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La soglia di Susan Stewart

di Andrea Galgano             25 settembre 2014

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Susan Stewart Poet Writer Critic

Susan Stewart (1952) esprime la vitale vertigine di un nutrimento che attinge dal repertorio dei classici latini e greci e dalla coltre concettuale sedimentata dei poeti metafisici inglesi del Seicento, ma manifesta una pura e sostanziale ricerca espressiva che si sporge sulla conoscibilità del reale, sulla sua calorosa meraviglia e, infine, sulla concretezza che si fa immagine primordiale ed eco inscindibile.
Poetessa, membro dell’American Academy of Arts and Sciences, critico, traduttrice (ha tradotto l’Andromaca di Euripide), insegna storia della poesia ed estetica presso l’università di Princeton e nel 2005 ha ottenuto il titolo di Chancellor dall’Accademy of American Poets.
Il suo sguardo si afferma nella densità dell’essere. In essa la realtà emerge nella sua datità, nella sfrontatezza di una cosalità mai ridotta, ma vibrante nella profondità e nell’intensità di una «ambiguità instabile tra le profondità intime dello’io e, d’altra parte, il fondo misterioso della realtà che ci circonda, fino ad esiti solo apparentemente paradossali» (Antonio Spadaro):

«Lascia che ti parli del mio meraviglioso dio, di come si nasconda negli esagoni / delle api, di come la siccità che strofina le sue mani coriacee / sopra il mondo sia una sua creazione, così come la pioggia nei minuti silenziosi / che lasciano soltanto pensieri di pioggia. / Un atomo che lavora e lavora, un atomo che lavora nella notte / più profonda, poi esplode come la stella più lontana, molto / più piccolo di una puntura di spillo, molto più piccolo di uno zero che non ha / nessun desiderio, nessun desiderio verso di noi».

Scrive Roberto Mussapi:

«La Stewart […] restituisce un binomio di felicità visionaria e potenza rivelante su cui si innesta innanzitutto la poesia americana, e una dimensione metafisica, di origine europea, dove metafisico non indica una astratta speculazione nelle sfere celesti, ma la rappresentazione di realtà invisibili e incorporee attraverso immagini concrete, azioni, insomma la traduzione dell’ invisibile in visibile che è uno dei sogni e degli impulsi originari che muovono ogni artista. Come molti poeti americani del passato, è legata al mondo presocratico, vale a dire al pensiero greco delle origini, quando filosofia, cioè ragionamento logico, e poema, cioè cosmologia, canto della natura, si intersecano e a volte si fondono. Paesaggi, luoghi e figure elementari di un mondo percepito nel suo nascere: foresta, stelle, acqua, deserto, prato, lampo, rosa. Il mondo delle cose prime, rivelato dallo stupore del poeta che quanto più è immediato tanto è sapiente e sapienziale: «Io mi addormento in onore della pioggia, / in onore dell’inquietudine delle foglie, / e un gran fremito passa / sopra la terra; è la musica / del nostro dimenticare».

E ancora: «In Susan Stewart il mondo quotidiano, in cui la natura non è marginale ma onnipresente, si accende di lampeggianti rivelazioni, la vita è svelata in piccoli miracoli ininterrotti, continuamente celati nel mistero, cifra principe della realtà. Una poesia della soglia, continuamente al confine tra umano e divino, visione e meditazione filosofica. Immaginazione e pensiero trovano nella sua opera una formulazione nuova di un binomio cardinale della poesia d’Occidente». Pertanto il pieno brusio del suo magma cerca l’oscurità delle superfici, la sorgente primordiale e primaria di un luogo, «una fila di alberi, una fila di stelle. / Cercalo dunque: troverai che potresti perdere / il senso della profondità, / una foglia, un fascio / di carta, una federa / o una faccia / a forma di cuore, / un sibilo che infuria, / come i venti, come / la morte, in un groviglio / là nei rami».

È una danza avvinta che incontra i libri del buio («Buia la stella / fonda nel pozzo, / luminosa nell’acqua») e il silenzio muschioso, per premere contro l’oscurità, «andando più a fondo nell’acqua, nero nella nerezza, / la fonte dell’acqua che aspetta là, lontana sotto l’acqua / e l’acqua nera come carbone, / nera come qualsiasi cosa estratta dalla terra; / allora portala alla luce del giorno e schiarirà / ancora, trasparente nel bicchiere trasparente, invisibile / sulle mani, benedizione, / che scende, felicità che balena».
La grammatica delle sue linee ha radure luminose e sospensioni di anima. Il verso frastagliato, dislocato e franto condensa le punte iconiche della riflessione, della percezione del reale e del suo contrappunto esperienziale, quest’ultimo forgiato dall’intuizione e dall’immaginazione.
Il risveglio celebra la soglia dei contorni e la loro nitidezza condivisa, laddove la scena invernale e brinosa porge il suo nero solco impenetrabile.
Il dopo-immagine ghiacciato raccoglie il volo improvviso e nitido che precipita e discende, come un empito di fiato che unisce sacro e profano, nel suo sibilo che infuria, lasciando l’impronta di una notizia splendente e impossibile: eppure «la verità rimane / che non posso sapere solo quel che ho visto e se / viene ogni notte, ogni sogno, ogni stella o per niente». Il gufo, che in questo poema è, allo stesso tempo, invocazione, notturno ed esplorazione, – ossia «troubled-recognition topos», secondo la felice definizione di Randall Couch, diventa, come commenta Maria Cristina Biggio, «nell’istante della poesia e per sempre, meravigliosa creatura che sposa il paesaggio e redime il tempo-di-ora bloccato nell’attesa di fare “un sogno invernale”».
L’abbandono e la forza epistemologica della mobilita la sua ricerca di significato, si compromette con l’allungamento delle ombre e con la profondità della indeterminatezza dello slittamento della percezione visiva. Essa diventa, pertanto, il luogo della creatività e della fantasia, come finalità della forma.
In un’intervista rilasciata a Roberto Mussapi, su “Avvenire”, del 28 dicembre 2013, Susan Stewart traccia la sua vitale e meravigliosa stele poetica, affermando che

«La bellezza di ogni poesia è costruita sulla musica dei suoi suoni e intervalli misurati, sulla vividezza delle immagini, l’immediatezza e la tessitura del suo eloquio, e la sua evocazione di presenza. Le poesie sono vive, e la loro vita è più lunga di ogni nostra vita individuale. Il pensiero poetico è capiente, perché esalta non solo tutti i nostri poteri mentali (la ragione, l’immaginazione, le memoria e l’emozione insieme), ma anche i nostri ritmi fisici, il battito dei nostri cuori, il ritmo del respiro, gli occhi che si chiudono o si aprono. Nel leggere e scrivere poesia noi portiamo il nostro intero se stesso a significati condivisi. Come forma d’arte, la poesia ha valore in se stessa, il linguaggio attraverso il quale la poesia si compie non si esaurisce nell’esperienza o nei desideri del momento. No, la poesia vive oltre il contesto del suo farsi e la sua storia procede».

L’orbita immaginale e il colombario della sua anima lucente di buio fiutano e tentano di appropriarsi della vita piena e della sua realizzazione, come l’atto di fede che arreda la transizione e la liminalità. Esse interrogano, come scrive M. C. Biggio,

«l’idea di trascendenza (la luce, il volo, gli uccelli, le ali, le api, il vento, il “fuoco vivente”, il divino, la fuga, il paradiso, la bellezza lirica, il vorticare) e la realtà della discesa (l’oscurità, la cenere, il bruciare, la caducità, il radicato, il sotterraneo, il mondo fisico e i suoi elementi, ecc.). Sono motivi costanti anche la riflessione sul farsi e sulla forza epistemologica dell’invenzione poetica – capace di estendere la nostra imperfetta conoscenza del mondo e di tracciare una nuova mappa di mondi possibili rivelando il sacro e il misterioso di realtà trasfigurate dall’arte – e sull’ossimorica potenza della “memoria umana”, intesa come abisso, fondo incommensurabile in cui il tempo si fa quasi infinito nella vita breve e mortale dell’uomo che la possiede. Ad essi si accompagna l’interesse di Stewart per la perduta condizione edenica dopo la cacciata dei nostri mitici progenitori: il tema della caduta offre alla sua poesia la possibilità di farsi struggente ripetizione del giardino e, nel contempo, lamento dell’esperienza profondamente umana del limite, senza che in essa vengano mai meno né la capacità di confrontarsi con la tragedia e il male come parti del tutto, né la speranza e lo stupore per l’incommensurabilità dell’esistenza».

La poesia cerca l’ineffabile tangibilità e percepisce l’attesa e la lotta contro le soglie tenebre, l’osmosi dei passaggi, l’enigma, l’alchimia del linguaggio, per folleggiare «con il nonsense e l’ironia (intesa in senso romantico e in quello socratico di dissimulazione nella struttura discorsiva) per sottolineare il dubbio e l’incertezza che l’accompagnano, e che usa il mito come prezioso collante alle interrogazioni della cangiante e multiforme realtà. Per poter infine dire, al di là di quinte e sipari e con la più vasta gamma possibile di domini del reale, il favoloso mondo sognato in cui «nessuna morte è naturale» (Maria Cristina Biggio): «Una volta eri addolorato / e loro ti vennero incontro nell’aria bianca. / Entrarono in / una musica infinita, / il pavimento del tempio / era muschio calpestato. / Hai vegliato / per una fessura / nella pietra / che poteva aprirsi e / chiudersi liberamente, come / una mano. / Hai vegliato / nella verdezza mentre colmava l’aria bianca».
La densità ermetica della poesia di Susan Stewart si concentra sull’allusione, sull’incontro tra l’io e chi riceve, divenendo esplorazione d’infanzia e giovinezza del mondo.
La realtà si svela e compie il suo linguaggio e lo sguardo della Stewart, come visione binoculare, intuisce risvegli smossi, la nostalgia del passato trasferito e in transito, la frizione della vita e della morte e «tremare argento dell’elemento».
La sovrapposizione della memoria percorre le scapole della poesia in un contrasto metafisico e conoscitivo, vive di un trasalimento felice che illumina l’inizio per figurare la specificità dell’altro, ricalcarne le forme, conoscerne la fecondità.
L’erranza della materia, «Dove l’aria è intessuta di muschio che s’asciuga, / (in quel posto dove son cresciuta) la foresta in un groviglio, / un aroma di muschio dai funghi e dalle trine di muffe, / dolce-stellato andare, in un groviglio di rovi, di felci», permette di trapassare gli oggetti, di conoscere le stratificazioni, il limitare della foresta simbolica, che è «risorsa della natura, di tutto ciò che è oltre i fatti della storia, oltre i nostri concetti di spazio e tempo e le categorie e il nostro modo di conoscere e che, in quanto tale, precede la memoria e l’invenzione. La natura è l’indefinibile, l’illimitata risorsa al di sopra della quale la conoscenza si innalza – proprio come l’invisibilità sta al di là del visibile – non in senso mistico ma come un reale riconoscimento del limite dei nostri poteri analogo alla finitudine sancita dalle nostre morti individuali».
La chiarità e l’esatta precisione delle immagini di Susan Stewart si appropria delle trame e delle simmetrie dei giochi, come spostamento di forze (come lo spirito che vaga tra le foglie scosse di red rover) e ripiegamento svelato, riflessione sulle passioni e sui mali del mondo: «colui che si è riversato / nel suono, si è fatto parola del silenzio; / mandato in mezzo al tempo, si è fatto tempo che emerge. / Mentre il passato si accresce, il futuro diminuisce / e la paura assume i tratti dell’amore».
Fare precipitare la visione poetica tra le radici nascoste, lo stupore, gli abissi, tra le presenze vitali incise nella memoria fantasma e nella luce, nei vecchi dolori, è il genio dello scarto e della visione, situata nella «profonda mezzanotte del giorno e dell’anno».
Scrive ancora Maria Cristina Biggio:

«La Stewart accoglie, in una fantasmagoria di specchiata luce e ombra, le contraddizioni e i dubbi della realtà, allo stesso tempo accogliendo il progresso e l’avanzamento che nasce dal loro contrasto e scontro, lasciando entrare una variazione, formale e/o tematica nel verso ripetuto, che così slitta verso un significato di problematica discordanza, più cupo o perturbante che, appunto, disorienta il lettore […] Metafore e metonimia, metafore-metonimiche, giochi di parole e giochi con le parole […] sono la logica conseguenza di una metafisica instaurata con il senso (della vista, dell’udito, del tatto e di un senso vestibolare della vertigine o dell’equilibrio nell’attraversamento delle varie soglie), che viene poi necessariamente rappresentata in parole. Davanti all’eterno, all’invisibile, al non razionale, la parola umana prova a dire i cortocircuiti della razionalità, mentre il poeta sale e scende dalla mitica catena d’oro del linguaggio, tentando di avvicinare terra e cielo».

Persino il male, la caduta, il dolore diventano traccia meridiana ed eco di una possibile redenzione e di una nuova costruzione di mondo, come antifone che nominano e conservano le cose, come colonie perdute a punta di freccia e come litanie ripetute di uno shock ripetuto e continuo, che però non ha paura di richiamare i nomi di un mondo spezzato che riporta indietro il tempo, rallentato e pastorale (Elegia contro il massacro alla Amish School, west Nickel Mines, Pennsylvania, autunno 2006): « Lena, Mary Liz, e Anna Mae / Marian, Naomi Rose / quando il tempo si è fermato / dove il tempo ha rallentato / i cavalli portavano la pioggia. / Mary Liz, Anna Mae, Marian / Naomi Rose and Lena / le lanterne accese / nel buio mezzogiorno / nel processionale del dolore».
Il potere incantatorio del mito, laddove celebra la drammatizzata soglia dei vasti panneggi, va alla ricerca del linguaggio della memoria prenatale, celebra l’incisione dei luoghi e del tempo e, nelle sue prominenze lessicali, inscena una parola gravitata, «alla base immobile del mondo che gira», che non ammette eclissi, ma scava il suo sfioramento della visione presente, gli incontri trans temporali come riscrittura e connessione di qualcosa che non c’è ancora, ma trova la sua trama di inizi rianimati nel «sonno orlato di raso».

STEWART S., Columbarium, Ares, Milano 2006.
ID., Red Rover, Jaca Book, Milano 2011.
COUCH R., On the art of Susan Stewart (http://jacket2.org/article/art-susan-stewart)
MUSSAPI R., Quello stupore primordiale di Susan Stewart, in “Il Giornale”, 26 novembre 2014.
ID., Stewart, versi come atti di fede, in “Avvenire”, 28 dicembre 2013.
SPADARO A., Nelle vene d’America. Da Walt Whitman a Jack Kerouac, Jaca Book, Milano 2013.
BIGGIO M.C., Susan Stewart, due poesie (http://poesia.blog.rainews.it/2012/01/19/susan-stewart-due-poesie/)