Archivi tag: Claudio Damiani

Claudio Damiani Prima di nascere – Nota

di Andrea Galgano  15 febbraio  2022

leggi in Pdf Claudio Damiani Prima di nascere

Prima di nascere di Claudio Damiani[1], appena edito da Fazi, è l’esito di un contrasto  di una pre-nascenza e di una co-nascenza. Nella domanda sull’essere e sul nulla, nell’approvvigionamento essenziale del respiro, nella vertigine mai opaca del tempo e nella sospensione, la poesia di Damiani conosce questa dimensione del sangue e del sospiro e si appropria, dunque, di questo interstizio di esplorazione[2] tra cielo e terra:

 

«Quando ero piccolo, quattro-cinque anni, / mi immaginavo prima di nascere / come sospeso nel cielo ( non so se qualcuno mi aveva detto / queste cose, o me l’ero immaginato io), / mi sembrava incredibile non essere esistito prima / e mi sembrava incredibile pure di essere esistito, / non capivo dove potevo stare, così in alto nel cielo, / dove potevo poggiare i piedi».

Si confronta con lo stupore esile delle cose, con i contrasti e con la paura, con gli ossimori esiziali del vivere e diviene poesia della misura e del colloquio, e, come aggiunge Davide Rondoni,

«del nitore, del debito oraziano e cinese, il poeta delle ariose e commoventi poesie sul fico, sull’infanzia, sull’Elba, sul Soratte, sui ragazzini a scuola, sugli “eroi” del feriale, ecco, questo poeta ha per così dire raccolto, quasi “costretto” tutte queste cose e voci e figure, le ha convocate, quasi citate in giudizio dinanzi al tribunale del tempo e della morte. E soprattutto ha citato in giudizio se stesso, la sua personale vicenda o guerra. Nudamente, spudoratamente. Con la sincerità di sempre, ma ancor più resa estrema, cordiale ma anche puntuta, dal confronto con il tema dei temi, la morte, appunto, e la sua ombra, ovvero la speranza – e viceversa».[3]

Vi è l’attesa e la minaccia, la saggezza di voltarsi dall’altra parte[4], che non è appena un disinteresse nichilistico ma semplicemente una deviazione, una feriale quanto magmatica sproporzione di sguardo.

Questo disarmo è un lievito di aria fresca che entra nel sangue, il corpo che si mischia alle nuvole che avvolgono la dimora del tempo abitabile, come archetipi di infanzia, nella vastità ampia del futuro e nell’interezza di un abbandono epifanico:

«Le farfalle mi venivano incontro / erano quelle piccole azzurre / della mia infanzia che volevamo acchiappare / ma anche cavolaie che volavano a coppie tra i cespugli / e farfalle notturne che mi facevano paura / tra i gradini della scala di casa, / mi venivano incontro e io le accarezzavo / e le baciavo, era come se volassi / nello spazio e mi venivano incontro / corpi celesti, asteroidi, comete / e io li sfioravo e li accarezzavo / e in ognuno abitavo / per qualche tempo, poi ritornavano le farfalle azzurre / e tutte le altre e si diradavano, / si vedeva che andavano in un luogo / come un centro di raccolta / forse andavano a riposare, a mangiare non so, / e io restavo solo / in un cielo completamente vuoto, / completamente solo».

E poi ancora, in quella ampia attesa cerca la risposta alle domande che non si riescono a dimenticare, non si accartoccia mai sul nulla, sulla finitudine e sul limite, bensì si appropria di un tempo che è di luce ed è incombente:

«Sto qui in attesa che il tempo passi / poi finirà e sarà come staccare / l’interruttore, come tagliare le vene / e non si sa cosa succederà / staremo al buio, o alla luce / o non staremo, non saremo niente / (anche se sembra impossibile che questo possa accadere, / da ricerche accreditate sembra che il nulla non possa esistere) / perché sappiamo tanto, abbiamo tanta scienza / ma di noi non sappiamo niente, / e con la scienza, con la tecnologia / ancor più stride la nostra mortalità / e precarietà, come se più la allontanassimo / la morte, più diventasse incombente / e insopportabile. Noi nati alla morte, / noi morituri ti salutiamo, o Cesare, / sfiliamo rigidi davanti al giorno / e nella mano abbiamo la medaglietta / e la stringiamo, col nostro numero inciso».

E se il dato della nascita non fosse che una volontà, una scelta come un piccolo passo («Se fossimo noi che abbiamo scelto di vivere / e di morire, come se qualcuno / ci avesse mandato in missione, / estratti a sorte, / o se ci fossimo fatti avanti, / avessimo fatto un passo, un piccolo passo…»), un’adesione al vivere, quando «con una spinta abbiamo bucato il mondo»?

L’emersione della poesia di Damiani è una conca di abissi, che fronteggiano anche la memoria, il niente (ancor prima del nulla), ma esplorano e vivono la percezione della natura e lo splendore lieve e dolce.

Un orizzonte esile, un fiancheggiamento di alberi, animali, fiumi, che esplodono di grazia nell’antichità ma si rivestono del tempo presente, del deposito del tempo presente.

L’universo nello sguardo, la prosa-mantra, la traccia del “quasi nulla”, lo scrutare lieve che sfida le tempeste e la lontananza, il fuoco e le fiamme invisibili dell’abisso che tiene sospesi, perché nella cifra di ogni tremore[5], «Il mistero è così fitto / e noi così fragili / che non ci sono speranze / o meglio, possono esserci solo speranze, / la speranza è la nostra scienza»:

«La polvere guardo nell’aria / e questa polvere sopra il tavolo / non la tolgo, la lascio, / voglio stare accanto a lei / e dei fili che sono per terra / non li levo, e le orme / delle scarpe, le lascio / e questa mosca anche lascio, morta / e questa cosa che era caduta per terra / e non so più dov’è / non so più che era. / E mi deposito anch’io / mi lascio andare sul letto, / lascio che l’aria mi circondi / come un ciottolo che la corrente trascina, / e che niente mi salvi».

La linea agostiniana[6] e rabdomantica trova la fecondità nel tremito fisso della carezza e della domanda, il nitore puro del cielo e il grande trapezio del mistero che avvolge il tempo:

«Pensa se fosse così: / che noi, mentre stiamo facendo una cosa / comunissima, tipo portare una cosa / sopra un tavolo, oppure cercarla / e ecco aprirsi una porta, e nella stanza / ci sono tutti! È una stanza immensa / e ti salutano gioiosi e applaudono / come un compleanno a sorpresa / e dicono: «Hai visto? Sei contento? / Come stai? Come ti senti?» / e tu lo senti che è stata come uno scherzo la vita / o un brutto sogno, oppure è stata / come una guerra sotto i bombardamenti / e ogni giorno c’erano le sirene, / o c’erano stati giorni belli anche, / di sole, di luce, di silenzio / tu camminavi da solo / in mezzo alle piante amiche»

 

[1] Damiani C., Prima di nascere, Fazi, Roma 2022.

[2] Guidi S., Punte di fiamma invisibili, in “L’Osservatore Romano”, 3 febbraio 2022.

[3] Rondoni D., Claudio trema. Su Claudio Damiani, “Prima di nascere”, in «Clandestino – Rivista», (www.rivistaclandestino.com/claudio-trema-su-claudio-damiani-prima-di-nascere/?fbclid=IwAR2_ZSRHZ3dIa4Vva2nUpKf-dIKUGuzBdzxmLLGWmkgCxn_XEmtx4H9pS0A), 7 febbraio 2022.

[4] Langone C., Il poeta Claudio Damiani ci insegna la saggezza del voltarsi dall’altra parte, in “Il Foglio”, 9 febbraio 2022.

[5] Minore R., Un classico travestito da contemporaneo, in “Il Messaggero”, 13 febbraio 2022.

[6] Affinati E., La poesia «dantesca» di Damiani, in “Roma Sette”, inserto di “Avvenire”, 13 febbraio 2022.

Damiani C., Prima di nascere, Fazi, Roma 2022, pp. 152, Euro 18.

 Damiani C., Prima di nascere, Fazi, Roma 2022.

Affinati E., La poesia «dantesca» di Damiani, in “Roma Sette”, inserto di “Avvenire”, 13 febbraio 2022.

Guidi S., Punte di fiamma invisibili, in “L’Osservatore Romano”, 3 febbraio 2022.

Langone C., Il poeta Claudio Damiani ci insegna la saggezza del voltarsi dall’altra parte, in “Il Foglio”, 9 febbraio 2022.

Minore R., Un classico travestito da contemporaneo, in “Il Messaggero”, 13 febbraio 2022.

Rondoni D., Claudio trema. Su Claudio Damiani, “Prima di nascere”, in «Clandestino – Rivista», (www.rivistaclandestino.com/claudio-trema-su-claudio-damiani-prima-di-nascere/?fbclid=IwAR2_ZSRHZ3dIa4Vva2nUpKf-dIKUGuzBdzxmLLGWmkgCxn_XEmtx4H9pS0A), 7 febbraio 2022.

I cieli celesti di Claudio Damiani

di Andrea Galgano 2 gennaio 2017

leggi in pdf I Cieli Celesti di Claudio Damiani

presente nella Bibliografia critica su www.claudiodamiani.it

claudio-damianiLa nuova silloge di Claudio Damiani (1957), uno dei maggiori poeti italiani, Cieli celesti, edita da Fazi, è una popolata emersione di dettagli e incontri, visualità splendente e cromature di fondi.

Ma se l’eco dell’antica tradizione poetica, che si prolunga fino ad Orazio, passando per Leopardi, Pascoli e Caproni, non ama rinserrarsi in una racchiusa condensazione di voce, la poesia di Damiani è una domanda di incontro. Domanda tersa e piovuta come l’ambientazione azzurra, che pur prendendo l’accento dalla coltre intensa di Beppe Salvia, trasla il suo apice attraverso una profonda creaturalità e una estremità limpida che rafforzano la sua scaturigine nella pacatezza e nella origine.

La domanda elementare di Damiani, allora, si fonde in tutta la sua peculiare destinazione nella contemplazione del cielo vivo, nel segreto riflesso del tempo e nelle trame del vivente che lanciano il loro indefesso dialogo con il reale e la sua impossibile smarginatura:

«Riverso sul lettino in terrazzo / guardo il cielo azzurro, / azzurro di un azzurro fitto, / pieno, come più mani di azzurro. / Come siete lontani stelle e pianeti / dell’universo, quando potremo mai incontrarci, / come, creature vive e intelligenti, uomini / come noi, sparsi come siamo tutti / in uno spazio tanto grande? / Così adesso restiamo noi qui, pensando di essere soli / perché anche il tempo è tanto lungo, come lo spazio. / Vi pensiamo però, esserci cari, e ci sarà un tempo / in cui ci incontreremo».

Roberto Galaverni afferma:

«Damiani s’interroga sulle ragioni del suo idillio appena increspato da qualche nube e ombra lieve. Il che significa che sta riflettendo anche sulla necessità stessa della sua poesia o anche, almeno agli occhi di un critico di poca fede, sulla sua plausibilità. Il registro espressivo e i referenti in ogni caso restano sostanzialmente gli stessi elementi basici e situazioni elementari per un lessico altrettanto basico ed elementare. Ecco allora: creatura, vita, cuore, terra, aria, cielo, azzurro, prato, sole, luna, stelle, universo, amore, e poi gli animali, le rondini, i passerotti, il gatto. Damiani prova a rendere ragione della realtà di quello a cui sempre ha guardato: la nuda e semplice presenza della vita al di sotto o, che è lo stesso, al di là della storia, delle faccende quotidiane, dell’impegno per dirottare su chissà quali strade il nostro destino».

Lo sguardo, che celebra e contempla, congiunge e domanda, destina e si immerge, diventa l’orma basilare di un approdo di chiarità (il monte Soratte, ad esempio, fissato in tutta la sua cosmica apparizione di millenni e limiti umani come cicatrici) e di un respiro che ha bisogno del prosimetro della realtà per intensificare la lingua e il suo cuore luminoso: «L’aria tenera della tua bocca / la respiro a pieni polmoni, / ti respiro dentro nel corpo / fin dentro l’anima, cielo».

O ancora come un ascolto o un amore, la nitida limpidezza diviene presenza, natura pensante e universo, in cui la giuntura umana che è chiamata a scoprire la vita e la vivezza, l’esistenza e il suo germoglio, la sua angolazione e il suo mistero, persino la sua ironia:

«Stamattina il cielo era azzurro, con nuvole / ora è completamente grigio, coperto. / Il cielo coperto è meno bello / non tanto perché è buio / e dà una sensazione di freddo / ma perché copre, appunto, il cielo. / La sensazione è quella di una cappa, di un muro / che ti separa dal cielo. / Se solo pensassimo, se riflettessimo un attimo / che oltre quella cappa, oltre quel muro / il cielo azzurro risplende / con tutte le stelle e lo spazio / forse saremmo meno / meteoropatici».

Il mistero dell’esistente, quindi, è grazia di danza improvvisa. Il tocco delle cose, come la fisica di Luzi, restituisce il dono epifanico atteso, in cui la conversazione è il profumo del verso, la corsa del tempo, il mondo che si sporge. La dettagliata cifra dell’essere è sempre nominazione:

«C’era un prato verde verde / con cielo azzurro e sole, / aria fredda e erba verde e grassa, / primi di aprile, mattina, / vento di tramontana /  e un pastore con dietro / tutte le pecore, ferme / per attraversare. Passo con la macchina / e dietro di me attraversano le pecore. / Quando ritorno, dopo dieci minuti, / le pecore stavano riattraversando. / E tu, luna, stavi guardando, / tu che ti muovi con passo lento di danza, / grande sfera aerea innamorata della terra, / te che pure, un giorno, nascesti / partorita dalle stelle, / forse una costola della terra, / forse nascesti dall’unione / di tanti piccoli corpi, / crescesti come una bambina e diventasti / questa ballerina meravigliosa che si muove con grazia / ammirata da tutti, che balla tutta la notte».

Il territorio poetico di Damiani (e il suo paesaggio appenninico), non è una frazione idillica e nascosta, lambisce la realtà non solo con l’immediata riflessione luminosa ma è attraverso l’ apertura e l’incontro che l’inatteso avviene: «Sai quegli scienziati caparbi / che ripetono all’infinito l’esperimento / con una pazienza disumana? / E proprio quando stavano per desistere, / proprio quando stavano, sfiduciati, per lasciare perdere / quella pietra si illuminò di luce azzurra».

Solo così il dipinto del mondo si innerva nel processo segreto di epistemologia e stupore: «Sono in terrazzo, sdraiato / vedo il cielo azzurro, / a un tratto vedo alcune rondini, / sono arrivate, è primavera».

Lo stupore è la sua forma di conoscenza che si increspa e si concede in ogni invocazione e proposta che richiama il piccolo spazio di una porzione di sole o di una tenerezza d’aria che consegna baci celesti da prendere e voci lontane: «Prendo il sole come un albero / nel mio piccolo spazio, il mio terrazzo, / prendo la mia porzione di sole / piccola ma per me enorme, / non comparabile con nessuna cosa, / e col sole prendo quest’aria tenera / la respiro tutta / e non ne lascio niente. / Prendo i tuoi baci, cielo / e non ne rifiuto nessuno. / E le chiacchiere degli uccelli / mi sono care, e le voci, / lontane, degli umani».

O ancora, attraverso una vigile attesa che ricostituisce la genesi di ogni tempo da rincorrere come un respiro che, come in ogni densità d’istante, bacia l’aria: «Questo cielo, come sarebbe difficile / spennellarlo, voglio dire dipingerlo, / sarebbe un’opera difficilissima / e invece ecco, apri la finestra / e te lo ritrovi qui, bell’e fatto. / […] Ma tu tesoro mio puoi non credere in quello che vuoi / ma un universo e miliardi di anni / ti sembra poco?».

La poesia di Damiani  si nutre dell’accortezza generativa delle cose che si apre all’infinito, alla limpidezza, al «gorgogliare sommesso / dell’acqua». Sono le stesse cose a parlare a rivelarsi in un momento di naturalezza imprevedibile e generosa, che pur perdendosi, dà vita in una gioia fresca:

«Caro Sole, tu ogni giorno / non so quante tonnellate di materia perdi / e anch’io, ogni giorno, perdo qualcosa, / ogni giorno perdiamo un giorno / ma quando sarà finito il tuo tempo / si potrà dire di te: è stata una stella generosa, / per tutto il tempo ha illuminato e scaldato / i corpi intorno, senza fermarsi mai / dando tutto il possibile di sé, / sempre al massimo delle sue possibilità, / tutto quello che poteva fare l’ha fatto / e tutti sempre l’hanno ringraziato / e l’hanno adorato, l’hanno benedetto / e nella sua lunga vita lui ha sempre gioito / della riconoscenza di tutti».

Le sue epifanie, i suoi balzi avvolti e i suoi avamposti soli dove «il sole ci bacia e la brezza / ci vellica le guance, / il vento muove le nostre pagine / e i nostri giorni volano», le ombre celate e ritrovate che vivono nelle uniche sproporzioni («è notte, vedo il cielo nero / senza stelle, e così nero lo sento / e così grande, così grande / e penso a quando era piccolo / che avrei potuto tenerlo / in una mano, / e quasi mi viene da piangere / a pensare che poi sarebbe diventato così grande / e con tante terre e tanti soli / e infiniti animali e infiniti uomini / di infinite razze, che dopo tanto errare / si sarebbero sempre più avvicinati, / si sarebbero alla fine ritrovati»), e i suoi crinali splendenti e intensi («[…] ma ora, senti come è tenera l’aria / tiepida e fresca del cielo notturno / e viene un odore di fiori di acacia / e di biancospino. / E senti il cuore mio come batte / e senti il tuo, e c’è qualcuno / che chiede di entrare, anzi è entrato / e cammina dopo di noi»), i cambi d’aria e lo scioglimento degli elementi (aria, luce, acqua), nelle infinite variazioni della vita degli alberi, procedono in una metafisica dichiarativa e ragionativa che gemma nei semi sul tracciato.

Con l’infinitamente piccolo e le grandezze, egli evoca e rievoca la sua appartenenza («[…] siamo un numero molto grande / che può far paura, nel nostro numero è Dio / in qualche modo, e un valore molto piccolo / è ciò che è nostro e solo nostro di individui, / il valore individuale potremmo dire / che, in quanto piccolo, è però un valore / che nullifica ogni nichilismo, / che dà a te, amore mio, e a me / un’unicità che ci fa divini»), ed è da essa che si esprime, appieno, la libertà e il suo legame con la comunità e con tutto ciò che c’è, come un tenue miracolo di unione prossima:

«Dolce cielo celeste / dipinto di azzurro tenero / e voi verdi monti e voi / valli e boschi, nuvole / che là, verso l’orizzonte / navigate lente, e tu sole vicino / al tramonto che spandi questa luce / d’oro nell’aria, e ogni cosa fai tiepida / del tuo calore, e tu aria che muovi / i miei capelli e spiri sulle mie / guance e le pagine volti dispettosa / del quaderno ove scrivo… / state insieme, vi date come la mano / contenti di essere uniti, / di essere l’uno all’altro / indispensabili, di essere insieme / questo miracolo che vedo».

Roberto Galaverni afferma: «Le questioni sono ancora una volta le più elementari, spesso riprese non a caso dalla filosofia presocratica: fissità e mutamento, il senso (detto come direzione) della natura, il rapporto tra il singolo e la comunità, tra la vita individuale e le ere, il retaggio antropologico e soprattutto il tempo, che costituisce il filo conduttore del libro».

La trincea del vivente, le pause degli istanti e i semi di luce, i mondi abitati e inabitati dalla vita, le lontananze dipinti e i cieli notturni aprono crepe nelle evidenze del tempo e della realtà, negli spari insonni, nelle armature a difesa della propria nudità fonda (come in Svegliarsi in una notte del 2012…), dove l’amore annulla ogni paura e smarrimento sgranato.

Damiani cesella le sue immagini senza lentezza ma quasi per deposito granulare. Da una singola immagine che sembra annullarsi, compare un ulteriore dettaglio o una nuova esistenza che porge il suo singolare sussulto di sacertà, di forma, di oblio e di luce.

Silvio Perrella scrive:

 «Damiani è un asincrono; non ama stare al passo con i tempi; o piuttosto cerca nei tempi il Tempo, quell’atomo di vita che collega gli uni agli altri. e non solo in orizzontale, ma anche in verticale. ed ecco che vien fuori una verticale come questa, dove si sale e si scende sulle scale del tempo, e lo si fa in un attimo di dormiveglia, pensando a quel che pensano tutti, ma pensandolo dentro l’unicità del nostro corpo singolare, e sentendo il risveglio degli altri, il loro stesso girarsi tra le lenzuola del cosmo».

Attraverso l’ode, il pensiero sorgivo, la tenerezza dell’essere, la speculazione filosofica e l’ironia, Damiani compone la sua trama e il suo segno, annotando le vibrazioni piccolissime e le concitazioni dei ronzii. È la sua obbedienza alla realtà a rendere ragione alla poesia, che si nutre di ciò che vive e muore, che insegue il tempo passato e presente ed accade in silenzio come una luce bianca. La caducità è uno splendore lucente e la coltre di ogni limite possibile ma immenso, allo stesso tempo, dove il nostro schianto lucente e assaporato si compie:

«Siamo caduchi, siamo quelli che cadono / sul campo di battaglia della vita. / Ci falcia il tempo, che ci insegue in ogni momento / dopo averci partorito, / ci tiene il fiato sul collo / e non ci lascia respirare. / Se ci fermiamo un momento / lui passa e noi lo stiamo a guardare / come dalla spalletta di un ponte / ma ci divora dentro. / Che cosa succederà domani / tu non lo puoi sapere /  per questo sei nelle sue mani / e non ti puoi liberare. / Siamo caduchi, siamo quelli che cadono, / cadiamo come le mosche, / quando nasciamo ce l’abbiamo scritto in fronte / che cadiamo, / ma non ce ne vergogniamo / anzi camminiamo a fronte alta / con la nostra morte nel cuore. / Non siamo soli, siamo tanti, / siamo un esercito immenso, / marciamo insieme, spinti dal tempo / con questa croce sul cuore. (Canzone dei caduchi)

La pienezza vivente è uno sguardo e una carezza d’amore, come nostalgia di realtà e mortalità, canto pazzo che non si ferma, relazione di nascita e morte insieme, e vita che vince la morte in una moderna Arcadia:

 «E questo canto, amore mio, di cicale / sotto il sole di luglio, in una campagna italiana / cielo azzurro e poche nuvole, piccole, / odore forte di rosmarino e ginestre / e questo canto pazzo che non si ferma / nel’aria bianca bruciata / e noi, io e te, sotto questi pini / alziamo i calici e brindiamo, silenziosi, / tu vestita come una dea, con lunghe ciocche annodate / e perle tra i capelli, / là sulla collina il nostro capanno di legno / e giù lo scoglio dove passo tutte le notti / a piangere guardando il mare».

Le nostre lontananze, la tiepida aria di giugno, solitaria e fresca, quasi come un fiore strappato, richiamano l’attraversamento del tempo e la sua unione di tutti i tempi nel tempo, in una serie di passi e punti di osservazione investigati:

«Ma adesso questo cielo e questo fresco sulla pelle / quest’aria pulita e queste poche nuvole / e questo chiacchiericcio di uccelli / e uccellini nei nidi, come un brusio, / in questo tardo pomeriggio di giugno / dove tutto sembra finito, e all’inizio, / e questo rumore di camion lontani / tra le voci degli uccelli, / rumori di un tempo che è questo tempo preciso / e tutti i tempi, insieme, / come se quest’aria tiepida, mite / li attraversasse tutti i tempi, li unisse».

Il transito dei nostri passaggi lascia la musica che resta come essenza vibrata e come intima e congiunta proprietà dell’essere. È il nostro andirivieni, la nostra prima linea, i rumori delle cose lontane, che recano in grembo il senso dell’ultimità conciliata di un mistero disciolto nel suo scorrimento azzurro e nella sua trasparenza:

«Lascia che sia, lascia che sia / non lo contrastare, / alla fine è questo cielo della sera / quello che resta, i rumori delle cose lontane / e questo colore pallido e luminoso insieme / acceso e bruno nello stesso tempo. / Alla fine quello che resta sono i rumori / delle cose lontane, che fanno i dolci, che passano, / alla fine quello che resta è il nostro passare, / essere passati e dover ancora passare, / questo rumore di fondo come il mormorio di un ruscello / o un chiacchiericcio sommesso, che ti concilia il sonno».

cieli-celesti-light-1-671x1024-671x1024Damiani C., Cieli celesti, Fazi, Roma 2016, pp. 164, Euro 18.

 Damiani C., Cieli celesti, Fazi, Roma 2016.

  • La difficile facilità. Appunti per un laboratorio di poesia, Lantana Editore, Roma 2016.

Galaverni R., Le buone cose di semplice gusto, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 20 novembre 2016.

Langone C., Nel tempo del Natale profanato leggo le ultime poesie di Claudio Damiani, in “Il Foglio”, 21 dicembre 2016.

Gnerre A., Il laboratorio difficile e facile di Damiani, (https://www.rivistaclandestino.com/il-laboratorio-difficile-e-facile-di-damiani-di-a-gnerre/), 4 dicembre 2016.

Lombardi L., Tempo, Spazio, Terra. Damiani contempla, in “Il Tempo”, 19 dicembre 2016.

Perrella S., Svegliarsi in una notte del 2012…, in “Il Mattino”, 9 novembre 2016.