Konstantinos Kavafis: l’intuizione cosciente

di Andrea Galgano 14 gennaio 2020

leggi in pdf KAVAFIS. L’INTUIZIONE COSCIENTE

La voce di Konstantinos Kavafis (1863-1933) è imprendibile. Non solo per la sua parsimoniosa porzione di sogno consegnataci, ma per l’ombra segreta  traslucida come un sussurro: l’essere ultimo dei figli di una famiglia aristocratica poi decaduta, l’impiego presso il ministero dell’Irrigazione ad Alessandria d’Egitto, l’omosessualità, il fascino per la letteratura anglofona, l’essere appartato e, infine il rinvenimento, come una sorta di emersione anonima della luce delle sue carte volanti. Come un giro di caffè o un recesso della storia, una linea sul vetro:

«Da quanto ho fatto e da quanto ho detto / non cerchino di capire chi ero. / Erano un ostacolo e modificavano / il mio modo di agire e di vivere. / Erano un ostacolo che spesso mi bloccava / quando stavo per parlare. / Dalle mie azioni meno evidenti / e dai miei scritti più segreti – / da questi soltanto riusciranno a capirmi. / Ma forse tanti sforzi e tante cure / per conoscermi non valgono la pena. / In futuro – in una società migliore – / qualcun altro fatto come me / certo ci sarà e agirà liberamente» (Segreti).

Nonostante la vasta conoscenza e la pregevole cura dei suoi testi in italiano e la lettura di poeti come Vittorio Sereni che ne rilevò la sua «religione carnale[1]» o dell’Alessandria assonnata e mai più pronta a risplendere del giovane Ungaretti che conobbe nei caffè di boulevard, anche oggi la sua poesia, grazie alla cura di Maria Paola Minucci (Tutte le poesie[2], Donzelli), è stata edita per intero, tenendo come riferimento l’edizione critica di Iorgos Savvidis,

Nell’intervento posto alla fine del volume la studiosa rileva come l’inizio della poesia di Kavafis risenta dell’influenza romantica, del simbolismo insistito, che si compone di una gestazione linguistica suturata di vernacolo e ortografia ricercata:

«Se Kavafis si muove, inizialmente almeno, in un’area simbolista e con sperimentazioni parnassiane, ben presto finirà con il superarle entrambe, personalizzando e «drammatizzando» certi loro moduli formali, scegliendo una strada inequivocabilmente sua e in molti casi precorritrice delle svolte e dei nuovi orientamenti della poesia. […] Kavafis parte da esercizi poetici vicini ai modi espressivi e alle prove romantiche della Scuola ateniese. Le liriche di questo periodo sono spesso caratterizzate dal ricorso a un insistito simbolismo che e tuttavia significativo perche mostra, soprattutto nel lessico, da dove egli muova i primi passi. L’attenzione alla forma e forse l’elemento più importante di questi testi. Ne troviamo conferma in una lettera in inglese all’amico Anastasiadis, dove pero si legge anche che la sua fiducia nella rima e in schemi metrici fissi e già accompagnata dal timore di essersi troppo assoggettato alle loro regole, con il rischio di falsare i contenuti della poesia, riducendone gli effetti «suggestivi». Risulta cioè chiaro come la sua adesione a canoni metrici parnassiani sia un’adesione critica e insieme come, nel sottolineare il valore «suggestivo» di certe sue poesie, egli si colleghi a una concezione poetica pre-simbolista e simbolista».[3]

Se di dialogo simbolista si tratta, acuito da una sorta di eccentricità ossimorica, esso si rapporta con la storia e l’antichità sepolta e segreta («Molte le poesie scritte / nel mio cuore; e quei canti sepolti sono a me molto cari»), con l’impossibilità e l’urgenza di rilettura, attraverso l’audeniano tone of voice, che come scrisse Montale «consiste nell’essersi accorto che l’Elleno di allora corrispondeva all’homo europaeus di oggi; e nell’essere riuscito ad immergersi in quel mondo come fosse il nostro[4]».

La sua peculiare voce, dunque, si smarca da ogni definibilità ma diventa paradigma sospeso tra gloria e declino («Del futuro i saggi intuiscono / ciò che si avvicina. Il loro udito, / a volte, in ore di intenso studio, / e scosso. Li raggiunge il segreto clamore / dei fatti che si avvicinano. / E lo ascoltano con devozione. Fuori, invece, per strada, il popolo non sente nulla»), primordialità e istinto empirico («Mi hanno chiuso fuori dal mondo e non me ne sono accorto»:

«che passa attraverso i tempi e le civiltà, i luoghi, le lingue, le culture, senza spostarsi di un millimetro. […] Il cuore segreto o nascosto di queste poesie è qualcosa che può essere soltanto alluso, non una verità personale volontariamente occultata. Sarà allora per una di quelle contraddizioni o di quei rovesciamenti che danno adito alla poesia, che questo poeta dalla segretezza più intima si sia votato, tanto più nella maturità, nel raccontare di epoche lontane (la classicità greca, l’ellenismo, l’età bizantina), di personaggi perduti nel tempo, di storie e miti che appaiono però denudati di qualsiasi garanzia neoclassica o umanistica. Un poeta dell’altro e degli altri, insomma, anzitutto in virtù di una formidabile capacità di immedesimazione».[5]

L’elezione camaleontica della realtà, il bruciamento dello spostamento come un rievocante richiamo di ellissi («Non troverai altri luoghi, non troverai altri mari. / La città ti seguirà. Andrai vagando per le stesse / strade. Negli stessi quartieri invecchierai, / e ti farai bianco tra queste stesse case. / Arriverai sempre a questa città. Per altri luoghi – non sperare – / non c’e nave ne strada per te. / La vita che hai sciupato / in questo buco angusto, in tutta la terra l’hai sprecata»), come incerta e dura insaziabilità, guarda all’antico e sente l’ineffabile sottrazione inchiodata:

«In preda a timori e sospetti, / con la mente turbata e la paura negli occhi, / ci agitiamo pensando a come fare / per evitare il pericolo ormai certo / che terribile incombe minaccioso. / Ma ci sbagliamo, non e questo quel che ci aspetta: / erano false le notizie  (male intese o male interpretate). / Un’altra sciagura, insospettata, / improvvisa, violenta ci cade addosso, / ci coglie impreparati – non c’e più tempo – ci travolge».

La poesia di Kavafis racchiude una stasi non inerte («A un giorno monotono segue / un altro giorno monotono, identico. / Le stesse cose accadranno ancora – / momenti uguali che vengono e vanno via. / Un mese passa e un altro arriva. / Ciò che viene e facile da immaginare / sono le stesse cose noiose di ieri. / E alla fine il domani non sembra più un domani»), sembra collocarsi sì nella solitudine insidiata ma attraversandola e porgendola, ripiegandosi in un saluto estremo, in un rito di coraggio esiliato che riporta l’anima al commiato, la Storia al fatto contenuto in un segmento di oblio: «Lo tormenta una pena indefinibile, / pena per la sua grande debolezza. / Sono vuoti i suoi strumenti, lo sente, / eppure l’anima e piena di musica. / Cerca invano di esprimere i suoi accordi / segreti, con fatica e ostinazione; / le sue armonie più perfette restano / dentro di lui, mute e soffocate. / La folla e entusiasta e ammira / quanto lui critica e disprezza». (Timòlaos di Siracusa, 1894). L’estraneità non è un rifugio è un’opzione da combattere.

In Itaca, Kavafis compie il suo itinerarium cordis all’interno della propria stanza immaginale che si porge all’esterno, afferma Paola Maria Minucci, «l’innesto del presente sul passato mitologico e evidente e chiaramente dichiarato con la scelta del titolo. Il mito di Itaca ha coinciso tradizionalmente con la nostalgia della patria, il viaggio e il viaggio di ritorno alle proprie origini, alla propria casa, ma qui l’Itaca di Kavafis e quasi il contrario, Itaca non e tanto la meta da raggiungere quanto piuttosto il viaggio in se[6]».

In Troiani, il dispiegamento dualistico trova poi assorbimento. È il minimo punto del presente si inserisce nella dimensione memoriale e questa poggia di nuovo sul punto precedente. Passato e presente divengono il capolinea di una sorte che accade, cercando di preservare la nostra dignità lucente, nonostante il passaggio gioioso e duro del tempo, la spoliazione e l’allontanamento, la ristrettezza sottile della vita e il suo evento precario e grandioso: «Ma la nostra sconfitta e certa. Lassù, / sulle mura, già è cominciato il lamento, / il compianto di affetti e memorie d’un tempo. / Priamo ed Ecuba piangono amaramente per noi».

Il fatto, l’evento, l’incontro, il magma di iscrizioni, bassorilievi, punti sperduti e ignoti rivelano fragilità sottili come polveri, il dramma singolo (Aristobulo, ad esempio, e poi Cesarione, i pensieri di Nerone dopo l’oracolo delfico, l’epitafio di Lanis, custodito nella duratura immagine domestica e l’impeto della vita di Iassìs) che accomuna una sodale angustia incerta, descrivono una possibilità di durata nella contingenza, l’epoca che si rivela perché passata e non del tutto trapassata, perché vicina, prossima al canto, alla voce, alla genesi di un rito e di un desiderio antico. Come in Oroferne, la cui chiusa assomiglia a una solenne terminazione di intenti: «La sua fine fu scritta / chissà dove e si e persa; / oppure la storia l’ha tralasciata, / e a ragione: particolare insignificante, / non degno di menzione. / Il volto che e qui sul tetradrammo / e vi lascio un segno della bella giovinezza, / una luce della sua grazia poetica, / una memoria sensuale del ragazzo di Ionia, / e il volto di Oroferne, figlio di Ariarate».

Questo orizzonte sottile non traluce soltanto perché riporta ciò che è sommerso, non splende solo per il particolare di quel giorno, non si fa solo mito di un’epoca gloriosa («sono i personaggi o minori o colti, con sofferta ironia, nel momento in cui la fortuna sembra stia ormai per abbandonarli, vittime inerti di fronte all’incertezza e alla fragilità del loro destino[7]»), ma tenta di custodire le ore meridiane di ogni metamorfosi immaginifica, dove la caduta, la morte, il frammento frangibile, la sconfitta rappresentano il margine dello splendore, il ricordo di qualcosa che è stato vissuto nella pienezza e ne rimane come un rimpianto vicino, un suono agrodolce e una felicità superstite.

Il tempo della composizione è obbedienza, descrizione esatta, condensazione di tempo e luogo, atto e metodo, per trovare una correlazione oggettiva che dia forma e riposo, respiro e trasposizione, come se l’avvenimento fosse presente, possa fremere, slacciare le nostalgie e gli stupori.

Rivisitare per capire, mentalizzare gli aspetti del reale per farsi mancanza, scontrarsi con le deturpazioni del presente e diventare il proprio occhio di genesi: « La camera era povera e volgare, / nascosta sopra l’equivoca taverna. / Dalla finestra si vedeva il vicolo, / sporco e stretto. Da sotto / arrivavano voci di operai / che giocavano a carte divertendosi. / E là su quel misero e squallido letto / ebbi il corpo d’amore, ebbi le labbra / sensuali e rosate dell’ebbrezza – / rosate di una tale ebbrezza che anche ora / mentre scrivo, dopo tanti anni! / solo, in questa casa vuota, torna a inebriarmi».

Percepire il vuoto, pur sapendo che è intessuto di presenze, angoli, scorci, vita che si redime e si porge, tocca il ricordo di labbra e pelle, lontananze di zaffiro, piaceri consunti e sommità stregate: «L’immagine del mio corpo giovane, / dalle nove, quando ho acceso la lampada,/ è tornata risvegliando la memoria / di camere chiuse e profumate / e di passati piaceri – che piaceri audaci! / E mi ha portato davanti agli occhi / strade divenute sconosciute, / locali pieni di movimento ora chiusi, / e teatri e caffè di una volta. / L’immagine del mio corpo giovane / è tornata riportando memorie di dolore: / lutti di famiglia, separazioni,/ sentimenti dei miei, sentimenti dei morti, / sentimenti tenuti in cosi poco conto».

L’immagine passata dirottata nel presente diventa scultura imperitura, come il mare al mattino che destina l’illusione e l’ombra del ricordo in un divenire senza fine:

«Eseguo con cura il mio lavoro e lo amo. / Ma oggi mi scoraggia la lentezza del comporre. / E colpa del tempo. Si fa sempre / più cupo. C’è vento e pioggia. / Desidero più vedere che parlare. / Ora guardo questo dipinto, / un bel giovane che si e disteso / accanto alla fontana, sfinito dalla corsa. / Che bel ragazzo; il meriggio divino / l’ha rapito per farlo addormentare. – / Continuo a guardarlo così, a lungo. / E di nuovo nell’arte, dalla fatica dell’arte trovo riposo».

Non è ciò che si annichilisce che gli interessa, bensì il suo lascito, l’orma tracciata che si apre all’apollinea danza della memoria e dello specchio. Non è un volto vedovo, è un volto votato alla mancanza piena, come scrive Josif Brodskij:

«Combinando sensualità e storia, o piuttosto istituendo un’equazione tra di esse, Kavafis racconta ai suoi lettori (e a se stesso) la parabola classica di Eros, signore del mondo. Sulle labbra di Kavafis il racconto suona convincente, tanto più convincente perché nelle sue poesie storiche domina assillante il declino del mondo ellenico, una situazione che lui, come individuo, rispecchia in miniatura o riflette in tanti specchi».[8]

Nella Poetica il poeta greco scrive:

«[…] lasciate che si consideri la vanità delle cose umane, che e un modo più chiaro per esprimere ciò che io ho chiamato «la mancanza di valore di qualsiasi tentativo e dell’inerente contraddizione di ogni manifestazione umana». […] La maggior parte degli uomini deve agire, e per quanto produca cose vane, l’impulso ad agire e la relativa obbedienza a esso non sono cose vane, perche questo e coerente con la natura, con la loro natura. Le loro azioni producono opere che possono essere distinte in due categorie, opere di immediata utilità e opere della bellezza. Il poeta realizza quest’ultime. Dato che la natura umana aspira al bello espresso sotto forme diverse – amore, ordine nel proprio ambiente, paesaggio – serve un suo bisogno. Un’opera fatta invano e la brevità della vita umana possono dichiarare tutto questo inutile; ma poichè non conosciamo la connessione tra la vita posteriore e la vita presente, forse anche questo può essere contestato. L’errore comunque si trova principalmente in questa individuazione. L’opera non è vana, se tralasciamo l’individuo e consideriamo l’uomo. Qui non c’è morte o almeno morte sicura: le conseguenze sono forse immense; qui non c’è brevità di vita, ma un’immensa durata. Cosi l’assoluta vanità scompare, al massimo può rimanere all’individuo solo una vanità relativa, ma quando l’individuo si separa dalla propria opera e considera soltanto il piacere o il beneficio che questa gli ha procurato per qualche anno e poi la grande importanza per secoli e secoli, anche questa vanità relativa scompare o diminuisce di gran lunga».[9]

L’Eros di Kavafis è attesa di ombre. Sembra che le richiami con la sua sottile armonia di inchiostro. L’intimità, il piacere, il silenzio pagano dei segreti, l’incontro del fulgore con la sua oscurità, il disegno dell’amato fino allo spasimo divengono un sospiro lungo quanto la durata della notte: «E con il loro suono per un attimo affiorano / suoni dalla prima poesia della vita – / come musica, lontana, che si perde, nella notte». Oppure: «Ho guardato tanto a lungo la bellezza / che la mia vista ne e piena. / Linee del corpo. Labbra rosse. Membra sensuali. / Capelli come presi da statue greche; / sempre belli, anche se spettinati, / e ricadono, un po’, sulla fronte bianca. / Volti d’amore, come li voleva / la mia poesia …. nelle notti della mia giovinezza, / incontrati, di nascosto, nelle mie notti……».

Mistica di carne e desiderio, furtivo e illecito come perdita giovane. Dettagli, sguardi, colori, vita che fugge e incide piacere infinito e inciso e poi scrivere per vivere ancora e ancora: «Il simpatico viso, un po’ pallido; / i suoi occhi castani, come cerchiati; / venticinque anni, ma ne dimostra venti; / un che di artistico nel vestire / – il colore della cravatta, la forma del colletto – / cammina senza meta nella via, / ancora stordito dall’illecito piacere, / da quel piacere illecito goduto».

In Aspettando i barbari, poi, la delocalizzazione storica incide la linfa vitale di un eterno contemporaneo che destina il sangue a una memoria intarsiata e ambigua: l’imperatore, il Senato, i consoli, i pretori in toga rossa, i barbari sono passaggi di tempo nel tempo, come corollari alternati di silenzio e parola, domande e scene, accordo-disaccordo, in una strana gettatezza umana che capitola prima che il nemico si presenti[10]:

«Il ricorso alla narrazione, storica o meno, la forma dialogica, la tendenza a scarnificare lingua e contenuto sono tutti segni di un allontanamento, di un distacco dalla sfera emotiva personale e ideale verso la realtà concreta, umana, dell’altro da se in cui ritrovarsi e conoscersi. La storia, il racconto gli permettono di interiorizzare l’emozione altrui, e insieme di esternare la propria. Il rispecchiarsi nell’altro e un passaggio obbligato per l’autoconsapevolezza, una presa di coscienza di sè attraverso l’incontro con l’altro. In senso più lato, quasi socio-politico direi, e riconducibile a uno stesso processo, Kavafis ci parla del presente, e talvolta anche del futuro, parlandoci del passato».[11]

 Quei passaggi sono vita ebbra che si richiama, si concede, guarda la densità dell’attimo sublime della Poesia, come qualcosa che passa: la città, i ragazzi, la sera. Qualcosa di restituito, custodito in uno stretto andito di sé, vissuto nel particolare per farsi maestà transitoria e memoria stordita e fantasmatica, per cercare una finestra sul mondo e dove, infine, il corpo si mostra, isolandosi, divenendo, in sostanza, un corpo-ricordo: «In queste stanze buie, dove passo / giorni cupi, vado avanti e indietro / in cerca di finestre. – Se una finestra / si apre sarà un conforto. – / Ma le finestre non si trovano, o non so / trovarle. E forse e meglio non trovarle. / Forse la luce porterà nuovi tormenti. / Chissà quali nuove cose mostrerà».

[1] Cfr. Sereni V. (a cura di), Giorgos Seferis, Kavafis e Eliot: paralleli, in Poesia, prosa, traduzioni, note e bio-bibliografia di Filippo Maria Pontani, Torino, Utet, 1971, pp. 547-584.

[2] Kavafis C., Tutte le poesie, a cura di Paola Maria Minucci, Donzelli, Roma 2019.

[3] Minucci P. M., I canti sepolti e le pagine bianche della storia, in Kavafis C., cit., pp. 690-691.

[4] Montale E., cit., in Montani F., Introduzione a Kavafis, Poesie, Mondadori, Milano 1961, p. 6.

 

[5] Galaverni R., Mito Kavafis la voce più nascosta, in “La Lettura – Corriere della Sera”, 29  dicembre 2019.

[6] Minucci P. M., cit., p. 703.

[7] Id., cit., p.705.

[8] Cfr. Brodskij J., Il canto del pendolo, Adelphi, Milano 1987, citato in Brullo D., «Tutte le poesie» di Kavafis sono un inno all’antichità, in “Il Giornale”, 27 dicembre 2019.

[9] Kavafis C., Τα πεζά (1882;-1931) [Le prose (1882?-1931)], a cura di M. Pieris, Ikaros, Atene 2003, 2010, p. 257.

[10] Simić C., Some Sort of a Solution: Charles Simic reviews ‘The Collected Poems’ by C.P. Cavafy, translated by Evangelos Sachperoglou and ‘The Canon’ by C.P. Cavafy, translated by Stratis Haviaras, in London Review of Books, vol. 30, nº 6, 20 marzo 2008, pp. 32-34.

[11] Minucci P. M., cit., p. 697.

Kavafis C., Tutte le poesie, a cura di Paola Maria Minucci, Donzelli, Roma 2019, pp. 720, Euro 35.

 Kavafis C., Tutte le poesie, a cura di Paola Maria Minucci, Donzelli, Roma 2019.

  • Poesie, traduzione di Filippo Maria Pontani, Mondadori, Milano 1961.
  • Τα πεζά (1882;-1931) [Le prose (1882?-1931)], a cura di M. Pieris, Ikaros, Atene 2003, 2010.

Brodskij J., Il canto del pendolo, Adelphi, Milano 1987.

Brullo D., «Tutte le poesie» di Kavafis sono un inno all’antichità, in “Il Giornale”, 27 dicembre 2019.

Marcoaldi F., L’inattualità sempre attuale di Kavafis, “La Repubblica – Robinson”, 28 dicembre 2019..

Galaverni R., Mito Kavafis la voce più nascosta, in “La Lettura – Corriere della Sera”, 29  dicembre 2019.

Sereni V. (a cura di), Giorgos Seferis, Kavafis e Eliot: paralleli, in Poesia, prosa, traduzioni, note e bio-bibliografia di Filippo Maria Pontani, Torino, Utet, 1971, pp. 547-584.

Simić C., Some Sort of a Solution: Charles Simic reviews ‘The Collected Poems’ by C.P. Cavafy, translated by Evangelos Sachperoglou and ‘The Canon’ by C.P. Cavafy, translated by Stratis Haviaras, in London Review of Books, vol. 30, nº 6, 20 marzo 2008, pp. 32-34.