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La poesia di Alice Notley

Biografia

Alice Notley è nata a Bisbee, in Arizona, nel 1945 e cresciuta a Needles, in California, nel deserto del Mojave. Ha conseguito la laurea in lettere al Barnard College e il master in scrittura creativa presso l’Iowa Writers’ Workshop, partecipando attivamente alla scena poetica di New York negli anni Sessanta e Settanta. Ha pubblicato il suo primo libro nel 1971 e, ad oggi, ha scritto oltre quaranta libri, tra cui “How Spring Comes” (1981), “The Descent of Alette” (1996), “Mysteries of Small Houses” (1998), “Disobedience” (2001), “Grave of Light: New and Selected Poems” (2006), “Culture of One” (2011) e “Certain Magical Acts” (2016). Sebbene Notley sia spesso associata alla seconda generazione della New York School, preferisce dichiararsi indipendente da qualsiasi classificazione. Notley si è trasferita a Parigi nel 1992, dove vive ancora oggi. La sua poesia è narrativa, meditativa, epica e femminista, nota per la sua esplorazione dello stile e della forma. Ha ricevuto il Los Angeles Times Book Award, il Griffin Prize, il Lenore Marshall Prize dell’Academy of American Poets e il Ruth Lilly Prize della Poetry Foundation. Il suo libro più recente, “For the Ride”, è stato pubblicato nel 2020 da Penguin.

 
This Fire

No one loves you more … more … more …

There were sincere lies everywhere placed directly before

the next step. Does everyone pretend, part of alive

I am proposing words — All structures have crumbled

in earliest death. I’m crossing the yellow sands

It’s so hard to know without relating it, to you

shaping a heart, take hold of me and someone says

I don’t get it! You don’t have to have love,

or you do, which? I don’t think you do; before

the explosion? I was here without it and have been in

many places loveless. I don’t want you

to know what I’m really thinking or do I, before

creation when there might be no “I knew”

Everything one’s ever said not quite true. He or she be-

trays you; why you want to hurt me … bad

Want to, or just do? Treason was provoked

everywhere even here, by knowing one was one and

I was alone, a pale hue. The sky of death

is milky green today, like a poison pool near a

desert mine. Picked prickly pear fruit and I

tasted it, then we drove on, maybe to Yarnell.

These outposts where I grew up; I didn’t do that

I have no … identity, and the love is an object

to kick as you walk on the blazing bare ground, where …

sentimental, when what I love, I … don’t have that one

word. This fire all there is … to find … I find it

You have to find it. It isn’t love, it’s what?

Questo Fuoco

Nessuno ti ama di più … di più … di più … di più …
C’erano bugie sincere disposte ovunque direttamente prima
del prossimo passo. Fingono tutti, parte del vivere
Propongo parole – Tutte le strutture sono crollate
nella primissima morte. Sto attraversando le sabbie gialle
ed è così difficile sapere senza associarlo, a te
che forgi  un cuore, impadronisciti di me e qualcuno dice
non capisco! Non c’è bisogno di essere amati,
oppure sì, quale? Non penso ci sia; prima
dell’esplosione? Ero qui senza di esso e sono stata in
molti posti senza amore. Non voglio che tu
sappia ciò che penso realmente, oppure sì, prima
della creazione, quando potrebbe non esserci stato un “io sapevo”
Tutto ciò che ognuno abbia mai detto non è totalmente vero. Lui o lei
ti tradisce; perché vuoi farmi male … così male
Vuoi, o lo fai e basta? La slealtà venne provocata
dappertutto persino qui, sapendo che ognuno fosse ognuno e
che io ero sola, una pallida sfumatura. Il cielo della morte
è di un verde lattiginoso oggi, come una vasca di veleno vicino ad
una miniera deserta. Raccolsi il frutto del fico d’India e lo
assaggiai, poi proseguimmo guidando, forse fino a Yarnell.
Questi avamposti dove sono cresciuta; non fui io
Non ho alcuna … identità, e l’amore è un oggetto
da prendere a calci mentre cammini sul terreno nudo e ardente, dove …
sentimentale, quando ciò che amo, io … non ho quella precisa
parola. Questo fuoco, tutto quel che c’è … da trovare … lo trovo
Tu lo devi trovare. Non è amore, cos’è?

Stalker

The light so thick nothing’s visible, cognoscenti

I knew them, stupid apes. Real apes know more

Before we said apes. I know how to be you bet-

ter — a stupid voice. You must find a mind

to respect — why? There was someone with ear

buds, speaking gibberish who wouldn’t

stop walking beside me; freckle-spattered. I

had to ask the métro attendant for help;

she extricated him from me … I respect his chaotic

speech, mild adhesive force because it makes no sense.

I am back on the alley, discovering adults are un-

trustworthy: someone’s lying … about a

fight between a teenage girl and boy — he pushed

her hard — first she badly scratched him, she’s worse, his

mother says. I’m back at pre-beginning, I don’t

want to go through that again. There is no

sexuality in chaos, there’s no style, nor

hope. I want style — apes have style, people

have machines. Show me something to respect

This bleuet growing out of a wall on rue d’Hauteville.

I picked it and pressed it in a diary. Every once

in a while I respect a moment. I am back at

pre-beginning: I don’t want to care beyond

this … sudden hue in the sand, yellow or spotted with an

hallucinated iridescence. The one who is

stalking me … there has often been someone stalk-

ing me. My destiny. He’s gone, stay here

in this, I can’t be harmed if I’m the only one who’s

thought of being here. Aren’t you lonely? I don’t know.

 

Stalker

La luce così fitta  che nulla è visibile, conoscitori

Le conoscevo, stupide scimmie. Le vere scimmie conoscono di più
da prima che noi dicessimo scimmie. So come essere te, ma me-
glio – una stupida voce. Devi trovare una mente
da rispettare – perché? C’era qualcuno con degli auricolari
che parlava incomprensibilmente e che non
smetteva di camminare affianco a me; cosparso di lentiggini.
Dovetti chiedere aiuto all’addetta della metro;
lei lo districò da me … Rispetto il suo linguaggio
caotico, tenue forza adesiva perché non ha senso.
Sono di nuovo nel vicolo, scoprendo che gli adulti sono in-
affidabili,: qualcuno sta mentendo riguardo ad un
litigio tra due adolescenti – lui la spinse
con forza – inizialmente lei lo ferì con un graffio, lei è peggio,
dice la madre di lui. Sono di nuovo al pre-inizio, non
voglio affrontarlo ancora. Non c’è
sessualità nel caos, non c’è alcun stile, né
speranza. Io voglio lo stile – le scimmie hanno stile, le persone
hanno le macchine. Mostrami qualcosa da rispettare
Questo fiordaliso che cresce da un muro sulla rue d’Hauteville.
Lo raccolsi e lo pressai in un diario. Di tanto
in tanto rispetto un momento. Sono di nuovo al
pre-inizio: non voglio interessarmi più di
così … improvvisa sfumatura nella sabbia, gialla o maculata con un’
iridescenza allucinata. Colui che mi
pedina … c’è spesso stato qualcuno che mi pe-
dinava. Il mio destino. Se n’è andato, resta qui
dentro, nessuno può ferirmi se sono l’unica ad
aver pensato di essere qui. Non ti senti sola? Non lo so.
Traduzione di Emanuele Emma e Chiara Ciccolella

 

La poesia di Kim Addonizio

Traduzione di Emanuele Emma e Chiara Ciccolella

Biografia

Kim Addonizio, nata il 31 luglio 1954 a Washington, D.C., ha conseguito la laurea e il master presso la San Francisco State University. Ha pubblicato numerose raccolte di poesie, tra cui “Exit Opera” (2024), “Now We’re Getting Somewhere” (2021) e “Tell Me” (2000), finalista al National Book Award. Tra le sue opere in prosa ci sono il memoir  “Bukowski in a Sundress” (2016), due romanzi e diverse guide alla scrittura.

Addonizio ha ricevuto borse di studio dal National Endowment for the Arts e dalla Guggenheim Foundation, oltre a numerosi Pushcart Prizes. Insegna corsi di poesia online e vive a Oakland, California.

 

 
New Year’s Day

The rain this morning falls
on the last of the snow

and will wash it away. I can smell
the grass again, and the torn leaves

being eased down into the mud.
The few loves I’ve been allowed

to keep are still sleeping
on the West Coast. Here in Virginia

I walk across the fields with only
a few young cows for company.

Big-boned and shy,
they are like girls I remember

from junior high, who never
spoke, who kept their heads

lowered and their arms crossed against
their new breasts. Those girls

are nearly forty now. Like me,
they must sometimes stand

at a window late at night, looking out
on a silent backyard, at one

rusting lawn chair and the sheer walls
of other people’s houses.

They must lie down some afternoons
and cry hard for whoever used

to make them happiest,
and wonder how their lives

have carried them
this far without ever once

explaining anything. I don’t know
why I’m walking out here

with my coat darkening
and my boots sinking in, coming up

 

with a mild sucking sound
I like to hear. I don’t care

where those girls are now.
Whatever they’ve made of it

they can have. Today I want
to resolve nothing.

I only want to walk
a little longer in the cold

blessing of the rain,
and lift my face to it.

 

 

Il Giorno di Capodanno

La pioggia questa mattina cade
sulla poltiglia della neve

e la spazzerà via. Riesco a sentire
l’odore dell’erba di nuovo, e le foglie logore
venir inghiottite dal fango.
I pochi amori che mi è stato concesso
di mantenere stanno ancora dormendo
sulla West Coast. Qui in Virginia

cammino attraverso i campi con soltanto
un paio di giovani mucche per compagnia.
Dall’ossatura robusta e timide,
sono come le ragazze che ricordo
dalla scuola media, che non
parlavano mai, che tenevano le teste

chine e le braccia conserte sui
loro nuovi seni. Quelle ragazze

hanno quasi quarant’anni oggi. Come me,
devono affacciarsi qualche volta

ad una finestra a notte inoltrata, di fronte
ad un giardino silenzioso, ad una

sedia a sdraio arrugginita e alle pareti diafane
delle case delle altre persone.
Devono distendersi qualche pomeriggio
e piangere a dirotto per coloro
che le resero felici,
e domandarsi come le loro vite
le abbiano portate
fino a quel punto senza mai
dare alcuna spiegazione. Non so
perché io stia camminando qui fuori

con il cappotto che si annerisce
e gli stivali che affondano, riemergendo

con un morbido suono da suzione
che mi piace ascoltare. Non mi importa

dove queste ragazze siano adesso.
Qualsiasi cosa abbiano fatto delle loro vite

possono tenersela. Oggi non voglio
risolvere niente.
Voglio solo camminare
un po’ più a lungo nella fredda

benedizione della pioggia,
e alzare il viso in su.

The Singing

There’s a bird crying outside, or maybe calling, anyway it goes on
and on
without stopping, so I begin to think it’s my bird, my insistent
I, I, I that today is so trapped by some nameless but still relentless
longing
that I can’t get any further than this, one note clicking
metronomically
in the afternoon silence, measuring out some possible melody
I can’t begin to learn. I could say it’s the bird of my loneliness
asking, as usual, for love, for more anyway than I have; I could as
easily call it
grief, ambition, knot of self that won’t untangle, fear of my own
heart. All
I can do is listen to the way it keeps on, as if it’s enough just to
launch a voice
against stillness, even a voice that says so little, that no one is
likely to answer
with anything but sorrow, and their own confusion. I, I, I, isn’t it
the sweetest
sound, the beautiful, arrogant ego refusing to disappear? I don’t
know
what I want, only that I’m desperate for it, that I can’t stop asking.
That when
the bird finally quiets I need to say it doesn’t, that all afternoon
I hear it, and into the evening; that even now, in the darkness, it
goes on.

 

 

Il canto

C’è un uccello che piange fuori, o forse grida, in ogni caso continua
incessante,
senza fermarsi, così inizio a pensare che sia il mio uccello, il mio insistente
io, io, io che oggi è talmente intrappolato da qualche desiderio senza nome
ma pur sempre irrefrenabile
che non riesco ad andare più avanti di così, una nota che ticchetta
in maniera metronomica
nel silenzio del pomeriggio, scandendo qualche possibile melodia
che non potrei mai imparare. Potrei dire che è l’uccello della mia solitudine
che chiede, come al solito, amore, o comunque più di quanto io ne abbia; Potrei
con altrettanta semplicità chiamarlo
dolore, ambizione, un nodo del sé che non si vuole sciogliere,  paura del mio
cuore. Tutto ciò
che posso fare è ascoltare il modo in cui persiste, come se bastasse
scagliare una voce
contro la quiete, anche solo una voce così flebile, a cui probabilmente
nessuno risponderà
con nient’altro che dolore e confusione. io, io, io, non è il
suono
più dolce, il bellissimo, arrogante ego che si rifiuta di scomparire? Non
so
cosa voglio, so solo che ne ho un bisogno disperato, e non riesco a smettere di chiederlo.
Che quando
l’uccello finalmente tace, devo convincermi che non sia vero, che per tutto il pomeriggio
io lo sento, e fino a sera; e anche adesso, nel buio,
persevera.

 

Blue Door

Today I passed the house
we rented last summer.
It was only a glimpse
as I drove by-
blue door,
adobe arch painted with flowers.
In memory
your dusty van is parked on the gravel
and you’re standing at the stove
while I curl
on the couch with a book,
pretending to read,
but secretly
watching you, loving
how you look-
intent on our meal,
on getting it right.
How clearly
I can see everything:
cars passing
on the road outside,
you, shirtless, leaning over
a cast-iron pot,
me holding a few useless
words in my hands.
Nothing I’ll say
will make you stay with me,
nothing erase how you’ll turn
toward me, offering the wooden spoon
so that I get up,
and come to you, and taste
that salt on my tongue.

 

Porta Blu

Oggi sono passata davanti alla casa
che affittammo la scorsa estate.
È stata solo un’occhiata
mentre guidavo –
porta blu,
arco d’argilla dipinto di fiori.
In ricordo
il tuo van impolverato è parcheggiato sulla ghiaia
e tu sei in piedi davanti al fornello
mentre io mi rannicchio
sul divano con un libro,
fingendo di leggere,
ma di nascosto
guardandoti, amo
il modo in cui sei
concentrato sul nostro pasto,
sul prepararlo bene.
Quanto chiaramente
riesco a vedere tutto:
le macchine che passano
sulla strada fuori,
tu, a petto nudo, chino su
una pentola in ghisa,
io che tengo qualche parola
inutile nelle mie mani.
Nulla di ciò che dirò
ti convincerà a restare con me,
nulla cancellerà il modo in cui ti volterai
verso di me, offrendomi il mestolo di legno
così che io mi alzi,
e venga da te, e assaggi
quel sale sulla mia lingua.

Near Heron Lake

During the night, horses passed close
to our parked van. Inside I woke cold
under the sleeping bag, hearing their heavy sway,
the gravel harsh under their hooves as they moved off
down the bank to the river. You slept on,
though maybe in your dream you felt them enter
our life just long enough to cause that slight
stirring, a small spasm in your limbs and then
a sigh so quiet, so close to being nothing
but the next breath, I could believe you never guessed
how those huge animals broke out of the dark and came
toward us. Or how afraid I was before I understood
what they were–only horses, not anything
that would hurt us. The next morning
I watched you at the edge of the river
washing your face, your bare chest beaded with bright water,
and knew how much we needed this,
the day ahead with its calm lake
we would swim in, naked, able to touch again.
You were so beautiful. And I thought
the marriage might never end.

Vicino a Heron Lake

Durante la notte, dei cavalli passarono vicino
al nostro van parcheggiato. Dentro mi svegliai infreddolita
sotto il sacco a pelo, sentendo la loro movenza pesante,
la ghiaia ruvida sotto i loro zoccoli mentre si spostano
lungo la sponda fino al fiume. Tu continuasti a dormire,
sebbene, forse, nel tuo sogno li sentisti irrompere nella
nostra vita giusto il tempo di provocare quella leggera
agitazione, un piccolo spasmo nei tuoi arti e poi
un sospiro così silenzioso, così vicino all’essere nient’
altro che il prossimo respiro, che credevo non avresti mai immaginato
come quegli enormi animali emersero dal buio e vennero
verso di noi. O quanto spaventata io fossi prima di capire
cosa fossero – soltanto dei cavalli, niente
che potesse ferirci. La mattina seguente
ti guardai alla riva del fiume
mentre ti lavavi il viso, il tuo petto nudo imperlato d’acqua lucente,
e capii quanto avevamo bisogno di tutto ciò,
il giorno dinanzi a noi, con il suo lago calmo
in cui avremmo nuotato, nudi, in grado di toccarci di nuovo.
Eri così bello. E pensai che il matrimonio non sarebbe mai finito.

 

 

La poesia di Molly McCully Brown

Traduzione di Emanuele Emma e Chiara Ciccolella

Traduzioni MollyMcCullyBrown

Molly McCully Brown è l’autrice della raccolta di saggi Places I’ve Taken my Body pubblicata negli Stati Uniti nel giugno 2020 da Persea Books e nel Regno Unito nel marzo 2021 da Faber & Faber e della raccolta di poesie The Virginia State Colony For Epileptics and Feebleminded (Persea Books, 2017), che ha vinto il Lexi Rudnitsky First Book Prize nel 2016 ed è stata nominata tra i migliori libri del 2017 dai critici del New York Times. Insieme a Susannah Nevison, è anche coautrice della raccolta di poesie In The Field Between Us (Persea Books, 2020).Brown è stata destinataria della Amy Lowell Poetry Traveling Scholarship, della United States Artists Fellowship, Civitella Ranieri Foundation Fellowship e della Jeff Baskin Writers Fellowship dell’Oxford American magazine. Le sue poesie e i suoi saggi sono apparsi su The Paris Review, Tin House, The Guardian, Virginia Quarterly Review, The New York Times, The Yale Review e in magazine minori. Cresciuta nella Virginia rurale, si è laureata al Bard College at Simon’s Rock, alla Stanford University e all’Università del Mississippi, dove ha conseguito il suo MFA. Vive e insegna a Laramie, Wyoming, dove è direttrice del programma di scrittura creativa presso l’Università del Wyoming.

AFTER ALL (EVERYTHING)
this morning I wake up            and for a moment I think the visions have vanished
then I realize everything is shaded green the visions have alit like luna moths
around the dormitory on the doorframe and the table and the face
of every sleeping girl when I blow out my breath they travel noiselessly into the air
I pass an hour like this this is what no one tells you about suffering
sometimes you would not give it up for all the world

DOPOTUTTO (TUTTO)
questa mattina mi sveglio e per un momento penso le visioni sono scomparse
dopodiché realizzo che tutto è ombrato di verde le visioni sono atterrate come falene luna
intorno al dormitorio sugli stipiti della porta e sul tavolo e sul viso
di ogni ragazza addormentata quando esalo il mio respiro viaggiano senza far rumore nell’ aria
passo un’ora così questo è quello che nessuno ti dice della sofferenza
a volte non ci rinunceresti per nulla al mondo

Transubstantiation
It’s the middle of the night. I’m just a little loose on beer,
and blues,
and battered air, and all the ways this nowhere looks like
home:
the fields and boarded houses dead with summer, the
filling station rowdy
with the rumor of another place. Cattle pace the distance
between road
and gloaming, inexplicably awake. And then, the
bathtubs littered in the pasture,
for sale or salvage, or some secret labor stranger than I
know. How does it work,
again, the alchemy that shapes them briefly into boats, and then the bones
of great felled beasts, and once more into keening copper
bells, before
I even blink? Half a mile out, the city builds back up
along the margin.
Country songs cut in and out of static on the radio. Lord,
most of what I love
mistakes itself for nothing.

Transubstanziazione
È notte tarda. Sono soltanto un po’ sciolta dalla birra,
e il blues,
e dall’aria maltrattata, e da tutti i modi in cui questo niente assomiglia
a casa:
i campi e le pensioni morte con l’estate,
la stazione di servizio ricolma
del brusio di un altro posto. Il bestiame scandisce la distanza
tra la strada
e l’imbrunire, inspiegabilmente desto. E poi, le vasche da bagno
abbandonate nella radura,
da vendere o da riparare, o per farci qualche lavoro segreto più strano di quel che io
sappia. Come funziona,
ancora, l’alchemia che le trasforma brevemente in barche,
e poi le ossa
di grandi bestie abbattute, e poi di nuovo in campane ramate
disperanti, prima
ancora che io possa batter ciglio? Mezzo miglio più in là, la città si ricostruisce lungo
il margine.
Canzoni country vanno e vengono dall’interferenza della radio. Signore mio,
quasi tutto quel che amo
è in torto nel credersi effimero.

Virginia, Autumn
October, I’m dragging the dog away from perfect birds lifeless on the pavement. By the water, boys in dress blues with bayonets, the blistered hulls of boxships. Everything                                                                 is sunshine. Everything is dead, or dying, and this isn’t                                 a new thought. I grew up here, but farther from the ocean.                      Each April, they took us to the battlefield, marched us                              in schoolhouse lines up courthouse steps:  here                                               is where the war ended. Never mind that it was fall                                         before the final battleship lowered its flag; never mind                        that we still haven’t fired the last gun. What business                               do I have wanting a baby here: in this body                                                         where I can’t keep my balance, this country                                                    where we can’t keep anything alive that needs us,                                       or dares not to, not even the switchgrass                                                      pale and starved for groundwater? And still,                                                      I do want. I search the news for mention of the birds,                       whatever poison or disease I’m sure is claiming them                                  in such great numbers: meadowlarks, house wrens,                       chickadees, starlings. Once even a gray gull, pulled                                  open at the chest before we found him, hollowed                                        of his organs. It takes a long time—too long—                                                 for me to understand the sun in this season                                                      is blinding, and the birds are flying into windows                                               all around me, fourteen stories up. Flying into glass                                and falling. What we love is rarely blameless.                                                   Is it a failure that I wouldn’t trade this brightness?                                           I imagine pointing upward for my daughter:                                                Look, there, how it catches in the changing trees.

Virginia, Autunno
Ottobre, sto trascinando il cane via dai perfetti uccelli                      senza vita sul marciapiede. A riva, ragazzi in divisa blu                             con le baionette, lo scafo piagato delle navi cargo. Ogni cosa                    è luce. Ogni cosa è morta, o morente, e questo non è                                 un pensiero nuovo. Sono cresciuta qui, ma più lontana dall’oceano. Ogni aprile, ci portavano al fronte, ci facevano marciare                           in fila indiana sui gradini del tribunale: qui è dove è finita la guerra. Non importa che fosse ancora autunno                                                                 prima che l’ultima corazzata abbassasse la sua bandiera; non importa se non abbiamo ancora sparato l’ultimo proiettile. Che diritto ho io di volere un bambino qui: in questo corpo in cui non riesco a mantenere l’equilibrio, questo paese in cui non siamo in grado di sostentare ciò che ha bisogno di noi, o che osa non averne, neppure la gramigna pallida e affamata di acqua dal terreno? Eppure, io lo voglio. Cerco nel giornale notizie sugli uccelli, su qualsivoglia veleno o malattia sono sicura li stia portando via in gran numero: allodole, scriccioli, cince, storni. Una volta persino un gabbiano grigio, squarciato in petto prima che lo trovassimo, vuotato dei suoi organi. Mi ci vuole tanto tempo- troppo tempo- per capire che il sole in questa stagione è accecante, e gli uccelli volano contro le finestre intorno a me, al quattordicesimo piano. Volano contro il vetro e cadono. Quel che amiamo è raramente senza colpa. Mi sbaglio a non voler rinunciare a questa luce? Mi immagino di indicare il cielo per mia figlia: guarda, là, come si intrappola tra gli alberi che mutano.

La linea vivente di Alessandro Moscè

di Andrea Galgano

28 marzo 2024

La linea vivente di Alessandro Moscè

Per sempre vivi di Alessandro Moscè (Pellegrini, Cosenza 2024) offre un biografema epico-lirico di vasta intensità rarefatta e di diramazioni relazionali, in cui come afferma Tiziano Broggiato nella bandella,

«la comunicazione tra i vivi e i morti (gli affetti famigliari e il dialogo trascendentale con il padre), l’eros e il sogno incentrati nel dolcissimo ricordo dell’adolescenza, il locus amoenus dei giardini pubblici di Fabriano, luogo esistenziale, piuttosto che contemplativo, la malattia infantile con la finitudine e il sibilo misterioso, radente della morte, il riscatto, infine, con il simbolo della forza identificato nel mito dell’infanzia: il calciatore Giorgio Chinaglia, autentico trascinatore per lunghi anni della squadra della Lazio».

Nell’opera di Moscè vi è sempre una accensione e, verrebbe da dire, una salvazione che non è solo contemplativa, appunto, ma sembra spargersi come gesto, accenno, flash e dimensione unica e vitale, in cui la sua forza si contrappone a ogni fugace fragilità e anzi diventa nervo elegiaco e splendore:

«L’inverno è traslucido nelle gocce di pioggia / dopo pranzo, nel vento fantasma / battuto sulle lapidi cimiteriali / di redivivi in altri paesi, in altre case / figuranti nel mese alchemico di febbraio / radunati nell’aldiquà / gli inguaribili della provincia annacquata / sotto cieli di perle celesti. / Oltre la porta, di sbieco / sembra di vederli in trasparenza / avvicinarsi e conversare / con i maglioni a righe, freschi di bucato / farsi perdonare per il pianto / di chi li ha persi e ritrovati / nella foschia a notte fonda / prima di un altro arrivederci / che ci viene addosso / dai pianerottoli dei piani superiori».

Le sue apparizioni consegnano i detriti memoriali come gocce di risacca: sono attimi sperduti, richiami viventi, dialoghi con i cari e con le assenze. Nelle cinque sezioni del libro questa linea si lucida di appartenenze e visioni, da un lato descrittive e quasi sospese, dall’altro esse entrano nella dinamica più intima e familiare come corpo intero, in quella vitalità, senza compromessi, nel «voler prendere a piene mani il frutto dell’istante, per non sprecare neanche un momento – nonostante non manchino gli attimi di riflessione nostalgica, o malinconica (ma anche questo è consegnarsi al vivi del titolo» (p.7).

I per sempre vivi sono le densità persistenti e le comunioni con chi non c’è più, che rimangono nelle nostre linee di vita, sono le tracce di eterno che permangono («Nel sogno pomeridiano c’è un angolo di giardino / la fermata per i nonni nella luce ondeggiante / nella lunga traversata primaverile. / Nel tempo corro per abbracciarli / ma la pioggia li ha già cancellati / in un vento leggero e remoto / risucchiato da ricordi tremuli / dalla catenina d’oro al collo»), i ricordi che cambiano e si aggregano (la mano del nonno quando il cielo è di un altro pianeta) e, infine, il richiamo alla stagione sui valichi.

Al sogno che unisce aria e terra, all’immagine che non muore nel tempo, fino alla giovinezza furtiva dell’amore e dei cieli d’estate, la scrittura si destina indelebilmente: «Ancona metallo dal cielo all’aria / sulle mura lunghe / sulla volta del primo arco / in controluce / con la ragazza dallo spolverino color panna / avviata seducendo il passo / nella scia di un profumo francese. / Giovane che segue il vento di mare / che appare nel pomeriggio in un autoritratto / tra il biancore e il buio taciturni. / Solitaria che accompagna il suo umore / non sa dove / e appare impenetrabile / tra le ombre umide / vista da dietro / fino al riflesso dello specchietto / e ancora più in là».

In questi accumuli di note e vita di “caproniana” caccia, l’orizzonte di Moscè si rivolge all’esserci, al cuore profondo delle città, all’incanto nudo di Fazzini, a ciò che si oppone alla morte, come l’aria illividita della pioggia che si apre ai sussurri.

Poesia nascente, si direbbe, ossia a che fare a chi resiste nascendo, a chi si porge e si rivela nascendo (qui il mare del Conero balugina in ogni sillaba e in ogni cadenza di luce), nonostante la mancanza, il dolore, la malattia a quattordici anni, trasfigurata in una vita nova di eroi (Chinaglia) e le lacerazioni.

Nei Dialoghi con mio padre, susseguenti alla raccolta, edita da Aragno, La vestaglia del padre, la poesia dialogica e filiale scrive la sceneggiatura sempiterna di una soglia che diventa sguardo su Dio, domanda di eterno, possibilità umana di bellezza e abbraccio senza fine.

Nella sua dettagliata sospensione, Moscè offre epiche crepe, attese ricoperte di memoria e rinvii, silenzi che sono parole di ombra e polvere.

 

 

Rosa Salvia e la memoria del mondo

di Andrea Galgano

5 settembre 2023

La scrittura non svela, porta dentro il suo grembo l’attenta vertigine dell’enigma e la febbre remota dell’invito: un andirivieni, una soglia, un cielo aperto all’improvviso.

Il libro di Rosa Salvia, In questo mondo e accanto, pubblicato da Edizioni Esemble, con la prefazione di Augusto Pivanti, restituisce un doppio movimento di condizione che affiora nella cifra primigenia di un dono, come afferma Pivanti:

«Raramente si attribuisce a questa condizione un valore di generosità, essendo più portati a ritenere che un autore pubblichi per soddisfare la propria vanità: in Rosa si coglie invece la dimensione del dono, questo suo scrivere per sé ma anche per gli altri, dall’invito alla dimensione orante: “Bisogna che io impari a vivere / di nuovo, svolgendo avvolgendo / la fascia bianca della preghiera la nostra Madre eterna // per rimanere come un’età che / non ha nome: umana fra le umane / debolezze, e pur vivente di Maria / soltanto e solo in lei bambina”, alla nostalgia vissuta come elemento rassicurante e benevolente del ritrovare e del ritrovarsi: “una / foto in cornice misura del tempo / ambiguità e confini, […] dove i colori virano, punto per punto, / allegri come bambini ancora svegli / allo scoccare della mezzanotte”, ma anche come affannata confessione dell’io che si bilancia fra accoramento elegiaco e pacata riflessività.».

Tale dimensione orante sembra provenire in zone remote, in ritrovamenti e recuperi, in un frantume familiare che diviene albore elegiaco, verso cose e persone, luoghi e sé stessa.  La potenza evocativa delle sue liriche si attesta così in questa erotta emersione che sovrasta, si appropria di un tempo perduto e concilia opposti e situazioni. Vicino e accanto nel mondo e del mondo: «Da uno sguardo cangiante / tentare di continuare / il proprio tempo, / al di qua dell’orizzonte, / verso il tu che ti aspetta – / e scambiare un granello di sabbia / per un seme di pienezza, / contro finestre sorde / che non odono il sangue sgorgare dal buio».

Una benedizione, una sovraincisione, come la neve, che entra nella pagina, disvelando le tracce, riprendendosi il tempo, superando ogni passaggio transitorio: «Sono la curva stanca della luna – / anno per anno, entro di me, mutai / volto e sostanza, il palmo segnato / da tutte le mie morti. / Ma la neve copre le cesoie del / tempo, il tintinnio del dubbio, / e le tracce chissà dove nel nulla. / Bisogna che io impari a vivere / di nuovo, svolgendo avvolgendo / la fascia bianca della preghiera a nostra Madre eterna / per rimanere come un’età che / non ha nome: umana fra le umane / debolezze, e pur vivente di Maria / soltanto e solo in lei bambina».

O ancora la presenza della luce vela e rivela ogni spigolo: «Anche nel rifugio dei miei spigoli / la tua voce mi raggiunge sempre, / la mia ansia placando, con i modi / invisibili del cuore, lontano dal gioco / delle parti. Che entrino sempre in noi / la notte e il giorno, l’odore della neve, / il caldo dell’aurora, qualcosa di / preciso, fatto d’acciaio o d’altro, che / abbia azzurre luci – come se / esistessimo.»

La linea lucente e nevosa richiama sia la levità e sia l’abbondanza dettagliata di ciò che non muore, orienta la strana “buità” dei bordi, richiamando qualcosa che non regredisce nella pura rievocazione ma diviene sostrato cartografico di un io alla ricerca e all’inseguimento del tempo: «In questo mondo e accanto / un ronzio incerto, ineguale, / offerto in dono dalla cenere – / la sensazione che tutto è sogno, / mentre lo sguardo si abitua alla notte – / gravita all’interno – / nel crepuscolo dei fiori, dei frutti, / si abbandona – / Come sa fare la farfalla bianca».

Ed ecco che la scrittura diviene conservazione e disegno, ricerca del centro nel grido sfumato e nel tentativo di mantenere la memoria presente del mondo, fino a percepire la paurosa vastità della fine, della ferita e dell’agnizione come un silenzio: «Sempre una ferita ricorda la vita / e ogni nascita proviene dal suo antro, / si frantuma nel mio scrivere, / compagno di ogni mio sentiero, / asta d’appoggio del mio sguardo, / con numeri e simboli che mutano / come mutano gli specchi, fra cripte, / schegge di luce e migrazioni d’uccelli, / fino a che il mio nodo di marmo si / sciolga, non con uno strappo, ma con / un silenzio, come a settembre le cicale / si quietano, fra arsure che vanno / allentandosi e la luce stessa ricade, / rotta dal proprio peso».

La memoria è inquietudine di senso, mancanza e offerta d’amore: «Il centro ora parte da me – / in quell’esatto bruciare / imparare che tutto è sentire / con l’albero, la pietra, / il grido, le parole, il primo sogno, / il tu, il noi, / e persino la morte. / Il mio centro è fatto di tronchi, / li ho tagliati io stessa / e sistemati uno sull’altro / dove tutto è in evidenza sulla neve, / in un garbuglio sospeso / tra dolore e grazia. / Il mio centro disegna i suoi nodi di presenza / sempre uguale a sé stesso e uguale mai / con il suo amore accattone, disperato, / sacro come lo strillo di un bambino».

Nei suoi orizzonti, Rosa Savia compone distanze scagliate e ombre, nel silenzio scandaglia gli elementi in lotta «nel terreno fragile di un continuo esordio», come una salvezza, un’impronta, una confessione di sillabate distanze e smottamenti, che richiedono cose in controluce, lasciate imbrunire in preghiera, senza reciderle.

Rosa Salvia, In questo mondo e accanto, Edizioni Enseble 2023.

Ritratto di un giovane poeta nel tempo primo della sua poesia

di Carmen Cucinotta

Andrea Galgano, Argini, Lepisma Editrice 2012

E di un tempo rimase il tempo / di un tempo di tempo / secondo spogliato di piani / tempi soggioganti / furiosi come cieche fiere mercati / di sale le ore cavalli sulla rena […]”: la prima raccolta poetica di Andrea Galgano, Argini (Lepisma 2012), comincia con il ritmo serrato di versi che cavalcano liberi e furiosi sulla riva del mare, come tempo che scorre, portando con sé tutto il sale della Terra. I versi della poesia iniziale, Tempi, prendono forse avvio dalla lettura che Galgano svolge dei “Quattro quartetti” di T.S. Eliot, poeta modernista che concepisce il tempo come qualcosa di irredimibile, perché in esso confluiscono già tutte le dimensioni: passato, presente e futuro. Il tempo di Andrea, invece, è redento perché “spogliato di piani”, è una narrazione di tempi dei giochi infantili, di desiderio d’amore nelle sceneggiature dell’adolescenza, un tempo che può essere lentamente indossato, come mare che “scheggia i fiumi”, perché dall’oblio della forza corrosiva di esso ci si salva solo con una forza ancora più potente, quella che l’uomo possiede nello spirito. Bisogna rimanere svegli come dice il Vangelo, tenere gli “occhi schiusi come araldi”, ricreando in modo perpetuo la meraviglia divina di cui l’uomo e la natura partecipano insieme. Già nella prima poesia i segni interiori ed esteriori di questo fronte della resistenza sono dati da un sentimento ciclico del tempo, che con l’alternarsi dell’alba e del tramonto rivela l’eterno susseguirsi dei giorni, dalla dimensione onirica dell’uomo che non è fuga dalla realtà, ma fonte generatrice di senso, e soprattutto dal sussurro dei canneti, che per ora è solo ridotto a mera percezione uditiva, ma nella raccolta omonima del 2019, “Non vogliono morire questi canneti”, diventa emblema di questa resistenza cui è chiamata la fragile fibra dell’essere umano.

C’è poi la presenza fondamentale di un “tu femminile”, “albero sul mare/sposa di leggi illeggibili”, un “tu” in relazione generativa con il poeta, come grembo in cui le parole “a ventaglio” del poeta s’incarnano per farsi ontologicamente altro da sé e un altrove. Andrea ha sempre dichiarato che la sua poesia non è mai autoreferenziale, ma creazione attraverso un “tu” capace di aprire nuovi orizzonti possibili per i lettori. Per questo per lui la parola è centrale nella creazione di immagini, idee, e sensazioni che vanno al di là della siepe, come sponde d’oltremare cui aggrapparsi per scongiurare il naufragio. Parole come “argini” che frenano l’entropia del tempo e del caos interiore, il punto d’incontro tra apollineo e dionisiaco.

La prima silloge di poesie di Galgano si può quindi considerare il suo ritratto di artista da giovane, un poeta trentenne con un’educazione sentimentale ed estetica già forte e consolidata nel tempo.

Fin dalle prime poesie è chiara la sua matura visione poetica. In “Poiesi” leggiamo:

Esistono sceneggiature indigene / nel sangue primitivo e innocente / dopo i tigli e i platani vidi luci / come capoversi di cupole estive / scorsi sogni sui ristagni / su cui scivolò la fioritura / nei tagli di vette tra le fiumane / spesi orizzonti come fronti / cinema di chiusi monti / poi rimase un viso di donna / su cui intagliai le mie preghiere / negli acquitrini degli oblii / si annerì l’inchiostro dei diamanti / quando i melograni si svestiranno / mi vedrò nella cruna dell’oro / nel pavimento di una calendula / dove si inoltreranno i nuovi convogli / ruscelli uccelli di una stagione contadina / fisionomie ribelli / di tessuti lunari”. Gli “argini” di Andrea sono parole provenienti da lontano, apparentemente velate di arcano mistero. Provocano straniamento iniziale nelle molteplici combinazioni possibili, ma, sempre incastonate nel loro significato pregnante, rivelano epifanie di una terra primordiale, selvaggia come sangue primitivo e innocente, ma anche luminosa e splendente nell’interazione di piante e di fiori con la luna, il sole, le stelle e i fenomeni atmosferici. Il discorso poetico è un fiume in piena che lascia il suo fertile limo a nutrimento di una lunga e concitata sequenza di fotogrammi interiori.

Il terreno “creso” di questa scrittura fatta a grappoli di parole è seminato di meraviglia e bellezza di cui il poeta è un tramite come un traghettatore universale dell’invisibile. In “Kallias” leggiamo infatti:

“traghettiamo l’invisibile / perché gli accenti di sponda / graffiano le nostre unghie / ma annunciano l’universo / da uno squarcio di croce / sull’apertura delle palpebre”. Il dolore si fa condizione universale e necessaria per noi essere mortali, da attraversare per ritrovare la luce. Il poeta è vittima sacrificale di questa espiazione e si fa tramite per gli altri perché portatore di verità ultime nascoste nel dono della parola, che è “squarcio di croce”, ma anche scavo, scalpello e cesello. Il più delle volte, però, il tocco del poeta è delicato come un pennello che si posa delicatamente sulla tela, impalpabile come una palpebra o una calendula e impercettibile come il fruscìo di un abito di donna che provoca scompiglio nel cuore innamorato.

Galgano si pone più volte in rapporto con la parola nel suo discorso poetico, alla presenza spesso invocata del suo “tu” di donna-grembo e terra d’approdo, che lo aspetta come “voce d’attesa” di novella Penelope.

In “Balaustra di stelle “leggiamo:

ti porto parole / a grappoli d’uva / nelle foci indaco delle frasi / in una minuta spiata di chiome / devo decrittare i tuoi approdi / a te ritorno testimone / onda-metafora e crescente / pergamena inginocchiata alle stelle / linea sottile di firmamento”.

Un “Tu” così splendido, quando si ritrae in marea, da ricordare la Creazione, “l’indice del cielo” di Michelangelo (Neve di mare).

La figura femminile non è mai evanescente, ma corpo tangibile, sensuale fonte del desiderio e tramite verso l’elevazione spirituale:

ti toccano le pagine del mare / ellittiche e naufraghe verso l’Eterno […] ti toccano quelle cose / che ondeggiano perdute / cose sul tuo corpo / sulla sigla dei cascinali” (Ferimento naufrago).

Anche quando l’aura di Petrarca sembra infondersi nei suoi versi, il giovane poeta dimostra che l’amore è più forte della poesia e la donna amata ha “luce d’aria e mirtilli”.

Amare è perdersi e ritrovarsi nella fusione di corpo e anima: “vago in te / lo scoglio appartato / in cui l’amore pellegrino / contempla i frattali dell’edera” (Voce di attesa), “nella seta del respiro / accade il tuo essere nel mio / orlo di madreperla / nel mio vermiglio tepore” (Ferimento naufrago).

Ma amare è condizione necessaria per ricevere l’investitura poetica: “amare fu bere le sue mani dall’acqua / nei solenni campi di fragole / nell’imbrunire trasudato / il suo nudo rado / scoperchiava il sorriso / narciso avviso di paradiso” (Odori di eclissi).

Amare significa anche provare pietà, tenerezza e nostalgia per i cuori puri che ci abbandonano. Andrea è “uomo di pena” di ungarettiana memoria e dedica una poesia a Francesco Nuti, ancora vivente, ma già sofferente. Di lui esalta lo sguardo, così dolce e malinconico nei suoi indimenticabili film: “occhi in ginocchio / dischiusi sul buio”, ma anche così vivaci per uno spirito geniale e purtroppo spesso incompreso: “ti vedono i tuoi occhi accesi / biliardo di onde / dove ho visto la tua luna / nei gelsi delle cascine” (A Francesco Nuti).

La poesia per Andrea diventa un luogo dell’oltre per ritrovare tutte le persone che ci hanno lasciato e per instaurare con loro un dialogo perpetuo. Succede così che alla morte di Lucio Dalla, egli non esita a fermare le immagini che sempre si porterà nel suo cuore: “Sussurrami ora / i cani che annusano la sera / le mani dell’estate e delle isole / e le strade che si sollevano / come quando respira / la radura della luna / tra le stelle” (Il fresco delle stelle).

L’argine è anche questo: creare terrapieni di vita contro la morte.

E alla fine di questo discorso poetico sembra quasi di vedere l’ultimo e meraviglioso argine che Andrea Galgano costruisce prima di congedarsi:

risalirti nelle superfici,

non fare in tempo

ansiosa di risplendere

nella coltura, nella dismisura

che irretisce le norme del mondo

 

 Il congedo è grazia acerba.

(Notturna acerba grazia)

La freccia di Mary Jean Chan

di Andrea Galgano 18 aprile  2023

Nel linguaggio degli schermidori, la flèche (la freccia) indica la frecciata, un’azione di attacco che si compie con sbilanciamento del busto, fino al disequilibrio e allo smorzamento del corpo, per toccare l’avversario.

Con questo lessema, Mary Jean Chan, nata e cresciuta ad Hong Kong e che ora vive ad Oxford, dove è Senior Lecturer di Scrittura Creativa (Poesia) alla Oxford Brooks University e supervisor dei Masters in Creative Writing all’Università di Oxford, restituisce il territorio della sua poesia, attraverso la pubblicazione di Flèche, appunto, edito da Interno Poesia, a cura di Giorgia Sensi.

La parata, la risposta, il corpo a corpo, l’affondo sono il punto germinativo di questa poesia, che gioca su vari registri, dal gioco innumere di parola al tocco e relazione verso l’altro, alla carne, al suono del desiderio e dell’accettazione sessuale.

Mary Jean Chan amplia il gesto poetico, innervando il suo lirismo verso una stoccata di gioia e desiderio, di comprensione e di amore, come fulcro vitale di tempo, verso ciò che nasce nella carne e nella stessa carne si rivela, come afferma Giorgia Sensi nella prefazione:

«Amore innanzi tutto per la sua famiglia – alla quale è dedicato – che è stata vittima del terrore della rivoluzione culturale cinese e delle sue Guardie Rosse e amore per la madre, che di quel terrore porta ancora i segni. Sono numerose nella raccolta le poesie sulla madre e sul difficile rapporto madre figlia a causa della ‘queerness’ e delle scelte ‘romantiche’ di quest’ultima, fortemente disapprovate dall’intera famiglia, compresa la nonna alla quale Chan dedica una poesia dal titolo ‘Alla nonna che mi scambiò per un ragazzo’» (pp. 5-6).

L’aspetto familiare ritorna nei segni dell’infanzia, attraverso il detrito memoriale fiabesco, il rapporto figurativo tra la realtà e i volti cari, come la balia che crebbe sua madre, ad esempio, in cui il senso generativo della maternità si accompagna al dolore e alla perdita.

Il battesimo della parola è segnato da un fuoco originario che è storia intrecciata alla scaglia temporale e allo zenith del materno («Tu sei sempre dove io comincio»), alla spoliazione delle maschere, alla lingua che trasforma il trauma e all’identità irrisolta.

La scherma avvicina al desiderio perché parte da una tensione interiore e si rivolge all’aria, alla meta, al petto delle cose. Ciò non toglie i lividi, l’oscurità sommersa e balbuziente, fino alla fioritura del dolore: «Spesso, mi restava un livido: la punta della lama rimbalzava / dall’imbottitura alla pelle. Tutte le volte sentivo gialle / fioriture di dolore dove la ragazza che mi sembrava bellissima / mi aveva trafitto il cuore. Ore dopo, mi sarei trasformata. / Mi sarei diretta verso casa con un profondo / senso di timore, i miei lividi affievoliti».

Il dramma della poesia è che nasce non solo dalla libertà e dall’avvenimento, ma porta dentro questa trafittura ed è lì che diviene gesto commosso, lingua che deve pronunciare il mondo per vivere, voce come corpo che parla. Qui la sillaba di Mary Jean Chan si fa ferita e luminosa presenza, sogno e desiderio di magnolie come il cielo che aveva il colore di nocche sbiancate.

Perlustrare gli spazi sicuri, scrivere lettere di fantasia, percorrere furiose pazienze come avamposti dell’io, vivere le terre della rabbia, del suono, del diniego, della profondità oscura, come se si sbalzasse il tempo e lo specchio, cercare la pura gioia, la fecondità di ciò che permette di stare al mondo: ciò permette la sua finestra aperta in attesa di grazia fertile, di una propria calligrafia che è lacrima partoriente e foglia di tè: «Le dita si immergono / di nuovo, scivolano, si alzano. / Non sono una ballerina, ma questa è / una danza. Le ore tracimano in / una teiera di foglie di tè mentre / mia madre dice: / Vedi, i caratteri cinesi sono / girasoli che cercano gli occhi. / Semi di inchiostro si srotolano / d’un tratto dal tuo polso, / e sbocciano nel tempo -».

L’uso ampio di ogni possibilità formale e letteraria, oltre che lessicale, porge la potenza della propria ricerca, fino ai disequilibri di versi, alla punteggiatura come una strana ellissi di significante e significato, ai segni e ai suoni quasi come pollini.

Pertanto, le lettere si dispongono come frecce lontane, tentano di raggiungere la nominazione, la sillabazione delle cose, passando per una guerra culturale, uno zodiaco sommerso, una cifra franta di istante e un grido lieve.

Il tempo della poesia qui raggiunge la verticalità del respiro. Anche lo stesso problema dell’identità taciuta, dolorosa e lacerata diviene la vertigine ombrosa di libertà intensa, che permane in ogni lacerto che qui emerge come lunga distanza, scissione, confine: «se voi adesso guardaste dentro di me, vedreste / che le mie lingue sono come una radice / contorta nel terreno, una e indivisibile, / solo che il mondo mi divide in continuazione / certi giorni non oso guardare gli alberi / sono delle creature così piene di speranza / se i legislatori di questo mondo / si facessero consigliare dagli alberi / riconsidererebbero tutto? / di recente ho cercato di scrivere / una poesia che desse vita a un albero / una vera accettazione dell’io / continua a sfuggirmi».

Nella doglianza delle sue giunture, come scrive in un testo scarnificato e indocile, Chan dona il suo sguardo libero sul mondo, la lingua del respiro, la sua luce improvvisa.

Chan M.J., Flèche. Poesia della scherma, a cura di Giorgia Sensi, Interno Poesia, Latiano (Br), 2023, pp.176, Euro 15.

#Nuova Poesia Americana 4

di Andrea Galgano 27 febbraio 2023

Nel quarto volume di Nuova poesia americana[1], edito da Black Coffee, a cura di John Freeman e Damiano Abeni, gli autori «recitano le loro poesie in modo intimo, con delicatezza, come se gli avessimo poggiato la testa in grembo. Altre volte declamano urlando, come qualcuno che ci parli in un locale affollato[2]».

 

Michael Collier (1953), Poeta Laureato del Maryland, autore di diverse raccolte poetiche e fellowship presso la Guggenheim Foundation e il National Endowment for the Arts, concentra la densità creaturale dello sguardo umano. L’assurdo e il dettaglio, l’inquietudine straordinaria che penetra l’ordinarietà del quotidiano. È come se venisse scompaginata la monotonia dell’esistenza da gesti, dettagli, presenze animali, dal chihuaua Bum Bum, alla capra su una catasta di legname di scarto, dove gli occhi «sono bisecati da un orizzonte di luce gialla», all’albero alla finestra, spogliato e vivido, fino agli eventi minimi, come un tacchino caracollante o alla dolce gentilezza di un controllore di un treno Bucarest-Mosca, che unisce il percorso della storia a uno sguardo che si impara.

La sua poesia innesta una descrizione percettiva, che oscilla nei contrasti lirici e nelle assenze, nelle tragedie e nelle cifre di gioia, nell’amore domato e nella inquietudine selvaggia del tempo: «Ma adesso che il sole se n’è andato, il crepuscolo blu dell’estate / tinto di timo e d’argento sotto le foglie di ulivo / placido nei solchi scavati, che rabbuia i frammenti bianchi / di calcare riesumati dall’aratura, l’apicoltore nei suoi paramenti / spreme il mantice dell’affumicatore, soffia una sottile corrente azzurra / in una fessura, sgancia il piano superiore, come il coperchio / di una scatola, e ne diffonde altro».

Carolyn Forchè (1950), poetessa di pregio e attivista per i diritti umani, originaria di Detroit, Michigan, docente alla Georgetown University, oggi dirige il Lannan Center for Poetry and Social Practice, ispessisce il forte sapore quasi giornalistico, come scrive John Freeman, alle sue opere.

Vi è il potere lirico della scena, come la bellezza screziata e violenta de Il guardiano del faro:

«Notte senza navi. Corni da nebbia risuonano nel muro di nube, e tu / ancora vivo, attratto dalla luce come fosse fiamma curata da monaci, / buio una volta incrostato di stelle, ma ora buio-morte mentre veleggi verso terra. / Attraverso ginestre e relitti, attraverso erica e lana lacera / hai corso, tirandomi per mano, perché lo potessi vedere una volta nella vita: / l’arcolaio, l’arcolaio di luce, il suo roteare, luce in cerca di chi si è perso, / lì già dall’era del fuoco, delle candele, delle cave lampade a olio, / olio di balena e lucignolo, colza e lardo, cherosene e carburo, / i fuochi-segnale accesi su questa costa pericolosa nella torre di Hook».

La tragedia delle traversate, l’esilio esile, il ricordo invisibile dell’ultimo ponte, le città in assedio, le guerre e le isole sono le sue poesie perdute: compassione vigile e traiettoria umana, lucentezza oltre-fine che supera morte e dolore, attraverso la tensione dell’avvento di ciò che viene.

Ted Kooser (1939), premio Pulitzer nel 2005 per Delights & Shadows e Poeta Laureato nel 2004, originario di Ames, Iowa, ricorda e intaglia la sperdutezza dell’infanzia trascorsa sulle pianure dell’Iowa, che ospitavano registri di sogni, meraviglia e stupore, laddove il ricordo e la bellezza dell’estate slacciata, la perdita, ciò che trapela dalle fessure del tempo, come la concimatrice nei campi, ritornano al respiro della polvere e del mais.

Sembrano raccontare il mondo, il quadro e la vertigine della vita, la linea-madre e la finestra aperta di un mattino d’inverno e, nel silenzio immobile, solo il sussurro del bollitore e «contro il gelo stellato un piccolo anello azzurro di fiamma».

John Freeman scrive: «Kooser è poeta dalle immense capacità pittoriche, ma non le usa per sovrastare il lettore. Anzi, lo invita ad afferrare l’effimero, ad ammettere, in altre parole, i limiti dell’essere umano, ad apprezzare ciò che può essere osservato[3]».

Ada Limón (1976), Poeta Laureata degli Stati Uniti, rappresenta l’urgenza di contatto con il mondo[4], il suo respiro e il suo limite assieme, attraverso lo stretto rapporto di natura e poesia. La libertà, come il rimando, selvaggio e puro, alla bellezza dei cavalli, apre all’amore infinito, alla gioia implume, e, infine, alla grazia sopravvissuta delle creature che compongono il suo dolce assedio alla vita, la sua crepa trafitta e il suo cuore in fiamme: «io sono un essere umano, basta sono solo e disperato, / basta animale che mi salva, basta aria e il sollievo che dà, / io ti chiedo di toccarmi».

Gary Snyder (1930), nato a San Francisco e Professore Emerito presso l’Università della California-Davis, sulla linea epica e vertiginosa della beat generation, pone la sua asciuttezza al mondo come atto devoto alla quotidianità, al suo mistero, alla grazia cromatica ed elementare. È una esplosione di luce e prospettiva che attraverso patchwork espressivi insegue i luoghi, i dettagli e le piccole trame che cercano di non scomparire. Il mondo che si porge è in tutto il suo orizzonte.

Paul Tran, partendo dal recupero del mito Icaro, nel quadro di Pieter Bruegel, come afferma John Freeman, «celebra la rigenerazione, facendo attenzione a non edulcorare la sofferenza. Nelle sue poesie l’adattamento non è mai separato dalla sua fonte, dalla sua motivazione. Nel linguaggio preciso e potente di Tran il pesce bioluminescente, o perfino Icaro, con le sue raffazzonate ali, sono esseri viventi che si adattano all’ambiente circostante» (p.21).

Tale rinascita, dunque, è un respiro che si solleva, in cui gli esiti della possibilità, del dolore, del sacrificio dell’essere tornano sulla pagina come valico e tenebra, lacerazione e bellezza.

[1] (a cura di) Freeman J.-Abeni D., Nuova poesia americana, IV, Black Coffee, Mombaroccio (PU) 2022.

[2] Freeman J., Introduzione, cit., p.16.

[3] Id., cit., 19.

[4] Bruna M., Ada Limón. Vedo nei cavalli la mia libertà, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 4 dicembre 2022.

Il terzo tempo di Veronica Antonietta Mestice

di Andrea Galgano 17 gennaio 2023

È una dolce sorpresa la poesia di Veronica Antonietta Mestice (1992), avvocato prestato alla pubblica amministrazione, materana e socia dell’associazione culturale “Energheia”, che organizza da ventotto anni l’omonimo premio letterario.

La sua prima raccolta, Terzo Tempo, edita da Ensemble, con la prefazione di Alessio Arena, entra negli interstizi del tempo (anche attraverso il segno di Scotellaro nell’epigrafe e nel testo finale), nella sua edace tensione, nell’indagine investita di vento che tocca la nostra avventura e la nostra carne, cadenzando quella «azzurra nostalgia / sulle barricate dell’anima», lambendo le illuminazioni, le visioni e le mappe della densità del vivere.

Parlare il silenzio del tempo, in attesa di uno svelamento e di una rivelazione, che possa far parlare il silenzio, le tacite pieghe dei paesi, i mattini d’estate e il respiro di ogni omissione.

Nei suoi tempi, nella tensione speculativa della suo vitale diffondersi e promanarsi, nella inusitata perdita delle parole, quando si vorrebbe toccare il ricordo e tutto ciò che perde colore, ecco che l’agone e il gesto della poesia abbracciano, con lo scavo dell’abisso e del silenzio, persino i colpi del dolore e delle aurore domate.

Il vento è la cifra di ciò che unisce il nostro essere alla realtà: «Perdo ancora le parole, / mentre il tempo scivola piano / nella dolce sera d’ottobre. / Ottobre è un canto di nostalgia, / il mosto e l’ebbrezza / che sfiorano la vertigine del tempo. / È l’estate che perde i colori, / l’amore che dura e spera lontano / e toglie il respiro, / quando certe primavere si fanno ricordo. / Esistere è essere visti in un giorno di vento».

O ancora la notte che squaderna nell’abisso che può sprigionare la luce: «Dopo tutto, / possiamo accettare il disordine / tra le cose possibili / e i nostri precipizi. / Tutto può cambiare / in una notte che squaderna. / Il mattino non è stanco di domare le aurore. / Il dolore è un’occasione, / l’abisso che può sprigionare la luce. / Alle volte, basterebbe ascoltare, / attutire i colpi, / liberare l’ossessione di salvezza, / dimenticare caos e tempo. / Tanto, il cielo è lo stesso».

Riportare alla luce il tempo nelle tenerezze e nei deliri: il suo concentrarsi tenue e opaco con l’alfabeto dell’attesa, lo spostamento naufrago dell’io rivelano l’ardore di una leggera dissolvenza, di una perdita di città, che avvicina la poesia per sottrazione e per livellamento: «Forse la poesia è utile a questo: avvicinarsi per sottrazione / come viaggiare per liberarsi / dai superflui contrappesi. / È la necessità di un tempo di narrazione, / il bisogno di dare alla vita un respiro, / sentire la forza di un vento, / ovunque e in nessun luogo».

La ruminazione del vento, verrebbe da dire. Questa poesia aerea di spirito, respiro e di vento viene da un giacimento lontano di stagioni inosservate. Le veglie brumate ed estive, destinate alla mancanza, le scalfitture della pioggia, lo stare al mondo per cercare bellezza nella giovinezza spavalda diventano avamposto di osservazione, come se la festa delle cose, la vertigine di tutte le cose riporti alla nascita che si oppone alla morte e le parole così risalgono il vento, non mutano la risacca del cielo: «Nascere è una perdita. / Vivere, poi / una somma di piccole cose. / Mitighiamo la primavera divampata / sui bracieri del crepuscolo. / Ho solo una forsennata nostalgia / del tuo respiro / nelle grandi notti d’estate. / L’istante tentenna – lasciato all’inerzia del tempo / mentre niente dura».

Libro di vento e di perdita, dunque. Ma anche di abbandono, di forza naturale e di lingua consapevole della sua mortalità, ma non per questo non protesa alla musica dell’essere, a ciò che salva l’istante, alla voce che preme dentro e all’assedio della luce antica: «I sogni hanno perso gli argini / nei deserti d’oltremare. / I grandi temporali estivi / mitigano le attese, / mentre il nemico ci assedia. / Non solo sirene d’allarme / nel dialogo sfibrato che si protrae ad oltranza. / E la vita come va? / Non c’è fretta – / eppure tutto si compie nello spettacolo».

La ferita che abita una sorta di voce del limite è una lettera di inizio e, allo stesso tempo, indizio di comunione con il vivente che resta al di là dell’oblio, come una nostalgia, un punto, un mistero di destinazione.

 

 

 

La luce che prospera. Su Rive di Valerio Mello

di Andrea Galgano

La caratteristica migliore della poesia di Valerio Mello (1985) è l’avamposto prima dell’avvenimento delle cose. Come avviene nella sua raccolta Rive (Ensemble 2022), non solo l’attesa ma la linea dell’attesa, come se fosse un orizzonte primario, è la prima parola che dice la realtà e il tratto unico che la esplora.

L’approdo nasce dal viaggio, che non è solo caratteristica mai satura dell’essere, bensì è voce e salmodia segreta, fluire che mormora, come questa apertura notturna su Milano:

«I platani scendevano sull’acqua del laghetto e qualcosa risuonò alla porta dell’aria. Lo stridio delle stelle al tramonto sul velluto finale. I platani scoprivano sempre di più le radici, si liberavano dei rumori, erano pronti. La sera arrivò dopo una lunga giornata. Anche gli ippocastani cominciarono ad avanzare, uscivano da un monumento di sonno, da un lungo filare di statue. Le piante chiacchieravano nella locanda delle nuove espressioni, uno sfogliare di luci che restavano sospese come schegge sul vialetto. Fu necessario appuntarsi quel tempo sul foglio della mente –quel posto, quel punto… quello spazio che si svolgeva indisturbato sul davanzale di sensazioni scagliate.

Olmi e abeti aspettavano il loro turno – l’epoca dell’acqua nel drappo bianco della sera. Il falso cipresso decorava il respiro della superficie – e polvere si sgretolava sulle rive».

O nelle vie diurne di via Palestro, dove l’emersione delle cose sembra nascere da un punto sommerso, da un farfugliare, da una scena sognata o intrapresa. La luce percorsa è un gesto, uno sketch o patchwork della mente e da ciò che egli chiama «remoto in movimento».

E così i luoghi diventano frecce di volto, come la lucentezza scagliosa di Scapanto («Talvolta, lo si sente respirare / all’ombra cerulea delle rocce; / talvolta, lascia rotolare il fiato / insieme con le onde fin dentro le cavità della scogliera. / Certamente, sa riconoscere da sé come agire: se essere più /  grande, come una scheggia, o più piccolo, come un granello. / E quando il tramonto inizia a gorgheggiare / – l’aria regola il timbro della voce / e seppellisce le pause della luce sotto manti di pietrosa lucentezza»), la natale Agrigento, dove « Il sogno è la vita nascosta dell’anima che non sa come essere corpo per sempre», i passaggi della luce e delle ombre di Varazze, i blu di Porto Venere, Torino.

Vi è, in questi passaggi, una memoria sommersa che si concede, un pasto di veglia, una descrizione che mostra e non descrive, un’interrogazione sottesa che è sguardo che fiorisce nello spostamento dell’io.

La visione che spazia dalla poesia alla prosa, consegnando nascite, non ama solo il frammento per ricomporlo, le tracce lasciate, la solitudine della Sfinge del tempo ma è stagione di luogo e snodo segreto che sboccia («Proseguo nel profondo, prosciugato naufragio di una pietra, / nel brontolio del crepuscolo abbattuto, / come acqua che scorre sotterraneamente»), in cui viaggio e attesa coincidono nelle aree di confine come sogno che si ripete e comprensione ospite.

Il territorio della memoria mescola acqua e terraferma. Lo spazio e il tempo non sembrano dividersi ma offrono dismisure e abissi lenti, apertura di occhi e germoglio sconfinato come «grembo di intuizione»: «Gli occhi fanno offerte. / Perché la luce sta cadendo, perché adorare i segni di riconoscimento? / Distesa di stelle, lampione, punto della luce».

Nelle schegge non dissolte, nel tempo trascorso, anche la scrivania è riva, anche la parola lo è, perché segna il tratto umbratile delle cose attraversandole, nomina il mondo, mostrando ciò che accade, si fa corpo d’archivio, donando orizzonti di terra e di intervallo:

«Agli esseri mantenuti nella fissità pietrificata mi rivolgo con un atto di fede assoluta. Non osservo per la quiete degli occhi, ma per distinguere con devozione le aperture di un largo accadere. Potrò ammirare le linee delle radici che terminano, a un certo punto, sopra un vuoto conchiliforme e potrò seguire quel vuoto che accusa una mancanza o una grandezza; mi costringerò a riprendere con la mente le conchiglie dell’Egeo in preghiera – finestra: le differenze e i contrasti di una meditazione sempre inserita nella realtà ribaltata. Sarà necessario rendere fondata la descrizione ricevuta al di fuori dell’oggetto catturato. Nell’alcova toracica tengo la molteplicità incostante dei dati sulla parvenza e sull’appartenenza».

Nella postfazione, a proposito del rapporto stretto tra valore e parola, Gianmarco Gaspari scrive: «Valore e senso della parola che il lettore (è lui l’Edipo chiamato a sciogliere il dilemma) non può identificare che con il senso stesso dell’esistere. Difficile pensare a un rapporto più diretto del poeta con la parola, rapporto che la restituisce al suo significato originario, senza ulteriori mediazioni, verso o prosa che sia. E che si tratti indifferentemente dell’uno o dell’altra, giusto per chiudere qui il discorso, eccolo dimostrato dai frequenti affioramenti della metrica classica – puntiamo pure sul solo endecasillabo – che s’incontrano in Rive […]».

La verità e la rivelazione della parola concedono visitazioni ai luoghi, ammantandoli, spesso sfrondandone ogni orpello, per renderli vivi, consegnando, infine, la densità dell’istante in tutta la sua essenza.