Homero Aridjis: la fiamma della meraviglia

di Andrea Galgano 10 ottobre 2018

leggi in pdf HOMERO ARIDJIS. LA FIAMMA DELLA MERAVIGLIA

Homero Aridjis (1940) «pare sintetizzare nella sua opera tutta una serie di miti e culture anche apparentemente distanti e contrastanti; nelle sue pagine pulsa sempre una storia viva, nella quale anche la cronaca, spesso violenta, si apre a risvolti metafisici, in un continuo dispiegamento di forze tra il bene e il male», da cui risulta un universo complesso e affascinante[1]».

In tal modo, ne risulta «un universo poetico e narrativo complesso e affascinante, un immenso crogiolo di immagini ai quali il poeta sembra attingere, di volta in volta, per rappresentare meraviglie e miserie del nostro mondo[2]», i cui elementi confluiscono «in un grande affresco universale, in un’opera veramente “totale” (per dirla con Juan Ramón Jiménez), alla ricerca di quel punto di unione e di comunione che costituisce l’humus militante non solo dell’opera, ma della sua stessa vita[3]».

Nato a Contepec, in Messico, di padre greco e madre messicana, poeta, romanziere e saggista, è anche un ambientalista attivo, fondatore del Grupo de lo Cien, che raccoglie intellettuali impegnati nella tutela della biodiversità in America Latina. Ha ricoperto la carica di ambasciatore messicano in Olanda e in Svizzera e presidente del PEN Club dal 1997 al 2003.

La pubblicazione, in Italia, per Passigli, di Del cielo e le sue meraviglie, della terra e le sue miserie[4], a cura di Valerio Nardoni, segue Diario dei sogni[5], a cura di Emilio Coco, pubblicato qualche anno fa, assieme a romanzi, come 1492. Vita e tempi di Juan Cabezón di Castiglia e A chi pensi quando fai l’amore?, restituisce non solo l’impronta di un «ecologismo responsabile[6]», come sostiene Giuseppe Bellini, ma anche un’impronta creativa di pienezza e rivelazione finale, che «dà ampia testimonianza, comunicando ai suoi testi, a qualsiasi genere essi appartengano, il senso di una continuità culturale che tesaurizza i risultati creativi di secoli, dando, tuttavia, nella sua opera, il senso di un’attualità che ne accentua la problematica, discutendo il futuro del mondo[7]».

Octavio Paz, il poeta nel labirinto e del vento cardinale, indagando i recessi di Mirándola Dormir (1964) e Perséfone (1967), di Aridjis, in cui l’imperituro dialogo con l’oggetto amato si propagava come ansia di eterno, anticipazione della morte e compiutezza, Paz sostiene che:

«Nella poesia di Aridjis c’è lo sguardo, il polso del poeta: c’è il tono inconfondibile di chi ha la necessità di dire e sa che ogni dire è impossibile; c’è la parola piena e la coscienza del vuoto della parola; c’è erotismo e anche amore; c’è il tempo discontinuo della vita pratica e razionale e la continuità tra il desiderio e la morte; c’è la verità originale del poeta».[8]

È la totalità che si annuncia. Dentro la pienezza ombrosa e solenne, nella fertile sponda di ogni preziosità indicibile «[…] si intuisce di trovarsi di fronte a una poesia dal respiro vasto e incline a sorprendere le vicende personali (in molte poesie vi sono dediche e riflessioni solitarie) dentro il movimento intero del mondo e dell’interrogazione solitaria[9]».

Nel ferreo inverno di New York, il poeta entra in una libreria e attraverso le copertine, scorge in una di esse, un fiore eclissato di petali gialli. Fuori infuria il mondo gelido dell’inverno, nelle tasche il calore subitaneo dell’essere:

«In un gelido pomeriggio / A passeggio verso Broadway / entro in una libreria. / Sfoglio un libro. / Totalità. / Attraverso le copertine / un occhio mi fissa, / è un fiore eclissato / di petali gialli. / Totalità. / è raro che a quell’ora / ci sia tanta gente nel freddo, / mentre da terra fino alla punta / di un gelido edificio / sale una luce azzurra. / Nel carillon di raggi del pomeriggio / un sole ebbro suona sulle finestre, / e la luce vagante della totalità nascosta / da qualche parte di me stesso / mi obnubila. / Le mani in tasca / si accendono come soli liberati, / e il fuoco che sprofonda nella città / riecheggia nel mio essere come un sole orfano. / Totalità».

Davide Rondoni commenta:

«[…] lontano da ogni moda leggera di in appartenenza, di cosmopolitismo “light” questo viaggiatore instancabile tra miti antichi e figure di varie fedi, tra voci di poeti remoti e compagni di viaggio (stimato tra gli altri da Paz, Bonnefoy, Heaney) porta con sé un potente anelito alla “totalità”. Così si intitola una sua poesia a inizio di questa raccolta, dove una passeggiata per New York diviene enigmatica occasione per riconoscere «la luce vagante della totalità nascosta». In quella poesia è presente una libreria, come in tutta l’opera di Aridjis sono continui i riferimenti alla cultura e alla letteratura. La poesia in lui viaggia alla scoperta dei segni di tale luce «unitiva» – forse quella “unio” che Dante intravvide al termine del suo viaggio e che resta sia nel campo della ricerca fisica che della ricerca estetica un grande attraente mistero. La scena del mondo, infatti, come Aridjis la testimonia con ficcante e mai dolciastra poesia è plurale e frammentata, così pure l’uomo ha il suo doppio interiore, ma ovunque l’uomo pensoso avverte una tensione alla unità profonda. Si può vivere la scena enigmatica del mondo come una disordinata e mesta deriva, una decomposizione più o meno accelerata. Oppure come una oscura comunicazione unitiva».[10]

Il dettaglio che si frammenta, come accade in quell’inframondo a New York, è un abisso che ascolta il rumore del silenzio, l’orfana moltitudine e il riflesso guadagnato nella finestra, i segnali dipinti nell’aria e gli occhi aperti del sole collassato della Totalità.

Il particolare di Aridjis attraversa la scena del mondo (come si legge in Angeli nella Metro: «Se li vede diretti alla Metro, / non li perda di vista, / li segua fino al binario, / e se si buttano sulle rotaie / si butti dietro di loro, / perché nei loro brandelli insanguinati, / c’è un cielo da conquistare»), che viene attraversata da «varie forme, da questi angeli, da queste forze di collegamento tra le dimensioni celeste e terrestre: angeli ormai così simili a noi e ai quali abbiamo imparato a sopravvivere, come ha osservato J.M.G. Le Clézio[11]».

Il sipario soleggiato di Aridjis scompone ogni tempio possibile di bellezza. Si fa materia, sguardo, incanto di penombre e strade accalcate, unendo storia e mitologia, fede e credenza, possibilità e ragione, sillaba viva di palpebre e orizzonti.

La dimensione onirica diviene, così, un ordine di obbedienza, un ritratto, un ricordo che attraversa lo spazio antico e la luce benedetta della nascita tocca situazioni perdute[12], fantasmi che richiamano altri fantasmi, stanze buie dell’utero materno, amanti, dove il sole rappresenta la sensuale trasgressione del vivente:

«Amo il sole che si leva e che si posa nei tuoi occhi / come un falco nel deserto di Amarna / lo amo come un cuore che pensa / e come un occhio che sente / amo il sole che veste e sveste le creature / con le sue mani che terminano in raggi / l’occhio che colmandoci di luce / ci fa apparire più scuri / il sole vecchio che tocca le mani del cieco / che suona in una strada uno strumento a fiato / il sole che crea cuori di luce sulle pareti / e strie sulle piramidi di sabbia / amo il disco che si allontana sul fiume / come una povera moneta di rame / l’occhio che danza alle finestre / ebbro di soli e di ombre / il mistero che brilla nei tuoi occhi / e sfolgora nelle pupille dell’acqua / amo il sole che ci guarda attraverso la Luna / per non lasciarci soli nella notte / amo il sole nei suoi nomi / Helios Akhenaton Tonatiuh / il Sole Dio di Marsilio Ficino / il Cristo trasfigurato del Grünewald / amo il sole miele il sole mare il sole Dio / il cui nome sta in una sola sillaba / il sole vivo che guarda se stesso / quando il sonno mi chiude le palpebre / il Sole che dalla sua oscurità disse: / «che l’aria sia che l’acqua sia / che gli uomini siano / che le pietre siano / che l’orizzonte sia» / Sole solo Sole mio».

Ciò che accade o è accaduto rappresenta la palpitazione dell’immaginale, come avviene in Santa Teresa d’Avila, cui Aridjis dedica Levitazioni. Il castello interiore diviene la perfetta unione di spirito e corpo, quiete e unione, estasi e raggiungimento («In quei rapimenti il mio corpo perdeva il suo calore naturale / e iniziava a freddarsi, il pavimento sotto il corpo si ritirava, / e nel silenzio dei sensi la nube / della grande Maestà discendeva a terra, / saliva alla nube del cielo, ed elevandosi / mi portava con sé nel suo volo»), o nel racconto di María de Agreda che un giorno, «come una nube si dissipò nell’aria», l’impermanenza di Budda e l’alba di ogni chiocciola.

Aridjis scrive così la sua litania a Dio in un luogo nudo, avvertendo la fitta del trascendente in ogni ontologia, fino al nulla degli inferni, al sangue, all’amore profondo del rito o ad Afrodite che scrive sulle mani del vecchio, camminando per strada come un sogno (“duermevela”): «ama il Dio che ti ama / la luce che i tuoi occhi amano / lo spirito incarnato ama / l’acqua madre ama / la terra intelligente / come te stesso ama / l’universo dentro e fuori di te ama / come un sole interiore ama / la luce vitale / tra due eternità morte ama / la poesia dell’essere ama / ama il sorriso infinito della luce / nella vita e nel nulla ama».

Dentro la sua vena di luce che sente la mancanza del sole, come tensione e come ultima propagazione di grazia e bellezza finale, c’è tutta la lacerazione dello scorcio della vitalità estrema, assieme alla luna insanguinata di Leopardi, che descrive l’apocalisse del suo biancore ignoto, come ciò che nel remoto ci destina.

Yves Bonnefoy, cui Aridjis reca omaggio, afferma «Aridjis incendia la realtà in immagini che allo stesso tempo la illuminano e la consumano, facendo della vita una sorella del sogno. Aridjis è un grande poeta; il nostro tempo ha bisogno di lui[13]», la poesia vede l’invisibile, l’essenziale, i segni, lo spazio interiore come visione e sporgenza dell’occhio divino.

Come la poesia di Bonnefoy sgorga da profondità inconsce e non da fatti contingenti, come gesto imprevisto e imprevedibile, che varca la morte per vivere («potremmo con gli occhi chiusi, / dal più profondo silenzio, / vedere nel nostro intimo infinito, / l’invisibile»), così Aridjis compone la sua affermazione dell’invisibile, il gesto indicibile dell’ombra, l’attrazione dei corpi e la mistica passione per la realtà attraverso la luce e i soli interiori nello splendore seppellito («Sole del sorriso arrossito, / la luce della banda del tuo spettro / cadde come leonessa ferita / sui seni nudi del nulla»), il tatto trascendente[14], il fuoco e l’eros[15], la totalità e il suo occhio nero, gli elementi («Io stringevo negli occhi la sua forma sfuggevole, / l’aria però scappava da cannoni labiali / trascinando le immagini verso il suo nulla»), fino all’inizio dell’infinito e del finito («In noi stessi l’oriente canta e l’occidente decanta, / l’orizzonte sopravanza i propri limiti. / Finchè la testa esplode di dolore come un fiore»).

Poi la notte di Novalis, dopo la sua morte, con i chiari di luna che captano l’ombra, i pezzi di oscurità, la pietra in fiamme dei chiarori, e il Fiore Azzurro che destina il primo e l’ultimo amore sulla oscurità santa che non riesce a vedersi le mani.

La morte ha anche una luce di scomparsa. La poesia dell’essere richiede notizie dalla terra, dopo il temporale, una deriva di sogno, in cui si scorge chiaro l’incubo del futuro, l’implosivo annichilimento dell’uomo, immerso nelle rovine, incarnando « le ansie del presente, dell’impotenza umana di fronte alla rovina dei tempi, delle angosce per un disastro apocalittico che tutto e tutti coinvolge[16]».

Quando Aridjis fu colpito, accidentalmente, da un proiettile esploso dal fucile da caccia del fratello maggiore, e fu ricoverato in ospedale in fin di vita, le voraci letture della sua degenza, sperimentata attraverso Salgari, Verne o i fratelli Grimm, rappresentarono la prova di una metamorfosi che doveva indagare il mistero della realtà, la limpidezza delle radici e la chiarità della vita, attraverso l’attrazione dell’amore, assoluto ed estremo nella scheggia di eterno, materiale nella sua carnalità:

«Se ci fosse possibile tenere gli occhi aperti / per vedere Dio da tutte le parti / perché la porta di Dio nel cielo superiore / non è più brillante di quella di questo mondo / se ci fosse possibile essere un calzolaio scalpellino / e sistemare il selciato della strada / se ci fosse possibile modellare i sogni dell’infanzia / e andare per i campi partorendo esperienze visionarie / se ci fosse possibile esaurire la vita infinita / in una sola vita / se ci fosse possibile uccidere la concupiscenza della carne / e grazie alla forza divina trasformare il mondo / trasformare la vita interiore in cielo / e il mondo interiore in mondo visibile / se ci fosse possibile che l’albero raggiungesse la perfezione / e ottenesse i suoi frutti dal Mysterium Magnum / se ci fosse possibile che il guscio esterno cadesse / e potessimo vedere l’albero spirituale di Dio / se ciò fosse possibile / se ciò ci fosse dato / alzare l’albero della vita / nell’infinito campo di Dio / se fosse possibile / se fosse / se».

La percezione del mondo, di ciò che non ha paese ed è errante, solo e viandante, come alcuni giardini, come il sito di Wirikuta, cuore sacro del Messico, dove «per la prima volta / si vide cantare la luce», la «prima luce solida del mondo» della roccia bianca di San Blas, la sierra Tarahumara e gli specchi di Borges, l’occhio di pietra, le visioni di città compiono il loro enigma di rinascita, di strane luci, di sogno come attraversamento dipinto, di autoritratti e spettri notturni.

Le fotografia di Aridjis sfiora anche Turner, nella perfetta interazione di colori primari e luce immortale: «nell’ora della sua morte / […] iniziò / a mescolare i colori puri / con i raggi solari / sognò gialli teneri / blu cobalto / e angeli immobili / sul ciglio di una nuvola», e in tal modo, «con quell’impasto / di ombre animate / e colori caldi dicono / che rese vicino l’aldilà / e il lontano visibile», l’occhio di Rogier Van der Weyden che dipinse se stesso «perché vedere è credere / e soprattutto essere», la morte avida di colore.

Nelle dodici Poesie del doppio, «il doppio è una sorta di intuizione personificata, è ricordo non svanito, è il sé che si è stati e che ancora ci guarda, o il sé che non si è mai stati e che ancora si vorrebbe essere, come «licantropi del non vissuto», il doppio è quell’ego selvaggio che compra pezzi anatomici per sovvertire ogni regola e ottenere una propria forma […] La moltiplicazione dei doppi, nell’uomo, riproduce la forza della creazione primigenia, ossia della vita che chiede violentemente e costantemente il diritto di esistenza[17]»:

«Il letto era il suo cielo di chiaroveggenza, / la finestra il suo lucernario; / fissava gli occhi del suo doppio che saliva e scendeva tra gli uccelli / che era stato sul punto di uccidere / quando gli partì un colpo di fucile: / da lassù in alto, / poteva vedere il bimbo che era stato, / sdraiato sul letto, / stranamente calmo, / quasi vivo, quasi morto, / che lo guardava da dentro fissamente».

Viene percepito nella distanza  («Mi chiedo, sono io / quella sostanza che respira / nella distanza? / O sono questa presenza / che respira qui / guardandomi dalla distanza?»), nella licantropia del non vissuto («Quell’ego selvaggio, incalzato dall’anelito / di essere mio simile, cominciò a comprare / pezzi anatomici; occhi gialli, olfatto sottile, / mani affilate, viso e petto pelosi»), nel labirinto della mente, nella vecchiaia, nell’orfanità, nell’angelo e nella rosa malata.

Il doppio di Aridjis è uno zenit di sogno e vitalità, si protrae attraverso l’annotazione ridestata, «per recuperare un’età perduta, il bambino che era stato prima che fosse gravemente ferito da un colpo accidentale partito dal fucile. […] Homero ritorna su quell’episodio e ci racconta come proprio grazie a quello sparo sia diventato poeta. [….][18]:

«Dopo diciannove giorni, ritornai a Contepec e cominciai a scrivere poesia. Una parte della mia vita era rimasta dall’altro lato dell’incidente. L’altra era cominciata quando risuscitai nella stanza dell’ospedale. Quel bambino che giocava a calcio e dormiva col pallone ai piedi del letto era morto ed era nato il poeta bambino».

Ma esiste anche il confine, e le sue trame oscure, nel tempo degli assassini. Il Messico possiede le meraviglie e la brutale ferocia dei narcos, la dolcezza sperduta e insonne delle figlie del fuoco, le città desolate, la violenza e l’incombere della morte, l’infanzia del gemito della terra e le sue miserie, la sacralità del suo paesaggio natale che diviene un tempio di nascita, come le miriadi di occhi dell’universo, l’oro dei fiori e l’ora fatale («L’alba dell’uomo è una primavera in rovina»).

Una nullità dello spazio[19] nella terra, uno squilibrio goyesco di compassione, un incubo di cani e sacrifici, di vetrate e strade ingabbiate come ombre livide, demoni di città senza sonno e occhi di vetro.

Le nudità della morte silenziosa, dispiegata nelle pagine, è una lapidaria catastrofe rivelata ma non è l’ultima e nemmeno la definitiva. Ci sono i colori della pioggia nell’amore («e attraverso la pioggia di dita trasparenti / lei vedeva lui / con i suoi sei come fiamme bianche / e uno sguardo di silenzi infranti»), la magia delle palpebre mobili dell’infanzia, l’epifania delle cose, e l’infinita alterità dell’unione, come una nebulosa di fuoco, per proclamare la supremazia dell’amore e la sua traccia infinita: «dal suo infinito / lei mi guardava / e dal mio infinito / io guardavo lei / e quando si spense la luce / ci addormentammo insieme / nel cielo di nessun luogo».

[1] Nardoni V., prefazione, in Aridjis H., Del cielo e le sue meraviglie, della terra e le sue miserie, cit., p.5.

[2] Id., cit., pp. 5-6.

[3] Id., cit., p. 6.

[4] Aridjis H., Del cielo e le sue meraviglie, della terra e le sue miserie, Passigli, Bagno a Ripoli (Fi) 2018.

[5] Id., Diario di sogni, a cura di Emilio Coco, Ladolfi, Borgomanero (No) 2013.

[6] Bellini G., I tempi dell’Apocalisse. L’opera di Homero Aridjis, Bulzoni, Roma 2013, p. 11.

[7] Id., cit., p.11.

[8] Cfr. Paz O., Poesía en movimento: México, 1915-1966, Siglo xxi, Buenos Aires 1988.

[9] Rondoni D., Cosmopolita, visionario e totale. Le domande di Aridjis al cielo e alla terra, in “Avvenire”, 11 settembre 2018.

[10] Rondoni D., cit.

[11] Nardoni V., cit., p.7. Vedi anche Le Clézio J.M.G., Tiempo de ángeles / A time of angels, México, Fondo de Cultura Económica – San Francisco, City Lights, 2012.

[12] Cfr. Udiel Ruiz F., Diario de sueños (entrevista con el poeta Homero Aridjis), in «Caratuca», Revista Cultural Centroamericana, 39, Diciembre 2010- Enero 2011.

[13] Cfr. Bonnefoy Y., preface, Les poèmes solaires d’Homero Aridjis, Gallimard, Paris 2009.

[14] Rexroth K.,  Los espacios azules, en  Homero Aridjis,  2ª ed., selección del autor, México, UNAM 2013, p. 4.

[15] Cfr. Sánchez Ruy A., in Aridjis H.,  Obra poética 1960-­1986, Mortiz, Colonia Chapultepec Morales, 1987.

[16] Bellini G., cit., p. 128.

[17] Nardoni V., cit., p. 10.

[18] Coco E., introduzione, Aridjis H., Diario di sogni, cit.

[19] Bellini G., cit., vedi anche (http://www.cervantesvirtual.com/obra-visor/i-tempi-dellapocalisse-lopera-di-homero-aridjis-fragmento/html/424dfa25-f7c1-4723-821a-e03955e6601b_12.html).

Aridjis H., Del cielo e le sue meraviglie, della terra e le sue miserie, Passigli, Bagno a Ripoli (Fi) 2018, pp. 305, Euro 28.

Aridjis H., Del cielo e le sue meraviglie, della terra e le sue miserie, Passigli, Bagno a Ripoli (Fi) 2018.

  • Diario di sogni, a cura di Emilio Coco, Ladolfi, Borgomanero (No) 2013.
  • Obra poética 1960-­1986, Mortiz, Colonia Chapultepec Morales,

Bellini G., I tempi dell’Apocalisse. L’opera di Homero Aridjis, Bulzoni, Roma 2013.

Bonnefoy Y., preface, Les poèmes solaires d’Homero Aridjis, Gallimard, Paris 2009.

Guerra L., El  Último Adán:visión apocalíptica de la Ciudad en la narrativa di Homero Aridjis, en «Contexto», Volumen 6 – No. 8 – Año 2002.

Le Clézio J.M.G., Tiempo de ángeles / A time of angels, México, Fondo de Cultura Económica – San Francisco, City Lights, 2012.

Paz O., Poesía en movimiento: México, 1915-1966, Siglo xxi, Buenos Aires 1988.

Rexroth K.,  Los espacios azules, en  Homero Aridjis,  2ª ed., selección del autor, México, UNAM 2013.

Rondoni D., Cosmopolita, visionario e totale. Le domande di Aridjis al cielo e alla terra, in “Avvenire”, 11 settembre 2018.

Stauder T., Un coloquio con Homero Aridjis (http://www.cervantesvirtual.com/obra-visor/un-coloquio-con-homero-aridjis/html/610345fa-3ab3-4434-8d58-76d9ccde3909_2.html), 2 abril 2003.

Udiel Ruiz F., Diario de sueños (entrevista con el poeta Homero Aridjis), in «Caratuca», Revista Cultural Centroamericana, 39, Diciembre 2010- Enero 2011.