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Vladimír Holan. La tenebra insonne

di Andrea Galgano 3 febbraio 2019

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Nel 1966 uscì per Einaudi, Una notte con Amleto e altre poesie[1], di Vladimír Holan, il massimo poeta ceco (1905-1980), tradotto dal grande slavista Angelo Maria Ripellino, che ne conferì vitalità e bellezza, aprendo la strada, per così dire, tra gli altri, alla linea traduttiva di Serena Vitale, Giovanni Giudici, Marco Ceriani e Vlasta Fesslová.

Pier Paolo Pasolini, in un articolo sul “Corriere della Sera”, del 14 aprile 1974, guardando alle uscite, nel 1974, sull’ «Almanacco dello Specchio n.3», sancì che: «Grazie alle cure di Seerena Vitale, che non sbaglia un colpo, un’ombra ha preso corpo, un «nome» è diventato un fatto. Holan è entrato nel novero dei poeti letti[2]». Nel 1992, nella prefazione a Il poeta murato, edito da Garzanti, 1992, a cura di V. Justl, per le edizioni del Fondo Pier Paolo Pasolini, Giovanni Raboni, soffermandosi sulla diatriba del poeta friulano con Montale, dietro gli attacchi di Bestia da stile, e riportando si soffermò sulle:

«Abbaglianti catastrofi del senso, sentenze che non sentenziano su nulla perché non sentenziano che sul tutto, microallegorie che non rimandano a altro che a se stesse, formulazioni e analisi, rigorose sino allo spasimo del non formulabile e del non analizzabile … […]. Anche se non capiamo di cosa parla, sentiamo che parla nel meno vago e misterico, nel più piano, preciso e “ragionevole” dei modi; non sappiamo cosa dice, ma siamo sicuri che dice  la verità: un paradosso di cui solo la grande musica riesce a farci persuasi e partecipi».[3]

La recente ripubblicazione, grazie alla casa editrice SE, della traduzione storica di Ripellino dell’opera di Holan restituisce una sperperata terribilità della poesia, che si impasta con la storia ceca, prima, ed europea, poi, del Novecento, vissute attraverso lo strazio del teatro insonne, metafisico e barocco di una inconsistenza indicibile:

«Il barocco di Holan prorompe dunque da accessi di sdegno e rancura, torbido rispecchiamento del tenebrismo dell’epoca. […] D’altronde non sarebbe difficile trovare diretti legami fra i mezzi stilistici di Holan e quelli della poesia del Seicento. Le intense orditure acustiche, gli ammucchiamenti asindetici di vocaboli rari, le paronomasie, i cataloghi, le allegorie, l’interesse per la musica e per gli strumenti, le registrazioni del verso dei volatili, e inoltre l’assidua interrogazione di Dio, l’insistenza sullo sfacimento dei corpi, l’angoscia per la vanità della vita, l’impianto escatologico: tutto questo avvicina la scrittura holaniana alle pagine di poeti barocchi boemi, come Bedřich Bridel, Jan Kořinek, Felix Kadlinskŷ. […] Ma dai giorni della guerra, tranne pochi intervalli, il barocco è la dimensione costante dell’arte di Holan. I suoi poemi sono maestosi recital di splendori verbali, parate di sgargianti similitudini, nidi di meditazioni sulle «estreme cose» dell’uomo. Ed è curioso come la propensione ai bisticci, ai termini tecnici, alla facezia macabra, l’impasto di realtà triviale e fantasia trascendente, certi ceppi di immagini (come quelle, ad esempio, derivate dall’ostetricia), il «Leichenkult», l’abitudine di stemperare in volute di raziocinio la tensione emotiva ricordino la strategìa dei «metafisici» inglesi».[4]

Inviso al regime cecoslovacco, a partire dal 1948, per un quindicennio, gli fu impedito di scrivere, mostrò il dramma del proprio isolamento, il sogno del diario perduto di Orfeo, le partiture smarrite di Pindaro e i ritratti scomparsi, attraverso una gioia «Orfana-vergine / ipòstasi di vita, ma a tal punto senza archètipo, / che nemmeno il destino sapeva come guadagnarsi il suo affetto»

«con le finestre chiuse sulla Moldava, nell’isola di Kampa. «Incrocerò le parole…». Nacque così nella sua cerchia il mito di Holanesia, il mondo onirico del poeta murato in una casa spoglia, in penombra, con il suono dell’acqua del fiume a scorrere in sottofondo e la cantilena di Katerina, sua figlia, nata con la sindrome di Down. Furono anni di spaventose ristrettezze economiche. Seduto nelle notti praghesi alla luce della lampada, mentre scriveva e traduceva dicendo «non conosco nessuna lingua ma le capisco tutte», inflessibile nei confronti di qualunque concessione al potere vigente, con l’immancabile sentinella di un fiasco di vino poggiato sul tavolo, Holan fu costretto per vivere a offrire anche trascrizioni a mano dei suoi versi, che vendeva con la dicitura Rhymes to be traded for bread. Gli amici si prodigavano per trovargli occasioni di guadagno».[5]

La bronchiale sperdutezza di Holan racchiude un dramma estinto e ridotto, che afferma la negazione impietosa dell’essere, come se Dio e la sua superficie di silenzio («Poiché la voce divina / è solo superficie di silenzio / sotto la tirannia del nostro udito – / perché le cose dovrebbero essere in eterno / amàlgama assordato d’uno specchio, / in cui si affisa la nostra connivenza?»), il gesto vivente, il solco tragico della storia e l’anima di sghembo («Vedo le viuzze per cui, gongolando, lo trascinavano, / vedo le scale, le bave, lo sperma e vedo altre cose / e vedo pure come rantolava e non riusciva a morire, quasi avesse l’anima di sghembo, anzi di più: / come se non avesse mai avuto una madre»), squassassero l’arte ruvida del nulla che accade, la fame assiderata e bambina del crudele mondo abbrutito, e fossero le radici di un punto cieco del cuore, che

«anziché procedere verso una rappresentazione rarefatta, disincarnata o astratta, sono invece intrise della più concreta, greve e mortale materia terrestre. […] non si assiste qui a una spoliazione del mondo ad opera dell’azione corrosiva della ragione. […] nei suoi versi si assiste quasi sempre a un autentico trionfo della morte. […] Di conseguenza, non va affatto considerato un poeta al di fuori della storia. Al contrario, le ferite, le angosce, il senso d’insicurezza radicale del tempo che gli è stato dato (l’occupazione nazista, il regime comunista) sostanziano nel profondo le sue immagini e i suoi temi ossessivi: la storia come deperimento e rovina, la madre, l’infanzia, la sessualità funebre, la corporeità disfatta, la poesia («L’arte cominciò con la caduta degli angeli»), la notte, la cecità, il muro la parificazione tra i vivi e i morti».[6]

La sua fretta sfuggita all’eterno è lo sfacelo della continua ricaduta nel nulla, manifesta le tenebre del vestito nero, come giorno secco, rappresenta il chiarore che ha «la bocca nelle tombe dei suoni» e il cerchio dell’orizzonte gelido.

È il tremendo naufragio della possibilità, il viaggio smarrito di tenebra che innerva la cecità tattile e sensuale[7] di un germoglio cupo e feroce, sospeso nel nulla, raddensato in una fuliggine gracidante di guerra e morte, in cui la metafora è obnubilamento di sogno, orrore, diaframma spezzato di sogno e di cenere. Il tempo esiguo:

«L’arte cominciò con la caduta degli angeli… / il tempo dei capecchi, dei fastelli di concime, dell’àcoro pestato, / della cenere non arsa e delle lingue infrante dalla panna, / il tempo che si rade i peli sulle cosce d’una meretrice: / alleggerisce solo in apparenza. / Ma il tempo dei sassi, della matrigna che pettina e dello zoppicare dei cani, / il tempo che tossisce negli scantinati, / il tempo del becchino che, scavando la terra, / è come se volesse giungere a una più autentica vita, / il tempo delle vertebre cervicali nel salto / sopra il fuoco di San Giovanni, / il tempo che esige tutto il nostro soccorso: ha sempre ancora un peso esiguo».

Nell’apparente necrofilia di un mondo perduto, cacciato da un Eden materno smarrito, dove la verginità della purezza intatta narra la sua piaga, e l’oblio di sé si fa intenso Acheronte di fuga e il canto di sirene è cessato «e poi si ammucchia / nel luogo stabilito / sotto un mazzo di fiori finti!»:

«Questa notte nei sogni mi dicevo: / «Amara è la sete e così sbalordita, che beve dal fato / come un fantoccio di stracci gettato da un bimbo in un orinale. / Amara è la voluttà, perché ha tutto / in una così urgente vicinanza, che persino il mistero è fuori mano. / Amara è l’arte e così nera, che potrebbe scolorirla / solo sudore di ascelle di donna, se la morte fosse donna. / Amara è la coscienza che si aggrappa alle cose / come l’ottuso rasoio con cui sbarbano i morti. / Amaro è tutto questo – e tuttavia / sarebbe bene scuotersi e svegliare!». / Ma erano angeli quadricèfali del carro funebre / che mi portava via al silenziario, / erano gli angeli che io sentivo / bisbigliare per sempre l’uno all’altro: «Non destarlo, piano, non destarlo!».

Il dramma dell’io poetante, perduto e isolato, che genera, oltre la storia, il terzo cuore del silenzio, la parola strozzata e il suggello estraneo di ciò che, però, resiste nel tremore taciuto: «La pietra e la stella non ci impongono la loro musica, / i fiori sono sommessi, e le cose sin troppo reticenti, / la bestia rinnega in se stessa per causa nostra / l’armonia di innocenza e di mistero, / il vento ha sempre pudore d’un semplice segno, / e che cosa sia il canto, lo sanno soltanto gli uccelli ammutiti, / a cui gettasti alla vigilia di Natale un covone non trebbiato».

Rimane l’orma materna e la sua sollecitudine, il candore della sua grazia infinita, l’incanto stupito, narrato nella tetraggine di angeli e ghigni di streghe. La lotta dell’anima è in questo movimento che chiama e sfugge, dove il tempo della metafisica assomiglia una sguarnita oscurità inane, ai decrepiti intonaci delle città e alla paura.

L’esilio, i peccati del tempo, la parabola del nulla, la dilatazione dell’invisibilità diafana, il dramma cadente emergono come consumazione e frantumazione di mito e vertigine del tempo:

«Se un uomo non si sente perduto, è perduto / a tutto ciò che si svolge negli altri / e che avviene in lui. / Così perduto, egli scrive una lettera e una busta / e la suggella e vi scrive: aprire dopo la mia morte! / Ma essere perduti e resistere e avere / la luna nel libro e la notte solo nel leggerlo, / non conoscere né fine né margine a se stessi, / non essere soli, ma esser perduti, / è come se la propria pena ed un’altra, di estranei / generassero un terzo cuore…».

Angelo Maria Ripellino scrive ancora:

«L’opera di Holan effigia un mondo aggricciato, itterico, brulicante di luridi insetti e di forme bacillari, un mondo gelatinoso e contratto da continui brividi e rattrappimenti d’orrore: […] il precario e l’irripetibile sono le certezze assiali, le leggi maggiori  del nostro vivere. L’implacabile determinismo che ci governa fa dell’esistenza una kàtorga, un castigo inflitto già prima della colpa,  una condanna senza riscatto. [….] La storia è per Holan un costante deturpamento della verginità e della purezza».[8]

La vicenda di Amleto, poi, è un rimestamento di istanze oniriche e storiche, dove la notturnalità, l’apocalisse del suo fulgore, il sangue concentrano tutto il loro abisso numinoso. Infittendo la coltre della libertà e del destino, la doppiezza del suo io, l’infinito agone con i demoni, il suo muro racchiuso e indefinibile e la chiarezza come ultimo tremore di sogno, avviene tutta la visitazione ferrigna e lume perenne:

«Ma chi è l’Amleto di Holan? Di dove proviene? Gli manca un braccio. È rèduce dunque d’una guerra o da un Lager? Dal suo racconto si trae l’impressione che egli abbia qualcosa di impuro, di represso, di sadico. Ora ti sembra un maniaco sessuale, un venditore di frasi all’ingrosso, ora invece assomiglia ad un tenebroso da feuilleton, da Série Noire. In una notte-cauchemar, non diversa da quella in cui gli apparve il fantasma del padre, si presenta al poeta, nella casa di Kampa, attorniata da una minacciosa Boemia-Danimarca, e, movendosi con sicurezza di sonnambulo, inizia il suo festival di cabotinage: ovvero dispiega, quasi a colmare l’orrendo mutismo del tempo, una facondia infrenabile, che scivola a tratti nella magniloquenza. Benché il poema abbia forma dialogica, è difficile cogliere una differenza tra le parole sottilizzanti del poeta e le sentenze capziose del principe: al contrario, accade sovente che Amleto si faccia sdoppiamento di Holan, suo malessere, suo mister Hyde, incarnazione dei suoi demòni perversi e dei suoi labirinti. Un lugubre barocchismo impetuoso, una tetraggine senza spiragli impastano e incalzano questa proliferazione di immagini truculente. Le commistioni verbali sempre vicine al pastiche, le oniriche incongruenze, i terrificanti barbagli da Grandguignol, i frammenti di litanìa surrealistica rendono superbamente la precarietà di quegli anni, l’orrore di un’esistenza braccata, la Unheimlichkeit della notte.»

Il ricordo di Holan è un frammento di dolore incastonato e inquietante. L’anamorfosi della sua dissolvente mentalizzazione ha un processo umbratile e larvale, un fantasmatico processo di sembianza che, sapientemente, riesce ad incastrare la lenta fonografia barocca con le sue volute e i suoi precipizi, e dove viene rappresentata tutta la disparità di vita e morte, lucentezza e ottenebramento, legame materno e disfacimento sociale.

Il gelo delle ombre richiama il tempo diafano e assente, quasi invisibile, che imbratta il vivere, sedimentando il vento cresciuto insieme alla pioggia e agli Inferi, come una lunga insonnia di grido e intima eternità:

«La neve cominciò a cadere a mezzanotte. Ed è vero / che si sta meglio in cucina, / anche se fosse la cucina dell’insonnia. / V’è caldo, ti cuoci qualcosa, bevi del vino / e guardi dalla finestra l’intima eternità. / Perché dovresti affliggerti se nascita e morte siano solo dei punti, / sapendo che l’esistenza non è una retta. / Perché dovresti tormentarti guardando il calendario / e preoccuparti quanto vi sia in giuoco. / E perché confessare a te stesso che non hai denaro / per le scarpette di Saskia. / E perché poi vantarti / di soffrir più degli altri. / Anche se sulla terra non vi fosse il silenzio, / questo nevicare lo ha già sognato. Sei solo. / Quanto meno nei gesti. Nulla da mettere in mostra». (La neve)

[1] Holan V., Una notte con Amleto e altre poesie, SE, Milano 2018.

[2] In Pasolini P.P., Descrizioni di descrizioni, Garzanti, Milano 1996, p.399. Sempre Pasolini, in Bestia da Stile, metterà in bocca a Jan, uno dei personaggi del dramma, un feroce e sfrontato attacco ad Holan, ma in realtà rivolto a Montale, come poi spiegato da Giovanni Raboni: «un eremita deturpato in un vezzeggiato, laido e tremante «borghese […] venerato», un «poeta da teatro» capace solo di fare «il gesto di scrivere poesia anziché scrivere poesia».

[3] Cfr. Raboni G., prefazione a Holan V., Il poeta murato, Garzanti, Milano 1992.

[4] Ripellino A.M., Prefazione a V. Holan, Una notte con Amleto e altre poesie, SE, Milano 2018, p.156.

[5] Pedone F., Vladimír Holan, crampi di senso a somma zero, in “Il Manifesto”, 5 luglio 2015.

[6] Galaverni R., L’Amleto di Praga ha qualcosa da dirci, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 8 gennaio 2019.

[7] Testa I., Il nulla onnipresente, in “Alfabeta2” (https://www.alfabeta2.it/2015/05/13/il-nulla-onnipresente/), 13 maggio 2015.

[8] Ripellino A.M., cit., p.157.

Holan V., Una notte con Amleto e altre poesie, SE, Milano 2018, pp. 176, Euro 20.

Holan V., Una notte con Amleto e altre poesie, SE, Milano 2018.

  • Il poeta murato, a cura di V. Justl e G. Raboni, Garzanti, Milano 1992.
  • A tutto silenzio. Poesie (1961-1967), a cura di M. Ceriani e G. Raboni, Oscar Mondadori, Milano 2005.
  • Addio?, a cura di M. Ceriani e V. Fesslovà, Edizioni L’Arcipelago, Firenze 2015.

Galaverni R., L’Amleto di Praga ha qualcosa da dirci, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 8 gennaio 2019.

Pasolini P.P., Descrizioni di descrizioni, Garzanti, Milano 1996.

Pedone F., Vladimír Holan, crampi di senso a somma zero, in “Il Manifesto”, 5 luglio 2015.

Testa I., Il nulla onnipresente, in “Alfabeta2” (https://www.alfabeta2.it/2015/05/13/il-nulla-onnipresente/), 13 maggio 2015.