La violenza sessuale si configura anche con il compimento di atti sessuali repentini

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di Emanuele Mascolo

… Rubrica di Giurisprudenza

4 dicembre 2014

Recentemente la Suprema Corte di Cassazione è intervenuta stabilendo che “il principio in base al quale, in tema di violenza sessuale, l’elemento oggettivo, oltre a consistere nella violenza fisica in senso stretto o nella intimidazione psicologica in grado di provocare la coazione della vittima a subire gli atti sessuali, si configura anche nel compimento di atti sessuali repentini, compiuti  improvvisamente all’insaputa della persona destinataria, in modo da poterne prevenire anche la manifestazione di dissenso e comunque prescindendo, nel caso di minori infraquattordicenni, da un consenso, ancorche’ viziato, o dal dissenso comunque manifestabile.

Ed infatti deve ammettersi, in tema di reato sessuale commesso in danno di persona infraquattordicenne, punito dall’articolo 609 quater c.p., comma 1, il concorso materiale con il reato previsto dall’articolo 609 bis c.p., comma 1, nel senso che, in presenza di condotte comportanti violenza, minaccia o abuso di autorita’, puo’ trovare applicazione anche la seconda fattispecie criminosa, che non e’ alternativa e neppure incompatibile con la prima” .

In allegato il testo della sentenza.

 

Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza 10 novembre 2014, n. 46170

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNINO Saverio F. – Presidente

Dott. ORILIA Lorenzo – Consigliere

Dott. DI NICOLA Vito – rel. Consigliere

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere

Dott. SCARCELLA Alessio – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

(OMISSIS), nato ad (OMISSIS);

avverso la sentenza del 05/02/2014 della Corte di appello di Trento sez. dist. di Bolzano;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. Vito Di Nicola;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dr. D’Ambrosio Vito, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;

RITENUTO IN FATTO

1. La Corte di appello di Trento, sezione distaccata di Bolzano, con la sentenza indicata in epigrafe, ha confermato la pronuncia resa dal Tribunale presso medesima città che aveva condannato, a seguito di giudizio abbreviato, (OMISSIS) alla pena di anni sette e mesi quattro di reclusione per il reato previsto dall’articolo 609 bis c.p., (3 comma), articoli 609 ter, 609 quater e 609 septies c.p., articolo 61 c.p., n. 11 e articolo 81 c.p., per avere, in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, costretto con violenza e minaccia la minore (OMISSIS), nata il (OMISSIS), figlia della convivente (OMISSIS), a subire atti sessuali o comunque per avere compiuto atti sessuali con la stessa; in particolare (OMISSIS), nel periodo immediatamente successivo all’ingresso della minore (OMISSIS) nel territorio italiano, quando la stessa frequentava la quarta elementare e risiedeva con lui in (OMISSIS), frequentemente ne palpeggiava in maniera repentina e comunque contro la sua volontà la vagina e le natiche, approfittando degli attimi di momentanea assenza della madre; lo (OMISSIS) reiterava quindi tale condotta di palpeggiamento repentino delle zone erogene della minore (OMISSIS) nel periodo in cui gli stessi, unitamente alla madre della minore, si erano trasferiti da (OMISSIS), in un appartamento sito in (OMISSIS); successivamente all’ulteriore trasferimento del medesimo nucleo familiare in un appartamento sito in (OMISSIS), lo (OMISSIS) instaurava con la minore (OMISSIS) una relazione sentimentale, caratterizzata dalla consumazione consensuale, con cadenza settimanale ed in alcuni casi anche quotidiana, di rapporti sessuali completi sia di tipo orale, sia di tipo vaginale, approfittando dei momenti in cui la madre della minore era assente da casa per motivi lavorativi e non desistendo nemmeno nel periodo del ciclo mestruale della ragazza, in cui si faceva praticare sesso orale; con l’aggravante di aver commesso il fatto con abuso di relazioni domestiche, avendo approfittato del rapporto di stabile coabitazione intercorrente con la persona offesa, figlia della propria convivente more uxorio (OMISSIS).

In (OMISSIS).

  1. Per l’annullamento dell’impugnata sentenza, l’imputato ha proposto, tramite il proprio difensore, ricorso per cassazione affidando il gravame a cinque motivi.

2.1. Con il primo motivo deduce violazione e falsa applicazione dell’articolo 597 c.p.p. (articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera c), per inosservanza del divieto di reformatio in peius della sentenza di appello, non impugnata dal pubblico ministero, relativamente alla qualificazione giuridica del fatto.

Si assume come la Corte di appello, nel rigettare la doglianza relativa alla formulata eccezione circa l’indeterminatezza e la contraddittorietà del capo di imputazione, sia giunta a ritenere non configurabile, in assenza di impugnazione del pubblico ministero, il fatto di minore gravità in relazione all’articolo 609 bis c.p. nonostante la diminuente sia stata ritenuta nel capo di imputazione ed in sentenza, contravvenendo quindi al divieto di reformatio in peius che non riguarda solo l’entità della pena complessiva ma tutti gli elementi che concorrono alla sua determinazione.

2.2. Con il secondo motivo di gravame lamenta violazione e falsa applicazione dell’articolo 81 c.p. (articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera b), per errata individuazione del reato di maggiore gravità.

Si sostiene che anche in ordine all’individuazione del reato considerato più grave ai fini della pena la Corte di appello sia incorsa in un grave errore in quanto il primo giudice ha dichiarato più grave il reato di cui all’articolo 609 quater c.p. e ciò sul presupposto che il reato di cui all’articolo 609 bis c.p. fosse attenuato dalla minore gravità.

La questione avrebbe dei rilievi pratici considerato che il reato punito dall’articolo 609 bis c.p. presuppone l’uso della violenza e/o della minaccia mentre il reato previsto dall’articolo 609 quater c.p. presuppone il consenso, per quanto giuridicamente inefficace, della persona offesa.

2.3. Con il terzo motivo si denuncia la violazione e la falsa applicazione dell’articolo 609 bis c.p. nonchè illogicità e contraddittorietà manifesta della motivazione (articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera c), ed e) risultante dalla deposizione della stessa parte offesa come riportata nella sentenza di primo grado.

Si deduce che erroneamente la Corte di appello ha convalidato l’approdo cui è giunto il Tribunale di ritenere configurato il reato previsto dall’articolo 609 bis c.p., seppure qualificato dalla minore gravità, sul presupposto che l’imputato avesse toccato le parti intime della vittima con atti repentini ed improvvisi, ravvisando in ciò gli estremi della violenza, laddove l’azione si sarebbe caratterizzata, tenuto anche conto delle dichiarazioni della persona offesa, per essere stata progressiva e non già repentina, suadente e non sorprendente, essendovi già un rapporto di convivenza tra agente e persona offesa, con la conseguenza che, nel caso di specie, difetterebbe l’elemento costitutivo della violenza richiesto dall’articolo 609 bis c.p. per la configurabilità del reato in quanto, secondo la logica e l’esperienza, il contatto in zone verdi è preceduto da contatto in zone lecite e confinanti, per migrare poi gradualmente verso la zona rossa, sempre che non intervenga una reazione contraria. Nessuna violenza dunque vi sarebbe stata, ma la ricerca di un consenso almeno passivo.

La repentinità sarebbe invece tipica di contesti in cui anche il contatto in zone rosse è inopportuno (autobus, contesti lavorativi, luoghi affollati in genere) e ove l’agente ha pochissimo tempo a disposizione e non certo dei minuti o delle ore come nel caso di specie (sul divano o al momento di andare a dormire).

2.4. Con il quarto motivo di gravame lamenta illogicità manifesta della motivazione in relazione alla quantificazione del risarcimento del danno ed omessa motivazione su punti decisivi per il giudizio di quantificazione del danno (articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e).

Si assume come il danno sia stato liquidato in maniera eccessiva e senza dare conto dei parametri utilizzati per pervenire alla sua quantificazione.

2.5. Con il quinto ed ultimo motivo, deduce violazione e falsa applicazione dell’articolo 133 c.p. e mancanza di motivazione in ordine alla pena base ed all’aumento per la continuazione (articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera b), ed e).

Si sostiene come con i motivi di appello il ricorrente si sia doluto tanto della determinazione della pena base (otto anni di reclusione) quanto dell’aumento ritenuto per la continuazione (anni tre di reclusione) e come la Corte territoriale, nel rigettare le doglianze, abbia fatto leva sulla gravità del fatto in considerazione dell’abuso di fiducia e dell’abuso di relazione ex articolo 61 c.p., n. 11 valutando erroneamente entrambe le circostanze con riferimento ai medesimi profili ed avendo ciò determinato un aggravamento inammissibile del trattamento sanzionatorio.

CONSIDERATO IN DIRITTO

  1. Il ricorso è infondato.
  2. Il primo motivo è manifestamente infondato.

Nel respingere il primo motivo d’appello la Corte territoriale ha chiarito come i fatti materiali contestati – sia con riferimento alle condotte (dapprima palpeggiamenti poi rapporti sessuali completi) sia ai luoghi ((OMISSIS)) sia alla frequenza ed alle concrete modalità – fossero stati nella loro specificità storica ammessi dal ricorrente e come sia l’imputazione che la sentenza avessero scisso la sequenza dei fatti in due fasi: la prima fase di palpeggiamenti effettuati in maniera repentina ed insidiosa in momentanea assenza della madre (articolo 609 bis c.p.); la seconda fase di rapporti sessuali completi (vaginali ed orali) inseriti nel contesto di un distorto, almeno sotto il profilo dell’età (23 anni di differenza), rapporto sentimentale.

Sotto tali profili la Corte del merito ha confermato – e non ritenuto per la prima volta aggravando, come erroneamente ritenuto dal ricorrente, la posizione dell’imputato appellante in assenza di impugnazione del pubblico ministero – l’insussistenza della diminuente della minore gravità per entrambe le ipotesi, posto che sia i reiterati palpeggiamenti in zona genitale di una bambina di appena 10 anni alla ricerca, da poco tempo giunta dal (OMISSIS), di persone adulte di riferimento e ancor più i reiterati rapporti sessuali completi con una bambina non potessero rientrare in nessun caso della nozione di minore gravità .

E’ vero che nel capo di imputazione vi è l’indicazione (errata) del comma 3 con riferimento al reato punito dall’articolo 609 bis c.p. ed è anche vero che nella prima sentenza il Giudice, nel confermare la propria competenza territoriale dopo aver preso atto della rinuncia da parte del procuratore speciale e dell’imputato personalmente ad eccepire l’incompetenza territoriale del Tribunale di Bolzano in favore di quello di Milano luogo ove è stato commesso il primo fatto contestato, ha stimato più grave il reato previsto dall’articolo 609 quater c.p. affermando che quello di cui all’articolo 609 bis c.p. è stato configurato nell’ipotesi attenuata ai sensi del comma 3 e che a mente del disposto dell’articolo 4 c.p.p. nella determinazione della pena non si tiene conto delle circostanze del reato, se non ad effetto speciale .

Va tuttavia ricordato come, in fatto, non sia stata enunciata, nel capo di imputazione, la circostanza della minore gravità del reato di violenza sessuale, con la conseguenza che la mera indicazione nell’epigrafe del capo d’accusa del comma relativo all’articolo di legge violato non radica alcun diritto al riconoscimento dell’attenuante, che invece il Tribunale ha esplicitamente escluso nella sentenza di primo grado (pag. 13) quando ha affermato che tali fatti non possono certamente essere qualificati di minore gravità in considerazione della frequenza dei rapporti sessuali richiesti, delle modalità dell’azione, infilandosi l’imputato nel letto della bambina anche alle 4 del mattino e pretendendo di soddisfare le proprie esigenze prima che la minore sui preparasse per andare a scuola, nonché insegnandole diverse tipologie di rapporto, non desistendo neppure se la (OMISSIS) aveva le mestruazioni, ricorrendo in tal caso a pratiche orali, e tenuto conto dell’età della minore nata il (OMISSIS) .

Al cospetto di tale specifica motivazione circa l’esclusione delle diminuente, che infatti non è stata minimamente considerata nella determinazione della pena, e neppure specificamente censurata con i motivi d’appello, la censura secondo cui la Corte territoriale abbia violato il divieto di reformatio in peius  è destituita di ogni fondamento.

  1. Il secondo ed il terzo motivo di gravame, essendo tra loro collegati possono essere congiuntamente esaminati.

Il ricorrente, ribadendo che la violenza sessuale (articolo 609 bis c.p.) sia stata ritenuta di minore gravità (secondo motivo), assume, anche sul presupposto che sia stato configurato come reato più grave quello di cui all’articolo 609 quater c.p., che il reato di violenza sessuale fosse giuridicamente da escludere mancando il requisito della violenza (secondo e terzo motivo) non potendo ritenersi le condotte dell’imputato repentine ed a sorpresa quanto piuttosto progressive e dirette alla ricerca di un consenso, quantunque invalido ratione aetatis, della vittima.

I rilievi sono privi di fondamento.

I Giudici del merito hanno ritenuto, con logica ed adeguata motivazione, configurabile il reato previsto dall’articolo 609 bis c.p. sul presupposto, ampiamente accertato in fatto e dunque insindacabile in sede di legittimità, che quando il ricorrente toccava la vittima direttamente nelle zone intime (pube e sedere) eseguiva le azioni in modo rapido e repentino ponendo in essere gli atti improvvisamente ed inaspettatamente, anche per non essere sorpreso dalla compagna mentre la minore non comprendeva quale fosse la reale intenzione dell’agente.

Ne deriva che le azioni vietate sono state eseguite anche quando il luogo di commissione del fatto era condiviso dalla madre della vittima (compagna dell’imputato) e dunque in frangenti nei quali il ricorrente aveva un lasso di tempo estremamente ridotto per eseguire la condotta illecita, che nonostante tutto poneva in essere con rapidità.

Va dunque affermato il principio in base al quale, in tema di violenza sessuale, l’elemento oggettivo, oltre a consistere nella violenza fisica in senso stretto o nella intimidazione psicologica in grado di provocare la coazione della vittima a subire gli atti sessuali, si configura anche nel compimento di atti sessuali repentini, compiuti improvvisamente all’insaputa della persona destinataria, in modo da poterne prevenire anche la manifestazione di dissenso e comunque prescindendo, nel caso di minori infraquattordicenni, da un consenso, ancorche’ viziato, o dal dissenso comunque manifestabile.

Ed infatti deve ammettersi, in tema di reato sessuale commesso in danno di persona infraquattordicenne, punito dall’articolo 609 quater c.p., comma 1, il concorso materiale con il reato previsto dall’articolo 609 bis c.p., comma 1, nel senso che, in presenza di condotte comportanti violenza, minaccia o abuso di autorità, può trovare applicazione anche la seconda fattispecie criminosa, che non e’ alternativa e neppure incompatibile con la prima.

  1. Anche il quarto motivo è infondato.

4.1. Per rendersene conto occorre brevemente ripercorrere la ratio decidendi del giudice di primo grado pienamente confermata dal Giudice di secondo grado.

Nel quantificare in via equitativa il danno, il Tribunale è partito dalla premessa che la minore, (OMISSIS), è stata inserita in comunità dal (OMISSIS), per rientrarvi nuovamente dal (OMISSIS).

Ha poi registrato, sulla base del patrimonio dichiarativo della minore e delle relazioni dei servizi sociali oltre che degli accertamenti specialistici eseguiti dal tribunale per i minorenni, il difficile rapporto con la madre che, parzialmente ripreso con il ricongiungimento in Italia, si è nuovamente interrotto in conseguenza dei fatti del presente processo.

Ha evidenziato come la madre aspetti un bambino dall’imputato e che, allo stato, non sia in grado di aiutare nè sostenere la figlia. La minore non ha ancora elaborato i traumi vissuti e la conseguente separazione dalla madre, nutrendo nei confronti di questa, che peraltro la colpevolizza, sentimenti contrastanti tanto che il rapporto è apparso irrimediabilmente segnato.

Nella relazione del 23 gennaio 2013 dei servizi sociali di (OMISSIS) così si legge: E’ apparso evidente che la convivenza tra madre e figlia in questo momento è tanto dolorosa, quanto difficoltosa, in quanto la madre non dispone delle risorse adeguate a sostenere la figlia, che sente quindi rinforzato il suo senso di colpa nei confronti della madre .

Il difficile rapporto è stato ribadito nella relazione del 24 gennaio 2013, in cui è evidenziata incomunicabilità verbale ed emotiva tra madre e figlia.

(OMISSIS) è dunque apparsa una ragazza tormentata dai sensi di colpa come argomentato anche dalla richiamata relazione dei servizi sociali del 23 gennaio 2013.

Il Tribunale ha ricordato come, per due anni, la minore abbia subito i progressivi desideri sessuali dell’imputato, che hanno generato in lei lentamente uno stato di malessere, fino a quando il malessere è diventato vera e propria sofferenza.

Da ciò il Tribunale ha tratto il convincimento che (OMISSIS) è ora una ragazza sola, di appena 14 anni, nonostante possa contare sull’affetto e sul sostegno di assistenti sociali ed insegnanti, inserita in una comunità – (OMISSIS).

Come attestato dalla relazione dei servizi sociali, la minore è in carico all’ambulatorio di psichiatria e psicoterapia per l’infanzia.

Nel decreto interlocutorio n. 188/13 nel procedimento sub n. 63/13 V.G. del 13 marzo 2013, con il quale è stato confermato l’affidamento di (OMISSIS) al servizio sociale, il Tribunale per i Minori ha chiaramente descritto la difficile condizione della persona offesa ed è stato prescritto alla madre sostegno psicologico per recuperare il rapporto con la figlia, con la quale ha pochi contatti, fatica a considerarla vittima, ritenendo piuttosto se stessa vittima, concentrandosi quindi sullo propria persona, sul proprio lavoro, sullo stato di gravidanza, poco interessata alla vita di (OMISSIS).

Sulla base di ciò il Tribunale è pervenuto alla conclusione di ritenere ampiamente compromessa la vita della minore spezzata negli affetti e lesa nelle relazioni, nella serenità, nella spensieratezza, nello sviluppo, nella crescita e nella sessualità,  avendo (OMISSIS) sperimentato affetti distorti e conosciuto una sessualità deviata, quando ancora era una bambina di appena dieci anni, quando ancora non poteva ne’ doveva conoscere rapporti sessuali orali, vaginali e, prospettati, anche anali (che in sede di incidente probatorio ha dimostrato di non sapere neppure denominare).

Come ha espressamente dichiarato, non pensava certo che la prima volta sarebbe stato con un padre , avrebbe voluto che fosse con il suo ragazzo e dopo un poco di tempo.

In considerazione di tale devastante quadro, al Tribunale è apparso equo liquidare – per il danno biologico subito, in termini di compromissione della vita familiare ed affettiva, perdita dell’infanzia, pregiudizio di serena crescita e di progressivo sviluppo psicofisico – l’importo di 350.000,00 euro, importo comprensivo del danno morale, oltre interessi legali (tenuto conto che per una invalidità permanente del 70% su soggetto di anni 11 secondo le tabelle di Milano 2011 può essere riconosciuto un risarcimento del donno biologico, incluso il danno morale nel danno patrimoniale, di euro 706.509,00).

4.2. Il ricorrente a ciò obietta che la quantificazione sarebbe ictu oculi del tutto eccessiva; che la quantificazione sarebbe stata  apoditticamente individuata nel grado di invalidità permanente del 70% di un soggetto di 11 anni secondo le tabelle del tribunale di Milano; che sarebbe assente la motivazione su come il Giudice sia pervenuto a ritenere un tale grado di invalidità; che dunque il Tribunale sarebbe partito da una premessa illogica per giungere ad una conclusione illogica; che il giudice avrebbe dovuto liquidare esclusivamente il danno morale per poi rimettere la valutazione del danno patrimoniale al giudice civile innanzi al quale le conseguenze del reato andavano rigorosamente provate; che alla determinazione equitativa del danno il giudice sarebbe giunto in mancanza di qualsiasi accertamento scientifico, medico o psicologico sui danni concreti subiti dalla minore.

4.3. Siccome la liquidazione del danno non patrimoniale derivante da reato contro la libertà sessuale segue, ai fini della risarcibilità, i medesimi criteri validi per la liquidazione del danno patrimoniale e non patrimoniale in generale (articolo 185 c.p.), va precisato che, in caso di determinazione equitativa del danno morale cagionato dalla commissione di reati sessuali nei confronti di minori d’età il giudice deve tener conto dell’intensità della violazione della libertà morale e fisica nella sfera sessuale, del turbamento psichico cagionato e delle conseguenze sul piano psicologico individuale e dei rapporti intersoggettivi, degli effetti proiettati nel tempo nonchè dell’incidenza del fatto criminoso sulla personalità della vittima (Cass. civ., Sez. 3, 09/03/2011, n. 13686).

Sempre in materia di risarcimento del danno da atti sessuali commessi nei confronti di minori, è stato anche affermato che il giudice deve procedere ad una valutazione ponderale analitica che tenga conto del diverso peso dei beni della vita compromessi, e segnatamente della libertà e della dignità umana, pregiudicati da atti di corruzione posti in essere da un adulto con dolo ed in circostanze di minorata difesa, nonchè della salute psichica, gravemente pregiudicata in una fase fondamentale della crescita umana e della formazione del carattere e della disponibilità a relazionarsi nella vita sociale, non potendo attribuirsi a priori un maggior rilievo al danno biologico rispetto al danno morale, il quale non si configura esclusivamente come pretium doloris , ma anche come risposta satisfattiva alla lesione della dignità umana (Cass. civ., sez. 3, sent. 11/06/2009 n. 13530).

A tale scrutinio non si sono affatto sottratti i Giudici del merito e, nella liquidazione della somma per il risarcimento del danno conseguente dal reato sub iudice, il danno biologico, come componente di quello morale, non è stato (nè deve necessariamente essere) valutato in base ai parametri tabellari utilizzati dalla giurisprudenza civile, proprio perchè la natura non patrimoniale di questo tipo di danno consente di ricorrere anche a criteri equitativi.

Se poi è vero che il danno biologico consegue, di regola, ad una valutazione di tipo medico legale, trasfusa in una perizia o in una consulenza tecnica indicativa anche della percentuale di invalidità, è altrettanto vero che, qualora una valutazione del genere, pur in assenza di precisi indicatori della percentuale di invalidità, sia comunque acquisita agli atti sulla base, come nella specie, di accertamenti medici e psicologici, richiamati espressamente dal Giudice di merito nella motivazione della sentenza e in alcun modo censurati (v. sub 4.1. del considerato in diritto), sia l’inquadramento giuridico nelle varie categorie risarcibili che il parametro utilizzato per determinare, in via equitativa, la posta risarcitoria rientrano nei compiti attribuiti al giudice di merito.

Il ricorrente, a torto, postula che il danno patrimoniale e non patrimoniale sia stato liquidato secondo una percentuale di invalidità parametrata sul 70% e ricavata dalle tabelle adottate dal tribunale di Milano, tabella e parametro citati in sentenza a titolo meramente esemplificativo, ma se l’esito della liquidazione fosse nel senso censurato dal ricorrente, il Giudice avrebbe  dovuto rispettare quel parametro di riferimento assestandosi sulla determinazione di una somma prossima a 706.509,00 euro, laddove la liquidazione (equitativa) si è assestata sull’importo, facidiato della età, nettamente inferiore di 350.000,00 euro.

Del resto la devastante compromissione delle aspettative di vita futura della persona offesa dal punto vista psicofisico non è neppure trascurata, anzi espressamente considerata, dal ricorrente sicchè la relativa valutazione del giudice, in quanto affidata ad apprezzamenti discrezionali ed equitativi, costituisce valutazione di fatto sottratta al sindacato di legittimità perchè sorretta da congrua motivazione che, avuto riguardo all’età ed alla durata degli abusi, ha tenuto conto delle lesioni cagionate agli affetti, alle relazioni, alla serenità, allo sviluppo, alla crescita, alla sessualità della vittima.

E’ pacifico che la valutazione equitativa dei danni non patrimoniali e’ rimessa al prudente apprezzamento del giudice di merito e non e’ sindacabile in sede di legittimita’, qualora abbia soddisfatto l’esigenza di ragionevole correlazione tra gravita’ effettiva del danno e ammontare dell’indennizzo, correlazione motivata attraverso i concreti elementi che possono concorrere al processo di formazione del libero convincimento (Sez. 5, n. 38948 del 27/10/2006, Avenati ed altri, Rv. 235024).

Quanto poi al danno patrimoniale, e’ di tutta evidenza come al cospetto di una vittima dell’eta’ di 10 – 12 anni non sia possibile una determinazione di esso nel suo preciso ammontare, sicche’ trova applicazione, anche in siffatto caso, la valutazione equitativa del giudice (articoli 2056, 1223, 1226 c.c.) e tale valutazione si risolve in una quaestio facti, la quale non puo’ essere oggetto di censura in sede di controllo di legittimita’, a meno che non si contesti (ma non e’ questo il caso mancando qualsiasi specifica contestazione in proposito) la legittimita’ del ricorso al criterio equitativo.

Ne consegue l’infondatezza del motivo.

  1. E’ manifestamente infondato il quinto motivo di gravame.

Posto che e’ stata contestata un’unica circostanza aggravante (articolo 61 c.p., n. 11) elisa per effetto del giudizio di comparazione con le concesse attenuanti generiche, stimate equivalenti all’aggravante contestata, va precisato che l’approfitta mento della relazione domestica da parte dell’imputato radica indubbiamente la sussistenza dell’aggravante in considerazione della stabile presenza dell’agente nella dimora familiare, essendosi l’agente stesso avvantaggiato del rapporto di convivenza con la madre della minore abusata e ponendo in essere atti lesivi della sfera sessuale della minore stessa, configurando cio’ l’aggravante dell’abuso di relazioni domestiche.

Quanto alla doglianza in punto di commisurazione della pena, la Corte territoriale ha precisato come il G.U.P., nelle operazioni di calcolo, sia partito dalla pena di anni otto di reclusione (articolo 609 bis c.p.), aumentata ex articolo 81 cpv. c.p. di tre anni di reclusione e quindi ridotta per il rito ad anni sette mesi quattro di reclusione, evidenziandone la congruita’ sul rilievo che i palpeggiamenti sono avvenuti in ambito domestico-familiare e che i rapporti sessuali completi si sono verificati nel contesto di un distorto rapporto sentimentale tra una bambina di 10-11 anni ed un adulto di 34-35 anni per di piu’ compagno della madre della bambina e dalla bambina percepito anche quale figura potenzialmente paterna, con la conseguente pesante lesione del rapporto di fiducia avendo i fatti criminosi prodotto danni psichici incalcolabili ma comunque gravissimi sicche’, pur considerando la resipiscenza post delictum del ricorrente, tali circostanze hanno indotto la Corte del merito a ritenere congrua sia la pena base (otto anni) e sia l’aumento per la continuazione (tre anni).

Al cospetto di un apparato motivazionale logicamente ed adeguatamente motivato, la censura sulla dosimetria della pena sfugge al sindacato di legittimita’ avendo il giudice del merito fatto corretto uso del potere discrezionale conferitogli dagli articoli 132 e 133 c.p..

Consegue il rigetto del ricorso e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalita’ e gli altri dati identificativi, a norma del Decreto Legislativo n. 196 del 2003, articolo 52, in quanto imposto dalla legge.

Commentario1 di Irene Battaglini* e Andrea Galgano** a L’ESSENZIALE CURVATURA DEL CIELO RACCOLTA DI POESIE DI ADRIANA GLORIA MARIGO

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leggi in pdf Commentario a L’ essenziale Curvatura del cielo

Il Commentario sul sito della casa editrice La Vita Felice

L’ EQUAZIONE ESSENZIALE DI ADRIANA GLORIA MARIGO
di Irene Battaglini  29 novembre 2014

La poesia di Adriana Gloria Marigo è un fiume che sgorga e nel contempo include. Mentre s-gorga dal suo cuore immaginale, in-clude attraverso una catena di membrane linguistiche il materiale psichico e relazionale che ella ritiene necessario e utile al compito generativo, che assomiglia molto all’espressione di un gene dello stupore, quasi che si attivasse una catena epifenomenica dell’Esser-ci. Il verso: «[…] nell’ora più confusa / sciolti e ricomposti / i miei nervi issarono vele alla carne / incisero il canto bruno dell’abbraccio […]»2, sembra quasi snodare questo stampo originario.

Il processo creativo di Adriana Gloria Marigo – già in Un biancore lontano ma in modo ancora più marcato in L’essenziale curvatura del cielo – è di fatto ricerca di una Lichtung della parole nitida tra gli ingarbugliati sentieri della memoria delle cose: un discernimento di dritto e rovescio nel suburbe disorganizzato delle parole scomposte e vacue, occultate nell’ambiente protolinguistico delle emozioni. In questo gioco serio la sua scrittura arretra, in alcuni casi, nell’extrema ratio della sofferenza d’amore, quando scrive: «Di questo sogno tocco le sponde mobili / l’acqua che non si fa golfo e / ogni erba declinante il verde // il riverbero dell’ora dentro la / pupilla che sazia il mondo di ogni / tuo mondo, semplice e assente. (A Francesco M.)»3, a mitigare quel che altrimenti sarebbe un intarsio di filigrane in guerra con la perfezione apollinea di un inchiostro di Animus, come nei versi potenti e fieri di “3 febbraio 2012”: «Benedico la sottile luce / levantina / il graffio di gelo / l’eterna aria dissimile / la stirpe dei Reti che / mi arde d’intelletto, / di non fragile cuore»4.

Versi scolpiti e sottili, stagliati, intagliati, decisivi. Parole che decidono il destino di un universo di alberi, bruma, vento, orti conchiusi in un vaso che conserva immortali pianure di fiori incolti, che aspettano una luce che benedice, nomina, assegna identità. Vi è come una scheggia che vien fuori da questi versi, una scheggia che ferisce perché non chiede eco, ma una risposta fresca e chiara, come in una radura che si apre alla Lichtung ma che non consegna al vuoto, se mai raccoglie un seme in un palmo di mano per farvi germogliare mondi intrisi di mito, come qui: «[…] – memoria tenue di universi – / mentre io sgranavo giorni nei miei occhi di ninfa / mi feci vertigine d’ala / intesi l’ammanco originale / la tua nascita sotto un graffio di vento»5.

Potrebbe essere paragonata alla scultura di Giacometti, alla pittura di Morandi, se non fosse per quella delicatezza delle immagini che si svincolano dal cuore e che aprono all’orizzonte di una lettura mercuriale quando non dionisiaca. S-gorgare come a voler uscire dall’ingorgo, vincendone l’inganno di forma con l’astuzia del segreto di Anima. Ci si senti liberati e offerti alla vita, come in questi versi: «Precipita la luce nel mattino. / Impallidisce l’ombra nel mare delle rifrazioni. Emerge una filigrana eretica d’amore»6.

Una poesia che ti mette spalle al muro perché non ha paura, non ha bisogno di nascondersi dietro alla tecnica di assemblaggio delle parole. I segni, i suoni, restano lì scarniti, elementari, magri e sostenuti da un tratto deciso, che afferma anche senza dire dell’oltre, senza raccontare. Con l’ausilio di una punteggiatura che fa emergere le idee come il chiaro-scuro le divergenze tra due petali di uno stesso fiore. Una tensione grafica che possedeva lo stesso Morandi, un ritmo del quotidiano che si appropria a pieno titolo del metafisico, come nelle acqueforti, minime e meditate, ma distese nell’ovvio potente di un quadrilatero di carta.
Una poesia che non sa il tradimento dell’arte, ma che conosce il dolore dell’attesa, il fuoco argenteo di un parto che fa i conti con l’illusione. Scrive Cristina Campo a Maria Zambrano: «In nessun modo Maria, e da nessuna circostanza, tu devi lasciarti indurre a tornare a Roma se prima non hai finito il tuo libro. Hai freddo, sei triste, sogni poco, non hai la forza. Non importa. Tutto questo fa parte del tuo libro, mentre la vita di Roma non ne fa parte, e ti dividerebbe da esso ancora una volta – e questa volta forse per sempre. Che tu scriva o non scriva, che tu sia triste o allegra, non tornare. Aspetta il tuo libro là dove gli hai dato appuntamento. Non lo tradire»7.

Per questo occorre soffermarsi sulla genesi di quest’opera, perché anche Adriana Gloria Marigo ha aspettato, ha scritto e ha dovuto assentare la sua voce dalle cose di ogni giorno per esplorare il cielo di questa sua “essenziale curvatura”. La bellezza di questa poesia non sta tanto nel suo equilibrio tra forme, colori, immagini, spessore, sapienza compositiva – tutte qualità inequivocabilmente espresse al massimo grado della poesia contemporanea – quanto nel sapersi astenere dalla seduzione della parola data. La parola in Gloria Marigo non è data. È pesata e pensata. Vi sono studio e ricerca; il biancore non è candore, il cielo è incurvato ma non curvo sotto il peso del suo azzurro di sperdimento. Ella conosce la trappola del talento, e non vi indulge. Sa che la poesia, quando è scritta, acquista una sua precipua soggettività e di conseguenza sa ben misurare il potere che ha la facoltà, per mezzo del talento e della passione di poeta, di conferire all’espressione arricchitasi di senso compiuto.
Pensiamo, per esempio, alla pienezza di: «Qui cadono tutti i vaticini / […] / Impera solo l’essenziale curvatura del cielo»8. Il rimando è a immagini che oscillano tra il desiderio di elevarsi nella sintesi e la ricaduta del rosso del cuore che precipita dentro se stesso, che ama. Nuvole in movimento che rifondono ogni giorno la volta celeste, ma pur sempre fatte di ossigeno e di idrogeno. Si scalda l’aria al passo di donna, come quando dice: «Io fui lontana / non per mio volere […]», e dunque si avvicina ancheggiando prima di decidere: «[…] un potere / retrogrado indusse la scelta – / distanza che unì l’ammaliante differenza»9.
Adriana Gloria Marigo ha imparato la lezione dei Maestri nel dosare e nel fare, sa spendere e sa confinare le sue creature in una saggia spartitura di note, lasciando come in una jam-session al lettore la libertà di improvvisazione emozionale. La sua poesia è quindi adatta ai gusti di un pubblico colto, ma vivamente raccomandata per i palati più esigenti, perché è una poesia autentica e consapevole. Come dire: so di piacervi, ma mi interessa che sappiate che qualora decidessi, potrei tornare a me stessa, alla mia meditazione sulle cose più grandi, senza tema di solitudine. Come in “Impermanenza”, ai versi: «Mi stanca il volo d’ape / […] / Tra fiore e ape sarebbe / l’estate, se non fosse / la corolla votata al suo destino»10, in cui vi è alternanza di giorno e di notte, di assertività per il proprio compito e di perdono per il proprio destino, ed in misura più sottile e implicita di amore che non esclude, ma determina con il peso di chi sa il proprio valore nella relazione.
Infine, Adriana Gloria Marigo – poeta, ha compreso la differenza tra equilibrio ed equazione, sapendo calibrare i suoi gesti in questa ultima dimensione, alimentando la danza tra significato e segno, tra quantità e numero, e approfittando della sospensione per farne un vuoto che conosce il suo contrario: «Tutto si consuma nell’autunno, / anche quest’alba che disincarna / il mattino devoto al richiamo dei tigli / nel frammento di brina, […]»11, dove tutto diventa frammento, il mattino si trasforma nell’autunno, che è la sera consumata dell’anno, l’alba disincarna al pari della brina, come se una molecola di ghiaccio – con la sua articolazione originale – avesse la stessa qualità categoriale di un movimento di luce come l’alba nel cielo. L’equazione di una curva che invade il cielo di accensioni ancora da realizzarsi.

L’ESSENZIALE CURVATURA DI ADRIANA GLORIA MARIGO
di Andrea Galgano

La poesia di Adriana Gloria Marigo si confronta con la stoffa del tessuto amoroso, non come slancio intellettuale o sintassi concettosa, bensì come forza e spasmo.
La sua posa non ama la frenesia spasmodica, per quanto brillante e sfuggente di un attimo conclamato, ma si appropria del richiamo della realtà, della salmodia del tempo e dello spazio e non cede al ricatto di una energia fine a se stessa, ma comunica al mondo il ritmo del suo divenire esistenziale e metafisico.
La brillantezza dell’essenziale, se da un lato si offre come possibilità di tempo liberato e non ricattato, dall’altro percepisce la “lentezza” della libertà, e quindi, l’apertura del pensiero.
La stagione poetica di Gloria Marigo ha la fecondità-primizia di uno spazio esplorato, di un cosmo raccolto e infine dell’incisione del contatto.
Poiché il contatto con la stoffa della realtà è il suo ornato, il rigore esatto e lucente di una obbedienza: «Precipita la luce nel mattino. / Impallidisce l’ombra / nel mare delle rifrazioni. / Emerge una filigrana eretica d’amore».
L’io che si dona, si pone in ascolto, celebra il barlume della quotidianità vivente e condivisa, è disposto a perdere il proprio fondo, per restituire il mistero, il cuore disvelato, la domanda di se stessi e la sproporzione: «Per felice intuizione compitai / la sintassi del tuo cuore / gli ossimori del tuo volto quando / nell’ora più confusa / sciolti e ricomposti / i miei nervi issarono vele alla carne / incisero il canto bruno dell’abbraccio / da palpito a palpito / per la mistica della rosa».
Scrive Eros Olivotto nella postfazione: «[…] il linguaggio assume una profonda valenza simbolica, si carica cioè di una tale riferibilità da divenire evocativo e, quindi, rivelativo; nel senso che come caratteristica specifica trova in sé la possibilità di evidenziare gli angusti limiti di un modo di sentire che tende ad escludere l’accettazione di quel rischio che rappresenta la vera sfida dell’amore, tutta la sua forza più autenticamente rivoluzionaria. Solo se siamo disposti a perdere, a perderci, l’amore si trasforma in quel qualcosa che ci permette di cambiare […] ed è ancora l’amore che, misteriosamente, ci rende presenti alla vita e agli altri, restituendoci di conseguenza a noi stessi».
L’essenziale di Gloria Marigo diviene, pertanto, il territorio del respiro, o meglio, diventa compito del respiro conoscerlo e riconoscerlo.
È nell’amore, con la sua misteriosa linea dura e vivente, che il dispiegarsi del “Tu” rivela e disvela il colore profumato della grazia e della gioia, la sofferenza solitaria, la mancata declinazione e il dono proteso, come indagine di metamorfosi: «Mi metterò nel silenzio / bianco dei meli ora che / (assassinato dalle tue stesse mani) / tu vivi nella morte del mare / dove le tempeste flagellano / il tuo sorriso / pallido più dell’ombra dell’inverno» o ancora «Quando la stagione si alzò in canti / fin dentro la notte e / l’aria fu mutamento / mi scheggiai come selce: / lame al limine / di ogni mia fattezza».
La materia creativa della realtà invoca l’attraversamento della libertà, che si lascia penetrare dall’intimità essenziale e immediata dell’essere, e, attraverso tocchi ripidi e rapidi, restituisce un’emergenza, una conoscenza di sguardo: «Vedo la terra nella mano del sole / Ogni profumo è incandescenza d’aria».
Ma questa curvatura e questo spasmo non si limitano a dire il limine d’amore e il suo ritmo, ma anzi tentano di riavvolgere le mappe e il piegarsi della terra, per la promessa di un eterno principio: «Riavvolgo le mappe. / Riconosco la terra dal piegarsi / dei rami, dal gioco del vento – / viene la primavera a darci / l’eterno principio».
La sorpresa dello sguardo, lo stupore di quel che rimane quando tutto sembra crollare, il desiderio oltre-limite e il sapore del giorno celebrano l’orizzonte ventaglio dei viaggi, il punto che si curva per restare, l’epifania che conosce prossimità e avvenimento: «M’assesto i pensieri / come un cappello di fiori/ così che per un’aria bizzarra / s’involino petali fino ai segni / del tuo viaggio di vela / fino alla lamina dell’orizzonte / prossimo al tuo sguardo / che addensa le rose».
Questa poesia che conosce e sconfina, morde la grazia per vivere, si affianca al dato dell’esistenza per celebrarne il sofferto e lucente accadimento e verso cui farsi «libellula di parola / per la fuggevole tua presenza / il nominare all’infinito futuro / e il vocativo che non / sapesti declinare».
È con l’avvenimento della realtà che la poesia di Gloria Marigo fa i conti. Ed è con la sua trama misteriosa e la sua lingua duttile che l’amore, che in essa proclama tutto il suo bagliore, sogna e tocca «le sponde mobili / l’acqua che non si fa golfo e / ogni erba declinante al verde / il riverbero dell’ora dentro la / pupilla che sazia il mondo di ogni / tuo modo, semplice o assente».
Il prezzo della parola è la libertà di qualcosa che cerca la vita, come perla d’aria e memoria tenue: «S’inclusero le tue parole / in una perla d’aria / – memoria tenue di universi – / mentre io sgranavo giorni / nei miei occhi di ninfa / mi feci vertigine d’ala / intesi l’ammanco originale / la tua nascita sotto un graffio di vento».
La capacità di decifrazione del segreto del mondo e l’ulteriorità della parola testimoniano una vertigine metafisica in cui lavora il silenzio, la sua geografia, il fraseggio del suo bagliore (o biancore, per usare un termine caro alla poetessa).
I toni di cui si impossessa l’intimità poetica di Gloria Marigo trascina in profondità, ed è nella proprietà della rarefazione che essa puntella il verso, lo scalfisce, lo modella per conoscere la gemmazione «dalle oscure radici, / il contrasto apparente del rigore / verde scioglie nel cristallo che / magnifica le linfe».
Le lamine dell’orizzonte poetico hanno rimbalzi specchiati, domanda continua e addensata. Ed è proprio l’addensarsi, l’oscura e vibrante parola che sconfina nella sua poesia, forse la traccia immemore che si ricompone naufraga: «così io resto immemore / impigliata dove s’addensa / l’alga nata tra la roccia e / l’acqua» (Il corsivo è mio).
La lotta, allora, tra inclusione ed esclusione non ha vincitori. Anzi, semmai, queste due forme umane sembrano fondersi sia nei paesaggi di luce sia nelle barene dell’oscurità.
È il contrasto umano che si abbandona per vivere, che incontra «il grumo incandescente / della tua corta follia», per rivelare poi «il vento / l’altezza della notte abbandonata / sulle rapide del giorno / nel duplice destino / di corolla e spina».
È l’approdo lucido e remoto alla pienezza dell’essere che intaglia la terra, cesellandola e ornandola, che nulla esclude o censura, spingendosi in un abbandono ricolmo e in una umida trafittura di pianure.
Il paesaggio della sua poesia non si misura con il vuoto, anzi, nella sua percezione sensoriale, avviene l’attesa del prodigio, «l’orbita rovesciata / nella gravità dei corpi, l’urto / scomposto della letizia».
Scrive Rita Pacilio: «Lo spazio-tempo in cui l’autrice errante diventa peregrina intellettuale è destinato a diventare uno spazio cosmico-riaccolto, mai immaginato, bensì definito dall’analisi degli elementi conoscitivi fisici e mentali sempre in tensione. L’attesa, l’incontro, l’illusione, l’incanto, il ricordo, il disincanto, l’ostinatezza costituiscono la colonna vertebrale di questa raccolta poetica che sorprende per le dinamiche metaforiche descritte, originali e possibili come unica via di scampo alla fuggevole e insoddisfatta sensibilità del mondo».
Ciò che accade, quindi, scontorna l’incontro di cielo e terra ed è per questo che il posarsi dell’amore si fa coltre radicale e matura e orizzonte di gioia precisa.
Il germoglio della natura (e le sue stratificazioni), che si spinge fino al «delta del vibratile verde», rappresenta la preda e l’intuizione dell’io («Della stagione prediligo / il sortilegio terra-cielo / i cantori delle fronde / l’aria di vela azzurro Tintoretto / l’arancia della notte / tra l’albero e il tetto»), il dato vivente, il gioco oltre-tempo («Fuori dai tuoi occhi cadono / tutte le nebbie del mondo») e la dismisura sbrecciata, per farsi, agostinianamente, carnale fino allo spirito e spirituale fino alla carne: «Qui cadono tutti i vaticini. / La tua voce di oracolo soave / s’infrange contro l’alloro. / Impera solo l’essenziale curvatura del cielo».

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«Colui che il gran commento feo» è l’appellativo con cui Dante Alighieri chiama Averroè nella Divina Commedia (Inferno, IV, 144).
– In età ellenistica e successivamente medioevale, il termine commentario passò a designare anche un lungo ed erudito commento riguardante un’opera di particolare importanza, specialmente dell’antichità: esso consisteva quindi in un’interpretazione o esegesi dell’opera trattata per renderla accessibile ai contemporanei. Ad esempio il filosofo arabo Averroè compose un poderoso Commentario ai libri di Aristotele, che lo rese noto nell’Europa cristiana.
– Commentari sono anche chiamate le memorie dello scultore fiorentino Lorenzo Ghiberti, una delle fonti primarie più antiche sul Rinascimento.
– Si chiamano Commentari le memorie di papa Pio II.

* Pittrice, Docente di Psicologia dell’Arte e Coordinatrice della Formazione alla Scuola Quadriennale di Specializzazione Post Laurea in Psicoterapia Erich Fromm di Prato, riconosciuta dal MIUR.
** Poeta, Scrittore e Critico Letterario, Docente di Letteratura alla Scuola Quadriennale di Specializzazione Post Laurea in Psicoterapia Erich Fromm di Prato.

2 A.G. Marigo, L’essenziale curvatura del cielo, La Vita Felice. Milano: 2012, “Per felice intuizione”, p. 46.
3 Ivi, “Di questo sogno”, p. 32.
4 Ivi, “3 febbraio 2012”, p. 18.                                                                                       5 Ivi, “Senza titolo”, p. 53.
6 Ivi, “Giorno”, p. 26.
7 Cristina Campo, dalla lettera a Maria Zambrano del 25 luglio 1962, in Se tu fossi qui. Lettere a Maria Zambrano 1961-1975, p. 27.                     8 Ivi, “Senza titolo”, p. 59.
9 Ivi, “Io ti fui lontana”, p. 58.
10 Ivi, “Impermanenza”, p. 42.                                                                                      11 Ivi, “Tutto si consuma nell’autunno”, p. 9

L’insufficienza nitida di Giovanni Giudici

di Andrea Galgano 13 novembre 2014

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giudici-giovanni-447x387Il laboratorio poetico di Giovanni Giudici (1924-2011) ha l’esito fertile di una biografia mirata, di uno scoperchiamento che tende alla pienezza della metafora, come corpo e della lingua e materia testuale: «Farsi di te non ci fu dato mia parola / Scrittura di scrittura e vanità».
Il dato biologico e biografico condensa la frammentarietà di uno spazio autentico che, come scrive Silvio Ramat su «Poesia» del gennaio 2001:

radicalizza, cioè sospinge verso le radici, l’autobiografia: senza contraddirla ma integrandovi elementi più oscuri e profondi, ed elaborando un mito inesauribile: quello che in Giudici nasce dalla, e nella, sua più acuta lacuna, l’assenza della madre, perduta nel novembre del ’27 e tuttavia nella costruzione del ricordo, accreditata dalla capacità di fornire al figlio i fondamenti di quella “educazione cattolica” di cui recan traccia più o meno visibile tante poesie. […] Il “sublime, venga salutato con un “Ciao” confidenziale o misurato nel suo “prezzo” è storicamente ingrato e ambiguo: comportando di necessità, a secolo così inoltrato, la coscienza di quanto sia arduo spenderlo pubblicamente. Non a caso, di qui in avanti, Giudici s’imporrà come il massimo parodista del nostro Novecento, in poesia […].

L’elezione dell’istante secerne il suo rito quotidiano, il gesto della sommessa esperienza che si impone di colorare il fulcro impiegatizio, come un lampo o un avvenuta partecipazione di anni affluenti: «Eppure sempre a ricominciare / frugare un minimo vero / Al di qua della fine individuale / sempre / consumati a vigilie lente / noi sempre a non osare / promettere paradisi – ma / Un vedere per enigma / nella insidiata convivenza -» (Da un tempo di nessuno).
Esiste pertanto nella sua poesia, come sostiene Raboni, «una svolta, una scoperta che ne segna il vero principio» e «consiste nell’abbandono dell’io lirico-autobiografico a favore di un io-personaggio, un intellettuale di estrazione e destino emblematicamente piccolo-borghesi che assume su di sé – ma deformandole, distanziandole, ironizzandole – vicende, aspirazione e amarezze dell’autore» laddove «lo scambio delle parti arriva a punte di quasi inafferrabile e ineffabile (e poeticamente assai produttiva) ambiguità».
È sulla materia del sublime che il suo fulcro poetico tocca il fulcro della perplessità e della contraddizione, verso cui giustificare la sponda della sua insufficienza che «è fuori, o fuoriesce, si oggettiva, nel mascheramento, in un eletto apparato di ritmi e metri, timbri e, ovviamente, toni, insomma un sistema variabile, ma sempre impetuoso e cogente, da cui trapelano a un tempo il sublime […] e la consapevolezza che lo si può esporre (o montalianamente “contrabbandare”?) solo per travestimenti e parodie» (Silvio Ramat): «Non io che per mancanza di eroismo ti deludo / Mia umiliata via al sublime / Ma almeno voglio dirti che lo sapevo / Quel che dovevo – mentre guardavo al fondo della fine» (Noi).
Scrive Goffredo Fofi:

C’era in lui una forma di narcisismo sottile, che cercava complicità e condivisione, e la sua capacità di auto-ironia lo portava fin quasi all’auto-denigrazione su quelli che riteneva suoi difetti (da confessione cattolica e però pubblica, di chi tollera e si tollera nella comune coscienza dei limiti dell’umano, dell’imperfezione di tutti). Questa era una caratteristica del tutto insolita nell’ambiente culturale del tempo, che lo faceva resistere assai bene all’austerità fortiniana e che mi servì forse di modello per resistervi anch’io.

Il trapasso liturgico alla litania diviene occasione per raccogliere la possibilità di un reperto lucente di quotidianità, un saluto, appunto, che si allunga sull’illimitatezza e sulla reversibilità del tempo, sull’avvenimento della parola e sulla totalità della deposta insufficienza della propria fragilità: «Tu, cosa della cosa / o Sublime. / Al di là della fine / e senza fine. / Senza principio» o ancora «Ciao, Sublime. / Ciao, Sublime. / Sublime che non si volta. / Sublime che non si ascolta. / Sublime senza prima / né ultima volta», «Io no – che sempre aspetto / il cominciare, l’apertura. / Io no – per poca fede. / Per poca paura. / Io – senza occhi per contemplarti. / Io che non ho ginocchi per adorarti».
In O beatrice, il raggiungimento autobiologico del sublime convoglia verso una pacata sicurezza e una desinenza linguistica e temporale, destinate a un prezzo decisivo: «Mi domandi se potrai, / Mi domando se potrò. / Io sarò – non sarai. / Tu sarai – non sarò. / Per noi sarà quello che non potremo. / Quello che non saremo su noi potrà. / Non-tu non-io noi -remo. / Ma contro la specie che siamo orgoglio estremo / verbi avvento al cliname[n] / che ci rotola a previste tane / umanamente inumane / persone del futuro seconde e prime. / Io -rò. / Tu -rai. / Il niente / è il prezzo del sublime».
Commenta Giulio Ferroni: «Nel confronto col sublime appare insomma in atto la paradossalità dell’esperienza, viene come a scavarsi la dimensione interna, oscura e contraddittoria del reale, della grammatica che tenta di fissare il tempo in una misura umana, che, nell’atto stesso di quel proiettarsi nel tempo, rotola verso il niente».
L’intreccio sabotato di vita e morte, il proprio essere concreto divenie slancio oltre il dicibile, immediatezza esistente, imprevedibilità sfuggente che squaderna le prigionie del sé per riappropriarsi in una fragilità senza riparo.
Il limbo «delle intermedie balaustre» richiama un’ulteriorità che è corporea e metafisica, e allo stesso tempo, aspirazione e furtiva umanità.
La consequenzialità e la prossimità del suo dettato poetico certifica l’istanza e l’ironia chiaroscurale come purità pulviscolare, come apertura dell’esistenza e biologia smarrita, in cui l’ironia e l’integralità del suo limite si trasferiscono e tendono a una chiarità inattingibile e sperduta.
È la coltre della sua onirica teatralità, il barlume di una sincronia che espone il suo umano travestimento al suo umido chiaroscuro, alla liturgia spezzata che misura i limiti del suo laboratorio cittadino (Milano, Roma) e il crepuscolarismo della sua vertigine.
Laddove la gestione dell’universo privato affolla la scena in cui la scrittura vive, Giudici descrive i volti, le maschere, l’atomo urbanizzato degli anni Sessanta, la cupezza del decennio successivo, le contraddizioni della sinistra «vivendo questa dialettica storica da una specola di morale cattolica e comunista, intesa in senso tutto cittadino, entro un esercizio di valori, turbamenti, colpe, illusioni e contraddizioni maturati per le strade della città, nei luoghi di ritrovo pubblici o negli interni casalinghi» (Giulio Ferroni).
Aggiunge ancora Ferroni:

Nei suoi esiti ultimi […] la poesia di Giudici dà voce per vie indirette, per appassionate tangenze, attraverso i suoi scatti esistenziali, teatrali e linguistici, a questa ansia per la situazione del mondo e il suo destino: ma questa ansia sembra spesso provvisoriamente sospendersi in un severo incauto musicale, in misteriose e ambigue percezioni di luce che si proiettano sulla storia individuale: sempre in un affidarsi al ritmo, a un impulso ritmico che sembra quasi portare i versi a farsi da sé, con una possibilità di esiti direttamente colloquiali e di diversioni verso un’oscurità come sospesa, in bilico tra lo svelare e il nascondere.

La sua perpetua riduzione, se da un lato si impadronisce della scena nella minima disposizione quotidiana, dall’altro conosce gli spigoli ebbri dell’esperienza sociale, in attesa di una epifania salvifica e attraverso la modestia salutare della pura grammaticalità biografica.
È l’esito di un rapporto semplice, di una autenticità che disarma e propende al segno della storia: «Nomino i nomi – / Quanto di storia mi è transitato addosso / a me che non sono un privato / uno che incontri puoi anche capirlo / Chi è – non quel che è per diventare».
La scena onirica, la passione sotterranea, la presenza e l’occorrenza casalinga, la suggestione elitaria e la proficuità di massa, lo squarcio dell’essere e la sfida al sublime, rappresentano l’esito di una ascensione che, dapprima, si impossessa dell’invocazione per poi cercare il punto di fuga e lotta con il dio del foglio per un ultimo e infinito scarto di senso: «Poi non scorgo che via d’uscita / Nel lume di questa vita / In te rifugio il triste orgoglio / Spessore di questo foglio / E nella mente mi assottiglio / Microbo figlio di figlia d’un figlio / Specchio del nostro doppio io / Ti do del tu ti chiamo dio».
La liturgia cadenzata e il recitativo battente culmineranno poi in Lume dei tuoi misteri (1984) e in Salutz (1986), dove l’inaudita parodia e il profumo medievale contribuiranno allo scatto ironico e ossimorico del limite, come accensione ed eccesso, formulazione ed espansione amorosa.
L’io che tenta (invano?) di possedere il suo universo calcolato, ingarbugliato nelle colpe, nelle speranze, nei segreti, che cerca di proteggersi nelle sue abitudini quotidiane, dopo la guerra nefasta, non coincide propriamente con l’autore, bensì, come annota Giulio Ferroni: «è piuttosto una recitazione di sé, non priva di suggestioni letterarie, che convoca intorno a sé altre maschere recitanti, tra gioco e disagio, tra divertimento e malessere, come nell’impossibilità a uscire da sé, pur nell’aspirazione a un’altra vita di cui, da quello spazio, non si può nemmeno figurare l’immagine»: «Una sera come tante, ed è la mia vecchia impostura / che dice: domani, domani… pur sapendo / che il nostro domani era già ieri da sempre. / La verità chiedeva assai più semplici tempre. / Ride il tranquillo despota che lo sa: / mi numera fra i suoi lungo la strada che scendo. / C’è più onore in tradire che in essere fedeli a metà» (Una sera come tante).
L’associazione di cadenze e suoni traspongono il tempo dell’attesa in una prigionia- aspettativa che invoca l’altrove, come una gioia rattrappita e negata.
È un “oltre” proclamato ed escluso, visitato nei reperti onirici e in un altro da sé trasognato e immaginato: «Parlo di me, dal cuore del miracolo: / la mia colpa sociale è di non ridere, / di non commuovermi al momento giusto. / E intanto muoio, per aspettare a vivere. / Il rancore è di chi non ha speranza: / dunque è pietà di me che mi fa credere / essere altrove una vita più vera? / Già piegato, presumo di non cedere» (Dal cuore del miracolo).
L’immaginazione di trasformarsi, per sfuggire all’imminenza burocratica della morte, è l’esito di un’immersione inafferrabile e di un rilievo intangibile, come strana resurrezione di abiti: «Abiti che sopravvivrete / Al niente dell’eterna quiete […] Abiti – e non già corpi / Di quel resurgere, o risorti / ai quali estremo soprassalto / lasciò ogni vita un po’ di caldo: / Che vani e stretti in Giosafàt / su voi di noi respirerà».
Scrive Daniele Piccini: «Ecco, da Autobiologia a O beatrice e oltre, il poeta immagina e sbozza figure ed emblemi di una compiutezza e integrità vitale che non può ch esprimersi in forma allusiva, cifrata, quasi onirica, con un senso di inadempienza ormai sollevato sul piano dell’esistenza».
Ma è una improvvida insufficienza. La poesia di Giudici fa i conti con la irreperibile sceneggiatura del testo. La cura dell’essere, invece, con l’impalpabilità linguistica e con la carta sottratta: «Lei che ha potuto accedere ai più gelosi manoscritti / Non darà troppo peso a ogni variante del testo / Altro è filologia altro è la vita né mai / Presume la propria maestria il maestro / Che faticò e stentò sulle carte sottratte / da una fatua speranza familiare / Alla sorte del fuoco che abolisce e perdona / Stipate nell’angustia di quella casa sul mare / Egli che spesso si era basato sul parere / Di frastornati parenti di passaggio / Vocante uxore ad cenam e di un fautore / Troppo devoto all’incerto messaggio / Però al di sopra del corrivo consenso / se stesso infine vagliando allo specchio / se non avesse inteso la sua parola / Coprire di vano suono uno spazio vuoto / O dubitando nel declinante intelletto / Se il partito più saggio non fosse lasciare la cosa / Così com’era venuta d’emblèe / Essendo nostra scienza l’esatto del press’a poco».
Il convenuto richiamo ai fantasmi, le soste inerti, l’orizzonte approssimato (Quanto spera di campare Giovanni) figurano il procedimento e la retrocessione di un ritmo che fonde lingua e dispiegamento dell’esperienza, come implacabile nudità.
È la maternità della lingua che ritorna alla poesia e si offre, vitale e spontanea, abbracciando il vivente e il molteplice, come illusione e durezza, come umiltà lucente e calore, che levigano la vita presente e la casa che abitano in una estremità assoluta: «Mia lingua – mia vita / dolcezza flatus vocis che m’hai tradito / tuo servo che t’ho servito / anch’io perduto per poco / di calda madre / in letto con noi per gioco / Mia lingua – italiana / variante umile tosco-genovese / lingua del mio bel paese / guastata nei futili suoni / di vacue clausole / e perfide commozioni».
Commenta Giulio Ferroni: «Per lui la vera poesia è quella che fa della lingua, anche di quella più intimamente conosciuta e praticata, qualcosa di strano: cattura tracce di possibilità sconosciute, segni di un prima o di un oltre rispetto alla normalità del linguaggio e dell’esperienza».
La distillazione forgiata dai millimetri dell’esistenza, il dizionario che richiama e raschia il fondo delle cose, come «morse di voci nel freddo», nel «Chiuso idioma e apertissimo / Dei due veglianti nel quale / carpisco nitido il suono / E perdo il significare».
Il silenzio roco, il balbettìo di una lingua più che muta («Balbetto il parlare di un altro / Io fatto di persona non vera / Mi riascolto compitando / pensieri di lingua straniera»), che unisce idiomi e assedia lo spazio onirico, conosce il vero che sovrasta, la sua voce difficile da comprendere e, ancora una volta, l’insufficienza di proiezione, il limite degli inizi, la contraddittorietà delle stagioni.
Commenta ancora Ferroni:

Il fuggire del tempo suscita inoltre una tensione a concentrarne e superarne la fuga nella percezione di un punto definitivo, nella fissazione di un attimo in cui si risolva tutta l’insufficienza dell’esistere. Il personaggio sognato e immaginato, le molteplici maschere e dislocazioni teatrali che si danno in questa poesia, tendono sempre a collocarsi in un “altro” tempo, sospeso tra cominciare e finire e in continua investigazione dell’attimo-punto in cui si afferma lo sfuggente senso della realtà, l’inafferrabile essenza dell’io, con tutte le sue passioni, i suoi desideri, le sue colpe.

Contro la cancellazione del tempo, l’avvicinamento come negazione, la costruzione che implode, sembra schiudersi lo sguardo della domanda e il futuro, pertanto, rischia di apparire incerto e sconcertato: «Noi guardiamo / E si chiude / Il volto a lungo a noi negato. / Come sarà – ci domandammo. / Ci domandiamo – com’è stato / E tutto l’amore che amiamo. / Tutto l’odore che odoriamo, / Tutto il patire che patiamo: / Sei tu che ami e odori e patisci, / O Futuro che ti demolisci. / O Futuro che entri / dentro le nostre porte. / O Futuro che ci costruisci. / O Futuro che Sali a noi / Tua morte».
La convergenza delle immagini si sofferma sulla franta quotidianità, in cui ripararsi, ed ecco la fortezza che allontana la brevità consumata e la risposta tardiva dell’io alla realtà.
Forse il nuovo inizio è dimensione e sovrapposizione di un rivelamento di oggetti e vertigini che sottentrano a una perdita inguaribile: «E dunque ho amato l’inizio / La voglia di essere accolto / nei bei luoghi diversi invidiati / Nell’aldiquà del gelido cristallo quotidiano / La balbettata lingua silenziosa / Plaghe remote le mie mani brancolando / Oggetti fuor della vista / A ogni scoperta tu sai / ride e fa festa l’infante rassicurato / passo a passo movendo al suo adempiersi – / Si distrugge così nel costruire / L’animale adulto / Che mai più ricomincia: / Io invento questo inizio al mio finire».
Scrive Maurizio Cucchi:

Ciò che appare evidente, in Giudici, è la consapevolezza dell’inevitabilità di una condizione. Una condizione di esibita mediocrità, espressa nell’adeguarsi dei gesti e delle parole a tale realtà, nell’assumere un atteggiamento e un gestire conseguente che è quello di una commedia spesso grottesca, condotta per episodi narrati e momenti di acuta sintesi definitoria. Un collocarsi prudenziale del personaggio, dell’io narrante-lirico, dietro una maschera remissiva (ma, appunto, una maschera), di accettazione del grigiore quotidiano, inteso come l’autentica dimensione, o quanto meno l’unica dimensione possibile concessagli, di cui il fare poetico diviene in fondo la forma più alta di smentita e di riscatto. Anche perché un atteggiamento, proprio in quanto tale, suppone o sottende un diverso sentire, magari persino opposto, magari intimamente inteso come liberatorio, come possibile via di fuga.

Empie stelle (1996) e Eresia della sera (1999) ripercorrono l’esistenza dell’io, affermano la lotta dell’inizio e della fine e la loro «vanificazione», come afferma Giulio Ferroni.
La notte sul «cuscino sempre asciutto» è come l’orma della fuga inabitata della quotidianità minima e del nido senza piume, «di quel bar luminare io appena uno / Separato persisto se tu mai / A frugarti infinita / In me ti posi e sposi e vieni e vai».
Il perenne transito mostra non l’ignavia ma, ancora una volta, il segmento della vita imperfetta, la mancanza di coraggio che non ha armato gli aerei corpi di letizia, il caro prezzo dell’apparenza, il tardo amore, sospeso nel silenzio, che fu «nella diversa lingua / E non mai forse accaduto».
Ora il nostro avvento che permane nell’ «essere chi non siamo stati / Essere un tempo che non siamo», ricerca ancora il balzo della sosta perduta, al cospetto dell’eterno, per essere dove non viviamo e forse proclama il taciuto addio all’infanzia, come consueta sovrapposizione di memoria: «Addio, addio giuochi dorati / Da voi di nuovo incominciare / Alla palla a nascondino / Quasi fossimo oggi nati / Cullati da una lenta storia / Nel cuore di un sonno bambino», o ancora come l’inerme esiguo volo dell’amica Grazia Cherchi che non allinea più distanze ma dice: «Vivo per essere vivo / Quando che sia raggiunto / dal fine del mio nascere / dal fine del mio nascere / Dove remoto scrivo – / il Vero il Nulla il Punto».
Il «dormiveglia di spine» di Eresia della sera (1999) confluisce ne Frammenti dal comunismo e nel suo reiterato profumo illuso, finisce per arretrare e lasciare la scena.
Il repertorio di Giudici si apparta nella remota condizione del tempo affiorato dal disordine memoriale, come un ritaglio o un approdo che dilaga sui lindi smalti e sulle sbilenche figure dei ricordi di guerra.
La solida e sghemba scena, descritta dal poeta, si accompagna alla sensazione della precipitazione del tempo della vita «nell’attimo risolutivo in cui si fissa la fine, sulla spinta del fulmineo invito a sentire la temperatura del latte con il dito, per evitare che nel bollire vada fuori: irrisoria e insieme stupita risoluzione di ogni esperienza nel punto del suo dissolversi» (Giulio Ferroni).
L’aria raggrinzita accompagna l’esistenza tracimata: «Come in quest’aria si raggrinza / Il tempo della vita che tracima / Ciò che fu immenso preso stretto in una pinza – / Un passo ed è finito: / Senti il latte se è caldo / Mettici il dito».
Il tempo confluisce ancora nell’amore-non amore dei ventiquattro frammenti del Primo amore che impongono la vertigine della nostalgica coltre lontana e conclusiva. Però, di contro, racchiudono l’indizio di una storia personale che si risolve e si chiude nel tempo disfatto e irraggiungibile, come sigillo iniziatico e come ironia di una giusta gloria: «Uno che in versi a un suo deschetto invano / Di te scriva serale eppure c’è / Nella disfatta pancia di milano / AI margini del sonno e sembra me / Se nel remoto cuor e il dubbio insista / Non altri esser che te della mia storia / Di non amore la protagonista / credi che è vero e ti dà giusta gloria».

GIUDICI G., Tutte le poesie, con introduzione di Maurizio Cucchi, Mondadori, Milano 2014.
CORTELLESSA A., Qualcosa che c’è. Giudici e Zanzotto, in Due poeti, due amici, due uomini comuni: Giudici e Zanzotto, Atti della giornata di studi di Roma, 16 dicembre 2011, sezione monografica a cura di Giulio Ferroni de «l’immaginazione», XXVIII, 268, marzo-aprile 2012.
FERRONI G., Gli ultimi Poeti. Giovanni Giudici e Andrea Zanzotto, Il Saggiatore, Milano 2013.
FOFI G., Ricordo di Giovanni Giudici, in «Lo Straniero», 2011.
PICCINI D., La vita mancata in versi, in «Poesia», settembre 2004.
RABONI G., Poesia degli anni Sessanta, Editori Riuniti, Roma 1976.
RAMAT S., Giovanni Giudici / I versi della vita, in «Poesia», gennaio 2001.

LA PSICOLOGIA DEL GIOCO D’AZZARDO PATOLOGICO  

di Serena Baroncelli

Allieva Scuola di Psicoterapia Erich Fromm

Introduzione

Il giocare d’azzardo può essere definito come “qualsiasi puntata o scommessa […] il cui risultato sia imprevedibile, ovvero dipenda dal caso o dall’abilità”; è “lo scommettere su ogni tipo di gioco o di evento ad esito incerto dove il caso, in grado variabile, determina tale esito” (Lavanco, 2001; Filippi & Breveglieri, 2010 ).

Quando l’attività ludica varca le soglie del “gioco d’azzardo” il confine tra normalità e patologia si fa estremamente labile (Lavanco & Varveri, 2006).

La maggior parte di coloro che si dedicano al gioco d’azzardo lo pratica come forma di passatempo e di divertimento. Si tratta di un fenomeno sociale e culturale che come tale quindi non può essere certo demonizzato. Tuttavia, in certi casi, alcuni individui sviluppano un’ossessione e un atteggiamento morbosi verso il gioco, arrivando a instaurare con esso una vera e propria forma di dipendenza (Lavanco & Varveri, 2006).

Il  gioco  d’azzardo patologico (GAP)  viene  definito nel  Manuale Diagnostico  e  Statistico  dei Disturbi Psichiatrici (DSM-IV-TR, 2000) come un “comportamento persistente, ricorrente e mal adattivo di gioco che compromette le attività personali, familiari o lavorative” (APA, 1994; trad. it.

1996, p. 674). E’ una malattia neuropsicobiologica, spesso cronica e recidivante, associata a gravi conseguenze  fisiche,  psichiche  e  sociali  per  l’individuo;  è  comunque  prevenibile,  curabile  e guaribile ma necessita di una diagnosi precoce, cure specialistiche e supporti psicologici e sociali. L’Arizona Council on Compulsive Gambling (1999), definisce il gioco d’azzardo patologico come un disturbo progressivo, caratterizzato dalla continua perdita di controllo in situazioni di gioco, dal pensiero fisso di giocare e di reperire denaro per continuare a farlo, dal pensiero irrazionale e dalla reiterazione del comportamento, nonostante le conseguenze negative che provocano sul soggetto. In una ricerca svolta con il National Comorbidity Survey-Replication, si rileva che la durata media del gioco d’azzardo è di 9,4 anni, sebbene l’intervallo medio tra l’età d’esordio e i problemi di gioco sia notevolmente più ampio, di 16,2 anni (La Barbera, La Cascia & Sideli, 2010).

1.1 IL GIOCO: UNA PROSPETTIVA EVOLUTIVA

Il gioco rappresenta una forma di attività peculiare degli uomini, è un elemento della natura umana. E’ altresì da considerarsi una tappa fondamentale dell’infanzia, attraverso cui il bambino può soddisfare determinati bisogni, necessari per un armonioso e positivo sviluppo, e acquisire nuove abilità e competenze. Il gioco, infatti, svolge un ruolo di capitale importanza nello sviluppo del senso di auto-efficacia, di autoaffermazione e nella formazione del carattere del bambino (Lavanco & Varveri, 2010). Egli si misura con i propri limiti, prende coscienza delle proprie qualità e potenzialità, perfeziona capacità quali la creatività, l’imitazione e lo scambio di ruoli. Tuttavia il gioco non è soltanto una prerogativa infantile, esso continua a mantenere anche in età adulta un importante ruolo compensatorio, di scarico delle tensioni e dell’aggressività. In quest’ottica prevale quindi l’aspetto divertente e gratificante attraverso cui il soggetto interrompe la routine quotidiana. La dimensione del gioco diventa una componente talmente rilevante nell’esistenza dell’uomo, che diventa legittimo parlare di homo ludens, l’uomo che gioca, oltre che di homo faber, l’uomo produttore, che dimostra nella vita l’essenza del suo essere sapiens e la dimensione essenziale del fare (Huizinga, 1938).

Se con il termine “gioco” si fa riferimento ad ogni attività che abbia come scopo la ricreazione e lo svago, quando si parla di “gioco d’azzardo” si intendono attività in cui non rientra più l’abilità del giocatore ma soltanto la sorte, il fato e lo scopo di lucro. Questa distinzione può essere espressa da i due termini inglesi play, in cui spiccano la capacità e l’abilità del soggetto, e gambling, in cui prevalgono l’azzardo e il fine di lucro. Il gioco degli adulti è considerato nei suoi aspetti positivi come un elemento distraente dal lavoro, in cui ci si rifugia per non soccombere ai ritmi frenetici e stressanti delle vicissitudini quotidiane. Talvolta però l’esperienza ludica può diventare talmente coinvolgente e pervasiva da costituire tutt’altro che un’oasi di felicità e perfezione: il gioco da magico può diventare demoniaco, con preoccupanti costi individuali e sociali. Il gioco non è più divertimento perché si viene sopraffatti da una dimensione tanto attraente quanto instabile e si corre il rischio di venire assorbiti in un clima infuocato, subdolo, ambiguo quale quello del gioco d’azzardo, un gioco che rapisce, stordisce e schiavizza l’individuo, irrompe nella quotidianità, invadendo la sfera del benessere personale, familiare, lavorativo e sociale. E’ un coinvolgimento totale, estremo, come emerge chiaramente dalle parole di Dostoevskij (1866): “Fui assalito da un desiderio spasmodico di rischiare; forse dopo aver provato così tante sensazioni, l’animo non si sente sazio ma eccitato da esse, ne chiede sempre più altre, sempre più intense, fino alla totale estenuazione”.  Passione  e  dolore,  socialità  e  aggressività,  vita  e  morte,  sono  immagini  che convivono nella dimensione dell’azzardo (Lavanco & Varveri, 2010).

1.2 IL GIOCO D’AZZARDO COME RIFLESSO DELLA SOCIETA’ ATTUALE

Per comprendere il fenomeno del gioco d’azzardo patologico è necessario addentrarci nell’analisi della società attuale: l’edonismo rimpiazza il senso del dovere, la liberazione e la serenità personale passa anche attraverso l’acquisto, il possesso, l’esibizione (Croce, 2010). Stiamo vivendo in un mondo nel quale non esistono più confini. Dove non esistono più limiti, ma tutto è possibile.

Questa situazione può essere felicemente catturata attraverso l’immagine di Las Vegas: il luogo del divertimento per eccellenza, un luogo senza tempo, dove scompare la percezione del tempo cronologico e del tempo naturale.

Adottando questa prospettiva, anche la concettualizzazione della problematica delle dipendenze assume una nuova aurea: non ci troviamo più nello scenario del disagio della civiltà del tempo di Freud in cui la sofferenza era considerata la conseguenza necessaria per un soggetto inibito da un sistema sociale che imponeva la rinuncia al soddisfacimento pulsionale. Al contegno e al controllo si sostituisce adesso la necessità di consumare, di godere, di prendersi dei rischi. Le dipendenze si collocano in questo cambiamento: nuovi sono i valori, le richieste e gli imperativi della società odierna. Questi disturbi contrassegnati dalla tendenza agli agiti e all’azione esprimerebbero il malessere di una società in cui solo l’azione, rapida, efficace, sembra garantire alle persone la possibilità di vedere riconosciuto il proprio valore ed il proprio ruolo sociale. Le dipendenze svelano un aspetto di assenza del controllo, di ricerca del piacere immediato, di soddisfazione degli impulsi. Questi disturbi sono da considerarsi quindi una condizione patologica tipica del nostro tempo, espressione di profondi mutamenti sociali e dello stile di vita. Sono quasi uscite di scena le nevrosi classiche come l’isteria, legate ad un eccesso di controllo e inibizione, per passare a patologie come i disturbi narcisistici (Croce, 2010).

Osservando la realtà e le storie di molti giocatori ci rendiamo conto di come non ci troviamo più di fronte ad eroi scellerati, romantici o decadenti, che si giocano al famoso tavolo verde cifre da capogiro, ma più banalmente persone che al bar si giocano un modesto stipendio. Il giocatore del nuovo millennio sembra essere il simbolo dell’inettitudine umana, caratterizzata dalla consapevolezza del fallimento, dell’inadeguatezza dell’esistenza e dell’incapacità di prendere decisioni e affrontare problemi (Croce, 2010).

1.3 GAMBLING O GIOCO D’AZZARDO: UNA CLASSIFICAZIONE DEI GIOCHI E DEI GIOCATORI

A questo proposito, si ritiene necessario distinguere quali giochi sono considerati d’azzardo e quali, invece, non rientrano in tale categoria.  Sono giochi d’azzardo quelli in cui ricorre il fine di lucro e la vincita o la perdita è interamente o quasi  aleatoria (art.721 C.P.). Per stabilire se un gioco abbia o meno il carattere di azzardo, occorre fare riferimento a due parametri

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1) Elemento oggettivo: l’aleatorietà della vincita.

Sono aleatori quei giochi che normalmente e per la loro natura, in tutto o quasi, dipendono dal caso, escludendo            ogni            possibile            ruolo            dell’abilità            del            giocatore.

2) Elemento soggettivo: quando si rinviene nel gioco lo scopo di lucro, che sussiste quando i

giocatori si propongono di conseguire vantaggi economicamente valutabili. Il fine di lucro non va escluso anche se la posta è modesta o non si manifesta sotto forma di denaro ma in consumazioni come caffè, vivande ecc. (Cass. pen. sez. Ili – 26 febbraio 1983, n. 1738).

Callois (1958)  ritiene che tutti i  giochi possano essere suddivisi in  quattro tipologie distinte:

Mimicry, Ilinix, Agon e Alea.

I giochi di Mimicry (mimetismo) sono quelli in cui prevale la simulazione, l’immaginario e l’illusione, sono i giochi di travestimento e di fantasia in cui il soggetto gioca a credere o a far credere agli altri di essere un altro.

I giochi di Ilinix (vertigine) sono quelli che si basano sulla ricerca della vertigine. Consistono nel distruggere per un attimo la stabilità della percezione e far subire alla coscienza, lucida, una sorta di voluttuoso panico. Si tratta di accedere ad una specie di spasmo, di trance o smarrimento che annulla la realtà.

I giochi di Agon (competizione) sono quelli che si basano sulla competizione e la sfida di un avversario, essi presuppongono un certo livello di attenzione, esercizio e impegno per essere affrontati adeguatamente.

I giochi di Alea (termine latino usato per indicare il gioco dei dadi) non si fondano su qualità, doti e predisposizioni individuali ma solo sulla sfida del destino. Alea, a differenza di Agon, nega ed esclude l’importanza del lavoro, della fatica e dell’impegno: il giocatore è totalmente passivo e il fato è l’unico artefice della vittoria. Il gioco d’azzardo rientra proprio all’interno di quest’ultima categoria, in quanto, anche nei giochi dove è comunque necessaria una forma di abilità, è sempre il Fato a decidere la sorte del giocatore (Callois, 1958).

Recentemente è stata proposta una classificazione dei giochi d’azzardo più diffusi in Italia, tra i quali è possibile distinguere: i giochi numerici a quota fissa, i giochi numerici a totalizzatore, gli apparecchi da intrattenimento, le lotterie e le lotterie istantanee, i giochi a base sportiva, i giochi a base ippica, il bingo, i giochi di abilità a distanza e i casinò (Filippi & Breveglieri, 2010).

I giochi numerici a quota fissa sono quei giochi basati sui numeri, per cui la vincita dell’utente è definita, di volta in volta, in base all’importo delle giocate, come ad esempio il Lotto.

Sono considerati giochi numerici a totalizzatore nazionale, quei giochi di sorte basati sulla scelta di numeri, da parte dei consumatori, nell’atto della scommessa. In questo caso, l’ammontare della vincita  non  è  nota  al  momento  della  giocata  ma  è  definita  solo  a  posteriori,  sulla  base dell’ammontare complessivo del montepremi raccolto e del numero di giocate vincenti.

Gli apparecchi da intrattenimento sono quei giochi in cui vi è interazione con una macchina, come le New Slots e le Videolotteries, che restituiscono vincite in denaro. Si trovano spesso nelle tabaccherie, nei bar e negli alberghi, rappresentando un’attività aggiuntiva a quella principale; esistono anche sale giochi e ricevitorie, che fanno dei giochi da intrattenimento la loro attività esclusiva.

Nelle lotterie, l’utente partecipa all’estrazione di premi, tramite l’acquisto di un biglietto. Esse possono essere “differite”, nel caso in cui l’estrazione dei premi sia collegata ad alcuni eventi storici o artistici (ad esempio la Lotteria Italia) o “istantanee”, poiché la verifica della combinazione vincente è immediata, come nel caso del Gratta&Vinci.

I giochi a base sportiva sono giochi in cui si vince grazie all’abilità di prevedere l’esito di alcuni eventi sportivi, come il Totocalcio e il Totogol.

I giochi a base ippica sono, invece, i giochi per cui il giocatore vince grazie alla capacità di prevedere l’esito di corse ippiche. Il gioco si svolge presso le agenzie ippiche, gli ippodromi, i negozi ed i corner ippici e sportivi.

Il bingo ha un  carattere di intrattenimento, socializzazione e impiego piacevole del tempo libero, differenziandosi in maniera sostanziale da altri giochi, come le Slot machines e il poker, basati prevalentemente su comportamenti individuali.

I giochi di abilità a distanza, meglio conosciuti come skill games (fra i quali spicca il poker online ma anche il bridge e gli scacchi), sono giochi che prevedono una vincita in denaro e il cui esito dipende dall’abilità, dall’arguzia e dalla perspicacia del giocatore nel condurre la partita, ma rilevanti sono anche gli elementi di carattere casuale.

I casinò sono edifici in cui è possibile giocare alle roulettes, al blackjack, al poker, alle slot machines e ad altri giochi ancora. Attualmente sono presenti sul territorio italiano solo quattro casinò autorizzati come il Casinò Municipale di Venezia, Casinò Municipale di Campione d’Italia, Casinò Municipale di Sanremo e il Casinò De La Vallée di Saint-Vincent in Valle d’Aosta.

Come evidenziato dall’elenco sopra citato, l’offerta dei giochi d’azzardo è ampia e diversificata: ai giochi tradizionali, come le scommesse sui cavalli (presenti già al tempo della Regina Elisabetta I, in Inghilterra, nel XVI secolo), le lotterie, le roulettes o, più recentemente il SuperEnalotto, se ne sono aggiunti di nuovi, sempre più tecnologici e allettanti, tipici dell’era multimediale: Casinò, videopoker, gambling on-line e Gratta&Vinci (Lavanco & Varveri, 2006). Inoltre, si può giocare in qualsiasi  luogo,  anche  per  la  strada,  con  l’ausilio  di  moderni  telefoni  cellulari  e  tablets. L’opportunità, quindi, di entrare in contatto con il mondo del gioco sono cresciute, negli ultimi anni, in modo esponenziale, tanto da costituire un fattore di rischio per lo sviluppo della malattia stessa (Filippi & Breveglieri, 2010).

Parlare di gioco e di giocatori d’azzardo comporta la necessità di discutere dei diversi livelli di gioco, in termini di intensità e gravità dello stesso (La Barbera, La Cascia & Sideli, 2010). Sono stati avanzati, per questo, alcuni esempi di classificazione dei giocatori d’azzardo. Tali tipologie, lungi da rappresentare categorie a sé stanti, sono piuttosto punti di un unico continuum a tappe “non obbligate” (La Barbera, La Cascia & Sideli, 2010).

Una prima distinzione, utile per un inquadramento descrittivo e clinico del fenomeno del gioco d’azzardo, è quella che vede suddivisi i giocatori in tre categorie, in base alle caratteristiche comportamentali e motivazionali che questi presentano: i giocatori sociali, i giocatori problematici e i giocatori patologici (Lavanco & Varveri, 2006, 2010; Serpelloni, 2013).

I giocatori sociali

Tutti almeno una volta hanno giocato d’azzardo; ciò non significa che chi gioca d’azzardo sia o diventerà un giocatore d’azzardo problematico, o addirittura patologico. Il giocatore sociale, per quanto sia una persona soggetta alle lusinghe dell’Alea, al fascino di guadagnare tutto in una volta, senza fatica, intuisce, senza oltrepassarlo, il labile confine tra semplice distensione, passatempo e morboso accanimento. Le perdite al gioco, pur essendo vissute con ragionevole rammarico, non diventano motivo di affanno o disperazione: esse, infatti, non sono mai troppo elevate, né superano o compromettono la disponibilità economica del giocatore.

Elevato è il numero di giocatori sociali, categoria questa che comprende sia i giocatori occasionali che quelli abituali: l’80% degli italiani infatti può essere considerato un giocatore occasionale, perché almeno una volta nella vita ha giocato d’azzardo, mentre il 20% scommette in maniera abituale, con assiduità, spinto dal desiderio di compiere un “salto” economico (Lavanco & Varveri,

2010). Si tratta di una tipologia di giocatori che può interrompere il gioco quando lo desidera e fa maggiore affidamento sui dati di realtà piuttosto che su un irragionevole senso di onnipotenza, elemento, questo, che gli consente di capire lucidamente quando è il momento di smettere. Tale gruppo di giocatori è spinto verso il gioco da un semplice desiderio di rilassarsi, dall’incentivo del guadagno facile e senza fatica, dall’attrazione per il rischio. Per queste persone, comunque, il gioco non interferisce con la vita quotidiana e, per tale motivo, rappresenta la ricerca momentanea di un’esperienza appagante all’interno della routine quotidiana. Essi riescono a limitare le perdite e a fermarsi quando stanno vincendo; non mettono in gioco tutti loro stessi e si lasciano coinvolgere emotivamente solo in parte. Quando si parla di gioco abituale, quindi, non si discute ancora di gioco problematico. Tuttavia, la presenza di fattori di rischio concomitanti può condurre il giocatore a sviluppare forme di disagio legate al gioco, che lo conducono verso la problematicità (Lavanco & Varveri, 2006, 2010; Serpelloni 2013; La Barbera, La Cascia & Sideli, 2010 ).

I giocatori problematici

Se il giocatore sociale, nella maggioranza dei casi, non imbocca la strada della dipendenza patologica, diversa è la situazione del giocatore problematico.

Questo  tipo  di  giocatore  non  riesce  ad  avere  un  pieno  controllo  sul  gioco  e  con  il  suo comportamento sconsiderato, inizia a danneggiare la sfera personale, familiare e sociale; egli va

pertanto alla ricerca di quel piacere che solo il gioco gli assicura. La persona inizia a dedicare sempre più tempo al gioco, la frequenza delle giocate si fa più alta, la quantità di denaro scommesso aumenta, il gioco comincia ad avere un ruolo di primo piano nella vita quotidiana. La possibilità di sviluppare un comportamento patologico e sempre più severo, che lo spinge a giocare compulsivamente, senza fermarsi, fino a quando non si perde tutto, si fa  molto probabile (La Barbera, La Cascia & Sideli, 2010; Lavanco & Varveri, 2006, 2010; Serpelloni, 2013).

I giocatori patologici

I giocatori patologici sono, invece, quei soggetti che hanno perso completamente il controllo del proprio comportamento, tanto da non riuscire a smettere di giocare, finché non hanno perso tutto. Spesso sono frequenti anche attività illegali per risanare i debiti accumulati o per reperire nuove risorse da investire.

Il gioco si configura, in questo caso, come una vera e propria dipendenza, con preoccupanti costi individuali  e  sociali,  che  compromette  in  modo  significativo  l’adeguato  funzionamento  della persona nel suo contesto di vita, tanto che diventa assolutamente necessario un intervento di cura.

È difficile stabilire una netta demarcazione tra giocatore sociale, problematico e patologico. Come già detto, si tratta di un continuum, di un processo che può condurre, anche se non necessariamente, un giocatore sociale (occasionale o abituale), a sviluppare una vera e propria forma di addiction (dipendenza) dal gioco d’azzardo (Lavanco & Varveri, 2006). Su questa linea di pensiero si inserisce il pensiero di Custer, che considera il gioco patologico la tappa finale di un lungo percorso, durante il quale entrano in gioco innumerevoli fattori in grado di cambiare o modificare la traiettoria del comportamento di gioco assunta dall’individuo (Lavanco & Varveri, 2006).

L’atteggiamento nei confronti del livello di gravità delle forme di gioco trova, tra la popolazione, posizioni e giudizi differenti: se il gioco d’azzardo, come forma sociale, sembra essere esaltato ed incentivato, quello problematico viene tenuto in scarsa considerazione e, addirittura, quello patologico, sembra essere demonizzato e percepito come un fenomeno raro e lontano dalla propria esperienza. Negli ultimi anni, però, a seguito di un incremento esponenziale di persone che hanno sviluppato una vera e propria patologia di gioco, si sta assistendo ad un incremento nel grado di interesse e di  attenzione con cui la società e i vari professionisti del settore guardano e si occupano di tale problematica (La Barbera, La Cascia & Sideli, 2010; Lavanco & Varveri, 2006).

Un’altra classificazione efficace viene proposta da Guerreschi (2000), che individua sei categorie in cui collocare i giocatori d’azzardo: i giocatori d’azione con sindrome da dipendenza, sono soggetti compulsivi, per i quali il gioco d’azzardo rappresenta la cosa più importante della vita, a scapito di famiglia, amici e lavoro. Si dedicano maggiormente a giochi più “dinamici”, come quelli legati alle scommesse  o  al  poker.  I  giocatori  per  fuga  con  sindrome  da  dipendenza  sono,  invece,

particolarmente dediti alle slot machines e giocano per alleviare sensazioni di ansia, noia, depressione e solitudine, utilizzando il gioco come analgesico. In questa tipologia ritroviamo tipicamente le donne, le quali tentano di sgattaiolare da una realtà deprimente e mortificante. I giocatori sociali costanti, per i quali il gioco d’azzardo è, invece, la fonte principale di relax e divertimento. Mettono il gioco in secondo piano rispetto alla famiglia e al lavoro; in più, nonostante l’assiduità delle giocate, continuano a mantenere un lucido controllo del loro gioco. I giocatori sociali adeguati giocano per passatempo, per socializzare e per divertirsi. Il gioco d’azzardo è percepito come una distrazione, uno svago e pertanto non interferisce con i compiti della vita, famiglia, amicizie e lavoro. I giocatori antisociali si servono del gioco d’azzardo per ottenere un guadagno in maniera illegale e i giocatori professionisti non patologici sono quelli che si mantengono proprio giocando d’azzardo.

Blaszczynski  propone  una  classificazione  dei  giocatori  che,  al  contrario  delle  precedenti,  si concentra solo su quelli patologici. Questi vengono suddivisi in tre sottogruppi, caratterizzati da un livello crescente di problematicità: i giocatori problematici-normali (Normal problem gamblers), i giocatori disturbati emotivamente (Emotionally disturbed gamblers) e il gruppo dei giocatori con correlati biologici (Biological correlates of gambling) (Blaszczynski, 2000; Blaszczynski & Nower,

2001). I giocatori problematici-normali sono quelli per i quali il comportamento di gioco eccessivo non è imputabile alla presenza di disturbi psichici primari, bensì a schemi cognitivi distorti e a carenza di giudizio. Le caratteristiche tipiche associate al gioco d’azzardo patologico, come la rincorsa alle perdite, il craving, la preoccupazione eccessiva e la dipendenza da sostanze, sono pertanto  la  conseguenza  della  pratica  del  gioco  d’azzardo  e  la  risposta  finale  alle  pressioni finanziarie causate dalle continue perdite. I giocatori  disturbati emozionalmente sono quelli per cui il gioco d’azzardo rappresenta una forma di fuga emozionale in grado di modulare l’umore e soddisfare specifici bisogni psicologici. Questo sottogruppo manifesta alti livelli di psicopatologia pregressa, come depressione, ansia, dipendenza da sostanze e strategie di coping disadattive, oltre che esperienze di sviluppo negative, eventi di vita avversi e familiarità con il gioco d’azzardo. Il sottogruppo dei giocatori d’azzardo con correlati biologici è definito dalla presenza di disfunzioni neurobiologiche, compromissioni a danno del lobo frontale e alterazioni a livello genetico. Essi mostrano evidenti tratti di impulsività nel comportamento, che spesso precedono il gioco e sono rilevabili già dall’infanzia. Il tipico giocatore d’azzardo appartenente a questa categoria viene denominato, infatti, “impulsivo-antisociale”: è cioè impulsivo, mostra un ampio spettro di problemi comportamentali, come irritabilità e comportamenti criminali, non è in grado di ritardare la gratificazione e manifesta una marcata propensione a cercare attività gratificanti. Il gioco d’azzardo inizia in tenera età e si intensifica rapidamente per intensità e gravità (Blaszczynski, 2000; Blaszczynski & Nower, 2001).

Il modello di Blaszczynski mette in luce l’importanza di considerare i giocatori patologici come un insieme eterogeneo e variegato, con caratteristiche, percorsi di vita e fattori di vulnerabilità differenti. Per questo, da un punto di vista clinico, emerge la necessità di rilevare tali peculiarità, per sviluppare metodi di intervento e di cura altrettanto differenziati: i giocatori patologici “normali” richiedono, infatti, interventi minimi di consulenza e strategie di sostegno, come quelle offerte dai gruppi di auto-aiuto (ad esempio, i Giocatori Anonimi); quelli emotivamente vulnerabili e con correlati biologici richiedono, invece, più ampi interventi psicoterapeutici, volti all’incremento delle abilità di problem solving, della capacità di gestire lo stress, di controllare gli impulsi, oltre a procedure per migliorare l’autostima e l’immagine di sé (Blaszczynski & Nower, 2001).

Anche Moran (1970) propone una classificazione dei giocatori patologici in relazione  all’intreccio tra fattori ambientali e costituzionali, considerati fondamentali nella genesi e nel decorso del gioco patologico. Le cinque categorie cliniche che egli identifica sono: il gioco sub culturale, connesso al contesto familiare e sociale dell’individuo: la persona gioca d’azzardo per sentirsi adatta al gruppo dei pari; il gioco nevrotico, quando il comportamento di gioco patologico è una risposta a situazioni stressanti o a problemi emozionali: è un’occasione di sollievo dalle tensioni; il gioco psicopatico, che costituisce un aspetto del comportamento antisociale; il gioco impulsivo, caratterizzato dalla perdita del controllo e, infine, il gioco sintomatico, che è considerato secondario ad altri disturbi mentali, quali, ad esempio, la depressione (Moran, 1970).

1.4 EPIDEMIOLOGIA DEL GIOCO D’AZZARDO PATOLOGICO

Il mercato del gioco d’azzardo è un settore in costante evoluzione ed espansione, tanto che la quantità e l’offerta risultano sempre più ampie e diversificate. I nuovi giochi d’azzardo tecnologici definiscono un nuovo modo di giocare: solitario, asociale (non implicano, quindi, né interazione né comunicazione tra i soggetti), decontestualizzato (ad ogni ora e in ogni luogo), con regole semplici e ad alta soglia di accesso (Filippi & Breveglieri, 2010). Si è rilevato, pertanto, negli ultimi anni, a seguito della crescita nella disponibilità e nella facile accessibilità delle offerte di gioco, ma anche in relazione a una situazione economica sempre più precaria, un aumento nelle richieste di aiuto e di assistenza, sia nel pubblico che nel privato, da parte dei giocatori o delle loro famiglie (Bastiani, Gori, Colasante, Siciliano, Capitanucci, Jarre et al., 2011).

1.4.1 Il fenomeno dell’azzardo in Italia: cifre da capogiro e in costante aumento

L’Italia è il primo paese al mondo per il denaro speso nelle scommesse (secondo solo agli Stati

Uniti per denaro effettivamente investito, ma primo se si considera il rapporto spesa/abitanti)

(Lavanco & Varveri, 2006). Secondo i dati dell’Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato (2011), il gioco è una delle industrie più fiorenti nel nostro paese: nel 2008 sono stati raccolti 47,4 milioni di euro, nel 2009 54,4 milioni, fino ad arrivare nel 2010 a 61,4 milioni. Il Nord-Ovest è l’area che registra, in termini assoluti, il maggior volume di gioco (12 miliardi di euro annui). Tuttavia, se si considera l’incidenza della spesa per il gioco sul Pil, il primato spetta a Sud e Isole.

La Lombardia è la regione italiana dove si gioca di più (quasi 8,4 miliardi di euro) seguita dal Lazio con 4,6 miliardi di euro. Tuttavia, la regione in cui il peso del volume del gioco sull’economia locale è più elevato è la Campania (4,4 %), seguita da Abruzzo, Puglia, Molise e Sicilia. La Liguria e l’Abruzzo riportano una percentuale molto alta di soggetti che hanno sviluppato o sono a rischio di sviluppare una dipendenza nel gioco (Bastiani, Gori, Colasante, Siciliano, Capitanucci, Jarre et al., 2011). Il settore di gioco che ha conosciuto una massiccia diffusione è quello degli apparecchi da intrattenimento, tanto che le dimensioni del mercato delle Slot machines sono cresciute di quasi

70 volte dal 2003 al 2010, passando da 367 milioni a 25,5 miliardi di euro (Aams 2010; Eurispes

2008). Anche il mercato del gioco on line sta crescendo a un ritmo decisamente elevato, con un incremento del 58,5% rispetto dal 2009 al 2010 ed una raccolta complessiva pari a 3,7 miliardi di euro. La raccolta dei giochi numerici a totalizzatore si è incrementata addirittura del 50% dal 2008 al 2009, mentre il Lotto, il Bingo e l’Ippica mostrano un calo significativo. In generale la maggior parte delle quote in entrata dei giochi d’azzardo riguarda le slot machines, secondariamente le lotterie e quindi i giochi a distanza (Serpelloni & Rimondo, 2012).

Secondo il Ministero della Salute (2011), in Italia il 54% della popolazione è costituita da giocatori d’azzardo. La stima di quelli problematici varia dall’1,4 % al 3,8% mentre la stima di quelli patologici oscilla tra lo 0,5% al 2,2 % (Serpelloni & Rimondo, 2012).

1.4.2 Il fenomeno dell’azzardo in Europa

Anche in Europa l’azzardo assicura allo Stato ingenti introiti: la Germania nel 2007 ha incassato circa  12  miliardi  di  euro,  distinguendosi  da  tutti  gli  altri  Paesi  europei,  seguita  dal  mercato britannico e da quello francese. La tipologia delle offerte è piuttosto eterogenea tra i diversi paesi dell’Unione: in Germania e in Italia si impongono in modo piuttosto netto le lotterie, mentre nel settore delle slot machines è la Spagna a detenere il primato, con introiti che sfiorano i 4 miliardi di euro all’anno e un numero di macchine installate pari a 340 mila. Per quanto riguarda i casinò, invece, il mercato più importante è quello francese, con 197 sale all’attivo (Commissione Europea

2006; Eurispes 2009; Euromat 2008, in Filippi & Breveglieri, 2010).

C’è da tener presente che gli Stati differiscono per legislazione, restrizioni, modalità di concessione delle licenze e questo incide sulle tipologie di gioco che vengono offerte e quindi maggiormente fruite dai cittadini: in quasi tutti gli Stati Uniti ad  esempio sono vietate le scommesse  sportive e

quelle a distanza, attraverso siti internet o telefono cellulare (Filippi & Breveglieri, 2010).

1.5 GAP: CARATTERISTICHE CLINICHE E INQUADRAMENTO NOSOGRAFICO

Il riconoscimento di una vera e propria patologia legata al gioco d’azzardo è piuttosto recente. Viene inserito come un  disturbo psichiatrico a sé stante solo nel 1980,  all’interno della terza edizione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi psichiatrici (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, DSM). È stato mantenuto anche nelle edizioni successive del DSM-IV e del DSM-IV-TR ed è collocato nella sezione relativa ai “Disturbi del controllo degli impulsi non classificati altrove”, insieme alla Piromania, la Cleptomania, la Tricotillomania e il Disturbo esplosivo intermittente. Il gioco d’azzardo patologico viene definito dall’American Psychiatric Association (APA) come un “comportamento persistente, ricorrente e mal adattivo di gioco, che compromette le attività personali, familiari o lavorative” (APA, 1994; trad. it. 1996, p. 674). Viene posta una diagnosi di gioco patologico quando il soggetto riporta cinque (o più) dei 10 sintomi indicati dal DSM (Criterio A):

  1. E’ eccessivamente coinvolto nel gioco d’azzardo (ad esempio il soggetto è continuamente intento a rivivere esperienze trascorse di gioco, a valutare o pianificare la prossima impresa di gioco, ad escogitare i modi per procurarsi il denaro con cui giocare).
  2. Ha bisogno di giocare somme di denaro sempre maggiori per raggiungere lo stato di eccitazione desiderato.
  3. Tenta ripetutamente e senza successo di controllare, ridurre o interrompere il gioco d’azzardo.
  1. Nel tentativo di ridurre o interrompere il gioco d’azzardo, il soggetto risulta molto irrequieto e irritabile.
  2. Il soggetto ricorre al gioco come fuga da problemi o come conforto all’umore disforico (ad esempio senso di disperazione, di colpa, ansia, depressione).
  3. Quando perde, il soggetto ritorna spesso a giocare per rifarsi (“inseguimento” delle perdite).
  1. Mente in famiglia e con gli altri per nascondere il grado di coinvolgimento nel gioco d’azzardo.
  1. Ha commesso azioni illegali come falsificazione, frode, furto o appropriazione indebita per finanziare il gioco d’azzardo.
  2. Mette a rischio o perde una relazione importante, un lavoro, un’opportunità di formazione o di carriera a causa del gioco.
  3. Confida negli altri perché gli forniscano il denaro necessario a far fronte a una situazione economica disperata, causata dal gioco.

Il comportamento di gioco d’azzardo patologico non deve essere, pertanto, attribuibile a un episodio maniacale (Criterio B).

Sebbene non siano inseriti nel DSM, si tende a includere in tale categoria anche il Disturbo da

shopping compulsivo, la Dipendenza da internet e la Dipendenza sessuale (Dell’Osso, Altamura, Allen, Marazziti & Hollander, 2006).

I  Disturbi  del  controllo  degli  impulsi  (DCI)  sono  caratterizzati dall’incapacità del  soggetto  a resistere ad un impulso o ad una tentazione impellente. Tale spinta è preceduta da una sensazione di crescente tensione ed eccitazione, che induce il soggetto a compiere un’azione pericolosa per sé stesso e/o per gli altri e a cui fanno seguito gratificazione, piacere e sollievo (DSM-IV, 1994). L’analogia tra i disturbi del controllo degli impulsi e l’attitudine al gioco d’azzardo è evidente: come la Cleptomania è caratterizzata dalla ricorrente incapacità di resistere all’impulso di rubare oggetti, la Piromania dal desiderio di appiccare il fuoco e la Tricotillomania dall’impulso di strapparsi i capelli, così il gioco d’azzardo patologico è caratterizzato dall’incapacità di resistere all’impulso di scommettere e giocare d’azzardo (Lavanco & Varveri, 2006). A questo proposito, è esemplificativo litem numero 3 del DSM, che fa esplicitamente riferimento alla perdita del controllo ( loss of control) e all’incapacità di ridurre o interrompere la pratica del gioco d’azzardo.

A supporto dell’inclusione del gioco d’azzardo patologico all’interno della categoria dei Disturbi del controllo degli impulsi, vi sono anche alcune ricerche internazionali che testimoniano e riportano un’elevata  comorbilità  tra  gambling  e  DCI  (Black  &  Moyer,  1998;  Specker,  Carlsons  & Christenson, 1995): i disturbi più comunemente associati sembrano essere il Disturbo da shopping compulsivo e la Dipendenza sessuale (Black & Moyer, 1998; Specker, Carlsons & Christenson,

1995).

Da un punto di vista neurobiologico, si riscontrano in letteratura alcune evidenze che provano il coinvolgimento, nel gioco d’azzardo patologico, di aree deputate al controllo degli impulsi, come la corteccia prefrontale (Potenza, 2006). Durante la presentazione di stimoli visivi riguardanti il gioco, infatti, i giocatori patologici mostrano una diminuzione nell’attivazione della corteccia prefrontale (Potenza, 2006), così come avviene, analogamente, nei soggetti che presentano una tendenza impulsiva a commettere gesti aggressivi (Potenza, 2006). Un ruolo di primo piano nella regolazione di queste aree è svolto dalla serotonina, considerata una componente di sostanziale importanza nel controllo degli impulsi e delle funzioni inibitorie (Potenza, 2008). I suoi circuiti risultano spesso alterati nei giocatori patologici (alterazioni, ad esempio, a carico dei geni trasportatori della serotonina 5HTT1 e CHTT2). Nei giocatori d’azzardo si rilevano anche un aumento dei livelli di noradrenalina e alterazioni nei livelli di dopamina (Clark, 2010). I giocatori patologici, così come i soggetti con Disturbo del controllo degli impulsi, riportano, infatti, più frequentemente l’allele D2A1 del gene recettore della dopamina D2, una variante associata a vari comportamenti di tipo impulsivo e compulsivo (Blaszczynski & Nower, 2001; Shah et al., 2004).

Recentemente la diagnosi di “Gioco d’azzardo patologico” è andata incontro a sostanziali cambiamenti (Petry, Blanco, Stinchfield & Volberg, 2012). Negli ultimi anni si è discusso, infatti, riguardo alla sua esatta collocazione e se, tale disturbo, debba essere considerato effettivamente un Disturbo del controllo degli impulsi, così come classificato nel DSM-IV (Canuzzi, 2012).

Nella primavera del 2013, è stata pubblicata la nuova versione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi psichiatrici, il DSM-5, che apporta delle novità per la comprensione e la concettualizzazione del gioco d’azzardo patologico.

Il cambiamento più vistoso si osserva per quanto riguarda la collocazione del disturbo, che viene, infatti, inserito all’interno del capitolo denominato “Addiction and related disorders, accanto alla dipendenza e all’abuso di alcool e droghe. In questa nuova categoria, il gioco d’azzardo rappresenta l’unica dipendenza comportamentale, senza sostanza (Denis, Fatseas & Auriacombe, 2011). “Addiction and related disorders” rimpiazza, pertanto, la precedente terminologia “Substance and related disorders”, utilizzata dal DSM-IV in riferimento alle dipendenze.

“Addiction” deriva dal latino “addicere” e significa “schiavo di”. Se il termine in origine non veniva utilizzato in riferimento all’uso di sostanze, ha iniziato prepotentemente ad essere associato all’atteggiamento di perdita del controllo, tipico dei dipendenti da sostanze, solo molti secoli dopo (Potenza, 2006) e, ad oggi, ha sostituito definitivamente il termine “dependence” utilizzato dal DSM-IV. Il cambiamento di terminologia è dovuto all’esigenza di ridurre le difficoltà e le ambiguità insite nella definizione di dipendenza: si può avere, infatti, una dipendenza fisica e chimica quando l’organismo richiede una certa sostanza per funzionare, ma non si evidenziano effetti negativi sul funzionamento del soggetto, oppure si può riscontrare una forma di dipendenza in cui si crea una condizione di ricerca attiva dell’oggetto, senza il quale la vita appare priva di significato, e che conduce a numerose conseguenze negative sulle diverse aree del funzionamento di vita (Lipari, Picone & Scardina, 2010; Potenza, 2006).

I motivi che hanno indotto gli esperti a includere il gioco patologico all’interno della categoria dei comportamenti di addiction è data, principalmente, oltre che dall’efficacia di alcuni trattamenti in entrambi i disturbi (Reilly, 2010; Upfold, 2009), anche dall’elevata percentuale di comorbilità riscontrata tra essi (Hodgins, Peden & Cassidy, 2005; Moreyra, Ibànez, Saiz-Ruiz & Blanco, 2010) e dalla simile manifestazione e categorizzazione di alcuni sintomi (Petry, Blanco, Stinchfield & Volberg, 2012; Upfold, 2009).

Il GAP e i disturbi da uso di sostanze condividono, infatti, molte caratteristiche, tanto che i criteri utilizzati per diagnosticarli sono del tutto simili. Due di questi riguardano la tolleranza e l’astinenza. La tolleranza, ovvero il bisogno di ingerire quantità crescenti di sostanze per raggiunge l’apice degli effetti desiderati, si manifesta anche nel giocatore quando aumenta continuamente l’importo di

denaro da spendere per raggiungere un certo grado di soddisfazione (item 2). Analogamente, l’astinenza, cioè lo sviluppo di sintomi fisici causati dalla cessazione o dalla riduzione prolungata dell’uso della sostanza, si riscontra anche nel giocatore d’azzardo, nella misura in cui questo sperimenta sensazioni  di  irritabilità e  di  irrequietezza quando  tenta  di  ridurre  o  interrompere l’attività di gioco (item 4). Un altro criterio diagnostico per la dipendenza da sostanze che incontra uno speculare per la diagnosi di gioco patologico, riguarda il persistente desiderio o i ricorrenti sforzi per smettere o controllare l’uso delle sostanze senza però riuscirci, a cui si collega l’item numero 3 per il gioco d’azzardo. Altre somiglianze tra i due disturbi, che si riflettono nei criteri utilizzati per la diagnosi, includono la presenza di preoccupazioni (item 1) e la compromissione delle normali attività di vita (item 9). Un criterio per definire la dipendenza da sostanze che diverge e non trova un corrispettivo in quelli utilizzati per il gioco patologico, riguarda la consapevolezza del soggetto rispetto ai problemi fisici e psicologici determinati dall’uso smodato della sostanza. (Upfold, 2009). Gli item caratterizzanti il gioco d’azzardo patologico sono, invece, i numeri 5, 7, 8 e

10, relativi, rispettivamente, alla motivazione sottesa al comportamento di gioco (come fuga da problemi   o   come   conforto   all’umore   disforico),   al   mentire   per   nascondere  il   grado   di coinvolgimento nel gioco, al commettere azioni illegali e al confidare in altri per reperire il denaro necessario per giocare o per far fronte ai debiti. Per diagnosticare la dipendenza da sostanze devono essere presenti almeno tre dei sette sintomi specificati dal DSM, mentre per il gioco patologico ne occorrono almeno cinque su dieci (nella nuova versione del DSM-5, quattro su nove). Il gioco patologico, però, viene riconosciuto, contrariamente alla dipendenza da sostanze, come un disturbo caratterizzato maggiormente in senso cognitivo: la maggior parte dei giocatori presenta, infatti, numerose  distorsioni  cognitive  nel  sistema  di  credenze  relative  all’attività  di  gioco  d’azzardo (Upfold, 2009).

I segni e i sintomi principali relativi alla dipendenza nel gioco d’azzardo sono il craving, ovvero il forte desiderio di giocare e l’impossibilità di resistervi, l’astinenza e la tolleranza (Serpelloni, 2013).

Molte sono quindi le somiglianze e le analogie tra il gioco patologico e le dipendenze da sostanze, analogie che hanno indotto i ricercatori a ritenere più adeguata la nuova classificazione. Tuttavia non sono mancati pareri contrari, relativi al fatto che il gioco d’azzardo non comporta l’ingestione di una sostanza, che il fenomeno del chasing (la rincorsa alle perdite), l’aspetto più comune tra i giocatori, non trova un corrispettivo, un parallelo nei disturbi da uso di sostanze. Analogamente, anche l’impatto che il gioco patologico ha sull’ambito finanziario del soggetto non è così evidente e marcato nelle persone dipendenti da sostanze. Un’ulteriore differenza tra le due condizioni riguarda le ricadute che queste provocano sullo stato di salute del soggetto dipendente: l’effetto che le droghe esercitano sull’organismo non si riscontra nel caso dei giocatori d’azzardo patologici, nonostante questi presentino spesso problemi di salute (Petry, 2006).

Il DSM-5 ha apportato un’ulteriore modifica, non solo per ciò che riguarda la classificazione del disturbo, ma anche per quanto concerne la sua denominazione (Petry et al., 2012). Gli esperti hanno proposto, infatti, di modificare la nomenclatura “Pathological gambling” in “Gambling disorder”, con il preciso scopo di ridurre lo stigma associato al termine “patologico” (Petry et al., 2012).

Altri  cambiamenti  sostanziali  che  sono  avvenuti  con  il  passaggio  dal  DSM-IV  al  DSM-5, riguardano l’eliminazione dell’item relativo al “commettere atti illegali come falsificazione, frode, furto  o  appropriazione indebita  per  finanziare  il  gioco  d’azzardo”  (item  8)  e  la  conseguente riduzione del numero di criteri necessari per stabilire la diagnosi (Strong & Kahler, 2007; Petry et al., 2012; Toce-Gerstein, Gerstein & Volberg, 2003). La task force del DSM-5 ha optato per l’eliminazione del criterio 8, dal momento che non risulta significativo e determinante per l’individuazione della maggior parte dei soggetti con problemi di gioco d’azzardo (Petry et al., 2012; Reilly, 2010; Toce-Gerstein, et al., 2003) e sembra non contribuire molto all’accuratezza e alla precisione diagnostica per l’identificazione della maggior parte dei giocatori patologici (Petry et al., 2012; Strong & Kahler, 2007). Una delle evidenze a favore di questa decisione è emersa dallo studio  di  Strong  e  Kahler  (2007),  i  quali,  analizzando  i  dati  provenienti  dal  “ National Epidemiologic Survey on Alcohol and Related Conditions” (NESARC), dimostrano che tutti gli individui che commettono atti illegali per finanziare le attività di gioco d’azzardo, riportano cinque o più dei sintomi necessari per stabilire la diagnosi di gioco patologico, suggerendo, quindi, che questo item aggiunge poco alla capacità discriminativa dei giocatori patologici (Strong & Kahler, 2007). In più è stato dimostrato che i sintomi elencati dal DSM sono correlati a diversi livelli di gravità della patologia: il primo sintomo a comparire sarebbe quello relativo al fenomeno del chasing; l’essere eccessivamente coinvolto nel gioco d’azzardo (item 1) è utile per identificare i soggetti con il più basso grado di severità dei problemi di gioco (Strong & Kahler, 2007); il giocare per fuggire da stati emozionali negativi (item 5) e il mentire agli altri sulle proprie condizioni di gioco (item 7) sono frequentemente ricorrenti negli individui che riportano tre sintomi, che, quindi, non si configurano come patologici (Toce-Gerstein et al., 2003). I sintomi relativi all’astinenza (item 4), alla perdita del controllo (item 3) e alla tolleranza (item 2) risultano, invece, fortemente correlati con il gioco patologico (Toce-Gerstein et al., 2003). Anche il mettere a repentaglio delle relazioni significative è un tratto caratteristico dei giocatori patologici: tra questi, la percentuale dei divorziati rappresenta, infatti, quasi il doppio di quella dei controlli (Toce-Gerstein et al., 2003).

L’altro cambiamento avanzato nel DSM-5 è la diminuzione dei criteri per stabilire la diagnosi di patologia: da 5 su 10, ne sono adesso necessari 4 su 9 (Denis et al., 2012; Petry et al., 2012; Petry, Blanco, Auriacombie, Borges, Bucholz, Crowley et al., 2013). Denis e colleghi hanno dimostrato la validità di questa decisione, sottolineando che, diminuendo la soglia necessaria per stabilire la

diagnosi di gioco d’azzardo patologico, si ottengono dei risultati ugualmente validi: la correlazione tra il numero di sintomi presentati e la gravità del coinvolgimento nel gioco d’azzardo era, infatti, significativa (Petry et al., 2012).

Il gioco d’azzardo patologico presenta alcune affinità anche con i disturbi dello spettro ossessivo- compulsivo (Dell’Osso et al., 2006; Moreyra, Ibànez, Saiz-Ruiz & Blanco, 2010). Sia i soggetti affetti  da questo  disturbo  sia  i  gamblers,  nascondono  dietro  le  loro compulsioni,  un  intenso desiderio di mettere in atto un certo comportamento; ma, mentre nel gioco d’azzardo i pensieri ad esso relativi sono ego-sintonici, negli ossessivi-compulsivi, le ossessioni e le compulsioni sono ego- distoniche; mentre per questi le compulsioni sono caratterizzate da un senso di elusione del danno ed evitamento del rischio, nei giocatori patologici non si rinvengono queste caratteristiche. Al contrario è frequente la tendenza a ricercare forti sensazioni (Dell’Osso et al., 2006; Moreyra, Ibànez, Saiz-Ruiz & Blanco, 2010).

Un’ulteriore concettualizzazione alternativa è quella collegata allo spettro dei disturbi dell’umore, supportata dai tassi elevati di depressione cronica nelle persone con GAP. Sintomi di alterazione dell’umore, in verità, potrebbero anche costituire una reazione secondaria alle conseguenze negative del gioco d’azzardo (Moreyra, Ibànez, Saiz-Ruiz & Blanco, 2010).

Da questa breve rassegna, emerge la necessità di considerare il gioco d’azzardo patologico come un fenomeno, un disturbo eterogeneo e multi sfaccettato, che condivide alcune caratteristiche con altri disturbi psichiatrici. Dal momento che la concettualizzazione del GAP è probabile che influenzi i modelli di ricerca e di trattamento, è importante che vi sia una comprensione chiara dei dati che supportano ciascuna categorizzazione (Moreyra, Ibànez, Saiz-Ruiz & Blanco, 2010).

1.6 GAP E COMORBILITA’

Con il termine comorbilità intendiamo la presenza di più di un disordine psicologico diagnosticabile nello stesso individuo nello stesso momento; questa condizione rappresenta, pertanto, non solo un elemento di confusione nella diagnosi del disturbo principale, ma anche una fonte di complicazione per il decorso dello stesso (La Barbera & Matinella, 2010).

Possiamo distinguere una comorbilità attuale, se i disturbi psichiatrici sono presenti contemporaneamente, una comorbilità lifetime, se i disturbi si manifestano in diversi periodi della vita del soggetto e una  comorbilità familiare, se i familiari del paziente sono  affetti da altre patologie psichiatriche.

Nel caso del gioco d’azzardo patologico, la comorbilità si riscontra maggiormente con i disturbi dell’umore, il disturbo da deficit di attenzione con iperattività, i disturbi correlati all’utilizzo di sostanze e le condotte suicidarie.  Si evidenzia una comorbilità anche con il disturbo narcisistico di personalità, il disturbo antisociale, quello borderline e quello ossessivo-compulsivo (La Barbera &

Matinella 2010).

In uno studio condotto su un campione di pazienti ospedalizzati per GAP, si sono rilevati tassi di comorbilità lifetime pari al 76% con la depressione maggiore, del 38% con episodi ipomaniacali e dell’8% con episodi maniacali. Si è riscontrata, infine, una comorbilità pari al 20% con il disturbo ossessivo compulsivo e del 16% con il disturbo da attacchi di panico (La Barbera & Matinella, 2010).

Molto comuni risultano essere i sintomi depressivi: numerose ricerche hanno, infatti, documentato la relazione tra depressione e GAP, riportando una grande mole di risultati significativi (Kim, Grant, Eckert,  Faris  &  Hartman,  2006;    Poirier-Arbour,  Trudel,  Boyer,  Harvey  &  Goldfarb,  2012; Thomsen, Callesen, Linnet, Kringelbach & Moller, 2009). Dalla rassegna di Kim et al., (2006), che ha analizzato vari studi incentrati sulla correlazione tra disturbi dell’umore e gambling, si è trovata un’elevata incidenza di depressione e mania tra i giocatori patologici, nonostante spesso non sia possibile identificare se questi disturbi siano primari, secondari o co-occorenti (Kim, Grant, Eckert, Faris & Hartman, 2006). Nell’indagine di Thomsen e colleghi, (2009), i giocatori patologici dipendenti da slot machines che riportavano alti livelli di sintomi depressivi, erano quelli che mostravano una più intensa spinta e urgenza a giocare, maggiore eccitazione esperita nel gioco, numero di giochi effettuati e tempo trascorso a giocare (Thomsen, Callesen, Linnet, Kringelbach & Moller, 2009). Più recentemente Poirier-Arbour e colleghi., (2012) hanno mostrato che i giocatori patologici  presentavano  livelli  significativamente  maggiori  di  sintomi  depressivi  rispetto  ai controlli. Correlati alla gravità di questi sintomi si sono riscontrati anche elevati livelli di ansia (Poirier-Arbour, Trudel, Boyer, Harvey & Goldfarb, 2012).

La comorbilità tra GAP e disturbi da uso di sostanze risulta, invece, la più studiata in letteratura (Hodgins, Peden & Cassidy, 2005; Lorains, Cowlishaw & Thomas, 2010; Moreyra, Ibànez, Saiz- Ruiz & Blanco, 2010). I pazienti con doppia diagnosi presentano livelli maggiori di gravità sintomatologica iniziale ed hanno una prognosi peggiore sia in termini di risposta al trattamento che in termini di ricadute e di adesione alla terapia. Le stime di abuso di sostanze tra i giocatori patologici vanno dal 10 al 52% e all’85%, se viene inclusa la nicotina (Moreyra, Ibànez, Saiz-Ruiz & Blanco, 2010). Viceversa, chi abusa di sostanze mostra alti tassi di GAP, che vanno dal 9 al 33% (Moreyra, Ibànez, Saiz-Ruiz & Blanco, 2010). Dalla rassegna di Lorains et al., (2010), è emerso che tra i giocatori problematici e patologici si riscontrava un’elevata percentuale di soggetti con dipendenza da nicotina e uso di sostanze, seguiti dalla presenza di disturbi dell’umore (Lorains, Cowlishaw, & Thomas, 2010). Simili risultati sono stati riscontrati anche nella ricerca di Hodgins e colleghi, in cui il 73% dei giocatori patologici presentava una comorbilità lifetime con l’uso di alcool e il 48% con l’uso di droghe. Sembra anche che l’età d’esordio nell’abuso di sostanze preceda l’inizio dell’attività di gioco d’azzardo (Hodgins, Peden, & Cassidy, 2005).

La disperazione che assale il giocatore patologico quando inizia a perdere tutto, si può risolvere in un tentativo di intraprendere la strada della guarigione oppure altre vie più drammatiche di risoluzione del problema, come il suicidio. Gli studi di Hollander e Wong, di Specker, Carlson, Christenson e colleghi, risalenti al 1995, hanno sottolineato un legame tra GAP, pensieri suicidiari e suicidi.

La gravità del comportamento di gioco si correla positivamente anche con la presenza dei disturbi di personalità. Nella casistica di Blaszczynski, al 93% dei giocatori problematici veniva diagnosticato almeno un disturbo di asse II, con netta prevalenza dei tratti borderline, istrionico e narcisistico di personalità, tratti risultati correlati anche con alti livelli di impulsività e instabilità emotiva (Blaszczynski & Steel, 1998). Nello studio di Myrseth et al., (2009), i giocatori patologici riportavano punteggi significativamente più elevati nella scala di “Nevroticismo” e significativamente più bassi in quella di “Apertura” (dati rilevati con il BIG V) rispetto ai soggetti controlli (Myrseth, Pallesen, Molde, Johnsen & Meen Lorvick, 2009).

Alla luce di questi dati, possiamo distinguere diversi modi per interpretare la comorbilità tra il GAP e i disturbi psichiatrici sopra discussi. Essi possono essere, infatti, secondari al gioco ed esserne, quindi, la conseguenza, oppure il gioco stesso può configurarsi come un tentativo di far fronte ai disturbi dell’umore, ai disturbi di personalità o alle scarse capacità di coping e di problem solving (La Barbera & Matinella, 2010).

1.7 MODELLI TEORICO-INTERPRETATIVI  DEL GIOCO D’AZZARDO  PATOLOGICO

La letteratura del comportamento di gioco, delle motivazioni e dei meccanismi psicologici sottostanti,  delinea  un  quadro  eterogeneo  di  approcci  teorici  che  interpretano  il  fenomeno chiamando in causa spiegazioni diverse tra loro.

Tra le ipotesi eziopatologiche più ricche e consolidate nel tempo possiamo distinguere quella ad orientamento psicanalitico, comportamentista e cognitivista. A questi si aggiunge, infine, una lettura psicosociale del fenomeno.

1.7.1 Il modello psicanalitico

L’approccio psicanalitico raccoglie le riflessioni di vari autori che tendono a ricercare le cause del gioco nella sessualità, in termini di pulsioni sessuali e di masochismo.

Nel 1928, Sigmund Freud, il padre della Psicanalisi, scrisse “Dostoevskij e il parricidio”, un’opera che rappresenta il suo contributo più completo ed esplicito  al fenomeno del gioco d’azzardo. In questo saggio viene analizzata la personalità dello scrittore russo e la sua esperienza di giocatore compulsivo. Freud interpreta la coazione al gioco d’azzardo come una forma di autopunizione: è continuando a giocare, fino a perdere, che il giocatore può trarre la sua punizione, per espiare i sensi

di colpa innescati dal complesso edipico. Così, l’individuo trova una sorta di sollievo masochistico nel gioco, dimostrato dal fatto che egli tende a giocare soprattutto in fase di perdita. Il giocatore non aspira quindi ad una vincita, ma necessita di una sconfitta per vivere il carattere punitivo dell’esperienza. Alla base del senso di colpa esperito, si rintraccia l’ambivalente e conflittuale rapporto del bambino con il padre, tanto amato e tanto odiato. È la componente di aggressività e di odio verso il padre, il desiderio di eliminarlo per prendere il posto accanto alla madre, che scava nella mente del bambino quell’intollerabile senso di colpa, che egli cercherà per tutta la vita di placare. Spesso per placarlo servono delle sconfitte, dei fallimenti e delle perdite, che garantiscono una sorta di sollievo masochistico al senso di colpa. Qualche volta, invece, servono dei veri e propri crimini, commessi con lo specifico ed inconscio scopo di essere catturato. Il Fato, che viene sfidato dal giocatore, è quindi una proiezione del padre punitivo. Il gioco è un modo per sfidare la fortuna e la sorte con l’inconscia domanda: “Mio padre mi ama?”. Se mi ama vincerò, se non mi ama allora perderò.

Dopo Freud, un importante contributo sul tema del gioco d’azzardo è quello proposto dallo psicanalista Edmund Bergler, il quale riprende ed approfondisce alcune idee espresse dal suo predecessore nel saggio del 1928. Bergler considera il masochismo il meccanismo principale sotteso al fenomeno del gioco patologico adulto: il soggetto è dominato da un desiderio inconscio di perdere e di essere punito (nonostante possa riferire a tutti di voler vincere), per far fronte all’aggressività e al senso di colpa inconsapevoli nutriti verso le figure genitoriali, che hanno imposto regole e restrizioni durante l’infanzia. L’atto di giocare costituisce, quindi, una sorta di rinnegamento del Principio di Realtà a favore di quello del Piacere. L’aggressività, allora, non potendo essere sfogata sulle figure di autorità, viene rivolta verso se stessi, sotto forma  di desiderio di auto-punirsi. Il giocatore eccessivo è, quindi, un nevrotico compulsivo che, inconsciamente, crede,  proprio  come  fanno  i  bambini,  di  controllare  il  fato  in  modo  magico  e  onnipotente, utilizzando procedure superstiziose, magiche e ritualistiche (Bergler, 1957). Secondo la teoria di Rosenthal invece, i giocatori patologici soffrirebbero di un disturbo narcisistico di personalità: questi giocatori avrebbero bisogno di verificare costantemente la propria autostima attraverso l’attività di gioco. Tendono a controllare l’incontrollabile attraverso l’utilizzo di meccanismi di difesa quali la proiezione, la scissione e il bisogno di costruire continuamente l’illusione di onnipotenza (Rosenthal, 1987).

Per la mancanza di ricerche sistematiche l’approccio psicodinamico, nella realtà clinica, non ha avuto un grosso impatto sulla ricerca nel campo del gioco d’azzardo. Per questo motivo, si possono solo rintracciare delle direttive rispetto al trattamento, che, come per le nevrosi, si basano sulla risoluzione del conflitto, spesso di natura edipica, sul portare alla luce della coscienza il materiale rimosso, dissolvere le difese e i sensi di colpa del paziente (Zerbetto, 2010).

1.7.2 Il modello cognitivista

Secondo quest’approccio, il gioco d’azzardo sarebbe riconducibile a un ritardo nello sviluppo cognitivo, in particolare sarebbe dovuto a una fissazione del soggetto allo stadio delle operazioni concrete, che lo porterebbe a pensare ogni giocata come “quella buona”, a credersi imbattibile, esperto e potente. Diventa, quindi, necessario per il giocatore d’azzardo accedere allo stadio successivo delle operazioni formali, per maturare così un nuovo modo di pensare e di capire la vera natura  del  gioco,  nei  suoi  aspetti  di  aleatorietà  e  di  potenziale  danno  per  il  funzionamento individuale (Lavanco & Varveri, 2006).

Gli studi ad orientamento cognitivista si sono soffermati anche sulle distorsioni cognitive e sulle credenze erronee dei giocatori, che li inducono a credere di poter influenzare il risultato del gioco. Gli autori hanno sottolineato l’esistenza di varie forme di bias cognitivi, come ad esempio l’illusione di controllo e la fallacia di Montecarlo, che possono influenzare o mantenere la gravità dei problemi di gioco (Ladoceur, 2004; Myrseth, Brunborg & Eidem, 2010;  Toneatto, Blitz-Miller, Calderwood, Dragonetti & Tsanos, 1997 ).

Il progetto terapeutico si pone l’obiettivo di far prendere coscienza al paziente che alcuni suoi pensieri sono distorti, errati e che questi devono essere modificati, se si vuole ottenere un funzionamento adeguato nel contesto di vita. Si tratta di un terapia breve, di solito non supera i 15 incontri e, a differenza dell’approccio psicanalitico, non vengono né ricercate le cause profonde del problema del gioco, né vengono indagate le esperienze traumatiche infantili: il focus di interesse sono gli avvenimenti e i pensieri della vita quotidiana (Barrault & Varescon, 2012; Hodgins & Petry, 2004; Lopez-Viets & Miller, 1997).

1.7.3 Il modello comportamentista

Gli  psicologi  a  orientamento  comportamentista  ritengono  che  l’apprendimento  di  un comportamento di gioco disadattivo sia dovuto all’azione rinforzante di una serie di stimoli, come vincite rare, casuali, saltuarie, che spingerebbero il giocatore a ritentare la fortuna. Si forma quindi un legame tra lo stimolo incondizionato del “puntare” e la risposta della vincita, che, a sua volta, diventa l’elemento che rinforza il comportamento del gioco d’azzardo. Oltre al denaro, fungerebbero da rinforzi positivi anche i rinforzi sociali, come l’interazione e lo scambio con altri giocatori e gli stimoli ambientali, sotto forma di luci, colori e suoni allettanti che si trovano all’interno dei casinò e nella struttura stessa delle slot machines. Agiscono come rinforzo anche i fattori cognitivi: questi sarebbero legati in particolare al fenomeno della near miss, o “ quasi vincita”, fenomeno per cui anche in caso di perdita, si può avere la percezione di essere vicini alla vittoria (Grant & Potenza, 2004). Recentemente l’attenzione è rivolta anche a ciò che accade nel momento che separa la puntata da quello in cui giunge il risultato della scommessa. Infatti, non funge da rinforzo solo il denaro, ma anche l’eccitazione che il giocatore prova nei momenti di attesa del risultato, negli attimi in cui i dadi rotolano prima di trovare la loro staticità, quando lentamente una carta viene girata fino a mostrare la sua faccia o quando le ruote delle slot machines girano con frenesia. Molti giocatori scommettono su più tavoli, su più giochi contemporaneamente, per amplificare e intensificare proprio l’eccitazione che provano in quei momenti.

A partire dagli anni Sessanta, le terapie comportamentali sono diventate molto popolari e, ancora oggi, la maggioranza delle cure previste per il gioco eccessivo è di matrice comportamentale. Molte sono le tecniche utilizzate, come l’esposizione al gioco e la desensibilizzazione, ma tutte si pongono lo stesso obiettivo: da una parte, ridurre i comportamenti compulsivi del giocatore e, dall’altra, fargli raggiungere un maggior dominio sulle tensioni legate al gioco (Blaszczynski & Silove, 1995; Hodgins & Petry, 2004).

1.7.4 Il modello psicosociale

In quest’ottica, il gioco d’azzardo è considerato come un insieme di azioni messe in atto per evadere i momenti di noia, l’insoddisfazione della vita, la routine quotidiana, ma anche come un bisogno di pensiero magico, di comportamenti rituali e scaramantici, in contrapposizione a una quotidianità governata dalla razionalità e dal calcolo (Lavanco & Varveri, 2006). Similarmente, Eugen Fink considera il gioco come una sorta di “oasi di gioia”, dove l’individuo si rifugia per sfuggire all’ingranaggio della vita, al peso dell’esistenza: il gioco rapisce e il giocare fa apparire la vita lieta e più felice. Kusyzsyn (1984), invece, intende il gioco come un’attività ludica funzionale alla soddisfazione di alcuni bisogni basilari dell’uomo, come quello di confermare la propria esistenza e di affermare il proprio valore. Questi bisogni vengono soddisfatti nel momento in cui, durante l’esperienza di gioco, il soggetto esperisce determinate stimolazioni cognitive, fisiche ed emozionali e  nel momento in cui, nell’approcciarsi ad un compito difficile e rischioso, prova sentimenti di efficacia. Nel gioco d’azzardo sono, inoltre, ripetuti alcuni valori che svolgono un ruolo rilevante nella nostra società: i valori della competitività, dell’audacia, dell’intraprendenza, dell’assunzione di rischi. Inbucci (1997) avanza anche l’ipotesi che il gioco d’azzardo svolga la funzione simbolica di abolire le differenze e le ingiustizie sociali, a partire dalla constatazione che il volume del gioco è maggiormente diffuso nel Mezzogiorno d’Italia. Similarmente, Fiasco (2001) sostiene che il gioco rappresenta una risorsa per il popolo, nella misura in cui esso rappresenta la possibilità di sperare in un mondo migliore, quando lo Stato non lo garantisce: è, infatti, nei periodi storici di maggiore crisi che si assiste ad un aumento di persone che ricorrono al gioco per affrontare una situazione economica incerta (Lavanco & Varveri, 2010).

1.7.5 Il modello evolutivo di Custer

Custer, oltre ad essere noto per aver costituito la prima clinica per il trattamento del gioco d’azzardo patologico negli Stati Uniti, è famoso anche per aver proposto nel 1984 un modello di lettura del gioco d’azzardo veramente innovativo: per la prima volta il gioco viene considerato come un processo dinamico, invece che come un fenomeno statico, come un processo che si sviluppa attraverso una serie di passaggi progressivi. Il modello evolutivo di Custer offre anche degli indizi utili per comprendere il percorso che un giocatore d’azzardo può compiere: da una fase iniziale e innocua di gioco a una fase di perdita del controllo, fino al momento della ricostruzione e della crescita; offre inoltre una cornice più complessa e articolata rispetto a molti modelli teorici che “sclerotizzano”  il  giocatore  patologico  in  un  quadro  senza  passato  e  senza  futuro,  senza comprendere i peculiari significati, bisogni che concorrono all’evoluzione della sintomatologia da gioco. Il gioco d’azzardo può essere così inquadrato all’interno di un continuum che va da un grado inoffensivo per l’individuo, fino ad un comportamento di abuso, in cui il coinvolgimento del soggetto è tale da compromettere tutta la sua esistenza (Lavanco, 2001; Lavanco & Varveri, 2006; 2010).

Custer considera il gioco d’azzardo patologico come il punto di approdo di una carriera, di durata variabile, scandita dalle seguenti sei fasi (Custer, 1984).

1) Fase vincente: il gioco è occasionale. Esso è visto ancora come una forma di passatempo e divertimento e lo si pratica prevalentemente in compagnia di amici e familiari. La fase in questione dura generalmente dai tre ai cinque anni, periodo durante il quale ai giocatori capita molto spesso di vincere, fatto che rinforza nel giocatore l’idea di essere più abile degli altri. Le caratteristiche che accompagnano questa fase sono alti livelli di energia, concentrazione focalizzata e interesse nelle strategie di gioco d’azzardo; molti attribuiscono le loro vincite all’abilità piuttosto che alla fortuna. Le fantasie di vittoria, i rinforzi derivanti dalle vincite e il piacere connesso al gioco, condurranno il soggetto a investire, a spendere sempre più soldi nell’attività di gioco, entrando così nella cosiddetta fase perdente;

2) Fase perdente: dura oltre cinque anni, è segnata da varie perdite di gioco. Si innesca il meccanismo del chasing, ossia la rincorsa delle perdite, che spinge il soggetto a giocare sempre di più nel tentativo di recuperare il denaro perso. Le scommesse svuotano le tasche e il giocatore inizia a chiedere prestiti, cominciando a mentire ad amici e familiari.

3) Fase della disperazione: il bisogno di giocare si fa sempre più forte e il soggetto ha ormai perso completamente il controllo sul proprio comportamento; compaiono in questa fase anche attività illegali per ottenere i soldi da investire nel gioco. A questo punto, il soggetto o va incontro a suicidio, fuga, carcerazione o decide di intraprendere la strada della guarigione, articolata nelle seguenti e ultime tre fasi del modello di Custer.

4) Fase critica: inizia quando il giocatore patologico ammette di aver bisogno di aiuto e decide di rivolgersi a un professionista.

5) Fase della riedificazione (o ricostruzione): è segnata dai tentativi di riparare ai danni relazionali ed economici causati dal gioco patologico; si verifica un miglioramento dei rapporti familiari e il soggetto diventa più rilassato e fiducioso.

6) Fase della crescita: è l’ultimo stadio del percorso verso la guarigione, caratterizzato da una migliore introspezione e una maggiore lucidità nell’affrontare i problemi; contemporaneamente, diminuisce la preoccupazione per il gioco.

Al modello per fasi di Custer, Rosenthal (1987) ha aggiunto la cosiddetta fase senza speranza o resa, per sottolineare il percorso di quanti non riescono a proseguire verso le fasi che conducono al superamento della condotta di gioco patologico.

1.8 EZIOPATOGENESI DEL GIOCO D’AZZARDO PATOLOGICO

Dall’ingente mole di studi sui fattori predisponenti al gioco d’azzardo patologico, emerge la necessità di considerare le tante cause che possono contribuire allo sviluppo di un fenomeno tanto sfaccettato  quanto  complesso  quale  quello  del  gioco  patologico.  Siamo  di  fronte  a  processi dinamici, mutevoli, percorsi in continua evoluzione e trasformazione, che conducono verso un progressivo abbandono dell’ottica monodimensionale, una prospettiva che crede nella causalità lineare degli eventi. Il passaggio a un’eziologia di tipo multifattoriale implica lo studio di vari fattori di rischio, che lasciano presagire la possibilità di gioco problematico. In particolare, i ricercatori  parlano  di  tre  ordini  di  fattori  causali:  quelli  socio-ambientali,  neurobiologici  e individuali (Bastiani, et al., 2011; Canuzzi, 2012; Hodgins et al., 2011; Lavanco & Varveri, 2006,

2010; Shah, Potenza & Eisen, 2004).

1.8.1 Fattori socio-ambientali

All’interno di questo ambito individuiamo le caratteristiche del contesto familiare, le abitudini del gruppo dei pari, le reti, il sostegno sociale e il più vasto ambiente culturale in cui un individuo vive. Secondo i risultati di diverse ricerche, i fattori socio demografici hanno un’influenza determinante nell’insorgenza o meno del gioco problematico e/o patologico. Il GAP, infatti, sembra colpire prevalentemente, e più precocemente, le persone giovani, di sesso maschile, con un basso livello di istruzione, con un basso livello economico o disoccupati (Canuzzi, 2012). Un livello di istruzione medio-alto, in grado di fornire abilità analitiche e di ragionamento più raffinate, può agire come fattore di protezione contro la generazione di pensieri falsi e irrazionali.

La probabilità di avere un’attitudine problematica rispetto al gioco è tre volte maggiore nei maschi che nelle femmine, anche se negli ultimi anni si sta riscontrando un trend positivo che vede un cospicuo coinvolgimento delle donne nel gioco d’azzardo (Canuzzi, 2012). Maschi e femmine, tuttavia,  si  distinguerebbero  in  funzione  dell’età  in  cui  iniziano  a  giocare  (le  donne  più tardivamente) e delle motivazioni che sottendono il ricorso al gioco (le donne, infatti, tenderebbero più degli uomini, a rifugiarsi nel gioco per evadere dalla routine quotidiana e per fuggire alla noia). La  progressione  del  disturbo  risulta,  pertanto,  due  volte  più  veloce  nelle  donne.  Un’ultima differenza risiede nei tipi di gioco d’azzardo che uomini e donne preferiscono: le donne, infatti, diversamente dalla loro controparte maschile, prediligono giochi in cui sono minori l’interazione e la competizione, come le slot machines, i videopoker e i Gratta e Vinci (Guerreschi, 2007). Costituisce un fattore di rischio ambientale anche la presenza o meno in famiglia di giocatori problematici o patologici. Infatti, con ogni probabilità, gli individui i cui genitori hanno avuto problemi di gioco, possono andare incontro maggiormente all’acquisizione di un comportamento maladattivo di gioco. Appartenere a e frequentare un gruppo di giocatori innescherebbe, pertanto, un  circolo  vizioso  fatto  di  comprensione  reciproca,  di  aiuto  e  di  supporto,  che  creano  il convincimento di essere parte integrante di un mondo magico, costituito da pochi eletti e in cui è possibile rifugiarsi per trovare protezione dalla propria fragilità. Anche il valore attribuito al denaro all’interno del nucleo familiare, quindi il modo in cui sono vissuti gli aspetti materiali e finanziari della vita, è una condizione predisponente al gioco d’azzardo patologico. Modelli educativi che enfatizzano la possibilità di guadagnare soldi in modo facile e veloce, che considerano il denaro una preziosissima possibilità di felicità, portano a concepire il gioco d’azzardo come l’unica soluzione disponibile per raggiungere tali obiettivi o per fronteggiare una situazione economica difficile.

Si  individuano,  tra  le  variabili  socio  demografiche,  anche  la  morte  di  un  genitore,  la  loro separazione o il loro divorzio e l’iniziazione al gioco in età adolescenziale. A questi, si aggiungono variabili come la frequenza delle giocate, il tempo dedicato all’attività di gioco, la scelta di scommettere da soli o in compagnia e la somma di denaro investita nelle scommesse (Lavanco, 2006; La Barbera & Matinella, 2010).

Un altro fattore di notevole importanza riguarda l’estrema facilità con la quale è oggi possibile accedere alle svariate occasioni di gioco: non è richiesto il pagamento di alcun biglietto di ingresso, né la presentazione di un documento di identità e, addirittura, per i casinò on-line si può disporre di un bonus iniziale con il quale iniziare a giocare.

Questi  dati  riguardanti i  fattori  di  rischio  sono  sostenuti  anche  da  numerosi  importanti  studi (Bastiani et al., 2011; Black, Shaw, McCormick & Allen, 2012; Hodgins et al., 2012). Da quello recente di Hodgins e colleghi (2012), emerge che gli individui più intelligenti, più vecchi e più religiosi sono meno a rischio di diventare giocatori patologici, mentre è più probabile che individui

maschi, single, che hanno iniziato a giocare in giovane età e che sono inseriti in un ambiente dove si pratica il gioco d’azzardo, tendono più frequentemente a diventare dei giocatori problematici (Hodgins, Schopflocher, Martin, El-Guebaly, Casey, Currie, et al. (2012). Simili risultati sono stati ottenuti dallo studio di Bastiani e colleghi (2011), che dimostra come la categoria più a rischio sia rappresentata da coloro che hanno un’istruzione minore, sono dipendenti da sostanze o nicotina e approvano la pratica del gioco d’azzardo (Bastiani et al., 2011). Sono, inoltre, più a rischio coloro che hanno avuto comportamenti sessuali pericolosi per la salute o chi ha avuto esperienze di risse o problemi legali. Infatti, nonostante sia complicata da descrivere, esiste un’associazione tra gioco d’azzardo, crimine e reati legati al gioco, quali assegni scoperti, furto e appropriazione indebita (Canuzzi, 2012).

Anche la qualità dell’ambiente familiare è importante: come evidenzia lo studio di Black e collaboratori (2012), è più probabile che i giocatori patologici siano divorziati, vivano da soli e abbiano subito esperienze di maltrattamento nell’infanzia. Essi riportano, inoltre, una disfunzione a livello di coesione, organizzazione e di conflitto familiare significativamente maggiore rispetto ai controlli (Black, Shaw, McCormick & Allen, 2012). In un altro studio è stata trovata anche una correlazione tra livelli di GAP e stress quotidiano (Elman, Tschibelu & Borsook, 2010). Anche la società può esercitare un fondamentale condizionamento sul soggetto, sia attraverso la scarsità di regole, di leggi di controllo e di deterrenza, sia attraverso un’alta pressione pubblicitaria che enfatizza e incentiva il gioco d’azzardo, rendendolo, così, un fenomeno altamente accettato e tollerato.

1.8.2 Fattori neurobiologici

Il   comportamento   di   gioco   d’azzardo   patologico   sarebbe   riconducibile   anche   a   fattori neurobiologici. In particolare, le disfunzioni coinvolgerebbero i sistemi di produzione, alterazione e rilascio di neurotrasmettitori come la serotonina, la dopamina e la noradrenalina (Serpelloni & Rimondo, 2012).

La serotonina, che ha un ruolo fondamentale nell’iniziazione e nella disinibizione comportamentale, se presente in quantità troppo basse, risulta correlata a livelli elevati di impulsività, alla ricerca di sensazioni forti e ai Disturbi del controllo degli impulsi (Shah, Potenza & Eisen, 2004).

Si ritiene che anche il sistema di produzione, alterazione e rilascio della noradrenalina, considerato alla base della sollecitazione, dell’eccitazione e della ricerca di sensazioni forti, possa essere implicato nel gioco d’azzardo patologico. Si è registrata, infatti, una maggiore concentrazione di noradrenalina nelle urine e nel sangue dei giocatori patologici, nonché un aumento della frequenza cardiaca rispetto ai soggetti di controllo (Brunori, Cippitelli, Serpelloni & Ciccocioppo, 2012; Shah, Potenza & Eisen, 2004).

Il sistema di alterazione, produzione e rilascio di dopamina, considerato alla base dei meccanismi di ricompensa e rinforzo, è implicato nella patologia del gioco d’azzardo patologico. Esso è coinvolto anche nei livelli di attivazione, di attenzione e di arousal. Koepp e colleghi (1998) hanno registrato un aumentato rilascio di dopamina nel nucleo striato di soggetti maschi che stavano giocando per denaro al video gioco Tank. Il gioco d’azzardo è inoltre in grado di stimolare il rilascio di dopamina e, ripetute esperienze di gioco, possono sensibilizzare i neuroni, facilitandone l’attivazione anche di fronte a stimoli connessi solo in maniera indiretta al gioco d’azzardo, come la vista di oggetti o luoghi associati ad esso (La Barbera, La Cascia & Sideli, 2010). Studi in ambito neurologico hanno trovato, poi, un’alterazione nei meccanismi di regolazione del rilascio di dopamina nel nucleo accumbens: nei soggetti con disturbo da dipendenza l’incremento dopaminergico determinato dalle sostanze è più rapido e consistente rispetto a stimoli fisiologici come il cibo o il denaro. Questo spiegherebbe perché gli stimoli naturali non sono sufficienti a elargire piacere e soddisfazione, determinando una condizione di disforia tale da ricorrere a sostanze o comportamenti in grado di attivare questi circuiti in maniera più intensa (La Barbera, La Cascia & Sideli, 2010). I sistemi dopaminergici (nucleo accumbens e area ventrotegmentale) fanno parte del cosiddetto sistema di reward (ricompensa). Nel caso del gioco d’azzardo il funzionamento anomalo del sistema di neurotrasmissione relativo al “processo di gratificazione” si manifesta con un’alterata sensibilità alla ricompensa da vincita e alla perdita.

I soggetti dipendenti dal gioco d’azzardo percepiscono e apprezzano maggiormente, in termini di gratificazione prodotta, gli stimoli derivanti dal gioco d’azzardo rispetto alla popolazione normale; in questi giocatori vi è inoltre, una più rapida risoluzione della soddisfazione da ricompensa e, contemporaneamente, un’elevata riduzione della durata della soddisfazione stessa: questo spiegherebbe la successiva ricerca di nuovi e ripetuti stimoli nei giocatori d’azzardo. In più, è stato visto che i giocatori patologici mostrano livelli di dopamina maggiori già durante l’anticipazione e l’attesa della ricompensa, ma questa gratificazione è minore in caso di vincita. La perdita al gioco produce inoltre un minor abbassamento dei livelli di ricompensa rispetto ai soggetti normali che, in caso di perdita, vengono disincentivati dal gioco (Serpelloni & Rimondo, 2012). La presenza dell’allele D2A1 del gene recettore della dopamina D2 nei giocatori patologici è stato associato, pertanto, alla riduzione della densità dei recettori della dopamina e alla disfunzionalità del sistema dopaminergico  della  ricompensa,  che  porterebbe  il  soggetto  a  ricercare  attività  sempre  più stimolanti, per raggiungere il piacere desiderato (Blaszczynski & Nower, 2001; Brunori, Cippitelli, Serpelloni & Ciccocioppo, 2012 ).

Da uno studio condotto con imaging a risonanza magnetica (MRI), è emerso che, mentre giocano, i soggetti dipendenti dal gioco d’azzardo mostrano una diminuzione dell’attività della corteccia prefrontale, un’area cerebrale coinvolta nei processi decisionali e nel controllo degli impulsi: questo

sbilanciamento è la ragione per cui i giocatori problematici continuerebbero il gioco in maniera compulsiva (Brunori, Cippitelli, Serpelloni & Ciccocioppo, 2012; Shah, Potenza & Eisen, 2004). Molteplici studi,  inoltre,  hanno  registrato aumenti  della  pressione sanguigna e  incrementi nel rilascio di cortisolo durante la pratica del gioco d’azzardo (Shah, Potenza & Eisen, 2004). Altre ricerche hanno altresì evidenziato che la specializzazione emisferica nei giocatori d’azzardo è più bassa rispetto ai non giocatori e vi è anche la possibilità che il gioco d’azzardo possa essere determinato da compromissioni neurologiche prevalentemente a danno del lobo frontale (Lavanco & Varveri, 2006).

1.8.3 Fattori di rischio insiti nella struttura dei giochi

Ulteriori fattori di rischio per l’insorgenza di forme di GAP possono trascendere il soggetto e risiedere in alcuni elementi strutturali dei giochi stessi che li rendono potenzialmente pericolosi, date  le  loro  caratteristiche  di  maggiore  additività,  come  la  velocità  di  gioco,  la  velocità  di pagamento, luci, suoni e colori (Filippi & Breveglieri, 2010).

Velocità di gioco: certi giochi, come le slot machines, offrono la possibilità di giocare nel qui ed ora e non è presente un intervallo di tempo che deve necessariamente trascorrere tra una giocata e quella successiva. A ciò, si aggiunge l’immediatezza dell’esito della sessione di gioco, dato che non bisogna aspettare il giorno dell’estrazione, come nel caso del Lotto, o la fine della partita sulla quale si è scommesso. Al contrario, si conosce immediatamente il risultato della propria giocata e il momento in cui si esperisce la vincita o la perdita è tanto breve da non lasciare al giocatore il tempo di riflettere e di percepire la dimensione delle perdite che si stanno subendo: egli cerca di rimuovere l’evento negativo tramite una nuova giocata o, nel caso di vincita, decide di reinvestire il denaro in un’altra sessione di gioco. Giochi molto rapidi, dove il soggetto è sollecitato a rigiocare nell’immediato, aumentano quindi il rischio di creare dipendenza.

Velocità di pagamento: istantaneamente è possibile avere a disposizione la potenziale vincita in denaro, che viene poi spesso reinvestita in una nuova sessione. Questo processo favorisce il fenomeno della rincorsa alle perdite, che rappresenta uno degli elementi di maggior rischio per lo sviluppo di una dipendenza patologica e per lo sviluppo di conseguenze più severe legate al gioco. La rincorsa alle perdite può essere, infatti, la causa di maggiore dispendio di denaro o di furti per reperire i soldi necessari per giocare di nuovo (Lavanco, 2001).

Luci, colori e suoni: sono appositamente studiati per rilassare ed eccitare il soggetto, per invogliarlo a giocare, oltre che per creare familiarità con la slot machine. La presenza insistente delle luci e la loro rapida intermittenza, insieme a combinazioni di colori diversi, sempre molto brillanti (tra i quali prevale il rosso), fungono da seducenti attrattori. Inoltre, in tema di attrattività, è necessario sottolineare l’importanza della dimensione tattile: toccare la slot machine e schiacciarne i tasti,

sembra creare nel giocatore una familiarità con l’apparecchio, promuovendo un rapporto quasi di confidenza,   fiducia   e   di   abitudinarietà.  Prove   dell’importanza  delle   peculiarità  strutturali provengono da uno studio di Linnet svolto nel 2010: cambiamenti nelle caratteristiche riguardanti la velocità di gioco, producevano altrettanti cambiamenti nel desiderio di giocare ancora e nel tempo trascorso a giocare alle slot machines (Linnet, Thomsen, Moller & Callesen, 2010). In generale, tutti i dispositivi elettronici vengono chiamati il crack e la cocaina del mondo del gioco d’azzardo, proprio per questo loro maggiore potenziale additivo. La dipendenza dalle slot machines ha, infatti, un decorso estremamente rapido (meno di 3 anni) rispetto alla dipendenza da altri tipi di giochi (10/15 anni). Tale dipendenza non è determinata dall’entità della scommessa, quanto dall’automatismo gioco-rinforzo immediato che si crea a causa delle caratteristiche strutturali precedentemente esplorate (La Barbera, La Cascia & Sideli, 2010). E’ interessante notare come nei locali il volume degli effetti sonori emessi dagli apparecchi è decisamente basso: non a caso, solo i momenti delle vincite risultano facilmente udibili. Anche la struttura dei casinò e delle sale giochi contribuiscono allo sviluppo della dipendenza: essi sono ambienti chiusi, bui, senza finestre né orologi alle pareti; luoghi senza tempo, dove, attraverso l’abolizione di ogni riferimento esterno, scompare la percezione del tempo cronologico e del tempo naturale. Questo, insieme alla presenza di enormi spazi architettonici, conduce alla perdita di contatto con la realtà, produce un effetto di disorientamento che rende le persone più vulnerabili, deboli e maggiormente disinibite nel consumo e nel gioco (Zerbetto, 2010).

1.8.4 Fattori individuali

Le cause dell’abitudine al gioco d’azzardo riguardano non solo la storia personale del soggetto, le sue esperienze di vita ma anche le sue caratteristiche di personalità. Tra quelle più esplorate in letteratura si riscontrano la sensation seeking, il risk taking, la brama di successo, l’autostima e il locus of control (Lavanco & Varveri, 2006, 2010; Lavanco, 2001).

Con  il  termine  sensation  seeking  si  intende  la  ricerca  di  sensazioni  forti,  del  brivido, dell’eccitazione estrema: i giocatori, spinti dall’amore e dall’insaziabile desiderio di provare esperienze nuove ed eccitanti, ricorrerebbero al gioco per soddisfare queste loro esigenze. In particolare, secondo Zuckerman (1983), ciò che produce in loro forti eccitazioni, sia durante l’attesa del risultato, sia in seguito alla stimolazione della vincita, sarebbe proprio il rischio di perdere. Tuttavia, come l’autore stesso suggerisce, non tutti i giocatori d’azzardo ricercano sensazioni forti e non tutti i giochi forniscono lo stesso tipo di sensazioni. Sembra, infatti, che giochi come il Bingo o le slot machines non diano lo stesso livello di eccitazione di giochi come il poker o le corse di cavalli, che vengono scelti, adottando i criteri di classificazione di Guerreschi, dai cosiddetti “giocatori d’azione”.

Dallo studio di McDaniel e Zuckerman, risulta che la caratteristica della sensation seeking varia a seconda dei giochi considerati, confermando quanto detto sopra; sembra essere, inoltre, più accentuata nei maschi rispetto alle femmine e declina significativamente con l’aumento dell’età, raggiungendo comunque un picco intorno ai vent’anni. La sensation seeking risulta correlata anche con alti livelli di impulsività; in più, sempre in questo studio, alti livelli di sensation seeking sono correlati con il maggior interesse e con la maggiore partecipazione nelle attività di gioco d’azzardo (McDaniel & Zuckerman, 2003). Coloro che riportano punteggi elevati nell’Impulsive Sensation Seeking Scale continuano a giocare di più rispetto agli altri, nonostante l’aumento delle perdite (Zuckerman, 2005). Anche nello studio di Bonnaire et al., (2007), i giocatori patologici che scommettono agli ippodromi, si differenziano da quelli sociali in base ai livelli di sensation seeking. Tuttavia  questa  non  correla  con  il  numero  di  giochi  cui  sono  dediti  (Bonnaire, Varescon  & Bungener, 2007).

Un altro processo psicologico implicato nei meccanismi del gioco d’azzardo è l’atteggiamento verso il rischio, il cosiddetto risk taking, letteralmente “assunzione di rischio”, che si evidenzia maggiormente se c’è familiarità dell’individuo con il gioco (Mishra, Lalumière & Williams, 2010). Da  alcuni  studi,  emerge  che  i  comportamenti  di  sensation  seeking  e  risk  taking  riescono  a discriminare i giocatori problematici/patologici da quelli sociali, suddivisi in funzione dei risultati del SOGS. In modo del tutto speculare, l’evitamento del pericolo (harm avoidance), che può essere definito come la tendenza a fuggire dagli stimoli eversivi, è risultato significativamente più basso nei giocatori patologici (Lavanco & Varveri, 2006). Il gioco d’azzardo patologico è da considerarsi, secondo   alcuni   autori,   l’espressione  di   una   più   generale  propensione  al   risk   taking:   il comportamento di gambling sembra, infatti, essere associato alla propensione e una certa attitudine al rischio (Mishra, Lalumière & Williams, 2010).

Un  altro  costrutto  utile  per  spiegare il  comportamento dei  giocatori è  quello  della  brama  di successo, costrutto che trae origine dalla teoria della personalità di Murray (1938). Sembra che i soggetti con un forte bisogno di successo preferiscano scommesse dall’esito più incerto o forme di gioco d’azzardo che coinvolgano il fattore abilità (Lavanco, 2001). Il gioco d’azzardo viene a configurarsi con questi presupposti, come un’attività ludica funzionale alla soddisfazione di alcuni basilari bisogni umani (Kusyzsyn,1984).

Il livello di autostima sembrerebbe avere un ruolo determinante sul comportamento di gioco. Tuttavia, non è stato ancora chiarito se la bassa autostima sia causa della dipendenza dal gioco o sia invece una conseguenza delle ingenti perdite in campo economico, personale e sociale. La depressione e gli stati ansiosi associati al gioco problematico o patologico sembrano contribuire a impoverire proprio la stima in se stessi, oltre che danneggiare la capacità di mettere in atto strategie di coping funzionali (Lavanco & Varveri, 2006) .

Il costrutto di locus of control, introdotto nel 1960 da Rotter, si riferisce al sistema di aspettative e credenze di una persona circa il controllo della propria vita, cioè il grado in cui gli individui credono  di  poter  esercitare  un  controllo  sulle  azioni  e  sugli  eventi  della  vita  (Meyer  de Standelhofen, Aufrère, Besson, & Rossier, 2008).

I risultati derivanti dagli studi sul locus of control dei giocatori patologici, tuttavia, non sono unanimi: a fronte di studi che rilevano una correlazione con un locus of control interno, ce ne sono altri in letteratura che documentano, al contrario, un’associazione con quello esterno (Lavanco,

2001; Zhou, Tang, Sun, Huang, Rao, Liang et al., 2012). Questi risultati indicano che, né il locus of control interno né quello esterno, possono interamente spiegare il comportamento disfunzionale di gioco (Zhou, Tang, Sun, Huang, Rao, Liang et al., 2012). Una spiegazione a queste conclusioni divergenti, chiamerebbe in causa le diverse tipologie di gioco d’azzardo: i giochi di fortuna attirerebbero gli esterni, mentre i giochi di abilità sembrerebbero aver maggior successo tra gli interni. Tuttavia, sia gli “esterni” che gli “interni” cercano di controllare la situazione di gioco, ma questa percezione illusoria è maggiore tra gli interni, dal momento che il soggetto con questa tendenza attribuzionale preferisce credere che l’esito del gioco sia governato dalla sua abilità, anche quando, invece, è governato dal caso (Lavanco, 2001). Le strategie utilizzate dai due gruppi per esercitare il controllo sono sostanzialmente diverse: mentre gli esterni mostrano un approccio attivo alla situazione, gli interni attuano una modalità di controllo di tipo passivo. I primi, infatti, credono che loro stessi sono in grado di scegliere dei numeri che con maggiore probabilità usciranno in una lotteria; negli interni, invece, l’illusione di controllo si manifesta nel ritenere che il biglietto che è stato loro assegnato ha più probabilità di essere estratto (Cowley, Farrell & Edwardson, 2006).

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L’elemento soggettivo del reato

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di Emanuele Mascolo

… Rubrica di Giurisprudenza

26 ottobre 2014

1) Coscienza e volontà.
2) Affinchè si possa sostenere che un soggetto ha commesso reato è nedcessario valutare se avesse la volontà di compiere quell’azione e di assumere una determinata condotta.
3) Ciò evidenzia anche una conquista civica dell’uomo anche dal punto di vista giuridico poichè prima era sufficiente connettere la causalità tra azione ed evento per procedere con la punizione.
4) L’elemento della volontà connessa al fatto è anche detto elemento soggettivo o psicologico del reato.
5) L’art. 43 del codice penale recita: ” il delitto: è doloso, o secondo l’intenzione, quando l’evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell’azione od omissione e da cui la legge fa dipendere l’esistenza del delitto, è dall’agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione; è preterintenzionale, o oltre l’intenzione, quando dall’azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dall’agente;è colposo, o contro l’intenzione quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline.
La distinzione tra reato doloso e reato colposo, stabilita da questo articolo per i delitti, si applica altresì alle contravvenzioni, ogni qualvolta per queste la legge penale faccia dipendere da tale distinzione un qualsiasi effetto giuridico.”
6) Nel corso degli anni si è svolto un òlungo dibattito dottrinale che ha portato allo sviluppo di delle teorie: dell’intenzione, secondo cui la volontà è l’intenzione di cagionare l’evento, mentre, per la teroria della rappresentazione della volontà, la volontà va cercata nella previsione dell’evento.
7) E’ utile richiamare il dispositivo dell’articolo 42, codice penale, comma 1 secondo cui, ” nessuno può essere punito per un’azione […] se non l’ha commessa con coscienza e volontà.”
8) La domanda che si è posta la dottrina è, come deve intendersi la coscienza e volontà?
9) In generale si considera sufficiente la volontarietà dell’atto1, in un certo senso si ritiene sufficiente il semplice impulso volontario.
10) Dal punto di vista psicologico, questa teoria non trova fondamento perchè si è dimostrato come non tutte le azioni, seppur le più lucide possibile, corrispondano alla concreta volontà di compierle e viceversa, possono esserci atti che per volontà si vogliono portare a termine ma che, per la stressa forza di volonta o per impulso, vengono frenate.
11) Il dolo.
12) L’articolo 43 del codice penale esordisce con il dire “ è doloso“, quindi ora cerchiamo di capire in maniera generica e semplice cos’è il dolo.
13) La forma tipica della volontà colpevole è definita dolo2, ne consegue, che l’azione costitutiva del fatto di reato deve essere sia preveduta che voluta.
14) La dottrina ha ampiamente discusso se far rientrare tra gli elementi costitutivi del reato anche la conoscenza dell’agente, del disvalore del fatto, dell’antigiuridicità, finchè non è intervenuta la Sentenza della Corte Costituzionale numero 364/1988, la quale interpretando l’articolo 27 della Costituzione, comma 1, secondo cui, ” la responsabilità penale è personale“, ha rimarcato il principio di colpevolezza a fondamento della responsabiliotà penale, il che, ” postula almeno la colpa dell’agente in relazione agli elementi più significativi della fattispecie tipica” e ne limita la responsabilità penale solo ” all’oggettiva impossibilità di conoscenza del precetto.”

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1 Antolisei, ” La volontà nel reato“, in Riv. Pen., 1932, 233.
2 Thodt, ” La nozione del dolo nella letteratura giuridico-penale straniera con riferimento al nuovo c.p.it.” in Nuova Legisl. Ital.,1932, 141.

Culture mediterranee e dimensione donna: alcune (personali) considerazioni sul tema delicato della violenza

di Vinicio Serino            17 ottobre 2014

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Immagine2Metodologia

Con questo intervento, ispirandomi anche a posizioni della antropologia funzionalista (cfr. i lavori di E. Leacock), cercherò di sfatare ovvero ridimensionare un mito: quello della “marginalità femminile” e quindi del presunto, ridotto o addirittura inesistente “potere” della donna nell’ambito delle passate culture mediterranee.
Paradossalmente, come d’altra parte avviene spesso nel corso della storia, la violenza esercitata ha, in qualche modo, funzionato da “levatrice” di “aliquid novi” che, nei caso specifici qui sotto riportati, anziché “schiacciare” il soggetto colpito ha prodotto l’effetto opposto. Dando luogo a quello che potrebbe essere definito modello culturale ad effetto inverso … Storie di donne che la violenza non ha affatto annientato ma che, anzi, ha contribuito ad innalzare al rango di modelli ideali, forti, condivisi seppure alternativi, ispirativi di comportamenti altrui, spesso divenuti, nel tempo, dominanti.
La Grande Madre, la generante
“Nell’Europa del Neolitico e in Asia Minore … nell’arco di tempo tra il 7000 ed il 3000 a. C.”, sostiene l’antropologa lituana M. Gimbutas, “ la devozione religiosa si rivolgeva alla ruota della vita e alla sua ciclica rotazione … il punto focale della religione comprendeva nascita, nutrimento, crescita, morte e rigenerazione, parallelamente alla coltivazione delle messi e all’allevamento degli animali. I popoli di questa era ritenevano imponderabili le forze naturali … e adoravano molte dee, o forse una sola dea in molte forme. La dea manifestava le sue innumerevoli forme attraverso varie fasi cicliche che vigilavano sul buon andamento di ogni cosa …” (Gimbutas, 2005).La donna, non l’uomo, era l’asse portante di questa società. Ma poi altri popoli, popoli guerrieri, imposero, secondo la Gimbutas, un nuovo ordine, quello della supremazia del maschio: non più, allora, maternità ma paternità; non più generazione, ma distruzione; non più amore ma violenza …
Penelope, la fedele ed astuta tessitrice
Penelope rappresenta bene l’idea di donna del mondo omerico. “… la saggia Penelope”, “donna bellissima” tra i pretendenti, straziata dal canto di Femio, che intona la storia (penosa) del ritorno degli Achei da Troia … Essa è il simbolo stesso della fedeltà coniugale. Ma nell’immaginario collettivo, per via della celebre tela, è diventata anche il simbolo della astuzia femminile, in grado di tener testa efficacemente ai maschi, opponendo la sua intelligenza costruttiva alla forza sciocca e brutale. “Allora di giorno la gran tela tesseva/ e la sfaceva la notte, con le fiaccole accanto … “ Così l’ha immortalata Omero nella sua Odissea.

Cornelia, l’educatrice
Haec ornamenta mea”: questi sono i miei gioielli, è la frase attribuita alla matrona romana figlia di Publio Cornelio Scipione l’Africano, il vincitore di Annibale, sposa del Tribuno della plebe Tiberio Sempronio Gracco e madre dei due tribuni della plebe, grandi riformatori della Repubblica romana, Tiberio e Gaio Sempronio Gracco. Tacito seppe cogliere bene , nel suo “Dialogus de oratoribus, la grandezza di questa donna che nel suo seno e nel suo grembo aveva educato quei due figli a grandi ideali, spingendoli coraggiosamente a riformare la società romana, anche al costo della propria vita.
Maria di Nazareth, Virgo et Mater
La Madonna dei cristiani, personaggio, come è noto, molto amato anche dalla cultura islamica – non ultimo per la pia tradizione che la vuole soggiornare, nella fase finale della sua vita terrena in Efeso, insieme con l’evangelista Giovanni – è, da due millenni, il simbolo mediterraneo della dolcezza dell’amore materno. Un amore che si coglie sempre, in ogni momento della sua esistenza, ma soprattutto nella struggente sofferenza subita durante la passione del figlio. Mater dolorosa et lacrimosa, sed semper suavis et dulcissima … Senza essere irriverente Maria rappresenta una sorta di “continuum” ideale con le storie narrate dalle antiche mitologie mediterranee della Grande Madre generante di ogni forma di vita …

Ipazia, la martire pagana
“ Quando ti vedo mi prostro davanti a te e alle tue parole, vedendo la casa astrale della Vergine,
infatti verso il cielo è rivolto ogni tuo atto Ipazia sacra, bellezza delle parole, astro incontaminato della sapiente cultura.”
Così canta, in uno dei suoi Epigrammi, il poeta Pallada di Alessandria (IV-V secolo d.C.) a proposito di Ipazia (da Upatos, il più elevato?), figlia del matematico alessandrino Teone, matematica ed astronoma lei stessa, nonché, capo della celebre Scuola Alessandrina, centro della ricerca medica e ascientifica, dal 393 dell’e.v. Perché, allora fu uccisa e fatta a pezzi da monaci Cristiani nel 415? Perché coltivava ancora il culto degli antichi dei? O perché, con la sua “tanta cultura”, rappresentava un (pericoloso) modello alternativo di donna?

Teodora, la politica
“… Non appena giunse all’adolescenza e fu matura, entrò nel novero delle attrici e divenne subito cortigiana, del tipo che gli antichi chiamavano ‘la truppa’. Non sapeva suonare flauto né arpa, né mai s’era provata nella danza; a chi capitava, ella poteva offrire solo la sua bellezza, prodigandosi con l’intero suo corpo.” In modo malevolo Procopio di Cesarea, storico della Corte Imperiale ed esponente della potente consorteria del Senato, illustra la giovinezza di Teodora (500- 548 e. v.) , destinata a diventare moglie e (ascoltata) consigliera dell’Imperatore Giustiniano … Fu lei che contribuì, in maniera decisiva, con la sua determinazione e con le sue arti di grande mediatrice, a mantenere l’unità dell’Impero in un’epoca di formidabili tensioni religiose.

Fatima, la madre dei Califfi
Fātima bint Muhammad, Fātima al-Zahrā, (Fātima la Luminosa) (Mecca 605, Mecca 633) fu la quarta e ultima figlia di Maometto. Sposò Alī ibn Abī Tālib cugino del profeta e quarto califfo “ortodosso“, nonchè primo imam per lo Sciismo. Fatima fu la sola, tra le figlie di Maometto, a generare una discendenza, con al-Hasan ibn Alī e al-Husayn ibn Alī.
In vita subì molti torti, come l’ affronto – mancato per l’intervento di Maometto – di un’altra moglie per suo marito Alī ibn Abī Ṭālib Alī.. Dovette anche affrontare l’opposizione del califfo Abū Bakr, per altro amico di Maometto, contrario a che lei, la figlia del Profeta,che incamerasse alcuni dei beni acquisiti dal padre nella prima fase della espansione islamica.
Fatima, colei che allatta, che dà il nutrimento, rimane una sorta di icona esemplare della sofferenza e della rassegnazione, elevata, da questo punto di vista, ad esempio della straordinaria fortezza d’animo del giusto: una (tranquilla) fortezza al femminile …
Sherazade, l’intrattenitrice
La vicenda dell’origine de “Le mille e una notte” è nota: ogni notte la bella Sherazade, andata sposa al re Shāhrīyār, lo intrattiene con una storia. In questo modo evita la morte perchè il sovrano, per vendicarsi del tradimento di una delle mogli, è uso uccidere sistematicamente le sue spose al termine della prima notte di nozze. Per mille e una notte Sherazade riuscirà nel suo intento, fino a quando il re, innamoratosi di lei, recederà dal suo insano proposito. Come in Penelope, sua ideale progenitrice, l’inventiva, la creatività, ma anche la pazienza, virtù molto comuni tra le donne, premiano. E salvano, la vita …

Beatrice, la Fede secondo Dante
Della Beatrice dantesca non si sa praticamente nulla. Se davvero non è ancora possibile identificarla con certezza con la figlia del banchiere fiorentino Folco Portinari e la sposa bambina di Simone de’ Bardi, a sua volta rampollo di una famiglia di grandi banchieri , è comunque fuori di ogni dubbio che seppe incidere, in maniera indelebile, sulla poesia e, soprattutto, sulla architettura filosofica di Dante. Dio è amore, ci dice appunto Dante, attraverso Beatrice : e per comprendere la natura di questo amore è necessario l’abbandono totale delle cose di questo mondo. Delle sue convenzioni, delle sue banalità, dei suoi pregiudizi, della sua vanagloria. Beatrice è la Fede, quella autentica, che innalza l’essere davvero libero alle vette del divino … Dagli occhi della mia donna si move / Un lume si gentil, / che dove appare / Si veggion cose ch’uom non può ritrare / Per loro altezza e per loro esser nuove … dice di lei Dante ne Le Rime. Quel lume è, appunto, la fede, come sapeva l’iconologo Cesare Ripa che rappresenta la prima delle virtù teologali con una donna recante nella mano destra una candela accesa, posta alla sommità di un cuore.
Caterina, l’innamorata di Cristo
“In altro non sta la pena nostra, se non in volere quello che non si può avere. “ “Nella amaritudine gusterai la dolcezza, e nella guerra la pace”. Sono due tra le affermazioni più significative della santa senese, poi diventata dottore della Chiesa romana e Patrona d’Italia e d’Europa.Una innamorata di Cristo che avrebbe, pesantemente, inciso sul grande corso della Storia degli uomini, convincendo il Papa a ritornare a Roma, dopo il tempo di Avignone … Ci riuscì con un “santo inganno” che servì a restituire il Pontefice alla sua domus naturale, la Sedes Petri romana.

Giovanna, la vergine guerriera
Vissuta in un periodo di immensi travagli – tra il 1412 ed il 1431 – indotta dalle voce di San Michele, di S. Caterina e di S. Margherita, Giovanna d’Arco, la Pulzella d’Orleans, si consacrò a Dio, facendo voto di castità. Quelle stesse voci le ingiunsero di correre in soccorso del delfino di Francia, Carlo, in guerra con gli inglesi ed i loro alleati borgognoni. In un clima di violenza, non sottostò alla violenza, ma impose alle sue truppe un modello di tipo monastico – forse ispirato a quello dei cavalieri Templari ? – vietando ogni saccheggio e prevaricazione; imponendo la preghiera quotidiana e la confessione; obbligando a mantenere con la popolazione civile un rapporto di collaborazione e non di rapina, come era consuetudine negli eserciti del tempo. Secondo i suoi persecutori per avere salva la vita non avrebbe dovuto riprendere le armi; né portare i capelli corti, come gli uomini ; né indossare vesti maschili. Ma lei rifiutò: e le fiamme del rogo la avvolsero, dopo essere stata riconosciuta come eretica, ad appena diciannove anni.

Artemisia, l’emancipatrice
Chiudo queste mie riflessioni con il caso di Artemisia Gentileschi, figlia ed allieva di Orazio, pittore caravaggesco presso cui condusse il proprio apprendistato. Era l’unico modo per imparare ed esercitare l’arte, essendo impedito, all’epoca, alle donne di svolgere lavori fuori della propria sfera domestica e tali da assegnar loro un qualche ruolo sociale. Salvo quello della cortigiana e/o della prostituta … Era stata troppo in anticipo sui tempi per poter presentarsi come un modello di riferimento per le donne della sua epoca: anche per questo – non solo per la sua avvenenza – fu stuprata dal pittore Agostino Tassi … E forse si vendicò idealmente con il suo “Giuditta uccide Oloferne” dove il volto del generale nemico degli ebrei sembrerebbe riprodurre proprio quello del suo violentatore …

Uno zodiaco al femminile
Ho giocato. Ma solo per raccogliere, da questo personale florilegio delle culture mediterranee, dodici fiori che simboleggiano altrettante peculiarità della condizione femminile. Ossia:
La maternità naturale, propria della Grande Madre;
L’astuzia “positiva”, propria della fedele Penelope;
La capacità educativa, propria della romana Cornelia,
La disponibilità al sacrificio di sé, propria di Maria, Vergine e Madre;
La libertà di affermare posizioni anche scomode e pericolose, propria di Ipazia, la martire pagana;
L’intelligenza politica , propria di Teodora imperatrice;
La forza d’animo, propria di Fatima, diletta figlia del Profeta;
L’inventiva creativa, propria di Sherazade, la giovane intrattenitrice;
L’abbandono di se, proprio della Beatrice dantesca;
La forza persuasiva, propria di Caterina, la mistica di Siena;
Il coraggio cavalleresco, proprio di Giovanna, vergine guerriera;
La propensione emancipatrice, propria di Artemisia, la dipintora.
– Uno zodiaco fatto di dodici, straordinarie gemme …

In fine
Che la bellezza irradi e compia i nostri lavori … Bellezza è donna …

BIBLIOGRAFIA
D. Alighieri, Rime, Note di Gustavo Rodolfo Ceriello, Milano 1952;
La Bibbia di Gerusalemme, Bologna 2009;
F. Cardini, Giovanna d’Arco, Milano 1999;
R. Contini e G. Papi ( a cura di), Artemisia, Roma, 1991;
F. Gabriel ( a cura di ), Le mille e una notte, Torino 1964;
M. Gimbutas, Le dee viventi, Milano 2005;
E. Leacock, Women’s Status in Egalitarian Society: Implications for Social Evolution, in Current Anthropology, vol. 33, no. 1, supp. Inquiry and Debate in the Human Sciences: Contributions from Current Anthropology, 1960–1990 (Feb., 1992 (ISSN 00113204 & E-ISSN 15375382)), p. 225 ff. (essay originally appeared in Current Anthropology, vol. 19, no. 2 (Jun., 1978),
P. Misciattelli, Lettere di S. Caterina da Siena, Firenze 1939;
Omero, Odissea, nella versione di Rosa Calzecchi Onesti, Torino 1963;
F. M. Pontani ( a cura di), Antologia Palatina, Libro IX, Torino 1979;
Procopio di Cesarea, Storie Segrete, a cura di F. Conca e P. Cesaretti, Milano 1996;
C. Ripa, Iconologia, a cura di Piero Buscaroli, Milano 1992;
Muhammad ibn Jarīr al-Tabarī, History of the Prophets and Kings, V.2, Albany, NY, 1987-1996;
P. Cornelio Tacito, Dialogus de oratoribus, Napoli 2009.

La funzione terapeutica della fiaba tra Archetipi e Miti-II parte

di Linda Gargelli            11 ottobre 2014

leggi in pdf La funzione terapeutica della fiaba – L. Gargelli – II^ parte

ImmagineInutile e alquanto superficiale illudersi che i nostri bambini vivano esclusivamente nell’eterna spensieratezza, immersi in una realtà ludica del tutto priva di esperienze emotive negative come angoscia, tristezza e preoccupazione. In realtà, dietro l’apparente gaiezza di un sorriso possono celarsi importanti preoccupazioni e pressanti tempeste emotive, con la differenza che l’adulto riesce meglio ad esteriorizzare i propri patemi, mentre il bambino non riesce a dare un nome a ciò che lo affligge, andando spesso incontro alla rimozione. Per rimozione si intende quel processo psicoanalitico attraverso il quale si esclude dalla coscienza determinate rappresentazioni connesse a una pulsione il cui soddisfacimento sarebbe in contrasto con le altre esigenze psichiche.
La rimozione genera angoscia e può, soprattutto nei bambini, in comportamenti difficili e di sfida o in veri e propri sintomi nevrotici, come enuresi notturna, incontinenza fecale, iperattività, bullismo, fobie, ansia di separazione, ecc.
Proprio come il cibo, alcune emozioni necessitano di essere digerite e metabolizzate. Se ciò non avviene, il carico energetico associato a tali emozioni, troppo difficili o troppo forti da gestire, non si estingue da solo, ma rimane bloccato dentro di noi.
Come disse anche Freud riguardo alla rimozione e all’inconscio: “le emozioni proliferano [lì] nel buio” (Freud, 1917, p.54); così l’angoscia emotiva repressa sfocia sotto forma di sintomi nevrotici.
Il problema come fa notare la Sunderland è che il bambino non possiede le risorse per regolare il proprio livello interno di eccitazione emotiva e da qui l’idea centrale di utilizzare e servirsi delle storie, per aiutare il fanciullo a gestire il carico emotivo.
Una storia, secondo la Sunderland, assume connotazioni terapeutiche quando aiuta il bambino a parlare delle proprie emozioni influendo positivamente sulla sua personalità e facilitando la crescita psicologica. Ma se è vero che i bambini hanno bisogno di aiuto per venire a capo dei loro stati emotivi, qual è il ruolo della fiaba in tutto questo? Per la Sunderland è proprio qui che risiede la radice del problema: i bambini non parlano facilmente delle proprie emozioni, poiché il linguaggio di tutti i giorni non corrisponde al linguaggio naturale con il quale esperiscono le proprie emozioni.
Il linguaggio naturale delle emozioni è fatto di immagini e di metafore, proprio come quello di cui si sostanziano le fiabe. Per questo “prendendo in prestito” motivi fiabeschi conosciuti o costruendone di nuovi si può entrare in sintonia con le trame interiori del bambino. Inoltre le comuni denominazioni dei sentimenti tendono a livellare e ad appiattire quello che il bambino sta sperimentando, mutandolo in qualcosa per lui di estraneo e lontano. James Hillman , psicoanalista di matrice junghiana, sottolinea che
“l’anima desidera risposte immaginative che la muovano, la delizino, la sprofondino”(Hillman,1983, p.38), così intendendo che l’adulto in cerca di una sintonia con i motivi inconsci del fanciullo deve familiarizzare con la base poetica della propria mente: “la mente è fondata sulla sua stessa attività narrativa, nel suo fare fantasia. Questo fare è poiesis. Conoscere la profondità della mente significa conoscere le sue immagini, ascoltare le storie con un’attenzione poetica, che colga in un solo atto intuitivo le due nature degli eventi psichici, quello terapeutico e quello estatico” (ibidem, p.61). Una storia terapeutica può quindi rendere il bambino capace di ascoltare, vedere, sapere e sentire con più chiarezza e, allo stesso tempo, offrire all’adulto la possibilità di sviluppare un’empatia più profonda di quanto sarebbe possibile con parole letterali. Le fiabe, inoltre, con il loro specifico codice emotivo, creano spazi di introspezione e tempi di riflessione più consoni alle modalità di apprendimento del bambino rispetto alle consuetudinarie situazioni in cui l’adulto si impone con consigli rigidi e diretti, spesso ignorati, evitati e rigettati. Il bambino, con il supporto delle immagini metaforiche contenute nella storia, è in grado di osservare i propri sentimenti da una distanza di sicurezza che gli permette di non affogare nel mare tempestoso del suo inconscio. Un’altra caratteristica peculiare delle storie con finalità terapeutiche è, come scrive la Sunderland, “avere il diritto di dire di no o mi dai fastidio, poter essere diverso, poter cambiare il modo in cui ci si sente, poter liberare l’ansia, ecc.” (Sunderland, 2000, p. 28).
Il racconto di fiabe può essere utile per rielaborare non solo emozioni complesse, ma anche veri e propri traumi. Quando le emozioni relative a un trauma sono orribili e spaventose vengono relegate nell’inconscio, ma è proprio in questo luogo che diventano ancor più dannose, poiché assillano la mente e plasmano indirettamente il comportamento dell’individuo. Se un bambino traumatizzato non racconta la storia del suo dramma, può continuare a viverlo in modo inconscio, attraverso un comportamento difficile o estremo. Possiamo dire che un trauma non è ciò che è accaduto ma il modo in cui vediamo ciò che è accaduto. La costruzione o la lettura di una fiaba offre l’opportunità di storicizzare i fatti accaduti, dare un nuovo nome al dolore ridefinendone i suoi confini. In questo modo è possibile depotenziare il ricordo traumatico, rivivendolo attraverso l’identificazione con i personaggi fiabeschi e metabolizzandolo consciamente. Un trauma per poter essere superato non va rilegato nelle cantine dell’inconscio, ma va attraversato e la fiaba offre la possibilità di fare ciò: è come un piccolo lume che, se portato nel buio più profondo, riesce ad illuminare e schiarire tutto ciò che c’è intorno in modo da permetterci di esplorare i lati più oscuri del nostro essere. La ricerca in questo ambito mostra come, nell’agire alcuni tratti dell’evento traumatico, il bambino che l’ha subito può assumere sia la parte del persecutore sia la parte della vittima. Molti bulli da cortile spesso sono stati loro stessi vittima di bullismo. L’esito è davvero triste, poiché il trauma viene ripetuto in maniera compulsiva e automatica, tramite la coazione a ripetere senza essere pienamente sentito o vissuto consciamente. Ma se i bambini hanno l’opportunità di mettere in scena le vicende che sostanziano il loro trauma e mostrarle a qualcuno che li ascolti e li aiuti a elaborare le emozioni ad esso associate, non avranno bisogno di continuare ad agire parti della storia traumatica in modo antisociale ed estremo.

Come il terapeuta può ideare e raccontare una storia terapeutica.

La costruzione di una storia terapeutica ha come finalità quella di parlare con empatia e precisione della questione emotiva o del problema che sta tormentando il bambino, attraverso immagini espressive ed evocative che possono abbracciare l’intero dipinto, ovvero la realtà più profonda dell’esperienza emotiva di un bambino. Per individuare il nucleo problematico del fanciullo dobbiamo cercare di rintracciarlo nei suoi giochi, nei suoi sogni, nei suoi sintomi nevrotici e nei comportamenti estremi. Possibili situazioni problematiche potrebbero essere: sentirsi solo, sentirsi escluso, sentirsi impotente, sentirsi in trappola, ecc. Fondamentale è ideare un personaggio con il quale il bambino possa identificarsi, compiendo in questo modo lo stesso viaggio del protagonista, patendo delle sue sconfitte e angosciandosi delle sue eventuali prove da superare, ma mantenendo anche lo stesso suo coraggio per andare avanti.
Per identificazione si intende quel meccanismo psicologico con cui un soggetto assimila un aspetto, una proprietà, un attributo di un’altra persona e si trasforma parzialmente o totalmente nel modello di quest’ultima. Se non c’è identificazione con il personaggio fiabesco non c’è azione terapeutica. Per favorire l’identificazione è consigliabile creare un personaggio con gli stessi affanni e tensioni emotive del bambino. Ad esempio, se il bambino si sente escluso e solo, il personaggio fiabesco dovrà contenere tratti di esclusione e di solitudine. Questi primi passaggi sono molto delicati perché richiedono al terapeuta di trasferire la situazione ansiogena provata dal bambino nel luogo e nel tempo lontano e sospeso delle fiabe, modellando un contesto metaforico che possa accogliere i conflitti e i disagi del fanciullo, che trovano corrispondenza nel mondo reale. Se, ad esempio, si individua nel bambino un problema di enuresi notturna, in seguito al quale il piccolo si sente pieno di vergogna, la possibilità di portare il tema in un contesto fantastico, che potrebbe essere rappresentato da un porcospino nella foresta che fa continuamente la pipì senza accorgersene, potrebbe fornire la protezione dal disgusto attraverso un’espressione indiretta.
Ma quali sono le immagini metaforiche che possiamo inserire nel racconto e che possono essere il più possibile evocatrici delle sofferenza del bambino? Nella tabella sottostante sono riportati alcuni scenari reali che, secondo la Sunderland, potrebbero divenire immagini metaforiche da inserire nella storia terapeutica, per dar voce in maniera indiretta al disagio del bambino.

Figura n° 1. Situazione interiore e corrispondente immagine simbolica.

La funzione terapeutica della fiaba - L. Gargelli - TABELLA

 

 

 

 

 

Il passaggio successivo e centrale per attribuire alla fiaba il potere terapeutico è quello di mostrare con calma e senza correre il percorso dal momento critico alla soluzione della crisi, creando un ponte tra i due mondi rappresentato dal range delle possibili soluzioni, che permetta al bambino di non affogare e farsi trascinare dalle correnti delle sue emozioni, ma di osservare dall’alto e da una situazione di sicurezza le possibili opzioni. Fondamentale è mostrare il protagonista mentre affronta il problema, usando delle strategie simili a quelle del bambino ed evidenziando come questo modo di affrontare il problema lo conduca in acque agitate o in un vicolo cieco con risultati distruttivi. La trama della fiaba terapeutica in questo momento deve mostrare l’errore fatale che quella modalità di reazione al problema porta il protagonista a sperimentare nella sua vita una sorta di crisi, interiore o esteriore. Dopo la crisi (da crisis = scelta), avviene il cambiamento, una sorta di lisi dalla quale il protagonista viene fuori da vincitore e rin-sanato. Questa è la parte più viva, perché suggerisce al protagonista, e indirettamente al bambino, la soluzione, la nuova rotta da prendere, il meccanismo più maturo da acquisire. La storia mira alla trasformazione dell’individuo, chiaramente visibile nel finale. Basti pensare alle fiabe classiche dove il brutto anatroccolo si trasforma in cigno, il burattino pinocchio in bambino o Cenerentola in principessa. Possiamo quindi concludere che la struttura della fiaba terapeutica si compone di tre parti: la prima, in cui viene riportato il luogo, il tempo e i personaggi principali (il contesto di vita del bambino); la seconda, dedicata alla crisi, momento culminante in cui il soggetto si trova di fronte ad eventi catastrofici ed apocalittici che possono distruggerlo (manifestazione esteriore delle problematiche che assalgono il bambino); l’ultima, caratterizzata dalla trasformazione del protagonista (potenziare e progettare nuove strategie di resilienza e offrire meccanismi difensivi più maturi). Vladimir Propp che ha analizzato in Morfologia della Fiaba (1928) migliaia di fiabe provenienti da quasi tutto il mondo, ha individuato gli elementi comuni e principali che dovrebbero essere contenuti all’interno delle storie, e quindi anche all’interno delle nostre fiabe terapeutiche. Questi elementi universali e trans-culturali sono: l’ indeterminatezza spaziale e temporale (C’era una volta tanto tempo fa, in un paese lontano lontano..), l’allontanamento dal luogo d’ origine (la povertà che spinge i personaggi ad allontanarsi, la fuga dal cattivo, le focacce da portare alla nonna, ecc, il tranello (il lupo, la fonte stregata, ecc,) con il superamento della prova supportato molto spesso da un aiutante e il lieto fine, dopo una serie di peripezie/imprese che l’eroe ha dovuto superare. Riassumendo il pensiero di Margot Sunderland, una storia per avere degli effetti terapeutici deve: offrire delle opzioni alternative al comportamento da tenere di fronte ad un possibile ostacolo, offrire nuove possibilità e soluzioni creative per fronteggiare e superare problemi apparentemente insormontabili, mostrare come trattare in modo più efficace e molto meno doloroso i più comuni problemi emotivi e infine offrire opzioni per un nuovo modo di essere.
Qui di seguito riporterò una storia terapeutica ideata da Margot Sunderland per un suo piccolo paziente fortemente traumatizzato per essere stato picchiato dal padre, così tanto da essere inserito in un istituto. Lì, malgrado si fosse fatto dei buoni amici, subiva azioni di bullismo dagli altri ragazzi, perché era ancora troppo fragile e vulnerabile.
La storia di Minuscolino nella Foresta Spaventosa.
Minuscolino era un pulcino che un giorno si trovò, invece che nella fattoria, nell’orribile sottobosco di una foresta. Improvvisamente, una scimmia gli ruggì contro e lui si raggomitolò e rimpicciolì fino a diventare una pallina. Camminò ancora un po’, ma poi le foglie scricchiolarono in modo sinistro e lui si sentì ancora più piccolo. E poi un gufo fischiò forte e lui si sentiva sempre più piccolo e poi Minuscolino vedeva che la foresta era enorme, più si sentiva minuscolo. Dopo che tutti i tipi di creature delle foresta gli ebbero ringhiato addosso, gridato in faccia, dopo che ebbero sogghignato o strillato, lui si sentì più piccolo di un corpuscolo. E siccome si sentiva un corpuscolo, il più piccolo degli insetti che viveva nella giungla voleva mangiarselo. Così minuscolino cominciò a scappare a tutta velocità e si nascose. E mentre era li nascosto pensò che voleva arrendersi. “Che senso ha vivere in un mondo tropo grande?”, pensò. E proprio in quel momento passo di lì volando un uccello con delle piume bellissime. “Ehi, ti ho visto nascosto laggiù”, gli disse.“Perché non vieni fuori di lì e non ti bevi una tazza di tè con me?” Minuscolino rispose che non poteva. “Il mondo fuori dal mio nascondiglio fa troppa paura.” “Figurati”, disse l’uccello, “Se stiamo assieme non fa per niente paura. E’ vero che fare da soli, cose coraggiose, può fare troppa paura, puoi sentirti molto solo; ma insieme può essere divertente e interessante. E, pensa un po’, qui c’è anche il mio amico Porcospino!”. E così Minuscolino, Porcospino e l’uccello meraviglioso andarono tutti insieme a casa dell’uccello meraviglioso a bere una tazza di tè. E quando per la strada incontrarono dei fastidiosi insetti, gridarono forti e tutti assieme “Buh”, e così gli insetti non li disturbarono più. E quando i gufi fischiarono forte, l’uccello meraviglioso, Minuscolino e Porcospino risposero fischiando, cosi’ i gufi dissero: “Va bene, allora andremo a fischiare da un’ altra parte”. Minuscolino non si era mai sentito bene in tutta la sua vita. Sentiva dentro di sé un bel calduccio e i tre amici, insieme, passarono proprio un bel pomeriggio a bere il tè. Dopo quel giorno che tutte le volte che Minuscolino sentiva che stava per rimpicciolirsi diventare piccolo piccolo pensava: “Ops è il momento di chiedere aiuto ad un amico” e così faceva. Non si dimenticò mai di come si stava bene insieme agli altri, e quanto invece da soli ci si sentisse terribilmente abbandonati e spaventati, e come il mondo sembrasse un posto orribile dove vivere. E cosi’ da quel giorno in poi, la vita di Minuscolino, diventò una vita molto più bella da vivere.
L’autrice in prima istanza ha individuato il nucleo problematico del bambino: l’intensa paura che tutti gli altri possano fargli del male come il padre e la forte ondata di impotenza che ne consegue. Ecco che la Sunderland crea il personaggio di Minuscolino, che ricalca fedelmente le caratteristiche del fanciullo, favorendone così l’identificazione: un pulcino spaventato e solo, che si sente così piccolo e impotente da preferire di diventare così minuscolo da essere quasi invisibile. L’invisibilità di Minuscolino sembra fornirgli un senso di protezione: se mi rendo impercettibile nessuno mi vedrà e mi farà del male. Questa è anche la strategia difensiva che il bambino metteva in atto con i compagni dell’istituto. La foresta spaventosa è il contesto metaforico che simboleggia l’istituto in cui egli vive e i numerosi animali che tentano ripetutamente di aggredirlo sono rappresentativi dei ragazzi che mettevano in atto azioni di bullismo, approfittando della sua vulnerabilità. La Sunderland mostra al suo piccolo paziente, tramite questa storia cucita appositamente per lui, che il meccanismo che egli utilizza per fronteggiare la situazione in realtà lo rende ancora più triste e solo: scappare o nascondersi non lo rende certo più felice. Il momento critico viene rappresentato dalla voglia di arrendersi di Minuscolino seguito immediatamente dalla possibilità di una nuova soluzione, rappresentata dalla comparsa del bellissimo uccello che lo invita ad unirsi a lui invece di continuare a nascondersi. Ecco che la Sunderland mostra con chiarezza la nuova opzione che Minuscolino (il bambino) potrebbe adottare: gli altri non sono tutti perfidi e malefici, ci sono persone disposte anche ad esserti amiche e che è proprio da questi legami che si può diventare forti e sicuri, impedendo agli altri di approfittarsi di noi.
Prima di cimentarsi nel racconto di una fiaba terapeutica è importante accertarsi che il bambino sia aperto e recettivo. Sarebbe opportuno creare sia all’interno dell’ambiente scolastico sia all’interno dell’ambito familiare uno spazio nell’arco della giornata adibito al racconto delle storie, in modo che il bambino associ questi luoghi a momenti in cui si sente compreso e rassicurato dalla calda sensazione di calma e tranquillità di chi interagisce con strumenti per lui naturali e alla sua portata, come la fiaba. Per captare la sua attenzione dobbiamo usare una lettura attiva, enfatizzando parole, mantenendo il contatto visivo e supportandosi anche con la gestualità, in modo da coinvolgerlo e favorire l’ identificazione con il personaggio. Ovviamente una lettura piatta e monotona, priva di ritmo e con la stessa tonalità dall’inizio alla fine, potrebbe essere utile per conciliare il sonno, ma non lavorerebbe certo nelle complesse vicende interiori del nostro piccolo ascoltatore. Importante è poi non aver fretta: bisogna lasciare il tempo che il bambino assimili le vicende dei personaggi imbevendole dei suoi significati. Per questo a volte è importante non bloccarci alla prima lettura ma rileggere il racconto più volte. Bettelheim scrive che solo dopo aver riascoltato più volte una storia, “le libere associazioni inerenti alla storia gli frutteranno il più personale dei significati del racconto, e lo aiuteranno quindi ad affrontare il problema che lo opprime” (Bettelheim, 1975, p.18). Fondamentale affinché la storia agisca nell’ordinare il caos emotivo del fanciullo è non uscire dalla metafora della fiaba stessa, evitare di dire “il coniglietto della storia è triste proprio come te, non credi?”,almeno che non sia lui stesso a offrirci in modo palese il paragone, dichiarando di sentirsi proprio come quel coniglietto.
Il potere della storia risiede soprattutto nelle sue espressioni indirette, poiché attenuano le resistenze e sbloccano inibizioni dovute al senso di vergogna e alla paura degli ostili commenti adulti. Se la storia è ben fabbricata i significati lavoreranno latentemente e probabilmente ad un livello subcosciente è quindi inutile interrogarsi in maniera compulsiva se il nostro piccolo ha recepito più o meno correttamente il messaggio fornito. Un’efficace strategia da utilizzare per potenziare gli effetti terapeutici della storia è quella di non offuscare il messaggio finale con dettagli irrilevanti, ma procedere astraendo il più possibile, cioè ridurre la storia, anatomizzarla alle sue caratteristiche fondamentali. Ornarla di eccessivi particolari potrebbe annebbiare il reale contenuto.
In conclusione, l’uso di una storia terapeutica, offerta da un adulto empatico e coraggioso nel tentativo di “perdersi” nel mondo interiore del fanciullo, si configura come una sorta di guarigione psichica che si attua fino alla trasformazione dell’individuo che torna a governare i moti della sua psiche e di conseguenza gli eventi della sua vita, pieno di nuova energia, capace ora di affrontare il mondo con serenità, con forza, con coraggio e determinazione.

Quando il bambino diventa l’autore: la storia terapeutica come test proiettivo.

La Sunderland, oltre ai motivi fiabeschi costruiti dall’adulto per il bambino, si avvale di un’altra metodologia: le storie che il bambino inventa all’interno del setting terapeutico, per entrare in contatto con le sue emozioni più profonde. Con questa seconda modalità il prodotto fantastico che il bambino crea e dona all’adulto funziona come un vero e proprio test proiettivo. Nella storia che egli produce proietta nella trama stati d’animo, intenzioni, desideri, paure ed altre tematiche inconsce che potrebbero, se escluse totalmente dal campo della coscienza, originare conflitti intrapsichici, interferendo negativamente sullo sviluppo psicologico. La funzione terapeutica della fiaba, in questo caso, si sostanzia nel tentativo di riuscire a far comunicare al bambino le problematiche represse che lo tormentano, proiettandole nelle trame che egli costruisce.
Quando si passa dal ruolo di inventori di storie terapeutiche a quello di ascoltatori empatici di una storia narrata da un bambino, diventa fondamentale, come scrive Margot Sunderland, “cercare i temi emotivi centrali e ricorrenti e non i dettagli e il significato delle singole immagini” Sunderland,2000, p.71). La stessa Sunderland illustra il caso di Giudit , bambina di cinque anni, che narrava una storia apparentemente criptica e incomprensibile, in cui compariva ripetutamente il motivo di una bomba che veniva lanciata su un uovo, rendendolo infecondo, e di una tartaruga che salendo su un pisello lo schiacciava fino a tritarlo. In questo caso i temi nevralgici che emergono sono il sentirsi abusati, impotenti ed intrappolati; basti pensare alla differenza di potenza tra una bomba e un uovo ed una tartaruga e un pisello. Per rispondere in maniera efficace a questo racconto, bisogna, come già precedentemente suggerito, rimanere all’interno della metafora, ovvero evitare esortazioni come “povera Giudit, la bomba che si imbatte sull’uovo potrebbe forse essere tuo padre quando ti picchia?”, e al tempo stesso colludere quasi con il suo dolore dicendo: “Deve essere molto angosciante per quel piccolo uovo vivere continuamente nel terrore che la bomba possa esplodere da un momento all’altro su di lui”. Solo così la bambina può sentirsi compresa e può continuare ad aver fiducia in noi. Non bisogna poi soffocare il significato “in embrione” della storia, spingendo il bambino ad andare nella direzione in cui vogliamo noi, né imporre la nostra trama sulla sua. Qualsiasi tentativo di modificare, suggerire e reindirizzare non è supportivo, ma semplicemente dannoso, in quanto oscura la vera entità della storia. Questo è un problema molto frequente: spesso quando gli adulti cercano (di solito senza esserne consapevoli) di scappare da un loro proprio senso di sconforto sentono il bisogno di rendere la storia del bambino una bella storia, con sentimenti buoni e a lieto fine. Il paradosso è che al bimbo viene trasmessa più speranza se trova qualcuno in grado di ascoltare e di condividere la sua mancanza di speranza. Nell’ascoltare e interpretare la storia di un bambino il pericolo in cui molte persone incorrono è quello di giocare a fare lo psicoanalista, usando esclusivamente significati chiusi, soffocando molte volte la vera essenza delle immagini interiori del fanciullo. Quando si attribuisce un significato ad un’ immagine che emerge da un racconto bisogna sempre considerare il contesto di vita reale del bambino. L’analisi del contesto e l’attribuzione di significato sono due processi inscindibili; infatti, all’interno di una fiaba, la comparsa dell’elemento “serpente strisciante” potrebbe rappresentare per un bambino una creatura che sta lentamente progettando una morte sinistra mentre per un altro un simpatico e colorato verme. Questo dipende dalla storia personale di ogni soggetto, che è unica e irripetibile. Un’ulteriore istruzione è quella di evitare di trarre deduzioni da una sola storia: sono i temi e i paesaggi psicologici ricorrenti che formano un disegno più chiaro del mondo interno del bambino. Infine, quando si lavora con la storia di un bambino la Sunderland dice di “incoraggiare il bambino a mettere in scena nuove possibilità”(ibidem, p.25), così il bambino, con l’ausilio della storia, può sperimentare un modo più efficace e creativo per stare al mondo; anche se, spesso, quando i bambini sono sul punto di desiderare di sperimentare una possibilità attraverso una storia, se non sufficientemente incoraggiati, si tirano indietro. Da qui l’importanza di premiare il coraggio con entusiasmo.
Qui di seguito verrà riportato un esempio di alcuni frammenti di storie, con le relative interpretazioni effettuate dal terapeuta, inventate da un piccolo paziente di Margot Sunderland, durante le sue sedute di psicoterapia. L’autore di queste storie viene presentato dalla Sunderland con le testuali parole: “Eddie è un bambino di sette anni che ha visto più volte suo padre colpire la madre. Era così terribile che ha scelto di dimenticare l’esperienza. Ma dai quattro anni in poi, è diventato un bambino tremendo nell’ambito dei giochi in cortile. Una volta ha spinto a lungo la testa di una bambina sulla ghiaia. Stava mettendo in scena la storia del suo trauma” (ibidem p. 54).
“il poliziotto, il pompiere, il dottore e la vigilessa muoiono e rimane lo spazzino a scoparli via” (ibidem p. 54). Il significato psicoanalitico è che tutti i “protettori”, ovvero tutte quelle figure che dovrebbero offrire aiuto, sono rese impotenti, poiché il bambino ha sofferto il dolore atroce di non ricevere aiuto da nessuno e di non vedere nessuno che aiutasse sua madre mentre guardava suo padre che la picchiava. In questo caso Eddie proietta il suo senso di solitudine e di non protezione in quelle figure, che invece di offrire aiuto come usualmente fanno vengono improvvisamente spazzate via.
“Questa è la storia di un giardino crudele. L’albero grande picchia l’albero piccolo, e cosi’ l’anno dopo non ci sono fiori su di lui. Tutte le Margherite guardano. Vogliano fermarlo ma sono troppo piccole per fare qualsiasi cosa” (ibidem p.54). Il messaggio che Eddie vuole darci è che nutre un grande dolore verso se stesso poiché ogni volta si trova nel ruolo di spettatore impotente. Il bambino proietta se stesso nell’immagine della piccola margherita che vorrebbe fermare la violenza dell’albero grande, figura che rappresenta la proiezione del padre, ma essendo troppo piccola non riesce a far altro che guardare la scena in maniera passiva. L’albero piccolo che viene percosso dall’albero grande rappresenta la proiezione della madre maltrattata dal padre e l’immagine del giardino crudele è proiezione dell’ambiente violento familiare
− “Il piccolo verme piange e grida: “Mamma, mamma, c’è un corvo grandissimo!”. Il piccolo verme sta chiamando la sua mamma, ma la mamma verme scappa perché anche lei ha paura. La mamma verme finisce finisce mangiata dal grande corvo. Molte cose stanno strisciando sulla terra” (ibidem pp.54-5). Eddie, con la trama della sua storia, vuole comunicare il desiderio che la mamma lo salvasse dal vedere l’orribile spettacolo, anche se non poteva aiutarlo, perché lei stessa era colpita e spaventata. Il particolare dello strisciare sulla terra potrebbe corrispondere alle sue emozioni di disgusto per quello che vedeva, ma è difficile da stabilire. Il piccolo verme è la proiezione che il bambino fa di sé stesso, mentre il corvo che si avventa sulla mamma verme rappresenta il padre.

Cenni su alcune tecniche proiettive che utilizzano temi fiabeschi.

Come già accennato nel paragrafo precedente, la favola può essere utilizzata come strumento proiettivo per indagare le dinamiche della personalità infantile. Le tecniche proiettive fanno riferimento ad una classe specifica di misure che hanno come scopo quello di rilevare le caratteristiche intrapsichiche, le intenzioni, i processi, gli stili, le tematiche e le fonti alla base dei possibili conflitti di personalità. L’ambiguità dello stimolo e la minimizzazione del materiale sono le caratteristiche peculiari che permettono all’individuo, nel nostro caso il bambino, di proiettare liberamente nella situazione presentata i processi che sottostanno e strutturano la personalità.
Il bambino, ancor più dell’adulto, ha difficoltà a prendere coscienza della molteplicità di emozioni, paure e conflitti che investono la sua sfera soggettiva e ad esprimerli all’esterno in tutta libertà, sia per la difficoltà a verbalizzare i concetti sia per il timore della critica adulta, una volta che questi sono espressi. Il materiale ludico-simbolico rappresentato dalla fiaba permette al bambino una più facile esteriorizzazione e proiezione dei propri problemi, grazie alla sua attitudine ad animare e a rendere partecipi dei propri stati d’animo oggetti e personaggi esterni. Uno di questi strumenti proiettivi è il “Test della famiglia fatata”, dove si chiede al bambino di immaginare che tutte le persone della sua famiglia siano trasformate in un personaggio delle fiabe, invitandolo a traslare i membri del nucleo familiare in oggetti, persone o animali magici. Solitamente prima dell’inizio dell’attività pittorica si suggerisce una serie di personaggi, animali, doni fatati, ostacoli materiali che si presentano maggiormente nei racconti per l’infanzia, come principi e principesse, orchi, draghi e rospi, montagne e castelli incantati, con lo scopo di incentivare e stimolare il soggetto all’ideazione grafica. Il disegno permette in questo modo di accedere direttamente alle rappresentazioni mentali del bambino. Tilde Giani Gallino (2008), autrice del test, sceglie l’attività grafica come strumento privilegiato di analisi della rappresentazione simbolica dello spazio reale ed emotivo del bambino, focalizzandosi sul significato psicologico delle immagini magiche-simboliche e sulle loro correlazioni con quelle familiari e parentali. Gli scenari familiari, di qualsiasi tipo siano, vengono continuamente interiorizzati e inglobati dal bambino; mettere su carta personaggi a carattere magico-simbolico consente di proiettare su di essi quelle tensioni interiori che non avrebbero altrimenti modo di essere allentate ed esteriorizzate all’esterno, pur agendo in modo latente. E’ bene ricordare che le diverse fantasie sui personaggi familiari con la loro universalità e complessità sono ben conosciute in psicoanalisi come fenomeno che va sotto il nome di “romanzo familiare”, tipico dei ragazzi in età pre-puberale. Per la Giani Gallino, quindi, l’attività grafica fondata su temi fiabeschi si pone come strumento privilegiato di analisi della rappresentazione simbolica dello spazio emotivo e reale infantile.
Dalla ricerca si evince che nell’esame delle figure magiche spicca notevolmente la quantità di “gnomi e nanetti” disegnati dai maschi contro “principesse e re” delle femmine per rappresentare il proprio sé (self) e talvolta anche padri e fratelli. Interpretando questa trasformazione come un giudizio di valore espresso dai disegnatori nei confronti degli altri e di se stessi non possiamo fare a meno di cogliere in questa proiezione un tentativo di ridicolizzare e sminuire certi membri della famiglia verso i quali si prova sentimenti di rivalità. Nei soggetti che disegnano se stessi come un nanetto o uno gnomo è evidente una svalutazione della propria immagine psichica e o sociale, che può essere portavoce di gravi complessi nel corso dello sviluppo psicologico. Nell’analisi dei disegni delle bambine emerge un gran numero di “regine e principesse, di “re e principi azzurri”; da questo si rileva la presenza di una certa persistenza del senso di autorità (i monarchi visti come simbolo dell’autorità parentale). Nei casi di gravi compromissioni dello sviluppo psico-sociale del soggetto si assiste alla totale eliminazione del self (sé): nel disegno i soggetti non si auto-raffigurano in nessun modo, negando la proiezione con i personaggi.
Un ulteriore test proiettivo basato su temi fiabeschi, per l’indagine psicologica dei problemi affettivi con la relativa oggettivazione dei conflitti ad essi implicati, sono le “Storie da Completare” di Madeleine Thomas (1953). Con questo metodo semplice e anche rapido, la Thomas propone di minimizzare il più possibile la soggettività dell’intervistatore e ridurre al tempo stesso le resistenze del bambino durante la prestazione. Questo metodo di valutazione intrapsichica si compone di una batteria di 15 favole, dove si parla della vita familiare, dei sogni e dei desideri di bambini immaginari della stessa età e con la stessa situazione familiare degli esaminati: ogni favola schematizza una situazione e lascia un problema sospeso. Una delle quindici storie è la seguente: “Un bambino va a scuola, durante la ricreazione egli non gioca con gli altri compagni ma resta tutto solo in un angolino. Perché?” (Psicologia Contemporanea n°35, Carini, 1993 p.53 in The Madeleine Thomas completion stories test). Proposto il tema della favola, si chiede al bambino di svolgerlo a suo gradimento: supponendo che ogni soggetto interpreterà e proietterà il racconto attraverso il prisma deformante dei suoi pensieri, sarà possibile, analizzando le sue risposte, risalire alle tematiche inconsce che sostanziano le modalità di reazione al problema. Alla base vi è l’ipotesi che “ogni creazione immaginaria obbedisce a un certo determinismo, per cui è possibile, essendo in possesso di una tale creazione, risalire induttivamente alle cause psicologiche da cui deriva” (ibidem, p.53). L’ autrice del metodo “storie da completare” fa notare l’impossibilità di applicare il materiale fiabesco a bambini di età inferiore ai 4 anni e mezzo, a causa del pensiero principalmente dominato dall’egocentrismo che renderebbe difficile l’adattamento ai quadri delle favole. L’identificazione con gli eroi della favole (e quando c’è identificazione c’è reazione affettiva) può assumere forme diverse: può presentarsi come una reazione indiretta di difesa, per cui il bambino si oppone a qualsiasi tipo di esteriorizzazione conscia o inconscia, con atteggiamenti di mutismo o espressioni monosillabiche; oppure può configurarsi come una reazione diretta quando i problemi vengono enunciati senza deviazioni o travestimenti. La reazione diretta si perfeziona nell’obiettivazione totale, in cui il bambino proietta i suoi conflitti nella finzione proposta. Quando emergono resistenze come rifiuti o difficoltà a parlare, molto probabilmente si è toccato un punto nevralgico dell’individuo e questo rappresenta l’obiettivo primario.
Infine, citerei le “favole” di Louisa Düss, pubblicate negli anni quaranta con il titolo “La metohode des fables en psychanalyse infantile” (1957). Il test si compone di dieci storie con finale aperto da leggere al bambino. Nel costruire le sue favole, la Düss parte dal presupposto che se il soggetto è colpito da una storia e fornisce una risposta simbolica o al contrario manifesta una certa resistenza a rispondere, significa che la condizione del protagonista in questione determina in lui una catena di associazioni, che risveglia il complesso al quale è fissato. La Düss detta alcune condizioni fondamentali per procedere con il metodo da lei sistematizzato, quali la brevità e la semplicità del testo tale da essere compreso anche da un bambino di 3 anni, ma allo stesso tempo capace di incuriosire anche l’adolescente, l’eliminazione di situazioni scolastiche o familiari specifiche dove si corre il rischio che il bambino rintracci la sua realtà e dove può intervenire la paura di essere giudicato; si devono inoltre celare sufficientemente i conflitti, affinché la consapevolezza del soggetto non sia risvegliata ed egli possa facilmente identificarsi col personaggio della fiaba. Infine, non è consigliabile presentare le favole in un ordine qualsiasi, ma bisogna iniziare con le storie che celano il complesso a cui è legata la minor consapevolezza.
La somministrazione di questo test prevede di dire al bambino che gli racconteremo una storia e che egli dovrà costruirne il seguito a suo piacimento. La storia viene narrata direttamente mettendo enfasi e vita, ma senza eccedere nella drammatizzazione che potrebbe suggestionare il bambino provocando resistenze e allontanando il terapeuta dallo scopo perseguito. Per ogni favola l’autrice presenta un elenco di risposte ritenute “normali” ed altre definite “patologiche”, che sono utilizzate nell’elaborazione dei protocolli di valutazione. In conclusione, la Düss afferma di poter supporre la presenza di un complesso quando il comportamento dell’esaminato presenta le seguenti caratteristiche: “persistenza del complesso anche in altre favole, risposta immediata e inattesa, risposta sussurrata rapidamente, rifiuto di rispondere e silenzio, desiderio di ricominciare da capo” (Psicologia Contemporanea n°35, Carini, 1993 p.53 in La methohode des fables en psychanalyse infantile).
Alcuni esempi delle dieci favole della Düss sono:
− Favola della paura (per indagare sull’angoscia e l’autopunizione): “C’è un bambino che dice piano piano ciò di cui a paura. Di che cosa ha paura quel bambino?” (ibidem p.55)
− Favola dell’elefante (per indagare il complesso di castrazione): “Un bambino ha un piccolo elefante che gli piace tanto e che è tanto grazioso con la sua lunga proboscide. Un giorno tornando a casa da una passeggiata, il bambino entra nella sua stanza e trova che l’elefante è cambiato in qualche cosa. Che cosa è cambiato in lui? E perché è cambiato?” (ibidem p.55)
− Favola dell’oggetto costruito (per indagare sul carattere possessivo e ostinato, complesso anale): un bambino è riuscito a costruire qualcosa per terra (una torre) che gli piace tanto, proprio tanto. Che cosa ne farà lui? La sua mamma lo prega di darla a lei; lui può dargliela se vuole. Gliela darà?
− Favola dell’uccellino (per indagare l’attaccamento del bambino a uno dei genitori, oppure la sua indipendenza): “un babbo e una mamma uccelli e il loro bambino uccellino dormono nel nido, sul ramo di un albero. Viene a un tratto un forte vento, stronca l’albero e il nido cade a terra. I tre uccelli si svegliano di colpo. Il babbo svelto vola su un abete, la mamma vola su un altro abete; il bambino uccellino cosa farà allora? Sa già volare un poco”. (ibidem p.54)

Conclusioni.

Il mio interesse per questo tema nasce dal desiderio di recuperare il racconto di motivi fiabeschi, che sembrano ormai, da anni, giacere addormentati nel “dimenticatoio delle cose perdute”, sostituiti da tecnologici giochini monotoni propagati dagli schermi di computer, I-Pod e quant’altro di simile il mercato moderno compulsivo possa offrire. Questa generazione di bambini annoiati, passivi e smaniosi, incapaci di tuffarsi nel proprio mondo interiore per conoscersi e “costruirsi”, necessita di riscoprire la fiaba, poiché ottimo strumento pedagogico dotato di forti effetti terapeutici che favoriscono un sano sviluppo psichico. Credo che sia necessario ispirarsi alla vecchia “cultura del focolare”, quando il racconto di fiabe rientrava tra le attività ludiche principali e i bambini, con gli occhi spalancati e la bocca semiaperta, si sedevano insieme, intorno al fuoco scoppiettante o all’aperto sotto la cupola stellata del cielo nelle aie dei contadini, smaniosi di sentire le fiabe narrate dagli adulti. Non è forse questa situazione appena descritta più stimolante e costruttiva di quella in cui i bambini si ritrovano ipnotizzati davanti a qualsiasi tipo di schermo piatto presente in casa? Non credo neanche sia giusto appellarsi alla scusa del tempo che i genitori non hanno più a disposizione come una volta, a causa del lavoro che li tiene impegnati quasi tutto il giorno. La lettura di una fiaba implica non più di quindici minuti e credo fermamente che questo quarto d’ora sia qualitativamente importante per la vita del piccolo. L’obiettivo del mio elaborato è quello di illustrare, avvalendomi della letteratura scientifica presente nel panorama internazionale inerente a questo tema, la funzione terapeutica della fiaba, dove per funzione terapeutica intendo la capacità di questo strumento di contribuire e facilitare la costruzione di una sana personalità in sintonia con l’ambiente circostante.
Tra gli autori del panorama internazionale che hanno affrontato questo tema ho scelto di concentrarmi su quelli che a mio avviso sono i più rappresentativi: Bruno Bettelheim e Marie-Louise von Franz. Pur avendo entrambi una formazione di stampo psicoanalitico, appartengono a due scuole di pensiero differenti: il primo segue la corrente freudiana, mentre la seconda quella junghiana. Così ho avuto la possibilità di comparare i due diversi modi di intendere la funzione terapeutica della fiaba a più ampio spettro. Entrambi, seppur in maniera differente, confermano la mia ipotesi di partenza: la fiaba ha una natura terapeutica. Per Bettelheim il potere terapeutico sta nel fatto che la fiaba porta il bambino alla conquista dell’integrazione delle varie istanze intrapsichiche Io, Es e Super-io. La fiaba mostra in forma simbolica il conflitto che le pressioni di queste istanze provocano e successivamente illustra anche le possibili modalità risolutive, con le quali il bambino impara a domare e gestire i moti del proprio inconscio. Ecco perché la fiaba ha una connotazione terapeutica: aiuta il bambino a costruire una sana ed equilibrata personalità. Per Marie-Louise von Franz la funzione terapeutica della fiaba si concretizza nel mostrare come raggiungere e sviluppare a pieno il Sé, grazie al processo di individuazione che la fiaba stessa permette di compiere. La fiaba consentirebbe all’individuo di arrivare a quella condizione ottimale nella quale il complesso dell’Io agisce in sintonia con il Sé, producendo una quantità minima di disturbi nevrotici. Con l’ausilio dei messaggi terapeutici che trapelano dai motivi archetipi fiabeschi, il Sé viene portato alla luce dalle profondità cavernose dell’inconscio. Per la von Franz i personaggi e gli ambienti fiabeschi sono pura espressione degli archetipi dell’inconscio collettivo; per questo l’analisi dettagliata delle fiabe ci permette di conoscere molto sul funzionamento dell’uomo.
Riassumendo, per Bettelheim l’obiettivo terapeutico si sostanzia nella conquista dell’integrazione delle istanze intrapsichiche Io, Es e Super-io, mentre per la von Franz questo si sostanzia nella conquista del proprio Sé. Ma in ambedue i casi sempre di “conquista si tratta”. All’interno di entrambi i paradigmi la funzione terapeutica della fiaba viene saldamente confermata.
Nel secondo capitolo ho scelto di basarmi sulle idee e sulle metodologie di Margot Sunderland, direttrice del Institute for Arts in Therapy and Education di Londra, che si è a lungo dedicata all’educazione affettiva infantile tramite l’utilizzo di storie. La Sunderland parla di “storie terapeutiche”, intendendo con questo termine quei motivi fiabeschi, letti o costruiti dall’adulto o strutturati dal bambino stesso, che hanno l’obiettivo di alleviare o far emergere gli stati ansiogeni e conflittuali del fanciullo influenzando positivamente la sua crescita psicologica.
Emerge che, se scelta accuratamente, la fiaba ci permette di abbracciare empaticamente il mondo interno del fanciullo senza invadere la sua sensibilità, oltre che a fargli comunicare in maniera indiretta la natura delle sue emozioni. Il linguaggio simbolico e figurato delle storie permette al bambino di conoscere e gestire la sua caotica realtà emotiva senza rimanerne sopraffatto, inoltre offrono il tempo e lo spazio per poter riflettere, in tutta sicurezza e tranquillità, sulla “situazione problematica” che assilla la sua mente, mostrandogli che il meccanismo che utilizza per fronteggiare il problema non lo libera da angosce o minacce, ma lo tiene prigioniero delle sue stesse emozioni. Le storie terapeutiche della Sunderland, che l’adulto crea appositamente per il bambino, contengono nelle sue trame un nuovo meccanismo più maturo e creativo che il bambino dovrebbe imparare ad utilizzare per far fronte al problema, funzionando così come una sorta di campo di battaglia dove ci si allena per sconfiggere nemici e superare prove.
Si evince inoltre che la terapia effettuata per mezzo delle fiabe permette non solo di rielaborare emozioni difficili, ma anche veri e propri traumi. La costruzione o la lettura di una storia offre l’opportunità di storicizzare i fatti accaduti, osservandoli da un luogo sicuro e protetto, che il mondo incantato della fiaba offre. Con il suo lato ludicofantastico, ben lontano dalla realtà, la fiaba invita il bambino a rivivere parti dell’esperienza traumatica in maniera conscia così da depotenziarne gli effetti che avrebbero se segregate nell’inconscio. Quest’ultimo effetto terapeutico si realizza soprattutto nelle storie strutturate dal bambino, in quanto esse, avendo una natura proiettiva, permettono al bambino di traslare nei personaggi e negli eventi fantastici, che egli crea, i drammi che popolano il suo inconscio. Il caso di Eddie, illustrato nel secondo capitolo, mostra infatti come la costruzione di una storia, effettuata dal bambino stesso, possa addirittura smorzare pesanti ricordi traumatici raggiungendo aspetti del dramma rimossi nell’inconscio, che vengono così trasferiti sui personaggi tramite identificazioni e proiezioni.
Mi è sembrato utile riportare poi alcune informazioni fondamentali da adottare sia per costruire sia per raccontare e ascoltare una buona storia terapeutica. Per “confezionare” un’ efficace trama terapeutica bisogna, in prima istanza, individuare il tema nevralgico che preoccupa il bambino e poi traslarlo in forma “camuffata”, con metafore e simbologie nel contesto narrativo della storia. Questo passaggio si è rilevato fondamentale e il più complesso, perché è quello che permette di accedere alle rappresentazioni interiori del fanciullo e di capire come egli percepisce e costruisce il proprio essere nella realtà che lo circonda. Quando invece raccontiamo una fiaba, diventa fondamentale utilizzare una lettura attiva e coinvolgente che sappia rapire il bambino nel mondo della fantasia. Dalla ricerca emerge inoltre che spesso una sola lettura non è sufficiente per evocare le associazioni necessarie per raggiungere lo scopo prefissato. Rilevante è anche non uscire mai dalla metafora, poiché il potere delle fiabe risiede soprattutto nelle espressioni indirette e nel linguaggio dell’immaginazione. Quando invece da inventori e lettori di storie abbiamo l’immenso privilegio di diventarne gli ascoltatori, ovvero il pubblico di una storia narrata da un piccolo, l’orecchio e il cuore devono impregnarsi di empatia e bisogna soprattutto stare molto attenti a non filtrare il contenuto latente del motivo fiabesco con le nostre esperienze soggettive adulte. Bisogna riattivare il fanciullino che c’è in noi e giocare con la base poetica della nostra mente, per entrare in sintonia con le trame dei bambini.
Secondo il mio parere, sarebbe auspicabile abbinare alle storie terapeutiche di Margot Sunderland piccole rappresentazione tramite giocattoli, come pupazzi o burattini, che il bambino potrebbe mettere in scena dopo aver ascoltato o raccontato la storia.
La rappresentazione di ciò che ha ascoltato o raccontato potrebbe costituire un vero atto catartico, un momento liberatorio che potrebbe potenziare ulteriormente i benefici della storia. Sarebbe interessante creare dei laboratori di psicodramma per l’età evolutiva in quanto essendo lo psicodramma un metodo d’ approccio psicologico che consente alla persona di esprimersi attraverso la messa in atto sulla scena di esperienze di vita, potrebbe aiutare il bambino a stabilire un intreccio più armonico tra le esigenze intrapsichiche e le richieste della realtà. Il laboratorio psico-drammatico potrebbe fornire uno spazio di condivisione e di ascolto in cui si sollecitano le capacità creative del bambino e la libera espressione delle emozioni. Questa integrazione potrebbe essere di spunto per direzionare nuove ipotesi di ricerca.
Infine, nel mio elaborato, ho voluto riportare altre metodologie valutative, di natura proiettiva, che utilizzano temi fiabeschi per l’indagine della personalità e dei pattern conflittuali, a conferma del fatto che le fiabe sono uno strumento utile per l’indagine intrapsichica e non semplici racconti irrazionali, colme di sciocchezze, come purtroppo qualcuno sostiene.

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1 James Hillman è uno psicoanalista americano, nato nel 1926, che ha diretto lo Jung Institute di Zurigo e ha fondato il Dallas Institute of Humanities and Culture.

2Per coazione a ripetere si intende quella tendenza dell’individuo a ripetere il contenuto rimosso nella forma di un’esperienza attuale,anziché, a ricordarlo come parte del proprio passato.

3Vladimir Jakovlevičeskij Propp ( Pietroburgo 1895- Lenigrado 1970) compì gli studi di filologia slava nell’università della sua città, in cui, a partire dal 1923, insegnò prima lingua tedesca, e folclore poi.

4Questo esempio di storia terapeutica strutturata dall’adulto per il bambino è tratta dal libro di Margot Sunderland “Raccontare storie aiuta i bambini. Facilitare la crescita psicologica con le favole e l’intenzione”

5L’esempio sovrascritto è tratto dal libro di Margot Sunderland “Raccontare storie aiuta i bambini. Facilitare la crescita e l’invenzione con le favole e l’invenzione”.

6Con questo termine si intende un gruppo di pensieri o immagini con notevole valenza emotiva.

7Gli esempi riportati sono tratti dall’articolo di Carini, M. (1993) Le favole: una tecnica proiettiva per l’esplorazione delle dinamiche della personalità infantile. Psicologia Contemporanea N° 38, p. 40-45

Bibliografia.

Bettelheim, M. (1976). “The uses enchantment. The meaning and importance of fairy tales”.( Traduzione italiana 1977) “Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe”. Milano: Feltrinelli editore.
Carini, M. (1993). “Le favole: una tecnica proiettiva per l’esplorazione delle dinamiche della personalità infantile”. Psicologia contemporanea n°35, 40-45.
Concato, G. Innocenti, F.B. (2010). “ Manuale di psicologia dinamica”. Francavilla al Mare: Edizioni Psiconline.
Franz (von), M.L. (1977). “Das Weibliche im Märchen, Bonz, Stuttgart”. (Traduzione italiana 1983) “Il femminile nella fiaba”.Torino: Bollati Boringhieri
Franz (von), M.L. (1969). “ An Introduction to the Psychology of Fairy Tales”. (Traduzione italiana 1980). “Le fiabe interpretate”. Torino: Bollati Boringhieri.
Franz (von), M.L. (1987). “The psychological meaning of redemption motifs in fairytales”. (Traduzione italiana 1990). “Le fiabe del lieto fine: Psicologia delle storie di redenzione”. Como: Red edizioni.
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Giani Gallino, T. (2008). Il mondo disegnato dai bambini. Il test della famiglia fatata, p.158-166
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Jung, C.G. (1936). “Die Archetypes und das Kollektive unbewusste”. (Traduzione italiana 1977) “Gli archetipi dell’inconscio collettivo”. Torino: Bollati Boringhieri. Propp, V.J. (1928). “Morfologija skazki”. (Traduzione italiana 1966) “Morfologia della fiaba”. Torino: Einaudi.
Sunderland, M. (2000). “Using story telling as a therapeutic tool with children”. (Traduzione italiana 2004) “Raccontare storie aiuta i bambini. Facilitare la crescita psicologica con le favole e l’invenzione”. Torino: Erickson. di redenzione”. Como: Red edizioni.

Le immagini di Giuseppe Panella

di Andrea Galgano 8 ottobre 2014

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9788884102027Scrive Andrej Tarkovskij:

«L’immagine artistica è un’immagine che assicura a se stessa il proprio sviluppo, la propria prospettiva storica. È un seme, un organismo vivente in evoluzione. È il simbolo della vita, ma è diversa dalla vita stessa. La vita include in sé la morte. L’immagine della vita o la esclude oppure la considera come l’unica possibilità di affermare la vita. L’immagine artistica è di per sé espressione della speranza, grido della fede, e ciò è vero indipendentemente da cosa essa esprima, foss’anche la perdizione dell’uomo. L’atto creativo è già di per sé una negazione della morte. Ne consegue che esso è intrinsecamente ottimista, anche se in ultima analisi l’artista è una figura tragica. Per questo non possono esserci artisti ottimisti e artisti pessimisti. Possono esserci solo il talento e la mediocrità» (da Martirologio-Diari 1970-1986).

Il poderoso saggio di Giuseppe Panella, docente di Estetica alla Scuola Normale Superiore di Pisa, Le immagini delle parole. La scrittura alla prova della sua rappresentazione, edito dalla fiorentina Clinamen, indaga, in nome dell’immagine, descritta o reale o mentale, lo stretto rapporto tra le discipline volte alla formulazione del discorso, alle imagines memoriae, al legame tra visualizzazione e composizione.
La reale incompatibilità tra parole e immagini, partite dall’analisi di Foucault, punta all’origine della comunicazione, alla sua versatilità, e all’atto linguistico: «La poesia è, dunque», scrive lo studioso, «lo spazio in cui è possibile collegare immagini e parole, in cui si esalta e si definisce l’esperienza dell’identità coniugata attraverso le differenze dei suoi segni (o viceversa), il luogo in cui le similitudini nascoste all’interno dello strato roccioso dell’oblio emergono grazie all’azione corrosiva di succhi poetici sotterraneamente distillati e operanti in segreto» (p.16).
In un saggio, dal titolo L’arte della memoria, Francis Yates, soffermandosi sull’atavica e sostanziale uguaglianza tra poesia e pittura, confluita nella formula oraziana ut pictura poësis, così sintetizzava: «La teoria dell’equazione poesia-pittura poggia anch’essa sulla supremazia del senso della vista: il poeta e il pittore pensano entrambi per immagini, che l’uno esprime poetando, l’altro dipingendo. Le sottili e sfuggenti relazioni con le altre arti che percorrono tutta la storia dell’arte della memoria sono così già presenti nella fonte leggendaria, nei racconti attorno a Simonide, che vide poesia, pittura e mnemonica in termini di intensa visualizzazione».
La stuporosa fascinazione di Walt Whitman, che inaugura i prodromi della modernità, apre il catalogo del mondo alla sua composizione e le immagini «di cui il mondo esterno è composto si incontrano e si scontrano con le idee interiorizzate e introiettate in profondità nella mente del poeta, fino a realizzare un cortocircuito lirico continuo e travolgente che produce alla fine l’emergenza della poesia. […] Il poeta non può fare a meno del contatto con la materia della sua scrittura e con la concretezza dell’esperienza di vita che ne è il sostrato imprescindibile».
L’immagine illuminata di Whitman si staglia ed emerge come trionfo visibile e come elemento dinamico, con cui la poesia si appropria della pienezza delle immagini per compiersi e addentrarsi nel magma della realtà.
Laddove Hopkins fa ondeggiare la fresca profondità del reale con l’imperiosa potenza delle sue epifanie, «il gradiente sonoro delle parole utilizzate si fonde così con la descrizione dell’evento facendo emergere dallo sfondo indistinto della natura la forma privilegiata del canto libero» (p.26).
La raccolta delle immagini dà corpo alla sua campitura, al moto composito che si esprime ed emerge nella sua fosforescenza.
Il saggio percorre le linee di un mosaico che diventa preludio. Se D’Annunzio ha espresso la carnalità umbratile della parola e il suo fuoco, la totalizzazione (e tragicità) dell’io, l’incoscienza dello stile: è la dischiusura delle immagini a far nascere la germinazione poetica, Joyce percorre la selezione e collezione epifanica, come coniugazioni del Sublime «con l’idea catartica (e , quindi, aristotelica) della scrittura come espressione di “momenti di essere” che solo la loro (apparente) riuscita e perfezione potranno redimere dall’oblio e salvarli dall’essere confinati nella stanza buia della dimenticanza» (p.35).
Lo spostamento dell’imagismo di Pound, nato dagli stimoli teorici di Thomas E.Hulme, tocca il culmine breve dell’esattezza e della densità nuova del linguaggio dell’immagine («ciò che presenta un complesso intellettuale ed emotivo in un istante di tempo»), che sovrappone i livelli simbolici e letterali, inventando un verticale superamento visuale, un’ appropriazione del flusso metamorfico dell’esistente, e in questa ricerca «di valorizzazione della parola come “forma naturale” dell’immagine, il poeta americano cercava di liberarsi dal carico “filologistico” che aveva caratterizzato talune sue prime prove […] e di produrre un soffio rivitalizzante […]» (p.43).
Con Apollinaire la poesia inizia a farsi allusione ed espansione, condensa la sua lampante manifestazione in una scena visiva che «proprio per questo motivo e proprio perché accetta l’idea della fine della comunicazione artistica come evento esclusivamente verbale, rappresenta una forma ulteriore dell’utilizzazione delle immagini come parole e al posto delle parole».
Nei suoi successivi passaggi il saggio si snoda in tre direttive, che mettono a fuoco le analisi delle immagini all’interno del dispositivo di scrittura e di interpretazione critica.
L’istanza fenomenologica di Bachelard, analizzata nel volume, fa luce sullo spazio immaginato e sullo spazio in figura dell’immagine. Le fascinazioni (rêveries) elementari approdano al superamento della realtà che, se da un lato, sconfinano nell’esperienza onirica, dall’altro, diventano fenomenologia cosciente.
Bachelard, pertanto, come scrive Giuseppe Panella, «cerca di riscontrare (e di ritrovare di conseguenza) nell’azione dell’inconscio i segni più significativi ancora accessibili del loro processo di trasformazione in registro consapevole delle intuizioni e delle sospensioni di immagini che popolano la pagina scritta. Le immagini si fanno realtà nel momento in cui vengono riconosciute come tali» (p.62).
L’Arte come perfetta sintesi di “intuizione”ed “espressione”, come prospettato da Benedetto Croce, si richiama alla vichiana logica poetica, saldamente ancorata all’autonomia e alla fantasia dei suoi lumi sparsi.
Croce fa coincidere l’Arte con la conoscenza intuitiva, l’Armonia come suo segno distintivo, e conseguentemente, «ciò che è libero dai condizionamenti (concettuali e/o concreti) della pratica artistica perché è essa stessa una delle forme “autentiche”della pratica […] Certamente, la poesia non è solo espressione lirica e non è soltanto arte o letteratura, non è pura forma né grossolano contenuto, non è oggetto dell’attività singola di un singolo staccato dal proprio contesto storico, non è eternità congelata nell’atto dell’ispirazione come una sorta di folgorazione in decrittabile e/o ineffabile, non è solo tecnica o poiesis […], non è rilettura “in pensieri” del proprio Zeitgeist né anticipazione dello stesso, non è attività concettuale né pura e semplice espansione dell’Io in forme prescritte dalla tradizione o dalla convenzione letteraria o dal gusto o dal mercato delle lettere» (p.76).
L’indagine sulla traccia filologica di Contini prima, e Muscetta, poi, si sofferma sul rapporto della filologia come lettura, riscoperta e trasmissione di segni e studio di strutture.
Lo «scandaglio genetico» dell’opera, come nel caso della riscoperta dei Sonetti di Belli, mira a ricostruire il fulcro dei suoi passaggi e delle sue peculiarità espressive, attraverso l’impegno storiografico, e la sua forza antipopolare.
Il rapporto tra immagini e parole, nei diversi momenti della storia letteraria tra fine Ottocento e Novecento e nelle ipostasi delle avanguardie, analizza il lavoro scavato (direbbe Heaney) della parola poetica, come un limite sovrabbondante, che in esso trova forza e abbandono, capace di presentare la provocazione della realtà, la sua meraviglia e il suo assurdo.
Persino il silenzio diventa, come nel caso di Rimbaud, compiutezza e conclusione: «La poesia realizzata in termini di pura rappresentazione trova proprio nelle sue immagini la sua ultima metamorfosi in un diverso progetto di vita: dalla poesia si passa all’amministrazione coloniale e senza soluzione di continuità. Dalla lirica come rappresentazione “colorata “ del mondo (è il caso “pittorico” di Voyelles) non si può che giungere al mondo come caleidoscopio di colori, quale scomposta asimmetria di frammenti poetici che non si possono afferrare se non per un attimo» (p.131).
Il sogno e l’epifania poetica della città, poi, condensano il teatro di una totalizzante e suprema arsi immaginale, in cui rapportarsi al proprio inconscio (Aragon), all’inventario della sua topografi (Benjamin), al suo moderno teatro (Schnitzler), alla non località inestesa dei suoi passaggi e paesaggi e infine ai simulacri forgiati dalla sua identità (il dandy).
Il volume studia tutti gli scenari e i sentieri possibili: dal paradosso come costruzione della soggettività fino al suo rovesciamento nel feticismo che pertiene alle fondamenta della prospettiva borghese.
Paul Klee scrisse che il compito dell’arte non è riprodurre il visibile ma rendere visibile l’invisibile. Ciò che noi vediamo materialmente, non è detto che sia ciò che è oggetto di attrattiva, come testimonia l’incompiutezza della Pietà Rondanini, che esprime questo doppio movimento: usa il visibile come porta d’accesso all’invisibile e così realizza il Bello.
Il libro di Giuseppe Panella condensa nella sua pienezza d’insieme, non soltanto il rapporto segreto della parola con l’immagine, ma permette di vivere appieno il fascino della relazione e dell’ermeneutica, che sono traccia, ineludibile, di un canto mai svanito.
PANELLA G., Le immagini delle parole. La scrittura alla prova della sua rappresentazione, Clinamen, Firenze 2014, Euro 49,00.

La funzione terapeutica della fiaba tra Archetipi e Miti-I parte

di Linda Gargelli            4 ottobre 2014

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rackhamNegli ultimi anni la cultura occidentale, soprattutto dopo l’avvento di tecnologie sempre più avanzate, sembra aver perduto una modalità pedagogica importante per favorire lo sviluppo psicologico del bambino: il racconto di fiabe. Ciò che è andato perduto non sono tanto le fiabe di per sé, che si ritrovano oggi trasposte nei numerosi film per bambini, ma quel prezioso ed intimo momento in cui adulto e bambino entrano reciprocamente in contatto tramite un’interazione diretta, costituita dal racconto.
Per fiaba si intende una narrazione caratterizzata da racconti medio-brevi e centrati su avvenimenti e personaggi fantastici come fate, orchi, giganti e così via. Esse, di origine popolare, sono state tramandate oralmente di generazione in generazione per descrivere la vita della povera gente, le sue credenze, le sue paure, il suo modo di immaginarsi i re e i potenti e venivano raccontate da contadini, pescatori, pastori e montanari attorno al focolare, nelle aie e nelle stalle. Questo mio progetto nasce dal desiderio di recuperare il racconto di fiabe come potente strumento pedagogico poiché esso può costituire una sorta di addestramento alla vita. I bambini sentono il bisogno di una preparazione, di un’iniziazione, di un insegnamento e le trame fiabesche possono rappresentare una sorta di supporto, facendo sentire il piccolo meno solo e inadeguato di fronte agli ostacoli che la vita presto o tardi gli porrà.
Calvino considera la fiaba come: “una spiegazione generale della vita; il catalogo dei destini che possono darsi a un uomo e una donna, soprattutto per la parte di vita che è il farsi un destino: la giovinezza, che poi vede la sua conferma nella maturità e nella vecchiaia” (Calvino, 1956, p.17). Privando i nostri figli del comune retaggio fantastico, cioè della fiaba popolare ma anche delle fiabe più moderne, il bambino non può trovare da solo trame efficaci che lo aiutino ad affrontare i problemi della vita. Il materiale fiabesco offre queste trame che ricalcano fedelmente i passaggi basilari dell’esistenza di ogni individuo. Bettelheim sottolinea che la fiaba fornisce al bambino ciò di cui ha maggiormente bisogno: “essa inizia esattamente dove il bambino si trova dal punto di vista emotivo, gli mostra dove andare, e come procedere”(Bettelheim, 1976 p.120) . La fiaba diventa una sorta di “fidata consigliera” che suggerisce al bambino come muoversi nel percorso ad ostacoli della vita stessa.

L’ intento di questo mio progetto è quello di illustrare come il racconto di fiabe, sia quelle tradizionali1 sia le storie fantastiche di autori più moderni, siano un potente strumento educativo con forti implicazioni terapeutiche, che possono influire positivamente sul raggiungimento di un sano e completo sviluppo psicologico.
Molti studiosi si sono occupati delle valenza psicologica delle fiabe, ma per affrontare questo mio progetto, ho scelto di basarmi sul contributo di due autori che hanno vivamente sostenuto i benefici e gli effetti terapeutici che si possono trarre da esse: Bruno Bettelheim (1903-1990) e Marie-Louise von Franz (1915-1998).

Bettelheim, psicoanalista infantile di matrice freudiana, si è a lungo dedicato alle fiabe, soprattutto a quelle dei fratelli Grimm, ritenendole rappresentazioni dei miti freudiani, ossia quelle idee basilari che sostanziano la teoria di Freud, come, ad esempio, le fasi dello sviluppo psico-sessuale, le istanze intrapsichiche Io, Es e Super-io, il complesso di Edipo, ecc., mentre Marie-Louise von Franz, psicoanalista svizzera di matrice junghiana, ne ha esplorato l’espressione degli archetipi2 contenuti nella struttura della fiaba.
L’importanza che le fiabe assumono nella vita mentale del bambino fu sottolineata già da Freud nel suo scritto “Materiale fiabesco nei sogni” (1913), in cui egli afferma che elementi derivanti da racconti fiabeschi possono essere frequentemente ritrovati nell’analisi dei sogni. Le fiabe rientrano, pertanto, nella complessa elaborazione dei simbolismi onirici inconsci, assieme ai miti, ai motti di spirito, ecc. Saper interpretare analiticamente il materiale fiabesco permette di raggiungere i contenuti segreti che popolano l’inconscio del fanciullo.

Nella seconda parte dell’elaborato svilupperò le idee di un’autrice più contemporanea, Margot Sunderland, psicoterapeuta infantile e direttrice del Institute for Arts in Therapy and Education di Londra, che utilizza la fiaba come strumento terapeutico, avvalendosi di due modalità: la prima è la costruzione da parte del terapeuta di una storia che ricalchi la situazione emotiva del bambino, mentre la seconda è la costruzione di una storia che il bambino stesso inventa e crea. In ambedue i casi si tratta di storie terapeutiche, ma seguendo il primo approccio, la storia creata dal terapeuta per il fanciullo ha come finalità l’esplorazione delle dinamiche emotive del bambino, aiutandolo a sentirsi più compreso e meno solo di fronte ai propri disagi e proponendo all’interno della trama possibili vie di uscita dalla situazione che lo tormenta.
Mentre nel secondo caso il bambino diventa l’autore di racconti fantastici e le storie che crea riflettono nelle trame e nel susseguirsi degli eventi i nuclei nevralgici delle sue vicende interiori. I protagonisti e le vicende fantastiche create dal piccolo si configurano come una proiezione del suo mondo interno. In questo modo la fiaba assume valore terapeutico, poiché essa si struttura come uno strumento proiettivo che può aiutarci ad indagare le dinamiche inconsce ovvero quei conflitti e quei pattern comportamentali che risiedono sotto il livello di consapevolezza e possono tormentare il bambino.

Per la Sunderland il materiale fiabesco ha connotazioni terapeutiche quando il racconto di storie può facilitare la crescita psicologica del bambino aiutandolo nell’esteriorizzazione delle vicende interiori. Ma perché il racconto di fiabe è stato messo al bando e sempre più ignorato dai genitori di oggi, che considerano la fiaba una letteratura di serie “B” e talvolta perfino dannosa per i propri bambini? Perché tanti genitori preoccupatissimi del felice sviluppo dei loro figlioletti tengono così di poco conto il valore della fiaba, privando i bambini di quanto queste storie hanno da offrire? La prima risposta che sorge a questi interrogativi è che il mondo occidentale, impregnato di razionalismo, non può offrire né spazio né tempo alle fiabe poiché, considerate quadri non veritieri della realtà, sono percepite inutili e malsane.
Alcuni genitori temono che raccontare ai loro piccoli gli eventi fantastici contenuti nelle fiabe significhi dir loro delle “bugie”, poiché questi non trovano corrispondenza nel mondo reale. Questa loro preoccupazione trova spesso alimento nella domanda del bambino: “È vero quello che mi racconti?”. Molte fiabe offrono una risposta a questo interrogativo ancora prima che il quesito possa essere posto: cioè proprio all’inizio della storia. Spesso l’incipit delle fiabe viene trascritto come “C’era una volta..” o “Tanto tempo fa… in un regno lontano ..” e questa indeterminatezza spaziale e temporale fa intuire al bambino che i racconti sono veri “nell’antica e remota epoca del regno della fantasia”, poiché la verità delle fiabe è la verità della nostra immaginazione, non quella dei normali rapporti di causa-effetto.

Altri genitori temono che i loro piccini si possono lasciar trasportare dalle loro fantasie finendo per credere nella magia, ma questi trascurano il fatto che ogni bambino crede nella magia avendo un pensiero prevalentemente animistico3 e che cessano normalmente di farlo quando diventano grandi. Altri ancora temono che la mente di un bambino possa fare una tale indigestione di fantasie fiabesche da trascurare d’imparare come si affronta la realtà. Ma questa erronea convinzione è smentita anche da Bettelheim il quale ne sostiene l’impossibilità: “Per quanto una persona sia complessa – piena di conflitti, ambivalenze, contraddizioni – la personalità umana è indivisibile. Quale che possa essere un’esperienza, coinvolge sempre tutti gli aspetti della personalità. E la personalità totale, per essere capace di affrontare la vita, deve poter essere sostenuta da una ricca fantasia combinata con una ferma coscienza e una chiara comprensione della realtà” (Bettelheim, 1976, p.117). Espresso in altri termini, affidarsi e usare la fantasia non esclude il fatto di vigilare sulla realtà tangibile.

Ci sono poi coloro che mettono al bando le fiabe tradizionali poiché ricche di personaggi mostruosi e terrificanti, così eliminando personaggi salienti o ancor peggio tramutandoli da malefici a bonari e trascurando, allo stesso tempo, il mostro che il bambino conosce meglio e lo preoccupa di più. Seguendo Bettelheim, in questo modo il bambino non è in grado di viversi “il mostro che sente o teme di essere, e che a volte arriva a perseguitarlo” (ibidem p. 119) . Tenere questo mostro all’interno del bambino, inespresso e nascosto nel suo inconscio può essere molto più pericoloso; mentre dargli vita con l’immaginazione significa alleggerire il fanciullo da massicce ansie e preoccupazioni, insegnandogli a dominarlo e a conoscerlo senza averne timore, tramite l’identificazione col personaggio.
Ma le fiabe popolari o le più generiche storie moderne lette o inventate dai bambini hanno davvero funzioni terapeutiche per il sano sviluppo psicologico?

1. La funzione terapeutica della fiaba secondo Bruno Bettelheim e Marie-Louise von Franz: significati psicoanalitici a confronto.

1.1 Due diversi modi di attribuire significati alle fiabe.

In questo secondo capitolo verrà illustrato e comparato il pensiero di due autori che hanno prodotto opere fondamentali sulla comprensione psicologica e sul valore terapeutico delle favole: Bruno Bettelheim (1903-1990), illustre psicoanalista infantile di matrice freudiana, e Marie-Louise von Franz (1915-1998), allieva e collaboratrice di Jung nonché grande esponente della psicologia analitica del XX secolo.
Per Bettelheim la fiaba permette di risolvere i problemi psicologici annessi al processo di crescita del bambino. La sua funzione è quella di illustrare in forma simbolica i tipici conflitti interiori, come superare delusioni narcisistiche, dilemmi edipici e rivalità fraterne, mostrando come questi possono essere risolti riuscendo ad abbandonare dipendenze infantili, conseguendo il senso della propria individualità e del proprio valore. Le favole, con le parole di Bettelheim, si occupano soprattutto di quei problemi “che preoccupano la mente del bambino, e quindi parlano al suo Io in boccio e ne incoraggiano lo sviluppo, placando al contempo pressioni preconscie e inconsce.
Le storie, nel loro svolgimento, ammettono a livello conscio e manifestano le pressioni dell’Es, e indicano dei modi per soddisfare quelle che sono in accordo con le esigenze dell’Io e del Super-io”. (Bettelheim, 1976, p.14)
Ad esempio la fiaba “I tre porcellini” illustra in maniera simbolica il conflitto tra il principio di piacere e il principio di realtà. In maniera indiretta la fiaba insegna al bambino che non bisogna essere pigri e prendercela comoda, perché altrimenti potremmo morire. Le case che i tre porcellini costruiscono simboleggiano il progresso dell’uomo nella storia. Il comportamento dei primi due porcellini rappresenta il modo di vivere secondo il principio di piacere (Es), senza darsi pensiero per il futuro e preoccuparsi dei pericoli della realtà. Solo il terzo porcellino ha imparato ad agire secondo il principio di realtà (Io); è in grado di rinviare il momento del piacere e agisce conformemente alla sua capacità di prevedere il futuro. Le azioni dei porcellini riflettono un progresso da una personalità dominata dall’Es a una personalità sotto l’influenza del Super-io, ma controllata dall’Io. Difatti, vivendo in accordo con il principio di piacere, i porcellini più piccoli cercano una gratificazione immediata. Il porcellino più grande ha imparato ad agire in conformità con il principio di realtà, rimandando il desiderio. Il lupo rappresenta le forze inconsce da cui l’individuo deve imparare a proteggersi e che possono essere sconfitte tramite la forza dell’Io.
La fiaba, in sintesi, cerca di far capire al bambino che è possibile raggiungere la soddisfazione, rispettando al contempo le esigenza della realtà.
L’obiettivo terapeutico della favola è quindi la conquista dell’integrità, perseguibile equilibrando le istanze intrapsichiche Io, Es e Super-io, in modo da placarne le pressioni che esercitano sull’inconscio del bambino, provocando conflitti difficilmente gestibili se lasciati giacere indisturbati nel serbatoio inconscio. Bettelheim utilizza dunque le categorie freudiane di Super-io, Io e Es per analizzare il contenuto delle fiabe, permettendo lo scontro tra le varie istanze intrapsichiche necessario per raggiungere un buon livello di maturità e soprattutto una sana personalità. Bettelheim, nel suo saggio “Il mondo incantato”, illustra la funzione pedagogica della fiaba e scrive: “ Il processo di sviluppo del bambino inizia con una fase di resistenza ai genitori e con la paura di crescere e termina quando il giovane ha realmente trovato se stesso, raggiungendo l’indipendenza psicologica e la maturità morale”( ibidem p.17). La fiaba permette al bambino di dialogare con i propri contenuti inconsci, poiché parla un linguaggio simbolico ed evocativo, non invadendo la sua intimità. Non va dunque detto al bambino il significato che la favola suscita in lui: la favola letta non va spiegata:
“è sempre un atto di invadenza interpretare i pensieri inconsci di una persona, per rendere conscio ciò che desidera mantenere preconscio e questo è particolarmente vero nel caso del bambino” ( Bettelheim, 1976 p.23). Fondamentale è che il bambino entri “indirettamente” in contatto con i propri motivi inconsci, poiché se totalmente negati alla coscienza o totalmente repressi la personalità subisce un danno. Il supporto offerto dal materiale fiabesco permette all’inconscio di affiorare alla coscienza e di rielaborarlo attraverso l’immaginazione, così da renderlo meno pericoloso e più malleabile. La fiaba, in quanto opera letteraria, mentre intrattiene il fanciullo, gli permette di evocare significati profondi in relazione al suo stadio di sviluppo. Afferma l’autore: “[…] le fiabe hanno un valore senza pari: offrono nuove dimensioni all’immagine del bambino, dimensioni che egli sarebbe nell’impossibilità di scoprire se fosse lasciato completamente a se stesso. Cosa ancora più importante, la forma e la struttura delle fiabe suggeriscono immagini per mezzo delle quali egli può strutturare i propri sogni ad occhi aperti e con essi dare una migliore direzione alla propria vita” (ibidem pp.12-13). I racconti presentano problemi umani universali (il bisogno di essere amati, la sensazione di essere inadeguati, l’angoscia della separazione, la paura della morte ecc.). La funzione terapeutica delle storie all’interno di questa cornice concettuale sta nel fatto che la fiaba si propone come una sorta di auto-cura, permettendo ai processi interiori di venire esteriorizzati tramite l’identificazione con i personaggi e la proiezione sulle trame narrate; il fanciullo trasla sul personaggio, con il quale si identifica, le proprie trame sentendosi meno solo, più rassicurato e soprattutto compreso. L’ esteriorizzazione è incoraggiata dalla fiaba, poiché essa parla di verità che non hanno a che fare con la quotidianità routinaria del bambino. L’incipit della storia come “c’era una volta”o “mille anni fa” introduce un altrove che non è il luogo e il tempo in cui siamo ma suggerisce che stiamo per lasciare il mondo della realtà, per entrare in un luogo antichissimo e remoto, simile allo spazio onirico dove la logica con la sua casualità viene sospesa lasciando spazio all’immaginazione e alla fantasia.
Un elemento che favorisce il processo di identificazione è la non ambivalenza dei personaggi, in quanto essi si presentano o come del tutto buoni o come del tutto cattivi. Prima e durante il periodo edipico, il bambino divide ogni cosa in opposti, scinde il buono dal cattivo, sia nel mondo esterno che in quello interno. La presentazione delle polarità del carattere, contenuta nei personaggi fiabeschi, permette al bambino di comprendere con meno difficoltà la differenza fra i due aspetti e al contempo di familiarizzare con la propria parte “oscura”, come l’aggressività, la rabbia, la gelosia, l’odio, ecc. che generalmente vede riflessa nei personaggi negativi. Quando il bambino si identifica con il personaggio fiabesco l’interrogativo che egli si pone non è “voglio essere buono?” ma “chi voglio essere?” ricalcando una questione esistenziale molto profonda che va ben oltre una semplice questione di preferenza e implica un’ ardita ricerca di significato per la costruzione della propria personalità.
Inutile tentare di tener i fanciulli sotto una campana di vetro illudendoli che tutto ciò che incontreranno e vivranno sarà roseo e meraviglioso, ma più utile e sensato è mostrargli che nella vita esistono anche gravi difficoltà e ostacoli, che possono essere superati con il coraggio e la determinazione. La struttura della fiaba assolve anche a questa funzione: oltre alla fata buona si può trovare anche la matrigna cattiva, ma quest’ultima può essere depotenziata e resa innocua, mettendo in atto le opportune strategie. Le fiabe per Bettelheim non sono semplici storielle per addormentare i fanciulli la sera, ma sono più profonde di quanto noi pensiamo. Ad esempio la formula finale “e vissero tutti felici e contenti” non implica un’illusoria credenza nella vita dopo la morte, bensì suggerisce al fanciullo che formando una relazione interpersonale, che nella fiaba può configurarsi, ad esempio, con l’unione della principessa con il principe, l’individuo può sfuggire all’angoscia di separazione e che è necessario uscire dalla “stretta dei genitori” senza che ciò implichi morte interiore e distruzione.
Alcuni motivi fiabeschi oltre a quello primario che è la conquista dell’integrazione, secondo Bettelheim, che possiamo trovare nelle fiabe possono essere:
– le trasformazioni dei personaggi che permettono di scindere una persona in due per mantenere incontaminata l’immagine buona, con questo espediente tutte le numerose contraddizioni sono improvvisamente risolte. (vedi il personaggio della matrigna che permette di scindere la madre nell’oggetto cattivo e malefico)
-il romanzo familiare: può contenere l’idea che i propri genitori non siano realmente i propri genitori e che il bambino è figlio di qualche altro individuo. Questa fantasia è utile perché permette al bambino di nutrire un’autentica collera contro il “falso genitore” senza avvertire sensi di colpa, ad esempio la figura della matrigna cattiva permette di proiettare i sentimenti negativi su di essa preservando l’immagine della madre buona.
-la sostituzione dell’ordine al caos: i personaggi essendo unidimensionali sono incarnazioni di aspetti tra loro diametralmente opposti, questo permette di sistematizzare il caos interiore del bambino e di isolare e separare tra di loro i diversi e contraddittori aspetti dell’esperienza proiettandoli anche su personaggi diversi.
-Conflitti edipici e risoluzioni: in alcune fiabe, ad esempio in Cenerentola o in Biancaneve, l’esistenza beata della fanciulla edipica con il padre viene interrotta dall’entrata in scena della perfida matrigna, raffigurata come un personaggio più anziano e malintenzionato che minaccia la coppia padre-figlia. I bambini edipici, grazie alla fiaba, possono godere pienamente di soddisfazioni edipiche a livello fantastico e mantenere buoni i rapporti con i genitori nella realtà.
Infine, mi pare utile riportare la distinzione che Bruno Bettelheim compie tra fiaba, mito e favola. Si definisce mito la narrazione di eventi fantastici o leggendari, in qualche modo legati a credenze religiose, su divinità e antichi eroi o sui rapporti tra l’uomo e la natura. Anche il mito, come la fiaba, rappresenta un conflitto interiore ma presentando il tema in forma grandiosa i personaggi acquisiscono tratti con i quali è difficile identificarsi, poiché noi umani rimarremo sempre inferiori agli dei. I miti riguardano le richieste del Super-io in perenne conflitto con le richieste dell’Es e le esigenze di autoconservazione dell’Io ma per quanto ci possiamo sforzare non riusciremo mai a vivere completamente all’altezza di quanto il Super-io, così come è rappresentato dai miti degli Dei, sembra chiederci. La fiaba contrariamente al mito non pone richieste, non fa sentire inferiori cosicché anche un bambino piccolo può identificarsi con facilità con i personaggi. Le favole diversamente dalle fiabe sono racconti brevi e semplici, per lo più di carattere morale, che hanno come protagonisti gli animali.
Secondo Bettelheim, la funzione terapeutica della favola è assai limitata rispetto ai benefici che si possono trarre dalle fiabe. Le favole presentano anch’esse un difficile conflitto interiore ma suggeriscono, in forma figurata, quello che le persone dovrebbero fare, imponendo o minacciando in modo moralistico la soluzione da adottare suscitando così ansia e timore che bloccano la discesa conoscitiva del bambino nel proprio inconscio.
In altri termini, parlano con il linguaggio autoritario e critico dell’adulto, dicendo cosa è giusto fare e cosa non fare, scartando così tutto il range di possibilità che il bambino dovrebbe consultare quando si trova in conflitto o in situazioni problematiche.
Per Marie-Louise von Franz, l’azione terapeutica delle fiaba mira alla descrizione e al potenziamento di un unico evento psichico estremamente complesso, che Jung definisce Sè, perseguibile tramite il processo di individuazione4.

Rifacendosi alla psicologia analitica junghiana, l’autrice sostiene che le fiabe consentono di studiare approfonditamente l’anatomia comparata della psiche in quanto esprimono in forma simbolica i processi dell’inconscio collettivo riproducendo alcuni modelli archetipici del comportamento umano. La von Franz abbraccia e condivide la tesi junghiana secondo la quale oltre ad un inconscio individuale che Jung chiama “inconscio personale” composto principalmente dai cosiddetti “ complessi a tonalità affettiva”, propri della vita psichica di ogni individuo, vi è anche un inconscio definito “ inconscio collettivo” dove risiedono gli archetipi, di cui la fiaba ne è pura espressione. L’inconscio collettivo può essere immaginato come un grande serbatoio comune e identico per tutti gli uomini che costituisce un substrato psichico universale di natura sopranaturale presente in ogni uomo. Con le parole di Jung: “un certo strato per così dire superficiale dell’inconscio è senza dubbio personale. Esso poggia però sopra uno strato più profondo che non deriva da esperienze e acquisizioni personali e che è innato. Questo strato più profondo è il cosiddetto inconscio collettivo” (Jung, 1936, pp. 15-16). Ma che cosa sono questi archetipi di cui la fiaba ne costituirebbe un autentico riflesso?

Il termine archetipo (da archè, principio, origine, e typos, forma ma anche immagine) indica le “immagini primordiali”, esse sarebbero autoctone, capaci cioè di generarsi in forza autonoma, percepibili nella coscienza ma provenienti da una matrice inconscia comune a tutti i popoli. Il sé, al quale mira ogni fiaba, rappresenta l’archetipo fondamentale della psiche, l’obiettivo primario dell’intero corso della vita: la completezza umana, la compenetrazione delle forze opposte che da sempre influenzano il nostro comportamento. Marie-Louise von Franz definisce il Sè come “la totalità psichica dell’individuo, ma anche, paradossalmente, il centro regolatore dell’inconscio collettivo. Ogni individuo e ogni popolo vive a suo modo questa realtà psichica”(von Franz, 1969 p.2 ). La totalità psichica, di cui parla l’autrice, fa riferimento alle varie componenti che strutturano la personalità, esse devono essere integrate tramite il processo di individuazione, per poter raggiungere il Sè. Con il termine individuazione, si intende quel lento e quasi impercettibile processo di sviluppo psichico che conduce, nel corso della vita, verso l’unificazione e la fusione delle varie istanze dell’apparato psichico, che per la psicologia analitica junghiana sono:
– Io: il complesso centrale nell’ambito della coscienza, rappresenta la mente conscia – Ombra: è la parte inconscia della personalità caratterizzata da tratti e comportamenti che l’Io cosciente tenta di rimuovere o ignorare.
– Anima/Animus:secondo Jung, ognuno di noi porta in sé l’immagine dell’altro sesso, l’inconscio dell’uomo porta in sé un elemento femminile complementare e così dicasi per la donna che porterebbe un elemento maschile complementare.
-Persona (dal latino “maschera dell’attore”): si riferisce al proprio ruolo sociale, derivato dalle aspettative della società e dell’educazione.

Nei sogni, così come nelle fiabe, le varie istanze possono manifestarsi sotto forma di personaggi: l’anima, in quanto principio dell’eros, può venir rappresentata con immagini di donne che variano dalla prostituta e seduttrice alla guida spirituale (saggezza). Sono personaggi dai tratti effeminati, ipersensibili e talvolta melanconici, mentre i personaggi che incarnano l’Animus, essendo il principio del logos (razionalità), presentano caratteristiche di rigidità, intransigenza e spirito polemico. L’ombra si configura in quei personaggi più istintivi, selvaggi e primitivi, spesso nei sogni è rappresentata da una persona dello stesso sesso che sogna.

Nel volume “Le fiabe del lieto fine, Psicologia delle storie di redenzione” (von Franz, 1987), l’autrice sviluppa il concetto della storia a lieto fine attraverso la redenzione concepita come una liberazione, con la suprema possibilità di arrivare a conoscere e sviluppare il proprio Sè. Le fiabe non sono esclusivamente rilevatrici dello stato di salute psichica ma si propongono anche come metodo terapeutico, per ottenere un processo di guarigione, addestrando il soggetto all’individuazione, per raggiungere la percezione cosciente della propria e unica realtà psicologica, tenendo conto di potenzialità e limiti. Analizzando la struttura archetipica della fiaba, la psicoanalista svizzera scrive: “ al di sotto della superficie delle nostre vite quotidiane esiste uno strato della vita psichica dove gli eventi scorrono proprio come nelle fiabe. I grandi miti emergono e si sviluppano a partire da tale livello per poi ridiscendere nuovamente nel profondo dell’inconscio e trasformarsi in fiabe” (von Franz,1977 , p.22). In altre parole, le fiabe rappresentano gli archetipi in forma chiara e coincisa, offrendo preziosi contributi ed indizi per comprendere i processi che si attuano nelle psiche collettiva. Secondo la von Franz, l’interpretazione della fiaba non è altro che la traduzione della storia in un linguaggio psicologico. Il motivo e la ragione, che conducono a tale lavoro analitico, sono gli stessi che spingevano a raccontare fiabe e miti: l’effetto vivificante che se ne trae e la pace con il substrato inconscio istintivo che ne consegue. Attraverso il racconto è possibile leggere un processo personale e culturale: un tentativo di riconoscersi nelle fiabe. Nel suo libro Le fiabe interpretate (1969), l’ autrice arriva ad illustrare le fasi da seguire per una corretta interpretazione della storia archetipica. La fiaba per essere interpretata deve essere divisa nei suoi vari aspetti5:

1. Introduzione: l’introduzione più comune che generalmente si ritrova nelle fiabe è
“C’ era una volta…”. Questa formula indica una collocazione temporale e spaziale fuori dal tempo, in un non-tempo, in “nessun luogo dell’inconscio collettivo” (Ibidem, p.40).

2. Personaggi: contare il numero di personaggi all’inizio e alla fine può essere utile per cogliere un elemento archetipico della fiaba stessa: von Franz illustra l’esempio di reintegrazione del principio femminile, in un racconto dove all’inizio “il re aveva tre figli”, quindi va sottolineato che ci sono quattro personaggi e la madre assente. La narrazione, però, può finire con una disposizione diversa dei vari personaggi anche se il numero è invariato: il figlio, la sua sposa, la sposa del fratello e un’altra sposa, tre donne che erano totalmente assenti.

3. Esposizione o inizio del problema: all’inizio della storia vi sono sempre delle difficoltà, perché altrimenti non vi sarebbe la storia stessa, le crisi e le difficoltà vanno attentamente analizzate per centrarne il significato e captarne l’essenza.

4. Peripezia e Lisi: segue la peripezia che può essere una sola o molte e può durare anche parecchie pagine fino a giungere all’apice della tensione dopo la quale “avviene una lisi o, talvolta una catastrofe, una soluzione positiva o negativa, un esito finale”(Ibidem p.36)

5. Formule conclusive: dette anche “rite de sortie” per non rimanere nel mondo onirico dell’inconscio collettivo dove siamo stati condotti nel racconto della fiaba. Una caratteristica della conclusione in una fiaba che non troviamo in altri generi come miti e leggende è che essa alle volte può essere ambigua, cioè una conclusione felice seguita da un’osservazione negativa del narratore.

Per concludere la panoramica sui motivi fiabeschi di matrice junghiana portata avanti da Marie-Louise von Franz è utile illustrare alcuni personaggi con i relativi archetipi che rappresentano che possiamo trovare nelle fiabe. Ogni archetipo è scisso in due polarità opposte, tranne l’archetipo del vecchio sapiente (vecchio saggio) e della magna mater (la Grande Madre) che esprimono, il primo, la totalità del principio maschile e spirituale mentre, il secondo, la totalità del principio femminile e materiale. Il vecchio sapiente (vecchio saggio) che compare spesso come aiutante del protagonista è il più tipico archetipo dell’integrità dell’Io maschile, incarna il suo potenziale che gli fa cenno dal futuro ma soprattutto le sue forze vitali che vengono ad un compromesso con lo spirito cosciente. Quando esso compare nelle fiabe, indica un indizio della saggezza e della superiorità che l’individuo vorrebbe acquisire per sé, infatti esso compare quando il protagonista si trova in una situazione critica dove per poter uscire dalla situazione disperata necessita di attingere dalle riserve energetiche dell’inconscio per poter raggiungere lo scopo. La magna mater è l’equivalente del vecchio sapiente e presenta la totalità nella donna o la sua potenziale integrità. Non bisogna confonderla con quella parte del potenziale femminile che è la maternità.

Tra gli archetipi maschili possiamo trovare il personaggio del padre/orco, questa figura è la personificazione dell’autorità, della legge, dell’ordine, delle convenzioni sociali, oltre ad essere anche figura maschile protettiva. Questo archetipo nella polarità di orco simboleggia il padre oppressivo che tenta di manipolare la personalità in modo conformistico mentre al vertice opposto il padre buono che addestra il figlio al processo di individuazione. Il personaggio del giovane vagabondo o cacciatore è l’equivalente maschile della Principessa; dotato di giovinezza e gaiezza, ha in sé il seme della potenziale trasformazione nell’eroe e successivamente nel vecchio saggio, incarnando a tutto tondo i molteplici aspetti dell’Io; poiché egli è anche il Cercatore. L’aspetto del vagabondo rimanda a un personaggio privo di altre influenze se non quelle provenienti direttamente dal suo inconscio, il suo errare privo di obiettivi indica il rifiuto di diventare adulto rischiando così di rimanere un eterno fanciullo anche nella vecchiaia negandosi la condizione di uomo; l’aspetto del cacciatore simboleggia invece la passione piena di curiosità e di spirito avventuriero che contrasta con la pazienza, il sacrificio e la dedizione.

L’archetipo dell’eroe/cattivo raffigura l’audacia e lo spirito d’iniziativa dell’individuo. Se le attitudini di volontà e di potere di comando vengono esaltate ed estremizzate in tutti i campi possono sfociare in tendenze aggressive di natura antieroica facendo così emergere la parte negativa dell’archetipo, ovvero la figura del cattivo. Il cattivo rappresenta le radici dell’inconscio e questo archetipo ha una forte propensione all’egoismo che può portare alla megalomania, soprattutto se si trascura il versante emotivo.
La figura archetipica dell’imbroglione (o mago bianco) / (mago nero), è inafferrabile e alquanto complessa: i lati luminosi e quelli oscuri si compenetrano e sembrano molto meno differenziati che negli altri archetipi. Questa figura dapprima può essere utile ma diventare pericoloso in un secondo tempo (o viceversa). Tuttavia quando le difficoltà sono state affrontate e gli ostacoli superati, allora tutti gli sforzi avranno una ricompensa, qualunque cosa sia successa nel frattempo.
Anche gli archetipi che riguardano la sfera del femminile, come quelli maschili si presentano scissi in due polarità tra loro opposte uno tra i più comuni è quello della madre/madre terrificante (matrigna).

La polarità madre incarna l’aspetto materno e protettivo della donna: la creatrice del focolare, colei che dà cibo e rifugio mentre quella della madre terrificante è l’aspetto divorante, castrante e distruttivo della maternità che può anche sorgere in una madre comprensiva, iperprotettiva che inizia improvvisamente a minacciare la crescita, lo sviluppo e l’indipendenza dell’individuo, la madre che tiene i figli legati a sé con un amore e una dedizione abnorme può apparire anche in queste sembianze. Il personaggio archetipico della principessa/seduttrice, da una parte incarna le qualità eternamente giovani della spontaneità e del calore umano, mentre dall’altra incorpora l’immagine della fantasia erotica, la fatale sirena incantatrice e distruttrice di ogni autentico rapporto. L’amazzone/cacciatrice è l’archetipo che rappresenta le qualità intellettuali femminili dove nella prima metà compaiono tratti come la forte determinazione, tenacia, impegno e ambizione e nella seconda metà accanimento e frustrazione per le ambizioni irrealizzate. In ultima analisi, l’archetipo della sacerdotessa/strega indica, nella polarità di sacerdotessa, le qualità di saggezza, conoscenza, guarigione mentre nella polarità opposta di strega caratteristiche come la sensitività, l’estasi, l’occulto e l’extrasensoriale. Dopo questa descrizione non sarà difficile rintracciare molti personaggi tipici delle fiabe più note: il Re e la Regina, come Padre e Madre, l’Orco e la Matrigna, che rappresentano i loro aspetti negativi, il Principe (o Giovane) e la Principessa, la Fata (o sacerdotessa) e la Matrigna (strega), il Mago (Bianco) o lo Stregone (Mago nero), l’ Eroe e l’antagonista (il cattivo), il Vagabondo spesso rappresentato nella fiaba come il fratello minore disprezzato da tutti, l’eroina(o amazzone) e il suo aspetto negativo (la Cacciatrice o Assassina) e cosi via.

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1Con questo termine si intendono quelle fiabe legate alla tradizione orale e patrimonio del popolo che molti autori hanno raccolto e trascritto. Tra i trascrittori di fiabe di matrice europea più noti si possono citare: Charles Perrault (Francia) e i fratelli Grimm (Germania) e i più recenti Italo Calvino ( Italia), Alexander Afanosiev (Russia) e William Butler Yeats (Irlanda). Fra gli inventori di fiabe più celebri che non hanno trascritto fiabe popolari ma inventate di nuove riprendendo creativamente gli stilemi della tradizione popolare troviamo il danese Hans Christian Anderson, l’italiano Collodi e il britannico James Matthew Barrie.
2 La parola archetipo deriva dal greco antico ὰρχέτυπος col significato di immagine: tipos (“modello”, “marchio”, “simbolo” e archè (originale). Nella concezione junghiana il termine viene usato per indicare le idee innate e predeterminate dell’inconscio collettivo.
3I bambini, soprattutto dai due ai sei anni, attribuiscono “vita” sia ad oggetti inanimati. Questa tendenza del fanciullo a considerare i corpi come vivi e dotati di intenzionalità, è stata definita da Piaget “animismo infantile”.
4 Il termine “individuo significa “non divisibile”. L’individuazione, secondo il pensiero junghiano, è il processo attraverso il quale l’individuo diventa se stesso, un essere umano intero e inscindibile. Esso tende alla realizzazione della totalità psichica e cioè dell’integrazione delle varie componenti della psiche: tale tendenza è espressione dell’archetipo del sé.
5Le fasi della struttura della fiaba sopraelencate sono tratte dal volume di M.L. Von Franz, Le fiabe interpretate, 1996.

La soglia di Susan Stewart

di Andrea Galgano             25 settembre 2014

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Susan Stewart Poet Writer Critic

Susan Stewart (1952) esprime la vitale vertigine di un nutrimento che attinge dal repertorio dei classici latini e greci e dalla coltre concettuale sedimentata dei poeti metafisici inglesi del Seicento, ma manifesta una pura e sostanziale ricerca espressiva che si sporge sulla conoscibilità del reale, sulla sua calorosa meraviglia e, infine, sulla concretezza che si fa immagine primordiale ed eco inscindibile.
Poetessa, membro dell’American Academy of Arts and Sciences, critico, traduttrice (ha tradotto l’Andromaca di Euripide), insegna storia della poesia ed estetica presso l’università di Princeton e nel 2005 ha ottenuto il titolo di Chancellor dall’Accademy of American Poets.
Il suo sguardo si afferma nella densità dell’essere. In essa la realtà emerge nella sua datità, nella sfrontatezza di una cosalità mai ridotta, ma vibrante nella profondità e nell’intensità di una «ambiguità instabile tra le profondità intime dello’io e, d’altra parte, il fondo misterioso della realtà che ci circonda, fino ad esiti solo apparentemente paradossali» (Antonio Spadaro):

«Lascia che ti parli del mio meraviglioso dio, di come si nasconda negli esagoni / delle api, di come la siccità che strofina le sue mani coriacee / sopra il mondo sia una sua creazione, così come la pioggia nei minuti silenziosi / che lasciano soltanto pensieri di pioggia. / Un atomo che lavora e lavora, un atomo che lavora nella notte / più profonda, poi esplode come la stella più lontana, molto / più piccolo di una puntura di spillo, molto più piccolo di uno zero che non ha / nessun desiderio, nessun desiderio verso di noi».

Scrive Roberto Mussapi:

«La Stewart […] restituisce un binomio di felicità visionaria e potenza rivelante su cui si innesta innanzitutto la poesia americana, e una dimensione metafisica, di origine europea, dove metafisico non indica una astratta speculazione nelle sfere celesti, ma la rappresentazione di realtà invisibili e incorporee attraverso immagini concrete, azioni, insomma la traduzione dell’ invisibile in visibile che è uno dei sogni e degli impulsi originari che muovono ogni artista. Come molti poeti americani del passato, è legata al mondo presocratico, vale a dire al pensiero greco delle origini, quando filosofia, cioè ragionamento logico, e poema, cioè cosmologia, canto della natura, si intersecano e a volte si fondono. Paesaggi, luoghi e figure elementari di un mondo percepito nel suo nascere: foresta, stelle, acqua, deserto, prato, lampo, rosa. Il mondo delle cose prime, rivelato dallo stupore del poeta che quanto più è immediato tanto è sapiente e sapienziale: «Io mi addormento in onore della pioggia, / in onore dell’inquietudine delle foglie, / e un gran fremito passa / sopra la terra; è la musica / del nostro dimenticare».

E ancora: «In Susan Stewart il mondo quotidiano, in cui la natura non è marginale ma onnipresente, si accende di lampeggianti rivelazioni, la vita è svelata in piccoli miracoli ininterrotti, continuamente celati nel mistero, cifra principe della realtà. Una poesia della soglia, continuamente al confine tra umano e divino, visione e meditazione filosofica. Immaginazione e pensiero trovano nella sua opera una formulazione nuova di un binomio cardinale della poesia d’Occidente». Pertanto il pieno brusio del suo magma cerca l’oscurità delle superfici, la sorgente primordiale e primaria di un luogo, «una fila di alberi, una fila di stelle. / Cercalo dunque: troverai che potresti perdere / il senso della profondità, / una foglia, un fascio / di carta, una federa / o una faccia / a forma di cuore, / un sibilo che infuria, / come i venti, come / la morte, in un groviglio / là nei rami».

È una danza avvinta che incontra i libri del buio («Buia la stella / fonda nel pozzo, / luminosa nell’acqua») e il silenzio muschioso, per premere contro l’oscurità, «andando più a fondo nell’acqua, nero nella nerezza, / la fonte dell’acqua che aspetta là, lontana sotto l’acqua / e l’acqua nera come carbone, / nera come qualsiasi cosa estratta dalla terra; / allora portala alla luce del giorno e schiarirà / ancora, trasparente nel bicchiere trasparente, invisibile / sulle mani, benedizione, / che scende, felicità che balena».
La grammatica delle sue linee ha radure luminose e sospensioni di anima. Il verso frastagliato, dislocato e franto condensa le punte iconiche della riflessione, della percezione del reale e del suo contrappunto esperienziale, quest’ultimo forgiato dall’intuizione e dall’immaginazione.
Il risveglio celebra la soglia dei contorni e la loro nitidezza condivisa, laddove la scena invernale e brinosa porge il suo nero solco impenetrabile.
Il dopo-immagine ghiacciato raccoglie il volo improvviso e nitido che precipita e discende, come un empito di fiato che unisce sacro e profano, nel suo sibilo che infuria, lasciando l’impronta di una notizia splendente e impossibile: eppure «la verità rimane / che non posso sapere solo quel che ho visto e se / viene ogni notte, ogni sogno, ogni stella o per niente». Il gufo, che in questo poema è, allo stesso tempo, invocazione, notturno ed esplorazione, – ossia «troubled-recognition topos», secondo la felice definizione di Randall Couch, diventa, come commenta Maria Cristina Biggio, «nell’istante della poesia e per sempre, meravigliosa creatura che sposa il paesaggio e redime il tempo-di-ora bloccato nell’attesa di fare “un sogno invernale”».
L’abbandono e la forza epistemologica della mobilita la sua ricerca di significato, si compromette con l’allungamento delle ombre e con la profondità della indeterminatezza dello slittamento della percezione visiva. Essa diventa, pertanto, il luogo della creatività e della fantasia, come finalità della forma.
In un’intervista rilasciata a Roberto Mussapi, su “Avvenire”, del 28 dicembre 2013, Susan Stewart traccia la sua vitale e meravigliosa stele poetica, affermando che

«La bellezza di ogni poesia è costruita sulla musica dei suoi suoni e intervalli misurati, sulla vividezza delle immagini, l’immediatezza e la tessitura del suo eloquio, e la sua evocazione di presenza. Le poesie sono vive, e la loro vita è più lunga di ogni nostra vita individuale. Il pensiero poetico è capiente, perché esalta non solo tutti i nostri poteri mentali (la ragione, l’immaginazione, le memoria e l’emozione insieme), ma anche i nostri ritmi fisici, il battito dei nostri cuori, il ritmo del respiro, gli occhi che si chiudono o si aprono. Nel leggere e scrivere poesia noi portiamo il nostro intero se stesso a significati condivisi. Come forma d’arte, la poesia ha valore in se stessa, il linguaggio attraverso il quale la poesia si compie non si esaurisce nell’esperienza o nei desideri del momento. No, la poesia vive oltre il contesto del suo farsi e la sua storia procede».

L’orbita immaginale e il colombario della sua anima lucente di buio fiutano e tentano di appropriarsi della vita piena e della sua realizzazione, come l’atto di fede che arreda la transizione e la liminalità. Esse interrogano, come scrive M. C. Biggio,

«l’idea di trascendenza (la luce, il volo, gli uccelli, le ali, le api, il vento, il “fuoco vivente”, il divino, la fuga, il paradiso, la bellezza lirica, il vorticare) e la realtà della discesa (l’oscurità, la cenere, il bruciare, la caducità, il radicato, il sotterraneo, il mondo fisico e i suoi elementi, ecc.). Sono motivi costanti anche la riflessione sul farsi e sulla forza epistemologica dell’invenzione poetica – capace di estendere la nostra imperfetta conoscenza del mondo e di tracciare una nuova mappa di mondi possibili rivelando il sacro e il misterioso di realtà trasfigurate dall’arte – e sull’ossimorica potenza della “memoria umana”, intesa come abisso, fondo incommensurabile in cui il tempo si fa quasi infinito nella vita breve e mortale dell’uomo che la possiede. Ad essi si accompagna l’interesse di Stewart per la perduta condizione edenica dopo la cacciata dei nostri mitici progenitori: il tema della caduta offre alla sua poesia la possibilità di farsi struggente ripetizione del giardino e, nel contempo, lamento dell’esperienza profondamente umana del limite, senza che in essa vengano mai meno né la capacità di confrontarsi con la tragedia e il male come parti del tutto, né la speranza e lo stupore per l’incommensurabilità dell’esistenza».

La poesia cerca l’ineffabile tangibilità e percepisce l’attesa e la lotta contro le soglie tenebre, l’osmosi dei passaggi, l’enigma, l’alchimia del linguaggio, per folleggiare «con il nonsense e l’ironia (intesa in senso romantico e in quello socratico di dissimulazione nella struttura discorsiva) per sottolineare il dubbio e l’incertezza che l’accompagnano, e che usa il mito come prezioso collante alle interrogazioni della cangiante e multiforme realtà. Per poter infine dire, al di là di quinte e sipari e con la più vasta gamma possibile di domini del reale, il favoloso mondo sognato in cui «nessuna morte è naturale» (Maria Cristina Biggio): «Una volta eri addolorato / e loro ti vennero incontro nell’aria bianca. / Entrarono in / una musica infinita, / il pavimento del tempio / era muschio calpestato. / Hai vegliato / per una fessura / nella pietra / che poteva aprirsi e / chiudersi liberamente, come / una mano. / Hai vegliato / nella verdezza mentre colmava l’aria bianca».
La densità ermetica della poesia di Susan Stewart si concentra sull’allusione, sull’incontro tra l’io e chi riceve, divenendo esplorazione d’infanzia e giovinezza del mondo.
La realtà si svela e compie il suo linguaggio e lo sguardo della Stewart, come visione binoculare, intuisce risvegli smossi, la nostalgia del passato trasferito e in transito, la frizione della vita e della morte e «tremare argento dell’elemento».
La sovrapposizione della memoria percorre le scapole della poesia in un contrasto metafisico e conoscitivo, vive di un trasalimento felice che illumina l’inizio per figurare la specificità dell’altro, ricalcarne le forme, conoscerne la fecondità.
L’erranza della materia, «Dove l’aria è intessuta di muschio che s’asciuga, / (in quel posto dove son cresciuta) la foresta in un groviglio, / un aroma di muschio dai funghi e dalle trine di muffe, / dolce-stellato andare, in un groviglio di rovi, di felci», permette di trapassare gli oggetti, di conoscere le stratificazioni, il limitare della foresta simbolica, che è «risorsa della natura, di tutto ciò che è oltre i fatti della storia, oltre i nostri concetti di spazio e tempo e le categorie e il nostro modo di conoscere e che, in quanto tale, precede la memoria e l’invenzione. La natura è l’indefinibile, l’illimitata risorsa al di sopra della quale la conoscenza si innalza – proprio come l’invisibilità sta al di là del visibile – non in senso mistico ma come un reale riconoscimento del limite dei nostri poteri analogo alla finitudine sancita dalle nostre morti individuali».
La chiarità e l’esatta precisione delle immagini di Susan Stewart si appropria delle trame e delle simmetrie dei giochi, come spostamento di forze (come lo spirito che vaga tra le foglie scosse di red rover) e ripiegamento svelato, riflessione sulle passioni e sui mali del mondo: «colui che si è riversato / nel suono, si è fatto parola del silenzio; / mandato in mezzo al tempo, si è fatto tempo che emerge. / Mentre il passato si accresce, il futuro diminuisce / e la paura assume i tratti dell’amore».
Fare precipitare la visione poetica tra le radici nascoste, lo stupore, gli abissi, tra le presenze vitali incise nella memoria fantasma e nella luce, nei vecchi dolori, è il genio dello scarto e della visione, situata nella «profonda mezzanotte del giorno e dell’anno».
Scrive ancora Maria Cristina Biggio:

«La Stewart accoglie, in una fantasmagoria di specchiata luce e ombra, le contraddizioni e i dubbi della realtà, allo stesso tempo accogliendo il progresso e l’avanzamento che nasce dal loro contrasto e scontro, lasciando entrare una variazione, formale e/o tematica nel verso ripetuto, che così slitta verso un significato di problematica discordanza, più cupo o perturbante che, appunto, disorienta il lettore […] Metafore e metonimia, metafore-metonimiche, giochi di parole e giochi con le parole […] sono la logica conseguenza di una metafisica instaurata con il senso (della vista, dell’udito, del tatto e di un senso vestibolare della vertigine o dell’equilibrio nell’attraversamento delle varie soglie), che viene poi necessariamente rappresentata in parole. Davanti all’eterno, all’invisibile, al non razionale, la parola umana prova a dire i cortocircuiti della razionalità, mentre il poeta sale e scende dalla mitica catena d’oro del linguaggio, tentando di avvicinare terra e cielo».

Persino il male, la caduta, il dolore diventano traccia meridiana ed eco di una possibile redenzione e di una nuova costruzione di mondo, come antifone che nominano e conservano le cose, come colonie perdute a punta di freccia e come litanie ripetute di uno shock ripetuto e continuo, che però non ha paura di richiamare i nomi di un mondo spezzato che riporta indietro il tempo, rallentato e pastorale (Elegia contro il massacro alla Amish School, west Nickel Mines, Pennsylvania, autunno 2006): « Lena, Mary Liz, e Anna Mae / Marian, Naomi Rose / quando il tempo si è fermato / dove il tempo ha rallentato / i cavalli portavano la pioggia. / Mary Liz, Anna Mae, Marian / Naomi Rose and Lena / le lanterne accese / nel buio mezzogiorno / nel processionale del dolore».
Il potere incantatorio del mito, laddove celebra la drammatizzata soglia dei vasti panneggi, va alla ricerca del linguaggio della memoria prenatale, celebra l’incisione dei luoghi e del tempo e, nelle sue prominenze lessicali, inscena una parola gravitata, «alla base immobile del mondo che gira», che non ammette eclissi, ma scava il suo sfioramento della visione presente, gli incontri trans temporali come riscrittura e connessione di qualcosa che non c’è ancora, ma trova la sua trama di inizi rianimati nel «sonno orlato di raso».

STEWART S., Columbarium, Ares, Milano 2006.
ID., Red Rover, Jaca Book, Milano 2011.
COUCH R., On the art of Susan Stewart (http://jacket2.org/article/art-susan-stewart)
MUSSAPI R., Quello stupore primordiale di Susan Stewart, in “Il Giornale”, 26 novembre 2014.
ID., Stewart, versi come atti di fede, in “Avvenire”, 28 dicembre 2013.
SPADARO A., Nelle vene d’America. Da Walt Whitman a Jack Kerouac, Jaca Book, Milano 2013.
BIGGIO M.C., Susan Stewart, due poesie (http://poesia.blog.rainews.it/2012/01/19/susan-stewart-due-poesie/)

a cura di Andrea Galgano e Irene Battaglini