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2020.02.26 il pensiero del giorno – Anemometro Temporale

di Gualtiero Armosino

26 febbraio 2020

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Non so se si possa misurare il tempo in nodi invece che in secondi, ma è così che io faccio. Mi serve per pensare che il respiro non finisca con la morte. Anche adesso lo sto facendo, nell’atrio partenze dell’aeroporto di fronte ad un poster pubblicitario che promuove il turismo nella mia città. La città in cui sono nato. Io il primo a nascere lì di una famiglia che ha cambiato nome per confondersi tra la gente del posto.

Nascere lì per mio padre, per la madre di mio padre, per il nonno di mio nonno è stato un traguardo. Io sono il traguardo.

Nella foto il cielo è azzurro e terso come in una giornata di Foehn.

Lo sguardo a volo d’uccello dello scatto di un drone in una bella giornata di pochi anni fa.

Le Alpi sullo sfondo.

Se mi giro, nonostante il vento soffi anche nel presente fuori da quella fotografia, una coltre di smog rende invisibile tutto.

Non riesco a vedere la collina che so esserci al fondo della pista di decollo e sulla quale c’è una casa in cui sono stato. Quando la ragazza che ero andato a trovare era solo una ragazza che odiava il padre e invidiava il fratello. L’erede di un nome che nessuno avrebbe mai cambiato.

Ma questo non conta più. Un vento di Tramontana ha portato via da lì quella ragazza da anni.

“Come fate a parlarvi con questo rumore continuo dei motori?” avevo chiesto io allora.

“Non ci parliamo neanche quando gli aerei non passano. Ma quando c’è tutto quel rumore assordante posso sorridere con le labbra e dire in faccia a mio padre cosa penso di lui, tanto non mi sente”.

La ventata d’aria fresca capace di pulire il cielo della mia città da tutti i fumi dell’industria sembra dirmi: “Non ce la faccio. Mi dispiace, mi sono arresa. Sorrido e apro le labbra ma faccio solo finta di soffiare come faceva finta di dire cose belle quella tua ragazza. Guarda là!”

E io guardo e vedo in mezzo alla folla agli imbarchi quattro persone con una mascherina anti-virus. Vedo tre ragazzi che escono dalla sala fumatori lasciando la sigaretta a metà appena entra un ragazzo dai tratti orientali.

Il ragazzo scuote la testa, sorride e dice: “Sono più sano e più italiano di voi, stronzi imbecilli!”. L’epidemia del Coronavirus riempie le pagine dei giornali. Ogni giorno il vento fa svolazzare una pagina in più.

La brezza mediterranea che mi aspetta a Barcellona è la stessa che ho lasciato trent’anni fa, quando ero arrivato con un treno su cui ero salito senza diritto.

Perché non avrei dovuto essere lì.

Non oltreconfine durante una licenza di cinque giorni sotto servizio militare. Era una cosa punibile con l’arresto.

Non in Spagna per la quale non provavo nessuna attrazione. Ero intimamente sprovvisto dell’estetica del sangre e arena, della passionalità del flamenco, del senso di Hemingway per l’aperitivo sulle Ramblas e il Partit d’Alliberament Catalunya mi stava già parecchio antipatico allora.

Ma era inverno e avevo già preso tanto vento freddo per i servizi di guardia, Parigi era troppo cara per una paga da sergente e volevo vedere Gaudì da tanto tempo.

Stavo cercando qualcosa di meno scontato di un venditore di fumo, di una discoteca trasgressiva e l’unico film in castigliano non doppiato in catalano era quello.

Per me il regista non era nessuno.

Antonio Banderas non era nessuno per tutti.

Ma la Ley del deseo era un titolo così suadente per uno che aveva vent’anni e cercava da tempo di capire quali fossero i suoi desideri che entrai nel cinema.

L’inizio era una provocazione senza precedenti.

La scena di sesso scorreva parallela di fronte ad una seconda telecamera in scena e riprendeva un ragazzo sexy qualunque e due attori del doppiaggio tanto bravi quanto privi di sensualità, a dimostrare che la pornografia è sempre e solo finzione.

Un transessuale interpretato da una donna come Carmen Maura e una madre interpretata da un transessuale come Bibi Andersen erano un tocco da maestro.

Il genio risaliva la china di una società manieristica da poco affrancatasi dal Franchismo. Il talento di uno che scherzava con un super-otto come se fosse stato YouTube.

L’indomani mattina venni via su un Pablo Casal diretto a Milano, carico di emergenti uomini d’affari, modelle e l’inizio di una folle economia fondata sul nulla degli anni ‘90 che ancora dovevano venire.

Ma tra il vento che avevo lasciato sulle Ramblas avevo visto una cosa che era unica.

In un posto dove non dovevo essere e che Almodovar aveva inventato.

Ed ora quella brezza è di nuovo qui.

A dispetto di bollettini medici che mi inseguono come un contagio.

Nell’ossessione fobica il mio Pablo Casal diventa il treno pieno di virus di Cassandra Crossing, diretto verso un ponte dal quale è previsto che precipiti perché nessuno ha capito che le bombole di ossigeno installate sui vagoni carrozza per isolarne i viaggiatori ammorbati hanno sconfitto il virus e tutti sono di nuovo sani.

E così Sofia Loren, Martin Sheene, Burt Lancaster, Ava Garner e O.J. Simpson sono qui con me, coinvolti in una suspense che alla fine li salverà. E il vento del destino consentirà a O.J. Simpson di ammazzare la moglie e vivere indisturbato fino a finire comunque in carcere per rapina a mano armata e sequestro di persona. Perché al vento non si sfugge.

E questo non lo dice l’anemometro in stile modernista catalano sul tetto di un palazzo su un paseo, lo dice invece il cartone animato di Gumball che mio figlio sta guardando in spagnolo nell’appartamento sopra il centro culturale LGTB che ha affittato mia moglie.

Anche il cartone parla di contagio. La delusione amorosa di un palloncino ha progressivamente tolto i colori al mondo e solo il recupero dell’amore per la vita, comprensiva delle sue incertezze, può far rinascere i colori che ritornano con un vento d’amore per le cose che possono essere indipendentemente da come sono soltanto.

Il vento dalla Germania ha portato un nuovo caso di Coronavirus a La Gomera nell’arcipelago delle Canarie che è la mia meta. C’è scritto su La Stampa di Torino di oggi che mia madre non ha ancora comprato e che a breve comprerà uscendo a prendere il pane.

Io guardo il telefono aspettando che vibri e che una voce preoccupata mi chieda con tono allarmante e allarmato di non andare alle Canarie a respirare gli Alisei.

Come se lei stessa o tutti quanti non potessimo già essere il contagio. Come se il vento si potesse fermare con un rifiuto a respirare.

Ma è vero che il vento non è per forza sempre e solo buono.

Era vento anche quello che ha portato via l’intero tetto della scuola di mio figlio cinque anni fa. È vento anche questo che ha riportato oggi il razzismo che aveva spinto secoli fa il mio trisnonno a fuggire dal Caucaso, prima che fosse troppo tardi.

Ma al vento si può sempre tendere una vela per risalirlo in bolina come un marinaio, come una donna di buona famiglia che sposa contro il volere di tutti uno zingaro che la lascia vedova in tempo di guerra, con figli che chiamano fascista il maiale nero nell’aia. Che nasconde Ebrei in soffitta con la cucina piena di nazisti in rastrellamento.

Una donna che non mi lasciato una ricetta della torta di mele della nonna ma che ha saputo rispondere ad un reduce da a un campo di concentramento, tornato a vedere se gli aveva tenuto i soldi e le cose che le aveva affidato: “Ecco è tutto qui, ed è ancora tuo. Ora puoi portare via di qui il mio figlio più giovane che ha lo stesso cuore debole di suo padre? Prima che schiatti sull’aia sotto un sacco di farina? Prima che debba coprire anche sul suo volta la smorfia contratta di un uomo che muore d’infarto? Portalo con te in città, insegnagli a riparare gli orologi. Ad avere come te in tasca una scatola d’argento per non gettare a terra i mozziconi di sigaretta. Fagli fare un lavoro sedentario che lo renda ricco per il giorno in cui dovrà pagarsi a Londra i primi by-pass riusciti”.

Il vento importante è di fronte a me da sempre anche se in questo momento si mostra sul Paseo de Gracia ad alzare le foglie secche dai marciapiedi. È sulla facciata di Casa Battlo in una coppia di verricelli montacarichi messi in vista come draghi incatenati al posto di nasconderli dietro una fioriera quando il pianoforte è già stato elevato al piano nobile.

E mentre cammino il virus ritorna sulla mascherina di una donna cinese che esce da un negozio di Louis Vuitton. Vuole evitare il rifiuto da parte del negozio. I rifiuti di ragazze che sono scese da una passerella dell’alta moda prima di compiere trent’anni e del concierge che sulla passerella dell’alta moda non c’è mai salito, perché l’alta moda maschile non esiste. Per questo che il concierge odia le commesse e le commesse odiano tutti. Ma la donna cinese non lo sa e così indossa la mascherina come un chirurgo e gli occhiali neri di Dior come Jackie Kennedy per non fare vedere il suo sguardo titubante.

Voltando in un calle che risale la collina verso il Parc Guell il Levante cessa di soffiare davanti ad un mercato coperto che non ha ancora subito la gentrificazione del Sant Antoni Market. Qui il pesce in scadenza viene venduto col prezzo ribassato e il puzzo è vero.

I tre suonatori di violino, viola e violoncello all’angolo della strada sono anziani. E anche se piacciono molto al pubblico non riesco non pensare che se io avessi suonato una partita di Bach così approssimativa la mia maestra di pianoforte alla terza battuta mi avrebbe detto: “Non ho tempo da perdere con te anche se tua madre ti vuole sul palco, il musicista vero è tuo fratello! Quello che suona qualsiasi cosa senza neanche uno spartito. Quello che disegna qualsiasi cosa veda. Quello con un disegno del quale tuo padre ha pagato mezzo trasloco. Il disegno incorniciato e appeso dietro la scrivania di un ufficio di fianco alla foto di una gru col nome di una ditta. In quel disegno c’è il vento. In tuo fratello c’è il vento. Io vorrei lui, non te. Ma a tua madre tuo fratello non piace. Se gli piacesse non lo farebbe scappare lontano al comando di un cargo che impiega quattro giorni ad essere riempito di derrate di bassa qualità e che va avanti e indietro dalla Cina. E che per questo sua moglie oggi gli ha detto che non lo voleva a casa perché poteva essere infettivo più di un monatto. Ma la verità è che lei non lo vuole da tempo. Ed è tua la colpa. Di te che suoni così male!”.

Il panorama mostra che il soffio di nessuna Galerna riuscirà mai ad abbattere le perenni impalcature della Sagrada Familìa, che vista da lì sembra indossare una mascherina anch’essa.

Sento il Terral che soffia verso il porto. Vorrei partire dalla Estació de França, perché è bella è antica e ha le vetrate delle volte centinate in curva che sembrano le ali di un uccello nel vento. Ma ho un viaggio diverso da fare. Diverso dai viaggi di un tempo. Diverso da tanto tempo.

Da ragazzo ho viaggiato un po’.

Abbastanza tutto sommato. Cercavo la libertà ma non sopportavo l’idea che uno dovesse rinchiudersi ad Amsterdam per farsi una canna, a Berlino per farsi una pera, a Mikonos per farsi qualcuno, a Ibiza per dormire ubriachi sulla spiaggia.

I posti scontati mi mettono l’ansia da sempre.

E così ha girato l’Europa passando da un ghiacciaio ad un lago, ad una foresta, ad un museo, ad un fiordo, ad una biblioteca, ad un circolo polare Artico. Sempre in mezzo al nulla o sospeso sopra a tutto come uno stilita o un pipistrello. Un pipistrello affetto da un virus.

Un virus che mi teneva là su un ramo alto di un albero, in attesa di una mongolfiera che al primo vento mi portasse di fronte alla meraviglia della pace di anelito.

Ma il mio virus è un vento che non conosce pace.

E così dopo essere stato in balia della moltitudine di persone di una metropoli di tre milioni di abitanti, sono andato a dormire sei ore prima della intera città.

Sulla città il vento non si è mai fermato.

Verso le cinque mi sono svegliato per il rumore di una musica che usciva da un’auto ferma sotto le mie finestre come mi succedeva da bambino nella periferia della mia città.

Come facevo allora mi sono alzato che il giorno era ancora notte.

Persone di tutte le età ancora passeggiavano in un quartiere senza locali o discoteche, in una piazzale un po’ panorama un po’ parcheggio del distretto di polizia.

Un ragazzo è spuntato da un vicolo inseguito da un altro.

Il primo arrabbiato, il secondo cercando una riconciliazione.

Il primo non si voleva fermare, aveva il vento in poppa.

Il secondo lo ha preso per un braccio. Il primo si è divincolato un po’ come un bambino che fa i capricci e un po’ come un uomo che ha delle sante ragioni.

L’altro ha tentato di abbracciarlo sebbene l’uno facesse resistenza. Ci è riuscito, si sono baciati sulla bocca senza essere a Mikonos, ad Amsterdam, a Berlino, a Ibiza. Tra la gente, davanti alla polizia.

Molti li hanno guardati per capire se tutto andasse bene. Nient’altro.

Poi uno dei due ha offerto la sigaretta all’altro. Hanno cominciato a parlare e a discutere.

Ad un certo punto uno ha detto una cosa. L’altro ha dato un pugno forte alla lamiera di una saracinesca. Poi un altro ed un altro ancora. Si è messo le mani sul viso e il suo corpo ha sussultato dal pianto.

Senza guardare l’altro ha mosso la mano in segno di addio e se n’è andato.

L’altro scuotendo la testa ha preso la direzione opposta. Ha detto qualcosa a due poliziotti che gli hanno sorriso ed è scomparso anche lui.

Io non so se qui il vento sia migliore, se l’aria sia più pulita. Se qui il virus non abbia peso. Non so se sono veramente pronto a scendere dall’albero.

Ma in quella scena ho visto che il vento può cambiare direzione, cambiare le cose e poi cambiarle ancora fino a ricucire il tempo.

Non so se scenderò mai dal ramo ma so che posso fare scendere mio figlio. Perché un posto nel mondo, in cui fino a ieri c’era una dittatura, è diventato un luogo in cui c’è posto anche per le storie d’amore che possono finire male in mezzo alla gente. E questo mi basta. Sia come che, sia come perché.

Anzi, il perché non mi interessa. Come non mi interessa sapere del paziente zero del contagio, di questo e di altri virus.

Non mi interessa sapere quale fosse il guasto tecnico che mi ha tenuto a terra sul mio aereo per due ore sulla pista del Areopuerto El Prat. Mi basta che l’aereo non sia decollato prima che qualche mio simile avesse risolto il guasto. Questo è il “che”. Il “che” come il vento.

Il vento che batte tutti i virus.

Il vento che non si ferma mai.

Il vento che misura il tempo.