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Ljubomir Levčev: la furiosa precisione

di Andrea Galgano  14 maggio 2021

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La poesia di Ljubomir Levčev (1935-2019), uno dei più grandi poeti bulgari, è tempio di precisione furiosa. Poesia che affastella contraddizione e ironia, si ammanta di una temperie di assurdo e cromature vitali, che insegue la nostalgia dell’infinito, e guarda con attenzione e fedeltà, come scrive Roberto Galaverni, «la vita, il mondo, gli altri, sé stesso, proprio come ci si aspetta da un poeta. E lo fa spesso e volentieri per mettere in luce il rovescio, la trama nascosta, la verità e dunque la morale inattesa delle cose. Ma e qui sta il punto, l’intelligenza e l’arguzia delle sue osservazioni non risultano affatto intrise, come quasi sempre accade, di sarcasmo, risentimento o disamore vero l’esistenza».[1]

Con la pubblicazione di I passi dell’ombra[2], edito da Bompiani, a cura di Giuseppe Dell’Agata e introduzione di Vladimir Levcev, la sua poesia esprime, pienamente, una ricchezza di immagini ed è

«adorna di numerose metafore. È musicale, ha i ritmi sincopati della poesia moderna, ma la sua essenza si fonda sulle immagini e sul paragone. Le sue metafore sono spesso strane, moderniste, ma nascono sempre da una realtà concreta (Quando all’improvviso salta la corrente). Il mondo emotivo della sua poesia reca l’alito, l’aroma, il colore del suo tempo, ne utilizza i ritmi e la lingua. Nei versi migliori non c’e niente di artificioso, falso, combinato. Perfino nei cosiddetti Capricci. Perfino le metafore più eccentriche e assurde vengono percepite come una marcata realtà fisica. La sua poesia costituisce una testimonianza di alto significato riguardo al trascorrere del tempo».[3] (p.8).

 Le esclamazioni e le interrogazioni metafisiche, la nudità del cielo notturno che contrasta il limine luminoso del giorno («Amo il cielo di notte, / perche lui solo e nudo. / E questa luce del giorno mi impedisce / di guardare la nudità dell’Universo»), la particolarità delle immagini che raggiungono linee surreali e il fondo dell’assurdo, come i parafulmini, in uno strappo di sipari.

E poi la fraternità, le illusioni di cristallo (le vie scoscese di Tărnovo, invocate come affermazione imperitura) compongono il suo scenario che insegue la bellezza nelle solitarie realtà concrete, nella posizione partecipata e distaccata, insieme.

Andrej Voznesenskij, infatti, afferma:

«Fissare l’attimo e il tratto stilistico di Levčev: negli autentici artisti e in generale nei creatori e presente una forza interiore tesa a superare lo spazio e le strette cornici di ciò che e limitato. Ciò che più gli interessa, come ha scritto in una delle sue poesie, e di essere il più sincero, il più originale, il più se stesso possibile. Il suo verso e intellettuale, ma il suo intellettualismo non e schematico, bensì carnale, virile, colorito». (p.10).

La sua immagine è in movimento, ricorda volti cari (la madre in paradiso) e solitudini accorate, racchiude inserti minimi (come i movimenti della donnola in cantina o i segreti strappati della luna di giorno), il rumore dell’anima e la sensualità dell’amore sospeso («Aprii, / tremante come una fiammella, / e ti vidi, / bellezza – / piena di desiderio, / coi capelli scompigliati dalla luna / e illuminata dal vento della notte, / e con un sussurro di una foglia di giaggiolo:“Eccomi – / Come mi hai immaginato!”/ Chiamami Carmen! / E sappi che ti amo!”»), e soprattutto, la sua luce invisibile è una ricca confidenza indicibile che si interroga e si espone («Come un grillo di città / la mia voce interiore / si interroga»): «Così che, in realtà, / quando salta la corrente, / io vedo / infinite cose, invisibili alla luce. / Per esempio: / all’improvviso capisco / che in città è raccolta / una quantità pericolosa di persone / per ogni metro quadro illuminato. / E non ha più nessun significato, / se sei stato Anteo, / perché / hai molti piani sotto di te / ed essi sono la tua terra».

La sua ironia è una filigrana che serve per mettere a fuoco il problema della realtà, per interrogare il tempo, i sogni e la memoria, e la posa dell’arte, richiamare gli amici scomparsi e guardare alle inserzioni di eterno:

 «E durante questo tempo infinito / guarderò fuori dalla finestra / come cadono le foglie / o rinverdiscono, / come la lontana cupola della chiesa assomiglia / a una tazzina di caffè rivoltata per trarne gli auspici, / come le ragazze si specchiano nelle porte di vetro / e come voi pensate che io non ci sia più per sempre».

I quadri di Levčev incrinano ogni sicurezza, sembrano giocare con le cose, fino al dramma, si spingono al dialogo per celebrare l’immaginazione vissuta e, infine, conteggiare l’ombra, la visione, la ferita, gli scherzi d’amore e le ragazze del mattino, il raggiungimento della storia (come i dialoghi con Colombo e la gloria di grandi pittori come Cézanne o Monet), la dolcezza luminosa della magnolia e le soglie profonde.

In questa trasparenza oscura, nell’arco degli abissi, nello sperdimento ribelle dei fiumi della Bulgaria e nei tamburi squarciati della notte, egli tocca le trame più interiori. E lo fa maneggiando le soluzioni eversive e minime del vero, lanciato come un traboccante sospiro: «Allora sbalordito vidi che ero sulla riva, / che tu sei il mare del mattino / e i tuoi abissi mi chiamano. / Da te sorge il sole. / Tu mi tocchi / e in me spunta l’alba».

Le sue tensioni assomigliano a sillabe di lettera, a un limpido guado d’amore («Amore come un silenzio – / questo è il mio amore. / E tu lo conosci»), all’attesa e ai semi semantici del sussurro dell’anima:

«Se ne va la luce rossa. / L’ultima lince selvatica scruta / cose per noi invisibili. / Se ne va la neve dalle cime dei monti. / Le cabine della funivia immobili / viaggiano verso l’oblio, / viaggiano. / Come un miraggio scacciato. / Come una speranza disperata. / Se ne va questa epoca. / Se ne va l’estasi… / E solo io rimango. / Non so se potrò scriverti ancora. / Non so se potrò vederti. / Ma so che non c’e modo che io ti dimentichi / fino alla fine, / e forse anche dopo. / Dimenticherò le chiavi sulla porta del non essere. / Dimenticherò gli occhiali e diventerò cieco. / Con dita insanguinate ti cercherò, / ma tutto quello che toccherò, / diventerà polvere».

[1] Galaverni R., Parafulmini e donnole. La via bulgara all’ironia, in “La Lettura – Corriere della Sera”, 9 maggio 2021.

[2] Levcev L., I passi dell’ombra, a cura di Giuseppe Dell’Agata, introduzione di Vladimir Levcev, Bompiani, Milano 2021.

[3] Levcev V., Introduzione in Levcev L., cit., p.8.

Levcev L., I passi dell’ombra, a cura di Giuseppe Dell’Agata, introduzione di Vladimir Levcev, Bompiani, Milano 2021, pp.350, Euro 20.

Levcev L., I passi dell’ombra, a cura di Giuseppe Dell’Agata, introduzione di Vladimir Levcev, Bompiani, Milano 2021.

Galaverni R., Parafulmini e donnole. La via bulgara all’ironia, in “La Lettura – Corriere della Sera”, 9 maggio 2021.