Il piazzale senza nome di Luigia Sorrentino

di Andrea Galgano  1 febbraio  2021

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Il nuovo lavoro di Luigia Sorrentino, Piazzale senza nome[1] (Pordenonelegge – Samuele Editore 2021) è il recupero di una recisione, una vitalità disperata che, partendo dalla perdita della cara figura paterna, approda a una sofferta ferita che è vertigine e pulsazione, offerta e sacrificio, illuminazione sacrale e orientamento di piega numinosa.

Partendo dall’esergo plutarchesco, sulla morte da vecchi come approdo e da giovani come perdita e naufragio («noi che non eravamo mai stati del tutto / vivi all’amore, / eravamo caduti sul ciglio della strada / nella polvere / conoscemmo con cura il perdersi»), la sua poesia custodisce questa sacralità che lotta contro l’oblio, che si appropria di una dilatazione per farsi visione e viso, necessità di ricordo e testimonianza di incontro: «su tutto il giardino neve / dilatata / silenzio armato nelle pupille / neve, tutta nel sangue / narici oltraggiate / bianco e nero / l’incedere violento / del battito cardiaco / si chiude su di sé / nella luminosa potenza / avviene l’incontro» (Nel secolo che hai lasciato 1).

E ancora nella luce che geme, nella bellezza disperata, nell’enigma misterioso della vita e della morte, la lingua resta attonita e ferma nel cristallo antico dello stupore, come un avamposto di bellezza, un “quasi” nulla che è pura fertilità umana: «geme la luce / tanto più densa e oscura / oscuro marcire oscuro / assorti nella pietà gli occhi prendevano / il cristallo antico dello stupore / il cranio stretto fra le mani / povero e antico resto / bellezza disperata / chiamata a scendere / neve affamata ha consumato / il sacro giardino / nel secolo che hai lasciato».

Il cuore giovane che soffoca, grida, vive la sua linea parallela e la fecondità umbratile di una semenza felice e maledetta, dove il microcosmo del dolore singolare è lacerazione universale, ciò che resta non sono solo macerie o rovine, addii impossibili e carico infinito («lente le mani raccoglievano i capelli / sulla nuca / mentre la pioggia ricadeva / sui loro volti / uno alla bocca dell’altro beveva / la lentezza / sollevati nelle braccia / la sostanza liquida caduta / dalla bocca sul marciapiede / accasciata sulle spalle / la processione disumana / la beata, sfiorata giovinezza»), ma è la bellezza che non vuole morire, che non decide di scomparire:

«[…] Sotto la notturna volta della scala comunale è scomparso il ragazzo che infilzava lucertole trapassandole da parte a parte con il fil di ferro. Da poco si è accasciato sul terreno, in mezzo al groviglio di arbusti spinosi e rami secchi. Una striscia di cielo lo guarda. Nella testa della capra suona il ritmo assordante di una musica persecutoria. All’alba spalancherà gli occhi senza nessun ricordo. La morte da giovani arriva all’improvviso, carica di violenza. Lo smembramento è totale. Su tutto domina l’ebbrezza gridata da un cuore felice e maledetto» (Morti parallele).

La vitalità ombrata di questi testi raffigura una resistenza umana estremamente commossa, dove neve e sangue si uniscono, come se restituissero non una lotta impari ma un agone, in cui l’amore e il suo mistero accompagnano le tensioni dell’io, la sua vertigine, il proclama della sua indocilità dionisiaca: «la forza che uccide / in un colpo solo / è sommaria, rapidissima / occhi azzurri strappati dalle orbite / – vi divoreranno / il coltello posato a due centimetri / dal lago / dal sangue / dalla carne strappata / – vi insultano – / la capra geme sul tavolo / la gravità, oscura forma, / la preda».

In questa oscurità materica, in questa esiliata luce giovane («la notte si era accasciata / la giovinezza / l’avevamo trascorsa / nel peso della sua immortale rovina / noi che non eravamo mai stati / del tutto vivi all’amore / c’eravamo concessi al freddo / stretto nelle narici, nelle vene / avevamo perduto tutte le parole / la forza di una generazione»), nella sillaba muta di ogni sventura e nella preda edace del tempo, discesa come fame e consumazione nevosa, come afferma Mario Famularo, vi è non già una poesia introflessa «ma assolutamente attenta ed esposta all’altro da sé, essenziale alla comprensione dell’aspetto più autentico dell’esistere, al lato più tremendo e sacro dell’esperire il mondo[2]»: « il silenzio delle lamiere nascose / l’assalto in una notte di febbraio / i denti sul braccio fino all’osso / la testa contro il finestrino / – tu sei niente, nessuno – / e non so quando / tutto il nascosto ci travolse / senza emettere un lamento / gelò la fronte il respiro / della cenere». (Piazzale senza nome)

La carne strappata del dolore, nella sfinitezza della finitudine percossa («lui è uno di fonte al quale / ci si copre la faccia / crollato nel profilo / sfinito, brace predata dall’ambra / gola automatica / neve deglutita piano piano / vedo cose che altri non vedono / ha rinunciato / l’insofferenza della mano / percuote la sua ora»), nelle giovani vite tagliate e nel corteo di torture, il respiro sembra precipitare e abbandonarsi, ma è «nella calma materna» che «corre tutta la vita»:  «aveva oltrepassato il confine / restituita la voce / all’universo / la sorgente di luce non era più / visibile / era tramontata fra gli alberi / la notte bianchissima discesa / fino in fondo, guerriera / nel suo sangue la neve / il freddo polare nelle pupille / allagate / perdute per sempre».

La trasparenza bianca del dolore, raffigurato in immagini di abbandono, insulto, disprezzo tormentato, lascia impronte, si consegna alla fertilità di ciò che non muore, nonostante la rosa intorpidita e muta, la totalità della sofferenza, le palpebre socchiuse, l’indifferenza: «dal vetro vede la strada / una lingua umida / limacciosa / spalancata negli occhi / ha fame di notte / l’odore della pioggia senza peso / ha investito il corpo nascosto / l’odore viene dal basso / la suola delle scarpe / non ha consumato / la sconosciuta profondità / del vedere».

La poesia di Luigia Sorrentino scava nelle vene, non rilascia segni di nichilismo o di rassegnazione, narra l’esondazione tenebrosa delle ferite, mantenendo la forza di ciò che è senza fine, la parola amata, la linea dell’orizzonte femminile, la voce dell’universo e la grazia del padre: «la gioia del fiorire / ebbe inizio in te / la pienezza riempiva i frutti / l’imperioso fare ci ha traditi / – siamo stati traditi / dagli organi vitali – / la durata non ci tocca più / svuota le nostre vene / la giardiniera inghirlandata / ci arresta tra soste d’amore / guardandoti il volto distende / l’impronta della morte è svanita».

O, infine, in una sacrale accoglienza di bellezza custodita, il tremendum ha una pausa di dolcezza arresa e ci rimette una grazia rarefatta: «corpo affermato / dalla terra emanava / odore di fresie selvatiche / prepara lo stelo del fiore / un cammino di polvere / accudisce l’arcaico / rito dell’acqua / la pulizia con la spugna / alla fragile tomba / baciava la sua vita adorata / il male riempito / pulsava nelle soste del tempo / il suo cuore, l’oceano».

[1] Sorrentino L., Piazzale senza nome, Samuele Editore, Fanna (Pn) 2021.

[2] Famularo M., Piazzale senza nome di Luigia sorrentino, (www.laboratoripoesia.it/piazzale-senza-nome-luigia-sorrentino/).

Sorrentino L., Piazzale senza nome, Samuele Editore, Fanna (Pn) 2021, pp. 102, Euro 13.

Sorrentino L., Piazzale senza nome, Samuele Editore, Fanna (Pn) 2021.

Famularo M., Piazzale senza nome di Luigia Sorrentino, (www.laboratoripoesia.it/piazzale-senza-nome-luigia-sorrentino/).