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Al Berto. La febbre della vitalità

di Andrea Galgano 12 giugno 2018

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Esiste una nudità offerta che spiana la metafora del proprio essere davanti al mondo, in tutta la sottigliezza vagabonda, in tutta la vitalità che consuma, nella brevità lessicale che naviga nella realtà, sporgendo la parola e il suo territorio di suono, malattia e fragilità errante, di mescolanza liquida che innalza forme vive.

La poesia Al Berto (1948), pseudonimo di Alberto Raposo Pidwell Tavares, poeta e pittore portoghese nato a Coimbra, ci viene ora restituita, grazie alla pubblicazione, per l’editore Passigli, di Orto di incendio[1], a cura di Federico Bertolazzi che afferma:

«In una specie di riscrittura del medievale Horto do Esposo, opera anonima a cavallo tra il XIV e il XV secolo, in cui la rinuncia ai beni terreni è fatta in virtù dell’unione con Dio, il libro di Al Berto si colloca sul versante opposto e, calandosi profondamente nella vita, mostra tutta la consapevolezza della responsabilità e del rischio che fanno parte dell’incontro con il proprio vero volto. Questo, che è l’ultimo libro pubblicato da Al Berto, concentra in maniera mirabile la sua potenza stilistica, mostra un grado di rarefazione frutto di una lucidità serena, anche se disperata. La forza delle immagini, il mistero di certi riferimenti, la passione come strumento di conoscenza, la carezza dell’esistere sul mondo, tutto qui si ritrova in un itinerario umano nel corpo vivo della vita, con la consapevolezza che mai potremo sapere che cosa ci attende dall’altro lato dello specchio».[2]

Horto de Incêndio, pubblicato in Portogallo nel 1997, per Assírio & Alvim, rappresenta il vertice finale della poesia di Al Berto, morto il 13 giugno 1997, a causa di un linfoma, a soli 49 anni. Ecco cosa scriveva, nel 1991, il poeta, in questo suo rapido ritratto:

«Al Berto (Alberto Raposo Pdwell Tavares) è nato a Coimbra, l’11 gennaio 1948, ed è vissuto a Sines fino all’adolescenza. Ha frequentato il corso di Pittura della Scuola António Arroio e il corso di Formazione Artistica della Sociedade Nacional das Belas-Artes, a Lisbona. Nel 1967 si esilia a Bruxelles, dove frequenta la Ècole Nationale Supérieure d’Architecture e des Arts Visuels. Nel 1971 abbandona definitivamente la pittura, riconoscendosi sempre più come “autore di testi letterari”, parallelamente alla sua attività di animatore culturale e all’esperienza più recente come editore, iniziata dopo il ritorno in Portogallo, nel 1975. Da allora vive fra Lisbona e Sines, dove ha cercato invano i riferimenti fisici della sua infanzia, “distrutti da un progresso nero fatto non pensando alle persone ma al plusvalore”».[3]

La rarefazione, la frabilità translucida, i segni e la paura (come testimonia il suo primo libro Medo del 1987, Premio Pen Club, raccolta antologica ampliata poi nel 1991 e, postuma, nel 1998) come campi emblematici di incanto e cifra onirica, il corpo come segno dell’anima indifesa[4], il tremore consapevole della nascita[5], il grido ribelle e frangibile della letalità mortale e il disordine vitale della notte visitata e onnivora riportano a una condizione di nudità e di bruciore finale:

«ascoltami / che il giorno ti sia terso e / a ogni angolo di luce tu possa trovare / alimento sufficiente per la tua morte / va’ dove nessuno ti possa parlare / o riconoscere – va’ per questa porta / d’acqua vasta quanto la notte / lascia che l’albero di cassiopee ti copra / e che le folli avene che l’acido ha arrugginito / si innalzino nella vertigine del volo – lascia / che l’autunno porti gli uccelli e le api / a pernottare nella dolcezza / del tuo breve cuore – ascoltami / che il giorno ti sia terso / al di là della pelle costruisci l’arco di sale / la dimora eterna – il mare per dove fuggirà / l’etereo visitatore di questa notte / non dimenticare la nave carica di fuochi / di desideri fatti polvere – non dimenticare l’oro / l’avorio – le sessanta compresse letali / a colazione».

Federico Bertolazzi sostiene che:

«Questa nudità si riveste della parola come di un manto che, tra i panneggiamenti della metafora, ora vela ora svela i frammenti di una ricerca interiore che sia capace di trovare un volto per la complessità dell’allegria e dell’inquietudine, dell’amore e dell’abbandono, della passione e della solitudine, e che possa, chissà, essere in grado di spiegare anche il mistero dell’esistenza del mare e della morte».[6]

Se la parola rappresenta, dunque, il centro della sillabazione del silenzio che permane sull’aridità delle pietre, se non riesce a permanere nel dicibile fino all’afasia e alla trasformazione, porgendo il magma di sé, noi «continuiamo a ripetere i gesti e a bere / la serenità della linfa – risaliamo lungo la febbre / dei cedri – fino a toccare il mistico / arbusto stellare / e / il mistero della luce ci fustiga gli occhi / in un’euforia torrenziale».

Nell’odore delle cose dimenticate, un dito incendiato accenna nella polvere una finestra d’oro e di vento:

«[…] ma se la notte verrà / piena di luci illeggibili di veli / di orologi fermi – spiega le ali / ferisci l’aria che ti soffoca e non muoverti / così che io resti a vederti frantumare / ciò che penso e più non scrivo – ciò / che ha perso il nome e si beve come cicuta / accanto al precipizio del tuo corpo / poi lascerò il giorno avanzare con la barca / che prende il volo e porta le cattive notizie dei giornali / e l’odore spesso delle cose dimenticate – gli occhiali / per vedere il mare che non vedo più e un dito / incendiato / che accenna nella polvere una finestra d’oro / e di vento».

Nella poesia di Al Berto permane una torrenziale sinuosità febbrile che se, da una parte, raffigura una sfida alle convenzioni e all’omologazione, dall’altro caratterizza lo sperpero di una virginale fatalità («la mano grigia dell’inverno perdura sul viso / di coloro che sonnolenti viaggiano dentro / questo piccolo tumulo di serenità»).

La dolenza dei richiami del mare del mito distrutto rilegge la memoria[7] («Si affacciò sull’altro lato dello specchio / dove il corpo si fa aereo fino alle ossa / la notte gli restituì un altro corpo che scorreva / verso l’abbandono di un segreto ritorno…poi / ripose la passione di lontani giorni nel sacco di tela / e dal fondo nostalgico dello specchio / sorsero gli improvvisi occhi del mare») e rappresenta il dolore acuto della propria mitografia («il dolore di tutte le strade vuote»).

Un punto a cui aggrapparsi per attraversare il vivente, l’urgenza sterminatrice dell’inchiostro, il corpo generato da un istante di panico verso ciò che inquieta e non si definisce, ma rimane ferito: «andrai da solo dentro la vita / le braccia distese come se entrassi nell’acqua / il corpo in un arco di pietra teso simulando / la casa / dove mi riparo dal mortale bagliore del mezzogiorno».

L’incendio del dolore inesprimibile e sisifeo del tempo afferma ciò che Antonio Ramos Rosa ha chiamato «sovranità della forza erotica sommersa dall’impulso verso la morte»: «ecco il mondo fiabesco delle ferite incurabili / l’inferno / anche quando dormi gemi abbandonato / al rantolo della pioggia sulla vetrata e al vento / che danza sulla persiana / non saprai mai della tua metamorfosi / in pantera aerea – proibirò che passeggi / sopra i sentimenti e sopra i mobili / e che ti vendichi / dell’abile seduttore di fiere».

Così come la casa rinviene un abisso disciolto di memoria e fuochi che affogano nel segno e nella traccia di un presagio di sillabe diafane e specchio di presagi («ti guardi allo specchio / ti attribuisci un nome un corpo un gesto / dormi / con l’albero di saliva delle isole – con il vento / che trascina con sé questo scroscio di fosforo e / questi presagi di tranquille ossa»), dove fantasmi di impotenza, abbandono e nulla («in questa casa sopravvive solo la memoria torbida / delle poesie amate – nessun altro nient’altro / all’infuori della parete di fango e della scatola di scarpe / piena di sillabe preziose / e un tavolo piccolo / con un albatros impagliato per vigilarti l’anima»), e acheronti di buio e sogni sono avvolti in un isolamento di appartenenze e congedi, dove «il cuore degli uomini / è una rosa nomade e calcarea»:

«guarda / come la terra è un velluto che scorre dalla bocca / alla bocca – triste nettare avvelenato / contro le labbra che si congedano dalla casa / dagli affetti / dagli amici / dalle cose insignificanti e / dalla strada che non torneranno a vedere / isolati dagli altri / pernottando nel torpore avido dei fiumi avanzano / distesi sul fondo della pesante barca – eterei / entrano con calma nella città demolita / nella fessura di questo tempo pestifero / che non gli appartiene più».

Il testo-corpo di Al Berto ha «potere apotropaico in questo mondo inquieto, e il gesto che le dà forma è ampio e totalizzante: le metafore che crea spazializzano una sospensione del tempo, prolungano l’attesa; come l’ekfrasi è collocata davanti all’opera, così la metafora in Al Berto dice e racconta il gesto[8]».

Ma se la metafora corporea è stata l’epicentro insaziabile di una tensione scandalosa di emancipazione ed enunciazione di sé (sesso, droga, rock’n’roll) e ha definito l’individualità, proiettando la rappresentazione degli ideali collettivi, come accaduto negli anni ’70, la sessualità (e in questo caso l’omosessualità) rappresenta il passaggio dell’essere per raffrontarsi da una parte con la propria anima, dall’altro con la frammentazione, la deriva dei margini, il ritaglio libertario, il mosaico delle tendenze culturali e l’insonnia nelle città inospitali («eppure conosco / tutti gli angoli dell’immonda città che amo / eppure soffro di insonnia – imito il gufo / l’ubriaco folle / gesticolo come chi non sono più e un altro non sarò»): «archiviamo l’amore nell’abisso del tempo / e al di là della nera pelle del dispiacere / presentiamo vivo / il passeggero ardente delle sabbie – il viaggiatore / che irradia un odore di violette notturne / accendiamo allora una fiamma sulle dita / ci svegliamo tremoli confusi – la mano bruciata / vicino al cuore».

Se Sines, città marittima della regione dell’Alentejo, che diede i natali anche a Vasco de Gama, esprime l’apice di un legame osmotico e il punto di paragone dell’essere, Lisbona, (emblema del Portogallo dove finisce la terra e inizia il mare e dove il confine ultimo del mare termina perché esista la terra) richiama le prime luci dell’alba, il deserto di malinconia, le ferite d’asfalto, la finisterra del corpo, i piatti di cenere, ricordando la vertigine amara della finitudine e della transitorietà di Cesário Verde con le spalle al mondo[9]: «platani bianchi si stagliano luminescenti nello sguardo / di chi ci guarda contro un cielo disperato – giardino / di iris gigli palme coperte di rugiada e / il ponte che ci porta ai campi del sud – lisbona».

O ancora il paese ombroso e di silenzio, dove «il vento ti porta l’odore dei tropici / dei tamarindi fioriti dei viali e dei fieni / primaverili delle pianure – il vento / ti protegge – ti porta via nell’alato acido / delle brine e delle incertezze», diventa il paese immobile divorato dal sole nel momento in cui il brivido del canto si sparge per le vie, nel panno riarso del tempo, nei traghetti vaghi e nei vicoli: «ma lisbona è fatta di fili di sangue / di province attese davanti ai caffè / di vuoto sotto un cielo plumbeo che adombra / i giardini di statue spezzate».

La provvisorietà temporale, raccontata dal poeta, si configura come transito neutrale e straniero[10], si delinea come tenebra sparsa tra la sofferenza del corpo e l’anima concitata, malinconia inerte e dimora del silenzio che innalza solitudini fino alla distruzione[11].

La mappa della ricerca del tempo perduto e della entità memoriale si afferma nella sinestesia oggettuale, nella liquidità e nella sperimentazione dell’abisso. La luminosa visione delle cose si accompagna all’oscurità piretica di luce, come sisma di orchidee e cenere bruciata:

«soffia un vento lungo il petto del marinaio – vento / grigio capace di spegnere i gesti che restano e / di pulire i passi incerti per le vie del molo / vento / un vento che ti scuote le vene i tendini / fa vibrare i muscoli e il sartiame – come l’albero / che si stacca dalle viscere del mare / corre / corre un vento lungo le fessure della pelle – vento / di polvere arrugginita che apre ferite negli animali vivi / incollati alla memoria dove / un serpente si è immerso nel sangue e / comincia a folgorare / soffia un vento lungo il petto del marinaio / risveglia la fioritura pallida del plancton – spazza / la notte e lava le mani dei condannati a morte / corre un vento / vento di febbre – sisma di orchidee che si calma / quando accendi la luce e apri le ali / vibri e prendi il volo».

In orto, la condizione genesica di appartenenza si lega al bagliore interiore e al dramma della propria condizione, divenendo il luogo della coscienza e dell’abbandono:

«la linea dell’orizzonte è una lama / taglia i capelli alle meteore – taglia / le guance degli uomini che spiano il palco / notturno delle invisibili città / scorre una linfa argentea verso il cuore dei ciechi / e il sonno li tormenta con i suoi sogni vuoti / si addormentano sempre / prima che la cenere degli occhi arda e si disperda / nel fondo della lunga distanza si sente / un lamento scuro / quando l’alba si alza nell’orto / degli incendi / proseguono il cammino / con la voce avvinta da una corda di gigli / i ciechi / sono il corpo di un fuoco lento / un roveto / che si accende all’improvviso dal dentro».

Nell’ultima parte del libro, Morte di Rimbaud, detta a voce alta nel coliseu di Lisbona il 20 novembre 1996, l’enunciazione di Al Berto insegue la bordura del viaggio sfinito rimbaudiano, avvolto nell’ignoto, come congedo estremo, anticipazione, abisso e circolazione finale, compresa nella e dalla morte: «la verità è che ho passato la vita a fuggire, di città in città, con un sussurro tagliente sulle labbra. / e ho attraversato città e vie senza nome, strade, / ponti che legano una tenebra a un’altra tenebra. / cammino come ho sempre camminato, dentro di me – / squarciando paesaggi, solcando mari, divorando / immagini».

È la visione della caduta, l’impossibilità del ritorno e di ogni invenzione comprensibile, rilasciando un’inerzia che riduce le distanze e apprende la parola nella sregolatezza dei sensi, nei miraggi, nel deserto che squaderna ogni universo da ricostruire nella alterità veggente.

Il contorno e la separazione, il rumore prezioso delle sillabe e ancora la febbre di uno specchio rotto. Il veleno delle vertigini, fino all’ultima fuga, accende il firmamento dell’anima e il vento che fa scomparire e la scrittura per imparare a morire.

[1] Al Berto, Orto di incendio, a cura di Federico Bertolazzi, Passigli, Bagno a Ripoli (Fi) 2018.

[2] Bertolazzi F., L’altro lato dello specchio, in Al Berto, cit., pp. 13-14.

[3] In Bertolazzi F., cit., pp.7-8.

[4] Monteiro M. H., Horto de Incêndio (Entrevista a Al Berto), , in, «Hablar/Falar de Poesia», n.º 1, 1997.

[5] Kirkup J., Obituary: Al Berto, (https://www.independent.co.uk/news/people/obituary-al-berto-1249902.html), 10 luglio 1997.

[6] Bertolazzi F., cit., p.8.

[7] Cfr. Lugarinho M. C. Mnemosyne e a lírica angolana. Dissertação de Mestrado em Literaturas de Língua Portuguesa, PUC-RJ, 1993, p.7.

[8] Bertolazzi F., cit., pp.10-11.

[9] Cfr. Silveira J. F., da Verso com verso, Ângelus Novus, Coimbra 2004.

[10] Cfr. Martelo R. M., Em parte incerta, Campo das Letras, Lisboa 2004.

[11] Cfr. Amaral F. P., O mosaico fluido, Assírio & Alvim, Lisboa 1997.

Al Berto, Orto di incendio, a cura di Federico Bertolazzi, Passigli, Bagno a Ripoli (Fi) 2018, pp. 113, Euro 14,50.

Al Berto, Orto di incendio, a cura di Federico Bertolazzi, Passigli, Bagno a Ripoli (Fi) 2018.

Kirkup J., Obituary: Al Berto, (https://www.independent.co.uk/news/people/obituary-al-berto-1249902.html), 10 luglio 1997.

Lugarinho M. C. Mnemosyne e a lírica angolana. Dissertação de Mestrado em Literaturas de Língua Portuguesa, PUC-RJ, 1993.

Martelo R. M., Em parte incerta, Campo das Letras, Lisboa 2004.

Monteiro M. H., Horto de Incêndio (Entrevista a Al Berto), in, «Hablar/Falar de Poesia», n.º 1, 1997.

Silveira J. F., da Verso com verso, Ângelus Novus, Coimbra 2004.