutazione di pericolosità in quanto loro imprescindibile competenza tecnico-professionale.

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La “pericolosità sociale presunta” propria della vecchia normativa, ed il “rifiuto delle cure” proprio della nuova

Il codice penale Rocco del 1930 contiene al proprio interno alcuni principi di chiara derivazione positivista e lombrosiana: infatti è, fra i principali codici europei, uno di quelli che introducono in forma più netta il principio giuridico lombrosiano della “pericolosità sociale presuntadi soggetti autori di reati.

Questo codice, peraltro, è a tutt’oggi quasi integralmente in vigore, anche se la sua parte psichiatrica è stata in gran parte stralciata dal codice stesso ed eliminata ad opera della legge 180 del 1978, impropriamente detta “legge Basaglia”.

Al “Codice Rocco” peraltro, il quale ha regolamentato essenzialmente la pericolosità del malato di mente autore di reati e giudicato “non imputabile”, come sappiamo si era a lungo affiancata, fino al 1978, una “legge psichiatrica”, la legge manicomiale n. 36 del 1904, anch’essa d’ispirazione lombrosiana, la quale concerneva la “pericolosità sociale presunta” e di lungo periodo dei malati di mente non autori di reato: essa era dunque antecedente al codice Rocco, ma ancora più di quest’ultimo era ispirata alle idee di Lombroso.

In quest’ultima legge, sulla base del principio della “responsabilità collettiva”,  veniva prevista una precisa forma di prevenzione della “pericolosità sociale presunta” dei malati di mente in quanto tali, ossia a prescindere dall’avere essi commesso o no dei reati (pericolosità che derivava dalla supposta predisposizione biologica del folle a quella “violenza atavica” che era stata postulata proprio da Lombroso): a tali soggetti dunque, considerati atavici e “degenerati” solo perché definiti, sulla base d’un certificato medico, come “pericolosi a sé ed agli altri” oppure “di pubblico scandalo”, veniva comminato, con semplice provvedimento di polizia, l’internamento coatto (che previo assenso del Direttore, dopo un periodo d’osservazione di 30 gg diveniva il più delle volte definitivo) in un Ospedale Psichiatrico Provinciale.

Come già accennato all’inizio, malgrado due leggi di riforma psichiatrica, la legge 180 del 1978 che aboliva gli Ospedali Psichiatrici Provinciali e la legge n. 9 del 2012 che ha sancito l’inizio del superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, dal 1930 (anno dell’introduzione del codice Rocco) fino ad oggi, ben poco è cambiato per quella parte del diritto penale che riguarda la pericolosità del malato di mente autore di reati: sono tuttora in vigore le concezioni lombrosiane sulla pericolosità sociale dei malati autori di reato, poi integralmente recepite nel codice Rocco, le quali riguardano essenzialmente il tema della pericolosità sociale psichiatrica (pericolosità riferita agli autori di reato riconosciuti come “non imputabili” in quanto malati di mente).

L’unica cosa che è cambiata (ma ben prima della legge n. 9 del 2012 e per merito esclusivo della Corte Costituzionale!) è la caduta del carattere “presunto” della pericolosità dei malati di mente autori di reato, in quanto “l’accertamento della pericolosità” deve ora avvenire in sede peritale prima dell’avviamento del soggetto alle misure di sicurezza (sentenze della Corte Costituzionale del 27 Luglio 1982, n. 139, e del 28 Luglio 1983, n. 249, poi codificate in legge con la 663 del 10/10/1986).

Invece, come sappiamo, quasi tutto è cambiato nell’ordinamento legislativo psichiatrico ordinario: ciò in particolare dal 1978, anno della “legge 180”, in poi.

Nella legislazione psichiatrica riguardante i malati di mente non autori di reati, infatti, l’idea lombrosiana della necessità di prevenire un’ipotetica “pericolosità sociale presunta” del malato di mente in quanto tale, internandolo coattivamente in Ospedale Psichiatrico, è stata completamente superata dalla legge n. 180 la quale, come già accennato, non fa più alcun cenno al tema della pericolosità come motivo di ricovero psichiatrico: non vi fa cenno né come “pericolosità sociale presunta di lungo periodo”, né come valutazione psichiatrica della “pericolosità clinica attuale”.

Questa clamorosa discrepanza fra legislazione penale e legislazione psichiatrica ha poi portato ad alcune, non meno clamorose, incongruenze: in particolare, quella fra la perdurante presenza nel codice penale dell’idea della pericolosità sociale del malato di mente (in particolare, riguardo ai malati di mente autori di reato), e la scomparsa di tale concetto dalla legislazione psichiatrica ordinaria riguardante gli ammalati di mente non autori di reato, per cui uno stesso soggetto psichiatrico, un minuto prima di aver commesso un fatto delittuoso non è valutabile quanto alla sua pericolosità futura, ed un minuto dopo lo è.

Ora, è ovvio che se la pericolosità del malato di mente esiste in ambito giuridico come “pericolosità sociale”, deve esistere anche su quel piano clinico che sarebbe alla base del suo comportamento criminale; viceversa, se non esiste in ambito clinico, non dovrebbe a rigore esistere neppure in ambito giuridico (il presupporre una propensione “patologica” a commettere nuovamente crimini nel malato di mente che li ha già commessi, non può non basarsi su dei dati clinici precisi, altrimenti non dovrebbe esistere per lui alcuna “pericolosità sociale” appositamente regolamentata).

Ora, il motivo d’una tale discrepanza fra pericolosità clinica e pericolosità sociale, che non esisteva affatto prima dell’approvazione della legge 180 del 1978, è molto semplice: la “legge manicomiale” del 1904 ed il Codice Penale Rocco del 1930 formavano, a prescindere dal loro discutibile contenuto, un insieme relativamente razionale e coerente, e questa coerenza si è spezzata proprio con la legge 180.

La legge manicomiale n. 36 del 14/2/1904 ed il relativo regolamento d’attuazione n. 615 del 16/8/1909, conferivano infatti la caratteristica d’una “pericolosità sociale presunta” (e imponevano il ricovero in O.P.), a tutti i malati di mente connotati come:

  • “pericolosi a sé ed agli altri”
  • “di pubblico scandalo”.

La sussistenza anche di una sola di queste due condizioni giustificava e rendeva d’obbligo il ricovero coatto in un Ospedale Psichiatrico Provinciale.

L’espressione, riferita al folle, di soggetto “pericoloso a sé ed agli altri”, anche se è rimasta fortemente impressa nell’immaginario collettivo (fino a venire erroneamente usata, ancora oggi, persino da alcuni Medici ed Assistenti Sociali), fu abolita con la riforma psichiatrica del 1978, unitamente all’abolizione degli Ospedali Psichiatrici.

Con la legge 180, come motivo per un ricovero coatto si è sostituito, al concetto della “pericolosità”, quello del “rifiuto delle cure”, cure però delle quali esista una “comprovata necessità ed urgenza”.

Ora, al fine di comprovare la necessità ed urgenza delle cure, occorre attualmente la proposta d’un medico (non necessariamente d’uno Psichiatra), convalidata da quella d’un altro medico (questo, però, appartenente almeno ad una struttura pubblica).

Il provvedimento, della durata d’una settimana e rinnovabile anche più d’una volta (però sempre per periodi di soli 7 giorni), è emanato dal Sindaco e notificato al Giudice Tutelare, e viene attuato nei SPDC (Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura).

Il Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO) in regime di degenza ospedaliera deve comunque essere motivato, oltre che dalla “necessità ed urgenza delle cure” e dal “rifiuto dell’interessato”, anche dall’”impossibilità ad effettuare le cure in regime di trattamento extra-ospedaliero” (una condizione, quest’ultima, alquanto ambigua nel suo significato e la cui sussistenza effettiva non viene quasi mai verificata, ma che serve a meglio giustificare quei mancati ricoveri nei quali “il paz. accetti le cure”).

Come è noto, anche la legge 833 del 1978 attualmente in vigore, che ha integralmente recepito la 180 e che disciplina il TSO in regime di degenza ospedaliera, subordina la sua effettuazione esattamente a queste stesse tre condizioni:

  • la necessità improrogabile di cura
  • il rifiuto delle cure da parte del soggetto
  • l’impossibilità ad effettuare il trattamento in condizioni di degenza extra-ospedaliera.

Queste condizioni poi, è da notare, devono essere presenti tutte e tre per dar luogo alla possibilità legale di procedere al ricovero coatto (ovvero in TSO) del paziente.

E’ evidente che la “pericolosità”, la quale non appare fra queste nessuna di queste tre condizioni, non può e non deve in alcun modo rappresentare un motivo di ricovero obbligatorio.

La differenza concettuale tra la vecchia e la nuova normativa per il ricovero, come si vede, è davvero notevole.

In primo luogo, la “pericolosità” cui faceva riferimento la legge del 1904, essendo intesa lombrosianamente come una condizione avente una base medica e biologica ed antropologica, s’intendeva essere connaturata alla malattia, ed in quanto tale, essere “persistente” almeno per un po’ nel tempo.

Invece il “rifiuto delle cure” di cui parla la legge 180 non è indissolubilmente connesso alla “natura della malattia”, quindi almeno in teoria può anche recedere immediatamente a seguito di un’opera di convincimento, o d’un semplice cambiamento d’idea da parte del paziente.

In secondo luogo, la pericolosità (almeno se intesa come pericolosità verso gli altri) non è una condizione che scaturisca dal rifiuto delle cure, né vi è implicita; essa, nell’attuale legge psichiatrica italiana, non viene considerata in alcun modo, neppure come eventualità clinica collegata al rifiuto stesso.

Lo psichiatra dunque, nel valutare un quadro clinico, deve “mettere tra parentesi” la potenziale pericolosità insita in esso, anzi non deve neppure nominarla; oppure, se decide di prenderla in considerazione, deve considerarla surrettiziamente, ovvero mascherarla dietro la sottolineatura esclusiva della “necessità” e della “improrogabilità” delle cure, nonché del “rifiuto” persistente del paziente alle cure stesse e dell’impossibilità, nella situazione data, di mettere in atto provvedimenti di d’idonea risposta terapeutica in regime di trattamento extraospedaliero.

Nel compiere tale operazione, tuttavia, egli deve guardarsi da due opposti errori, sanzionati entrambi con estrema severità dal codice penale attuale:

  • L’errore per eccesso d’intervento, che può portarlo, in caso di TSO indebito o non sufficientemente motivato in base a quanto sopra, a soggiacere all’accusa di sequestro di persona (art. 650 del C.P., che prevede una pena da uno a dieci anni per il pubblico ufficiale il quale nell’esercizio delle sue funzioni compia tale reato mediante abuso delle proprie prerogative).
  • L’errore per difetto d’intervento, il quale può configurare sia la colpa professionale (che è sanzionata in dettaglio, sia sul piano civile che penale, nelle figure dell’”imperizia”, della “negligenza” e dell’”imprudenza”), sia il reato penale d’omissione di soccorso e quello d’abbandono d’incapace (l’art. 691 del C.P. definisce “abbandono d’incapace” qualunque azione o omissione che contrasti con l’obbligo della cura e della custodia, ove sussista uno stato di potenziale pericolo per l’incolumità della persona incapace)

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Le responsabilità dello psichiatra

Il tema della responsabilità giuridica dello psichiatra per i comportamenti auto ed etero-aggressivi dei propri pazienti, nel contesto della legislazione attuale, ruota oggi, in definitiva, attorno a tre aspetti:

  • l’esistenza o meno d’una posizione di garanzia in capo al medico psichiatra, la quale fondi una sua responsabilità in relazione all’ex art. 40 del C.P. Esso recita che “il non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”.
  • La configurabilità d’una colpa professionale posta in essere da un eventuale comportamento omissivo dello psichiatra.
  • La prevedibilità e l’evitabilità, ai fini della valutazione dei due primi aspetti, dell’evento dannoso posto in essere dall’infermo di mente.

A questo proposito, un precedente giudiziario significativo è quello costituito dal procedimento a carico d’uno psichiatra aretino il cui paziente, da lui non ricoverato malgrado la ripetuta richiesta d’aiuto dei genitori, accoltellò a morte la madre.

Nei tre gradi di processo svoltisi dal 1983 al 1987, lo psichiatra fu dapprima assolto in Primo Grado, poi condannato in Appello, ed infine definitivamente assolto in Cassazione.

La motivazione dell’assoluzione finale fu la seguente:

  1. lo psichiatra non era venuto meno ad un obbligo specifico di ricovero (incorrendo in un’”omissione di soccorso”, o in un “abbandono d’incapace”), in quanto non esisteva alcuna norma di legge che lo obbligasse a ricoverare chicchessia per una sua “presunta pericolosità”, ma solo una norma di legge che gli conferiva la piena discrezionalità tecnico-professionale nella decisione circa la “necessità” e “l’improrogabilità” di cure “in regime di degenza ospedaliera”.
  2. Lo psichiatra non era neppure incorso in una “colpa professionale”, ossia in una qualche forma d’“imperizia”, “imprudenza” o “negligenza” circa la necessità di cure, poiché l’evento verificatosi non era prevedibile con sufficiente approssimazione, né evitabile “ex ante”.

E’ però doveroso segnalare che una sentenza molto più recente della Cassazione (riguardante il cosiddetto “caso Pozzi”) emessa nel 2007, ha condannato in via definitiva uno Psichiatra di Comunità dell’Emilia Romagna il cui paziente psicotico (assegnato alla Comunità stessa dal Tribunale di Sorveglianza, e proveniente dall’ O.P.G. per gravi reati contro la persona) uccise un operatore con il quale aveva contrasti da gran tempo: egli lo fece in un momento immediatamente successivo alla sospensione della terapia “long acting”, ordinata dal professionista in ragione dei suoi gravi effetti collaterali sul paziente; la terapia, peraltro, era stata quasi subito ripresa, ma a dire della sentenza, con colposo ritardo. Allo psichiatra, però, al di là dei numerosi elementi di “malpractice” che si è ritenuto di riscontrare nel suo operato sia da parte dei Periti che dal Giudice, è stata soprattutto contestata la mancata effettuazione del TSO, con la motivazione che, benché il malato avesse accettato le terapie (e quindi sembrasse non soddisfare la seconda delle tre condizioni necessarie per effettuare un TSO, quella del rifiuto delle “cure”, e neppure la terza, visto che risiedeva già in una struttura psichiatrica), non c’era alcun motivo che impedisse allo psichiatra, data la grave situazione clinica complessiva e l’anamnesi inquietante, di proporgli comunque il ricovero; egli, insomma, avrebbe dovuto intendere lo stesso ricovero come “cura”, ovvero come “adeguata terapia”, e se del caso, avrebbe dovuto decidere d’imporlo al paziente a prescindere dalla sua accettazione delle cure farmacologiche (effettuando, occorre dire, una notevole forzatura dello spirito e della lettera della legge 180, ed in particolare sia della seconda condizione, ossia dell’”assenso del paziente alle cure”, sia della terza, che prevede la “verifica se le cure non possano essere effettuate anche in regime di degenza extra-ospedaliera”).

La motivazione di questa sentenza perciò, pur facendo riferimento ad una “colpa professionale”, chiama di nuovo in causa, nella sostanza, quella “posizione di garanzia” rispetto alla pericolosità che la sentenza precedente sembrava escludere; essa poi lo fa, segnatamente, con una sorta d’escamotage, ossia interpretando in maniera assai estensiva il concetto di “cura”.

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Legislazioni a confronto

E’ interessante a questo punto, a proposito della pericolosità, un breve confronto con la legislazione americana: questa infatti, al contrario di quella italiana, ai fini della motivazione d’un Trattamento Sanitario Obbligatorio psichiatrico, privilegia esplicitamente proprio la “pericolosità sociale” rispetto alla “necessità della cura”.

Essa inoltre (cosa molto significativa perché in linea con le più recenti acquisizioni del pensiero scientifico) fa leva sulla specifica competenza e responsabilità tecnico-professionale dello psichiatra nel prevedere il rischio di eventi violenti auto o etero-lesivi, ma lo fa solo nel breve periodo e non nel lungo (come invece, fino a pochi decenni fa, faceva la cultura giuridica italiana di stampo lombrosiano).

Il Civil Commitment americano, dunque, lega la possibilità d’un ricovero obbligatorio di 72 ore (estensibile solo con decisione giudiziale) a tre elementi, il cui accertamento è specificamente legato alla responsabilità professionale e tecnica dello psichiatra:

  • Presenza di pericolosità per gli altri.
  • Presenza di pericolosità per sé stessi.
  • Presenza d’uno stato di grave disabilità e mancanza d’autosufficienza (elemento, questo, considerato dagli stessi giuristi americani come una ridondanza degli altri due, ed in particolare del secondo).

L’accertamento della “presenza della pericolosità” cui fa riferimento la legge americana, come si vede, è una valutazione tecnico-scientifica specifica e polarizzata sulla situazione clinica concreta, rilevabile tramite una visita specialistica accurata ed accertamenti sanitari “mirati”, e soprattutto centrata sul breve periodo. E’ infatti da sottolineare, lo ripetiamo, come tutti gli studi più recenti ed accreditati sottolineino la difficoltà  di prevedere sul lungo periodo qualcosa di complesso e multi-fattoriale come il comportamento violento, e l’ovvia maggior facilità di farlo sul periodo breve, ossia in relazione a specifici e contingenti fattori ambientali e/o di stress.

Insomma, dagli studi americani riceviamo indicazioni che sono l’esatto contrario di quella “pericolosità presunta per sé e per gli altri” a tempo indeterminato, prevista come condizione “cronica” connaturata alla malattia, ed anche come motivo di ricovero, dalla vecchia legge manicomiale italiana n. 36 del 1904 (per di più solo sulla base d’un generico “certificato medico” e non di un’accurata valutazione clinica specialistica!): un’idea che nuove proposte di legge italiane sono tornate a riproporre.

Sappiamo già, però, che la limitatissima “valutazione tecnica” già richiesta dalla legge italiana del 1904, proveniva da una matrice eredo-costituzionalista di tipo lombrosiano, la quale faceva riferimento ad una presunta “tendenza criminale innata” dei malati di mente (una condizione, secondo le idee di Lombroso, perfettamente visibile a chiunque, oltre che sulla base del loro comportamento “scandaloso” e/o pericoloso, anche sulla base di semplici “stigmate” fisiche e fisiognomiche). Per tali ragioni e solo per esse, la legge prevedeva l’attribuzione, ai malati di mente già vagliati almeno una volta da un medico e da lui ritenuti portatori delle suddette caratteristiche fisiche e comportamentali, d’una “pericolosità presunta di lungo periodo” la quale preludeva, implicitamente, all’internamento più o meno definitivo in un Ospedale Psichiatrico. Ora, è a questo punto superfluo ribadire come tali presupposti “scientifici” siano stati del tutto superati dalla scienza contemporanea, ed anche come essi fossero assolutamente empirici, mai seriamente comprovati nonché basati, per la maggior parte, su un grossolano pregiudizio ideologico-culturale.

E’ poi interessante il fatto che, viceversa, la legislazione americana, 1) oltre a richiedere una valutazione specialistica accurata della pericolosità, 2) e richiederla come “presenza” attuale, ovvero esclusivamente sul breve periodo, 3) ha scartato ogni motivazione clinico-terapeutica al ricovero coatto (corrispondente alla cosiddetta “necessità urgente di cura” di cui parla la nostra legislazione); insomma, essa ha espunto, dalle possibili motivazioni di ricovero coatto, ogni riferimento para-lombrosiano a fattori “bio-antropologici di pericolosità” ed anche a ragioni puramente “sanitarie”, concentrandosi invece sull’aspetto pratico rappresentato, in caso di pericolosità, da una priorità assoluta accordata all’interesse sociale e collettivo su quello individuale. Insomma ha introdotto, al posto d’una pericolosità sociale cronica e/o di lungo periodo derivante da “ragioni sanitarie”, una previsione di pericolosità nel breve periodo la quale necessita solo dell’uso di indicatori di pericolosità riferiti all’individuo, più ancora che al malato mentale, “qui ed ora”, quindi tarati sulle circostanze concrete che di volta in volta si presentano.

In questa prospettiva, la “necessità di cura” (che nella legislazione italiana successiva al 1978 è divenuta una motivazione d’importanza capitale per il ricovero coatto) è stata giudicata dai giuristi americani come troppo paternalistica, perché di natura tale da violare il diritto del cittadino a rifiutare liberamente quelle cure con le quali non concordi (cfr P. S. Appelbaum ed R. M. Hamm, 1982).

Come si vede la legge italiana e quella americana, pur muovendosi apparentemente entro le stesse coordinate di tipo garantista, hanno imboccato due vie opposte:

1) la legge italiana infatti è partita dal principio lombrosiano, risalente alla legge del 1904, d’una pericolosità presunta e di lungo periodo del malato di mente, per poi abbandonare, nel 1970, ogni valutazione di pericolosità ed approdare al principio (in sé anch’esso assolutamente illiberale, tranne che nelle situazioni di igiene pubblica o di preminente interesse collettivo) della “necessità della cura” (legge 180).

2) la legge americana invece, pur prendendo teoricamente in considerazione il principio della “necessità della cura”, lo ha consapevolmente scartato in ragione, da un lato, del rispetto del diritto individuale alla libertà di cura (Appelbaum ed Hamm), e dall’altro della necessaria conciliazione dei diritti individuali con quelli inerenti la necessità di sicurezza collettiva e di prevenzione sociale.

Il principio della “libertà di cura”, insomma, per il diritto americano, ove preso in sé stesso, rappresenta un caposaldo giuridico assolutamente chiaro, sacrosanto ed inoppugnabile; tuttavia, in presenza di pericolosità sociale, la giurisprudenza statunitense afferma con altrettanta chiarezza che sul diritto individuale al rifiuto delle cure debbono prevalere le “considerazioni collettive e di pubblico interesse”.

Ora occorre osservare che, almeno in questo caso, è proprio una tale estrema chiarezza nel difendere le ragioni collettive, l’elemento che consente di salvaguardare nella maniera più netta anche il diritto individuale della persona alla libertà di cura: la legge americana, infatti, non solo circoscrive ad ambiti limitati e verificabili il diritto della persona al rifiuto delle cure, ma sancisce, in maniera altrettanto circoscritta, i casi in cui su quest’ultimo deve prevalere il principio dell’interesse collettivo, riuscendo in tal modo a contemperare (fondendoli in un mirabile equilibrio) il principio classico del diritto “soggettivo” e dell’interesse individuale, con quello, d’origine barbarico-tribale, del diritto “oggettivo” e dell’interesse collettivo e sociale.

Al contrario il mascherare, come fa la legislazione italiana, sotto le presunte finalità “umanitarie” proprie della “necessità ed improrogabilità della cura”, l’ineludibile necessità di far prevalere, almeno in taluni casi, l’interesse collettivo sulla libertà individuale a curarsi o meno, rappresenta forse la modalità più insidiosa per oscurare e mettere a repentaglio proprio il principio liberale della “libertà della cura”: infatti lo pone in balìa, senza fissare degli argini chiari, di esigenze collettive che con esso sono del tutto inconciliabili (ad esempio, quelle “sanitarie”), e che in condizioni di forte pressione dell’opinione pubblica sono fatalmente destinate a prevalere.

A controprova dell’incongruenza, su questo punto, della legge 180, basta considerare l’assoluta impossibilità, nella nostra legislazione, di sottoporre contro la sua esplicita volontà un paziente psichiatrico, a meno che non sia in stato di perdita di coscienza (e neppure se si trova in TSO!), a terapie quali, ad esempio, un intervento chirurgico d’urgenza, oppure un’alimentazione forzata in corso di anoressia (patologia per la quale di solito non si ricorre neppure al TSO!): infatti il TSO psichiatrico consente esclusivamente la somministrazione coercitiva di “terapie psichiatriche” miranti a correggere un’alterazione dello stato psichico che necessiti di intervento sanitario urgente, ed in nessun caso la somministrazione di terapie “mediche” le quali, pur anch’esse urgenti, mirino ad uno scopo diverso.

Ora, se si analizza dal punto di vista giuridico questa strana eccezione, rappresentata dalle “terapie psichiatriche”, al principio del “libero assenso alla terapia”, ci si accorge, a ben vedere, di avere ancora una volta a che fare con la priorità dell’interesse collettivo su quello individuale, ed in definitiva, con la pericolosità sociale: questa è l’unica possibile giustificazione per l’”eccezione psichiatrica”, poiché altrimenti non si capirebbe quale possa essere, nel caso delle cure psichiatriche (dalle quali può dipendere l’incolumità altrui!), quell’elemento specifico capace di inficiare una libera scelta individuale che lo stesso soggetto, nel caso debba invece decidere circa un intervento diagnostico o chirurgico su di sé (e che può incidere solo sul suo personale stato di salute), può invece esercitare!

L’elemento differenziale che riguarda le cure psichiatriche, ovviamente, non è altro che quella stessa pericolosità sociale che a parole viene esclusa, ma che surrettiziamente, fra le righe del testo, è presente nella stessa legge 180.

Insomma, l’elemento che fa la differenza fra le cure psichiatriche e quelle non psichiatriche prestate ad uno stesso soggetto che si trova in condizioni identiche (un malato di mente che non si rende conto delle conseguenze dei propri atti), non può essere altro che quello derivante, nel caso delle cure psichiatriche, da un interesse collettivo a che il soggetto “si curi la mente”, il quale s’identifica semplicemente con la sua pericolosità sociale, quindi con la possibilità che procuri del danno ad altri.

In conclusione, la nostra legislazione, in maniera abbastanza ipocrita, nel mentre che salvaguarda giustamente il diritto del paziente psichiatrico (come d’ogni altro!) a rifiutare quelle cure mediche con cui non concordi, postula poi, in modo del tutto contraddittorio, una ”necessità urgente” (ma che si pretende non sia inerente alla pericolosità!) alle cure psichiatriche, ossia ad essere curato sul piano psichico anche contro la sua volontà: si proclama insomma d’operare nel suo esclusivo “interesse”, però poi ci si rapporta con lui come se la sua “malattia” fosse contagiosa alla stregua d’una meningite (a parte le malattie mentali, solo alcune malattie infettive possono dar luogo a Trattamenti Sanitari Obbligatori!).

Con ciò, però, non ci si limita a nascondere l’idea della “pericolosità” dietro quella della “necessità ed urgenza” della cura, ma si fa una cosa ben più grave e pericolosa: in luogo di tenere rigidamente separati, in linea di principio, l’ambito dell’interesse collettivo e sociale e quello delle libertà dell’individuo al fine di mantenerli integri e di salvaguardarli entrambi (salvo il far prevalere esplicitamente, in casi circoscritti, l’uno sull’altro), si introduce di soppiatto, e senza giustificarla in alcun modo, una rischiosa e discutibile eccezione al “principio della libertà della cura” in sé, ovvero quella rappresentata, non si sa bene perché, dalla “cura psichiatrica”, con il risultato di rendere tale principio una sorta di “diritto di serie B”.

6

I problemi dell’abolizione della pericolosità e le possibili soluzioni

In conclusione, esistono più che valide ragioni per ritenere che la reintroduzione, nel nostro ordinamento giuridico, d’una valutazione psichiatrica della “presenza di pericolosità” nel malato di mente non ancora autore di reati, ove si basi non già sul concetto lombrosiano della “pericolosità sociale presunta” e “di lungo periodo” in quanto “connaturata alla malattia”, bensì sull’uso di indicatori di pericolosità sul breve periodo, nonché di più numerosi reparti per ricoveri psichiatrici coatti di breve durata come quelli attuali (gli SPDC), sia lo strumento più idoneo per prevenire due gravissimi pericoli che a nostro avviso minacciano, in prospettiva, la sopravvivenza d’una concezione liberale ed umanitaria della Psichiatria:

  • un primo pericolo è rappresentato dalle risorte (ma in realtà mai tramontate del tutto!) spinte illiberali e/o contro-riformatrici, le quali vanno in direzione sia della riapertura dei Manicomi (ovvero di “luoghi di ricoveri coattivi e di lunga durata”), sia del ripristino d’una “pericolosità sociale presunta e di lungo periodo” del malato di mente in quanto tale: si vedano le già citate proposte di contro-riforma presentate nella legislatura 2001-2006.
  • Un secondo pericolo è rappresentato dalla periodica riproposizione, in relazione ai malati che commettono reati e che a dire dell’opinione pubblica non hanno un’adeguata sanzione e/o trattamento/prevenzione, di proposte e spinte “radicali” di segno opposto sul piano dei principi, ma ai fini pratici del tutto equivalenti alle precedenti: queste proposte vanno infatti in direzione dell’abolizione dell’antichissimo ed umanitario principio della “non imputabilità” di minori e folli, per cui, paradossalmente, il rimedio ad una mancata valutazione preventiva della presenza di pericolosità nel malato di mente (considerata non si sa bene perché “illiberale”) sarebbe l’attendere che egli commetta dei reati ed il ripristinare a suo carico una sanzione penale ordinaria nel caso che malauguratamente li commetta!

D’altra parte, l’uso dei suddetti indicatori di pericolosità incentrati sul “breve periodo” sarebbe uno strumento utilissimo al fine di contemperare e salvaguardare alcuni importanti principi giuridici, non sempre del tutto coincidenti ma tutti quanti d’importanza capitale, in una società che voglia essere minimamente civile e giusta:

  1. il principio dell’uguaglianza dei cittadini, quanto ai diritti inviolabili della persona, a prescindere da loro caratteristiche biologiche e/o di salute più o meno permanenti, donde il rifiuto dell’idea d’una “pericolosità sociale presunta” che da tali permanenti caratteristiche possa automaticamente discendere, con tutte le sue conseguenze liberticide;
  2. il principio, conseguente al precedente, della libertà di ciascun individuo di rifiutare quelle cure, incluse le psichiatriche, con le quali non concordi, fatto però salvo il necessario prevalere sulla libertà individuale, almeno in alcuni casi circoscritti (segnatamente, l’accertata “presenza di pericolosità”), dell’interesse collettivo e sociale.
  3. Il principio, di antichissima e classica origine storico-giuridica, della “incapacità di intendere e di volere” del folle, e conseguentemente quello d’una sua “non imputabilità” in quei momenti nei quali sia in lui “presente” e dimostrata una qualche pericolosità.

In base a tutto ciò riteniamo, a proposito di quel certo discutibile “spirito riformatore” della Psichiatria italiana che ha sin qui preferito concentrarsi sui luoghi anziché sui problemi, che il ripetere ancora oggi ad oltranza il “mantra” secondo il quale “non c’è spazio per la cura all’interno d’una dimensione repressiva e/o custodialistica” (un “mantra” coniato all’epoca del ripudio d’ogni possibilità di lavoro terapeutico, anche provvisorio, all’interno dei Manicomi, il quale ha contribuito a produrre la frettolosità micidiale con cui sono state varate sia la legge 180 che la legge n. 9 del 2012, e che allo stato attuale sembra più che altro un luogo comune ideologico), oltre che sconfessare di fatto il lavoro terapeutico ancora oggi compiuto, ad esempio, nei SPDC (i quali ovviamente possiedono “anche” una dimensione custodialistica), sia la spia d’una mentalità difensiva, fatta di negazione dei problemi di fondo della Psichiatria, che è assolutamente necessario superare.

Occorre riconoscere che la richiesta che alla Psichiatria proviene dalla società, nel profondo è tuttora, anche e soprattutto, custodialistica e repressiva (e lo sarà, temiamo, per lunghissimo tempo!): il negare ciò come si faceva una volta, con fughe in avanti o con progetti di palingenesi sociale, oppure l’illudersi, come si fa oggi, di potere erigere dei muri più o meno invalicabili fra la dimensione terapeutica e quella repressiva e custodialistica (muri materiali, come l’abolizione “immediata”, eretta a feticcio, d’ogni possibile luogo fisico di cura a carattere anche solo parzialmente repressivo, oppure muri all’interno di sé stessi, ovvero interiori e mentali), ci sembra non sia nient’altro, per l’appunto, che un’ingenua e nefasta illusione.

Una tale illusione, infatti (è questa la cosa più grave!), non fa altro che distogliere ogni psichiatra dalla battaglia permanente che, ovunque egli operi, deve condurre in special modo all’interno di se stesso, affinché le spinte e le richieste repressive che costantemente gli provengono dal collettivo sociale (e dalle sue stesse strutture mentali più collegate con quest’ultimo), non prevalgano sulle sue motivazioni terapeutiche.

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