Archivi tag: Giorgia Sensi

Le rune di George Mackay Brown

di Andrea Galgano

3 ottobre 2023

Le rune di George Mackay Brown

Tra le voci più potenti e originali del secondo Novecento, il poeta scozzese George Mackay Brown (1921-1996) di Orkney, patria e territorio della sua poesia, concentra il tumulto remoto e selvaggio della terra, con l’alternarsi di luce e ombra, in un tempo di scissione e vicinanza, di moto e silenzio. E poi di liturgia quotidiana e di luce perpetua che sembrano giungere da un solco antico, come dalle freschezze di Hopkins, dai moti vertiginosi di Dylan Thomas e dalle ispessite malinconie di Yeats[1]: «Avere inciso sulle giornate della nostra vanità / Un sole / Una nave / Una stella / Una spiga / Anche qualche segno / da un tempo antico, scordato / che un bimbo possa leggere / Che non lontano dalla pietra / un pozzo / si possa aprire per i viandanti / Ecco un lavoro per i poeti – / incidere le rune / poi accettare il silenzio».

Grazie alla casa editrice Interno Poesia, una selezione delle migliori liriche di Brown, dal titolo Incidere le rune[2], curato da Giorgia Sensi, con la prefazione di Kathleen Jamie, già responsabile dell’edizione inglese del 2021 e tradotta per la prima volta in italiano.

Il lavoro dei pescatori e dei contadini, il mondo primordiale di Stromness, la vaga indeterminatezza e originalità simbolica[3], il senso di limite, le stagioni e la tensione metafisica verso l’ultimità lontana trasformano «ogni cosa facendola passare attraverso la cruna d’ago delle Orcadi», come scrive Seamus Heaney.

Kathleen Jamie afferma:

«Il suo orecchio per la lingua era apparso evidente fin dall’inizio, ma nel corso degli anni impiegò e padroneggiò nuove forme poetiche, e approfondì i propri contenuti. La sua voce di scrittore è calda, ricca e drammatica. Non impiegò una ‘voce speciale’ per la poesia; lo stesso tessuto di suono è presente in tutto ciò che scrisse: romanzi, lettere, testi teatrali. Quanto alla poesia, scrisse ballate (amava le ballate scozzesi, le loro storie veloci, feudali, determinate dal fato); sonetti, come ‘Hamnavoe Market’. Aveva un orecchio perfetto per il ritmo del verso libero, eppure era capace di ideare i propri complessi schemi rimici. […] ‘Cantare’ è una parola che Brown usa spesso, ma ‘danzare’ potrebbe meglio descrivere il modo in cui utilizzava la lingua. Il suo ricco mondo lirico è una danza a più mani, nella quale è coinvolta un’intera comunità sonora; le sue poesie sono come danze popolari scozzesi o ‘ strathpeys’, dove nessuno è escluso».[4]

L’accessibilità essenziale non toglie l’acume metafisico della sua opera, laddove la poesia ha il compito di fare i conti con il Destino e il Tempo, il Caso e la Mortalità, che si intessono del dramma quotidiano, della brevità umbratile dell’essere e della costruzione del tempo.

La poesia di Brown è ricolma di un inseguimento di scena: guardare al tempio del reale, a chi semina, alle stelle e ai fuochi che scintillano. Nel suo drappo, la pagina si popola di temi e immagini che diventano universali, la cui traccia orcadica diviene come un sacramento di sogno ed eternità, lontananza ombrosa: «Non si mormori invano qui. / Tra quelle grosse scogliere rosse, / sotto quel grande cielo mite / resta l’ultimo incantesimo di Orkney, / segreta valle di luce. / Dolcezza che scende dalle nuvole, / canti dal mare impetuoso. / campi sconfinati, pescatori con aratri / e vecchi eroi, che dormono per sempre / nelle benevoli colline di Rackwick».

La sua enunciazione spazio-temporale, la penombra descrittiva, il ricordo, le pause di sentenza onirica raccontano il grido vagabondo e tellurico del cuore, che si concede come un bordo, un’esclamazione di prosa e un segno vivace e doloroso di silenzio: «Sotto l’ultima lampada spenta, / rientrati tutti i danzatori e le maschere, / il suo sguardo freddo / ha ripreso il suo vero compito, / interrogare il silenzio».

I volti della sua terra divengono linee universali, dove i segni del tempo, del dolore e della fatica compaiono come violini luminosi, allorquando il senso del limite e della finitudine, «il vento che infuria come ala d’angelo» in un peschereccio squarciato, la febbre umana sentono il peso di una oscillazione e di uno strappo:

«Finalmente, la casa d’inverno. Trovi / sul davanzale / un prezioso arabesco di ghiaccio, un fiocco di neve. / Apri una porta buia. Sbattuta dal vento, / una falena dorata! Poi / una fiamma di candela, alta e tranquilla. / È una casa amara. Sulla soglia / gli uccelli muoiono di fame. / L’insegna sopra la porta è sbiadita e contorta. / Dentro una camera, guarda / un ramo brullo, spinoso. / Aspetta. Si schiude una gemma: una rosa bianca. / Pensiamo, nel cuore della casa / una tavola è apparecchiata / con caraffa di vino e pane spezzato».

La sua sacra trama (o meglio, forse una co-creazione), dunque, che diviene elegia brunita della realtà, canto per gli amici e per la Scozia. Nel mondo distrutto dal calvinismo, la sua lode si riempie di luce solare[5]. Una poesia-marea, verrebbe da dire, in cui il respiro vitale non si dilegua. Esso è sì tragico ma è ritmo del sangue, acqua impregnata di attese e danza ininterrotta che cerca rifugio:

«Da Equinozio a Ognissanti, l’oscurità / cade come le foglie. / L’albero del sole è spoglio. / Sul telaio dell’inverno, le ombre / si raccolgono in un ordito; poi / la spola di Santa Lucia fa / una pausa; una trama scura / riempie il telaio. / Il buio ha la solidità della pietra / che sbarra una tomba. / Nessuna luce di stella là. / Poi inizia la vera cerimonia / del sole, quando l’ultima / fugace fiamma del solstizio / è ripresa da / una candela a mezzanotte. / I bimbi cantano sotto un lampione / stradale, le loro voci come / foglie di luce».

In questo canto che abbranca l’eternità come testimoniato dal fulgido esempio di san Magnus, patrono delle Orcadi, gli orli di George Mackay Brown rilasciano la loro esattezza trasparente, come un’avanguardia di incanto e di ansito remoto.

 

George Mackay Brown, Incidere le rune, a cura di Giorgia Sensi, prefazione di Kathleen Jamie, Interno Poesia, pp.164, Euro 15.

Light from the Orkneys: Edwin Muir and George Mackay Brown, Rt Rev Lord Harries of Pentregarth, (Public Lecture given at Gresham College, 5 February 2009).

Bold A., George Mackay Brown, The ‘Modern Writers’ Series, Barnes & Nobles 1978.

Brown G. M., Incidere le rune, a cura di Giorgia Sensi, prefazione di Kathleen Jamie, Interno Poesia, Latiano (Br) 2023.

Fumagalli L., “Incidere le rune”: le migliori poesie di George Mackay Brown finalmente tradotte in italiano, (https://www.radiospada.org/2023/09/novita-in-libreria-incidere-le-rune-le-migliori-poesie-di-george-mackay-brown-finalmente-tradotte-in-italiano/), 24 settembre 2023.

[1] Bold A., George Mackay Brown, The ‘Modern Writers’ Series, Barnes & Nobles 1978.

[2] Brown G. M., Incidere le rune, a cura di Giorgia Sensi, prefazione di Kathleen Jamie, Interno Poesia, Latiano (Br) 2023.

[3] Fumagalli L., “Incidere le rune”: le migliori poesie di George Mackay Brown finalmente tradotte in italiano, (https://www.radiospada.org/2023/09/novita-in-libreria-incidere-le-rune-le-migliori-poesie-di-george-mackay-brown-finalmente-tradotte-in-italiano/), 24 settembre 2023.

[4] Jamie K., Prefazione, in Brown G. M., cit., p.8.

[5] In Light from the Orkneys: Edwin Muir and George Mackay Brown, Rt Rev Lord Harries of Pentregarth, (Public Lecture given at Gresham College, 5 February 2009).

La freccia di Mary Jean Chan

di Andrea Galgano 18 aprile  2023

Nel linguaggio degli schermidori, la flèche (la freccia) indica la frecciata, un’azione di attacco che si compie con sbilanciamento del busto, fino al disequilibrio e allo smorzamento del corpo, per toccare l’avversario.

Con questo lessema, Mary Jean Chan, nata e cresciuta ad Hong Kong e che ora vive ad Oxford, dove è Senior Lecturer di Scrittura Creativa (Poesia) alla Oxford Brooks University e supervisor dei Masters in Creative Writing all’Università di Oxford, restituisce il territorio della sua poesia, attraverso la pubblicazione di Flèche, appunto, edito da Interno Poesia, a cura di Giorgia Sensi.

La parata, la risposta, il corpo a corpo, l’affondo sono il punto germinativo di questa poesia, che gioca su vari registri, dal gioco innumere di parola al tocco e relazione verso l’altro, alla carne, al suono del desiderio e dell’accettazione sessuale.

Mary Jean Chan amplia il gesto poetico, innervando il suo lirismo verso una stoccata di gioia e desiderio, di comprensione e di amore, come fulcro vitale di tempo, verso ciò che nasce nella carne e nella stessa carne si rivela, come afferma Giorgia Sensi nella prefazione:

«Amore innanzi tutto per la sua famiglia – alla quale è dedicato – che è stata vittima del terrore della rivoluzione culturale cinese e delle sue Guardie Rosse e amore per la madre, che di quel terrore porta ancora i segni. Sono numerose nella raccolta le poesie sulla madre e sul difficile rapporto madre figlia a causa della ‘queerness’ e delle scelte ‘romantiche’ di quest’ultima, fortemente disapprovate dall’intera famiglia, compresa la nonna alla quale Chan dedica una poesia dal titolo ‘Alla nonna che mi scambiò per un ragazzo’» (pp. 5-6).

L’aspetto familiare ritorna nei segni dell’infanzia, attraverso il detrito memoriale fiabesco, il rapporto figurativo tra la realtà e i volti cari, come la balia che crebbe sua madre, ad esempio, in cui il senso generativo della maternità si accompagna al dolore e alla perdita.

Il battesimo della parola è segnato da un fuoco originario che è storia intrecciata alla scaglia temporale e allo zenith del materno («Tu sei sempre dove io comincio»), alla spoliazione delle maschere, alla lingua che trasforma il trauma e all’identità irrisolta.

La scherma avvicina al desiderio perché parte da una tensione interiore e si rivolge all’aria, alla meta, al petto delle cose. Ciò non toglie i lividi, l’oscurità sommersa e balbuziente, fino alla fioritura del dolore: «Spesso, mi restava un livido: la punta della lama rimbalzava / dall’imbottitura alla pelle. Tutte le volte sentivo gialle / fioriture di dolore dove la ragazza che mi sembrava bellissima / mi aveva trafitto il cuore. Ore dopo, mi sarei trasformata. / Mi sarei diretta verso casa con un profondo / senso di timore, i miei lividi affievoliti».

Il dramma della poesia è che nasce non solo dalla libertà e dall’avvenimento, ma porta dentro questa trafittura ed è lì che diviene gesto commosso, lingua che deve pronunciare il mondo per vivere, voce come corpo che parla. Qui la sillaba di Mary Jean Chan si fa ferita e luminosa presenza, sogno e desiderio di magnolie come il cielo che aveva il colore di nocche sbiancate.

Perlustrare gli spazi sicuri, scrivere lettere di fantasia, percorrere furiose pazienze come avamposti dell’io, vivere le terre della rabbia, del suono, del diniego, della profondità oscura, come se si sbalzasse il tempo e lo specchio, cercare la pura gioia, la fecondità di ciò che permette di stare al mondo: ciò permette la sua finestra aperta in attesa di grazia fertile, di una propria calligrafia che è lacrima partoriente e foglia di tè: «Le dita si immergono / di nuovo, scivolano, si alzano. / Non sono una ballerina, ma questa è / una danza. Le ore tracimano in / una teiera di foglie di tè mentre / mia madre dice: / Vedi, i caratteri cinesi sono / girasoli che cercano gli occhi. / Semi di inchiostro si srotolano / d’un tratto dal tuo polso, / e sbocciano nel tempo -».

L’uso ampio di ogni possibilità formale e letteraria, oltre che lessicale, porge la potenza della propria ricerca, fino ai disequilibri di versi, alla punteggiatura come una strana ellissi di significante e significato, ai segni e ai suoni quasi come pollini.

Pertanto, le lettere si dispongono come frecce lontane, tentano di raggiungere la nominazione, la sillabazione delle cose, passando per una guerra culturale, uno zodiaco sommerso, una cifra franta di istante e un grido lieve.

Il tempo della poesia qui raggiunge la verticalità del respiro. Anche lo stesso problema dell’identità taciuta, dolorosa e lacerata diviene la vertigine ombrosa di libertà intensa, che permane in ogni lacerto che qui emerge come lunga distanza, scissione, confine: «se voi adesso guardaste dentro di me, vedreste / che le mie lingue sono come una radice / contorta nel terreno, una e indivisibile, / solo che il mondo mi divide in continuazione / certi giorni non oso guardare gli alberi / sono delle creature così piene di speranza / se i legislatori di questo mondo / si facessero consigliare dagli alberi / riconsidererebbero tutto? / di recente ho cercato di scrivere / una poesia che desse vita a un albero / una vera accettazione dell’io / continua a sfuggirmi».

Nella doglianza delle sue giunture, come scrive in un testo scarnificato e indocile, Chan dona il suo sguardo libero sul mondo, la lingua del respiro, la sua luce improvvisa.

Chan M.J., Flèche. Poesia della scherma, a cura di Giorgia Sensi, Interno Poesia, Latiano (Br), 2023, pp.176, Euro 15.

Ilya Kaminsky: lo specchio del silenzio

di Andrea Galgano 22 luglio 2021

leggi in PdfIlya Kaminsky: lo ssspecchio del silenzio

OLYMPUS DIGITAL CAMERA

Repubblica sorda[1] (Deaf Republic) di Ilya Kaminsky, pubblicato precedentemente negli Stati Uniti e nel Regno Unito nel 2019, ora disponibile in Italia, grazie a La Nave di Teseo e alla traduzione di Giorgia Sensi, racconta di una città immaginaria, Vasenka, i cui cittadini, mentre assistono a uno spettacolo di marionette, vengono dispersi dai soldati e la città occupata.

Durante i disordini, i soldati uccidono un ragazzo sordo, Petya, e quello sparo diviene l’ultimo suono udito: tutti diventano sordi e manifestano il loro dissenso attraverso il linguaggio dei segni e «a partire da questa sospensione spontanea e insieme consapevole della comunicazione («Nelle orecchie della città, cade la neve»), si sviluppa come per gemmazione progressiva l’intero poema. Si tratta del resto della sua metafora più importante e feconda. Si può dire anzi che non solo la sua qualità ma la sua stessa plausibilità stiano tutte in quella prima intuizione[2]»:

«Il corpo del ragazzo è steso sull’asfalto come una graffetta. / Il corpo del ragazzo è steso sull’asfalto / come il corpo di un ragazzo. / Io tocco le pareti, sento il polso della casa, e / mi guardo attorno senza parole e non so perché sono vivo. / Attraversiamo la città in punta di piedi, / Sonya e io, / fra teatri e giardini e cancellate in ferro battuto – / Siate coraggiosi, diciamo, ma nessuno / è coraggioso, mentre un suono che non sentiamo / fa alzare in volo gli uccelli dall’acqua».

Nato ad Odessa nel 1977 in Ucraina, al tempo Unione Sovietica, di origine ebraica e fin da ragazzo negli Stati Uniti, per sfuggire alle ostilità razziali, Kaminsky, che soffre sin da bambino di problemi di udito, compone una partitura di favola e dramma, ribellione e incanto unitario, teatro e poema.

La rifondazione poetica nasce dal mito che dice la verità[3]. Attraverso la scomposizione biografica e narrativa, l’epicedio del proprio dolore, il segno diventa il centro dello sguardo, la prospettiva unica del tempo, dove il presente manifesta non già l’inadeguatezza ma una frattura, una sospensione franta e una insurrezione sentita verso la drammatizzazione e uno specchio riflesso[4]:

«E quando bombardavano le case degli altri, noi / protestavamo / ma non abbastanza, facevamo opposizione ma non / abbastanza. Io ero / a letto, intorno al mio letto l’America / cadeva: casa invisibile dopo casa invisibile dopo casa invisibile – / Portai fuori una sedia e osservai il sole. / Nel sesto mese / di un regno disastroso nella casa del denaro / nella strada del denaro nella città del denaro nel paese del denaro, / il nostro grande paese del denaro, noi (perdonateci) / vivevamo felici durante la guerra».

I personaggi muovono il loro teatro diseguale, dove anche i disegni dell’autore compongono una semiologia luminosa e dolorosa, assieme, in cui il palcoscenico del paese diventa una inner vision dell’essere, in cui pietà (come il gesto di Alfonso o la bocca aperta di Sonya in cui «noi vediamo / la nudità / di un’intera nazione»), la lettura del molteplice e dell’invisibile, la lacerazione nuda, il rifiuto, la costellazione dell’umano.

Il dramma cresce come un’onda. Il segno stesso diventa dramma, e l’alterità diventa una sorta di negative capability, in cui i dialoghi, le descrizioni, i frammenti non si scompongono, bensì attuano reminiscenze randagie e atti d’amore.

Il loro paradosso di sordità li rende liberi («In questi viali, la sordità è la nostra unica barricata») e «il silenzio è l’invenzione dell’udito», come scrive in nota Kaminsky. Il silenzio diventa la lingua «Cos’è il silenzio? Qualcosa del cielo in noi».

Una lingua non rassegnata ma piuttosto umbratile stupore chiaroveggente e persino, lotta politica, nel senso più alto:

«La sordità è sospesa sopra tetti di latta azzurra / e gronde di rame; la sordità / si ciba di betulle, lampioni, tetti d’ospedale, campane; / la sordità si posa nel petto dei nostri uomini. / Le nostre ragazze coi segni dicono, / Cominciate. / I nostri ragazzi lentigginosi, bagnati, si fanno il segno della croce. / Domani saremo allo scoperto come le costole magre dei cani / ma stasera / non ce ne importa abbastanza da dover mentire. Alfonso salta addosso al soldato, lo abbraccia, gli buca il polmone».

Il linguaggio creato dagli abitanti, dunque, permette la comunicazione della libertà, la resistenza, il pericolo, il grido e il corpo sporcato: «Un soldato si allontana marciando, tiene in braccio la bambina di Sonya e Alfonso rimasta orfana. In Central Square Alfonso penzola da una corda. Una scura macchia di urina sui calzoni. Il burattino della sua mano balla».

Il secondo atto restituiscono la storia di Momma Galya, il suo tempo di pienezza e di guerra e gloriosa benedizione salmica («Benedetta sia ogni cosa sulla terra finché non si guasta, / finché ogni cuore ingovernabile non ammetterà: Mi sono confuso / eppure ho amato – e ciò che ho amato / ho dimenticato, ciò che ho dimenticato ha portato gloria ai miei viaggi, / ho osato viaggiare il più possibile vicino a te, Signore»), dove neanche il tempo è risparmiato e tutta la teologia di Kaminsky diventa speculum in aenigmate: «Come uomini di mezza età, / i giorni di maggio / si incamminano verso le prigioni. / Come giovanotti si incamminano verso le prigioni, / il cappotto / buttato sopra al pigiama».

E ancora:

«Questo corpo da cui testimonio è un binocolo da cui tu puoi / guardare, Dio – / una bimba si aggrappa a una sedia, / mentre i soldati (le facce modellate dall’interno dalle parole) / arrestano tutta la mia gente, io / scappo e la bandiera è l’asciugamani su cui il vento si asciuga le mani. / Mentre loro scardinano le porte del mio appartamento / vuoto – io sono in un altro appartamento e sorrido alla bimba che / si aggrappa a una sedia, / barcolla / verso di te e di me, Dio. / Io batto le mani e applaudo / i suoi primi passi, / i suoi primi passi, in pericolo come tutti».

La tragedia racconta la terra, la simbolizzazione dei segni, la perlustrazione del vuoto, la speranza che non si cela nell’ottimismo progressivo ma è gradiente dell’umano, ampiezza di sguardo, splendore di corpo. La parola finale è una lode: «Io non sento spari, / ma vedo uccelli schizzar via sui cortili delle periferie. / Come splende il cielo / mentre il viale ruota sul proprio asse. / Come splende il cielo (perdonatemi) come splende».

[1] Kaminsky I., Repubblica sorda, traduzione di Giorgia Sensi, La Nave di Teseo, Milano 2021.

[2] Galaverni R., Tutti sordi per scelta. Solo così la follia tace, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 11 luglio 2021.

[3] Id., cit.

[4] Brewbaker W., Silence that is not silence: on Ilya Kaminsky’s “Deaf Republic”, on “Los Angeles rivive of books” (www.lareviewofbooks.org/article/silence-that-is-not-silence-on-ilya-kaminskys-deaf-republic/), march 8, 2019.

Kaminsky I., Repubblica sorda, traduzione di Giorgia Sensi, La Nave di Teseo, Milano 2021, pp. 176, Euro 17.

Kaminsky I., Repubblica sorda, traduzione di Giorgia Sensi, La Nave di Teseo, Milano 2021.

Brewbaker W., Silence that is not silence: on Ilya Kaminsky’s “Deaf Republic”, on “Los Angeles rivive of books” (www.lareviewofbooks.org/article/silence-that-is-not-silence-on-ilya-kaminskys-deaf-republic/), march 8, 2019.

Galaverni R., Tutti sordi per scelta. Solo così la follia tace, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 11 luglio 2021.

Gli orizzonti di Kathleen Jamie

di Andrea Galgano 14 agosto 2018

leggi in pdf GLI ORIZZONTI DI KATHLEEN JAMIE

Con Scrutare gli orizzonti (Sightlines)[1], appena edito da Tufani editrice, con la cura e la traduzione di Giorgia Sensi, Kathleen Jamie ci fa scorrere attraverso i margini dell’umano, il suo contatto perduto[2] e la sua presenza.

Ma la protagonista di questo itinerario di viaggio è la luce. La luce prima del viaggio. Il sole basso del cielo, le congiunture, la direzione del vento. Tutto concorre a illuminare la pagina precisa e chiara[3] prima di ogni paesaggio. Irradia l’erba, come un rasoio, creando il vero giardino. Un viaggio lucente che taglia e si sospinge nel vento. Luce che è anche conversazione naturale sulla linea degli occhi.

Gli orizzonti si susseguono, aprono cateratte, affermano la loro vitalità di linea, senza toccarla. Il viaggio di Kathleen Jamie, pur appropriandosi di una dimensione vicina all’appunto su un diario di bordo, contiene il senso del remoto, dell’ignoto e della promessa invincibile di un contatto continuo con il vivente. Quattordici saggi che sono segnati da una premura[4], una vitalità silenziosa che guarda alla Natura in tutta la sua dinamica sublime.

Lo sguardo si poserà sugli scheletri di balena a Bergen, al Museo di Storia Naturale («Un’atmosfera metafisica, se volete, dove si può riflettere sulla posizione umana nei confronti di altre creature, la loro sofferenza e la nostra rapacità, e la strana bellezza delle loro forme»), la visione e il sogno lunare, come seta nera, la Cueva che riporta una ferita spezzata con la natura, dove le pareti sono ricoperte di dipinti di animali neolitici, più antichi di quelli di Lascaux, e di stalagmiti («Siamo entrati in un corpo e ci stiamo muovendo tra i suoi condotti e canali e processi. La stessa camera in cui ci troviamo ha striature di un rosso rugginoso, ed è come l’interno di un cranio, uno spazio mentale, come se la grotta stesse pensando a noi») e, infine, la falena gazza, in un piccolo loch della brughiera.

Il primo racconto, in compagnia di Polly, entra nel gelido e duro paesaggio dell’Artico, per vedere l’aurora boreale. Il procedimento descrittivo insegue la limpidezza della luce, la sua vastità, lo sciabordio di brillantezza nel sole del mattino. Il senso di sproporzione e distanza, l’accuratezza ornitologica, la forza di un paesaggio selvaggio, che la mano di Jamie ricompone, rappresentano il viaggio nell’estremità più pura e più profonda negli elementi, che si espongono in tutta loro tremenda e scontrosa vitalità.

Essa è caratterizzata dal dominio degli iceberg, dalle increspature d’acqua e dal mondo della plancia. E poi compare l’aurora, in tutta la prodigiosa numinosità, lungo il fiordo, come un’opera conclusa.

In Patologia, la durezza dell’atmosfera vitrea, in ospedale, dopo la morte della madre, si accompagna all’incontro per un convegno sul rapporto degli umani con altre specie. La domanda elementare di Kathleen tenta di riappropriarsi del concetto e del contatto con la natura, non solo esterna, ma intima, corporea, umana, attraverso l’esperienza accanto al professor Frank Carey, Specialista in Patologia presso il Ninewells Hospital di Dundee:

 

«Dissi a Frank del convegno di ambientalisti e scrittori, e di come mi turbasse questa semplificata definizione di “natura”. Ero tornata a casa di malumore, pensando «non sono tutte primule e lontre». C’è il nostro mondo naturale interno, intimo, ci sono le forme strane del corpo e a volte vanno storte. Ci sono altre specie, non i delfini che balzano eleganti fuori dall’acqua, ma i batteri che possono metterci al tappeto. Gli chiesi, mi mostri per favore cosa succede qui»[5].

 

L’esperienza della «prova naturale della nostra mortalità» accende il senso del limite, attraverso una sorta di visita guidata nel corpo e cosa può distruggerlo. Così Kathleen riesce a vedere un tratto canceroso di colon di dieci pollici. L’indizio, dunque, di una limitatezza che però avverte tutta la fresca profondità dell’infinito, in quella brezza di marzo che tocca e riconcilia con la nostra inimitabile peculiarità.

Il ricordo delle reliquie sepolte della terra, dopo aver costeggiato le Orchid Hills, verso Stirling, poi attraversato Strathallan e l’Allan Water, per trovarsi quasi in terra straniera, dopo l’ultimo esame, compone una scena di memoria e incanto, lungo la cima delle Ochils.

I frammenti memoriali si accompagnano alla freschezza dei crepuscoli, nonostante il maggio freddo e ventoso, per scavare un henge. Esiste, in Kathleen Jamie, una dettagliata solennità discreta, come se i luoghi, i volti e le esperienze siano ontologia di poesia in prosa. Lo scavo assomiglia a quello della parola, fatto di aree, abbandoni, raschi, lavoro e durezza. Ma anche dolcezza di colline e orizzonti, emersione del mistero della terra, come topografia di storia e sogno:

 

«La grande emozione era rappresentata da quelli che venivano chiamati ‘features’. I ‘features’ si verificano quando, sotto la cazzola, comincia a comparire qualcosa, non si sa cosa, un vero mistero della terra. Potrebbe essere semplicemente la superficie di una pietra, o un cambiamento nel colore della terra: il punto in cui c’è stato un focolare resta nero per sempre. Viene sfiorato con la mano, valutato. L’abilità dell’archeologo consiste nel distinguere un qualcosa da un nulla, un’intenzione umana dal caso o dalla natura. Sanno leggere le pietre loro, ma a volte le pietre tengono la bocca chiusa. Il gioco è crudele: proprio quando il mistero è risolto, viene smantellato e distrutto» (p.59).

 

Nelle scogliere delle Shetland, rase e illuminate, vivono le colonie di sule. Nella meraviglia di quella strana riunione volatile, l’occhio di Kathleen, da esperta ornitologa, descrive gli attimi della vita degli uccelli. Il loro destino, la loro vita in ogni dettaglio, come una sorta di cellula di stupore e di bellezza discreta, la cui osservazione, al passaggio di un branco di orche, guidato dalla matriarca, porta alla riflessione sul ruolo di madre e suoi figli, pronti a lasciare il nido.

Nel viaggio a St Kilda, fino alle isole Monach, la barca è scossa dal vento e Jamie riporta lo stupore all’ironia, alla affettività naturale e alla scrittura che registra e disegna uno lungo intenso quadro di baie, colonie di sule e pulcinelle di mare, rifugi e brochs. E poi Rona, una ventosa isola disabitata a 40 miglia dalla terraferma scozzese, che segna l’incontro con le procellarie e le orche assassine, porgendo una dinamica di forze in contatto[6] e di vitalità feriale.

La scrittura procede lineare ma inseguendo ciò che accade. La profondità del pensiero si accomuna con la densità di ciò che vive, si inoltra e si dettaglia, nella maestosità, per farsi accessibile. E in tale processo, l’attenzione diventa coscienza della realtà, autocoscienza del cosmo, perfetta simbiosi di archeologia, poesia ed elegia.

La natura, dunque, diventa il territorio di un confronto dell’io con il suo essere, con la sua ultimità remota, che scandisce il suo Nord interiore, il reperto selvaggio e la relazione con le cose.

 

[1] Jamie K., Scrutare gli orizzonti, Luciana Tufani Editrice, Ferrara 2018.

[2] Hoare P., Sightlines by Kathleen Jamie: review, in “Telegraph”, 3 April 2012.

[3] Johnstone D., Sightlines, by Kathleen Jamie, in “Indipendent”, 29 April 2012.

[4] Lezard N., Sightlines by Kathleen Jamie – review, in “The Guardian”, 7 August 2012.

[5] Jamie K., cit., p. 28.

[6] Kelly S., Book Review: Sightlines, in “The Scotsmen”, 25 March 2012.

Jamie K., Scrutare gli orizzonti, Luciana Tufani Editrice, Ferrara 2018, p.206, Euro 12.

 

Jamie K., Scrutare gli orizzonti, Luciana Tufani Editrice, Ferrara 2018.

Hoare P., Sightlines by Kathleen Jamie: review, in “Telegraph”, 3 April 2012.

Johnstone D., Sightlines, by Kathleen Jamie, in “Indipendent”, 29 april 2012.

Kelly S., Book Review: Sightlines, in “The Scotsmen”, 25 March 2012.

Lezard N., Sightlines by Kathleen Jamie – review, in “The Guardian”, 7 August 2012.

 

 

Kathleen Jamie e il centro dello sguardo del mondo

di Andrea Galgano 14 maggio 2018

leggi in pdf KATHLEEN JAMIE E IL CENTRO DELLO SGUARDO DEL MONDO

La compagnia più bella (The Bonniest Companie)[1] di Kathleen Jamie (1962), che ha vinto il Saltire Society Book of the Year e il Poetry Book of the Year, ed è stato ora edito da Medusa, nella elegante traduzione di Giorgia Sensi, consegna l’energia ciclica e immutata del mondo, il viaggio dello spazio naturale[2], la sottigliezza dei confini, che diventano agoni temporali e spostamenti memoriali che incidono la densità infranta del presente come gemme ibride, attingendo anche dagli eventi scozzesi referendari del 2014, che si sono conclusi con la vittoria del “No”.

La poesia scorge, così, il confine liminale di lingua e affermazione. Nella sconfitta e nella terminalità rattrappita, il tempo della rinascita annulla ogni frantume, raccontando lo splendore numinoso della Scozia, il temporale come canto stregato, la ribellione dell’autunno e la madre persa negli occhiali:

«Dunque eccoci qua, / abbattuti e sfiniti, / ammantati di speranze in frantumi, / (un’onesta povertà). / Riposte le nostre bandiere, / le foglie secche di alberi striminziti / volano nelle piazze deserte, / e il vento / – foriero d’inverno – / / fruga fra le statue di granito / – e così via e eccetera. / Tutto ciò lo sappiamo. È martedì. Di nuovo in piedi. / Oggi si ricomincia» (23/9/2014).

Giorgia Sensi scrive:

«Il mondo naturale in The Bonniest Companie è, in genere, più familiare che in precedenti raccolte, meno selvaggio. Non ci sono balene e squali elefante ma cigni, un topo-ragno, aironi, falchi pescatori che lei stessa può osservare col binocolo dalla finestra della cucina, molti merli – il merlo della poesia “Merle” «è il centro dello sguardo del mondo», rondini e rondoni, e tanti altri (Jamie è un’esperta ornitologa). È significativa questa commistione di selvatico e domestico, di quotidiano, spesso presente all’interno di una stessa poesia. Per esempio in “The Heronry” la voce parlante, che in questo caso possiamo identificare con l’autrice stessa, in una giornata di febbraio decide di andare a vedere se gli aironi si sono già radunati nel solito posto non lontano da casa, prende la bicicletta e corre là, non prima, però di aver compiuto un gesto quotidiano e molto pratico, essere andata a comprare il giornale e il pane. […] Quello di Kathleen Jamie è un mondo naturale e in continuo movimento, ed è fonte di rinascita, di conoscenza».[3]

Unire la folgorazione naturale alla specifica dimensione quotidiana consente di precisare la luce di un cambiamento, il territorio identitario e il dramma di una demarcazione di corsa splendente e colpita. Vi è, in Kathleen Jamie, una sorta di fragilità spaesata, una vitalità mai ridotta che si dischiude («Su, facciamo sosta qui, riprendiamo fiato / e inaliamo il dolce profumo di quella ginestra / che è in fiore oggi / guardiamo laggiù in fondo per miglia, da ora / e fino a che non ritornerà la lince, e il lupo»):

«Portatemi al fiume, ma non subito, non con questa raffica gelida, che da est / con furia sale su dal mare / come un iroso pastore – / e quanto a voi oche, nate sull’Artico, che sembrate a vostro agio / nei nostri campi, / che bisogno c’è di tornare al nord al più presto – / neve sui monti, zolle arate e ghiacciate – / così da settimane, e ci basta / – ma quando verrà la mia ora, / lasciatemi andare come il toporagno / proprio qui sul sentiero: spinto dal vento su quel suo pelo da moscerino, / colto a metà pensiero, a metà corsa».

Il legame tra contemplazione e finitudine lambisce strappi di quotidianità e stupore: gli aironi sono pronti per radunarsi «negli allampanati salici dell’isola», in una scintillante promessa di bellezza eveniente.

Jamie esplora l’iniziazione del particolare a una esatta destinazione della realtà. Le cose nude si accompagnano alle radici, agli spostamenti, alle terre percorse come una vitale e feriale disposizione di immagine, che diventa parte nevralgica del Tutto, unione sacrale di “visibile invisibilità”:

«Quel merlo tra i rovi / sull’argine esterno / non sa di esser nato / non sa di esser gloria e parte / di questo mattino domenicale / in stile nord-atlantico. / Dal becco giallo il canto scende / alle prime celidonie dell’anno; / la gola pulsa. Con un artiglio giallo / gratta l’orecchio sinistro / Tra poco si dissolverà la nebbia / a rivelare il Rum Cuillin / coperto dalla neve di marzo, e le acque del Minch / ma per ora è il merlo / il centro dello sguardo» (Merlo)

Irene Battaglini afferma:

Kathleen Jamie è una poetessa che richiede una comprensione contro-intuitiva, un modo di essere “letta” che ella stessa pretende dal lettore insegnandogli a leggere tra i chiasmi dei livelli organizzativi del discorso. Il suo sguardo oscilla dalla terra al cielo con la rapidità di un falco, e con la voracità di sguardo di chi sa cogliere i colori netti della natura, le sue indicazioni chiare, i segni della magnificenza nelle cose piccole; e si muove trasversalmente, con moto ondulatorio, come un sisma d’acqua contro la corrente superficiale, nell’oceano delle grandi emozioni umane, quelle di appartenenza, di scelta, di nascita e morte. E sembra riuscirci con un ampio ricorso alla metafora paradossale, come un ampio ventaglio che si muove al ritmo di una musica silenziosa, come se le parole fossero i tasti di un pianoforte, e il pianoforte fosse il ventaglio che come un pentagramma antico cambia la sua chiave di lettura su basi nascoste, il cui mistero sta nel vero cuore della poetessa. Un cuore sconosciuto forse anche a se stessa, orientata a capire il mondo, ad averne una qualche ragione, abitata da un talento che si ritira nelle segrete stanze delle cose apparenti. [4]

La pulsionale bellezza della realtà scopre, nel dettaglio, la genesi della rappresentabilità, l’ombra infinitesima della lontananza e del moto delle cose. L’autrice insegue ogni germinazione nutrita, i passaggi ellittici senza grumi ma che però avvertono tutta l’imprevedibilità di una ricognizione che mischia finito e infinito:

«Una gran bella arrampicata, ora il giorno è quasi concluso / sulla collina di fronte al rifugio – / un ruscello asciutto, poi una nocca di basalto / come un trono, / se mai volessi far regina / tra felci tremolanti / qualche pecora al pascolo. / Già le Isole Occidentali / profilano rosa polverose all’orizzonte, / e come il prodigo al locale notturno, / il faro di Scalpay / continua a lampeggiare la sua firma / tre raggi bianchi ogni venti secondi» (Il faro).

L’attesa di una liberazione salvifica come nascita («Sto aspettando il sorgere della stella / – forse un pianeta / che ogni sera s’impiglia / tra i rami ancora spogli / del sicomoro / incorniciato dalla tua finestra più piccola / e là sembra palpitare e tremolare») tremola e accade, per lasciare alla parola un interstizio nel mondo: «Su, tentiamo la sorte qui con il mortale, / il banale e il mortale, / e passeggiamo tra le distese di armeria rosa / della scogliera, / le zaffate di guano di procellaria che ti prendono alla gola / e lasciamo che si apra uno spazio / tra parola e mondo / pizzicato dal vento, tremante» (La scogliera).

Sono ricordi di stupore inatteso e febbrile come fioriture («eppure esito, in attesa / che la mia anima pigna / sobbalzi al tocco del mondo»), svolte e ricordi che determinano l’esistente in una conclusa e radiosa domanda elementare di compimento: «Una notte, in braccio a mio padre / fui portata dalla nostra villetta di mattoni / a vedere le stelle sopra il bagliore delle acciaierie».

O ancora il nitore di una adesione che cerca il suo acquisto di voce alta e di ricordo intarsiato: «Sulla mia altalena rossa volai / in alto, fin dove consentivano / le catene di ferro, il cielo / verso cui mi lanciai non si degnò / di accogliermi; spiegai le ali, / stordita da quel blu, dalle nuvole ribelli – / torna, disse la Terra / ho la tua ombra».

E poi il tremore dei nidi che solcano timori di perdite e indugi come abbandoni: «[…] invece eccola! Apparsa come d’incanto / da pioggerella e foschia di marzo, gli artigli gialli / a uncino sull’orlo roccioso – / l’occhio che tutto abbraccia / mentre plana di nuovo / sui nostri tetti e il firth».

L’orizzonte di Kathleen Jamie ha una rigogliosa prospettiva di sguardo che si protende e prolunga nella soglia di ogni veglia stazionata – dalle foschie delle vallate alla piena delle stagioni o alle primavere arrampicate nella vecchiaia, come se il mondo dovesse sorvegliare la sua genesi, i silenzi e la lingua del cielo che sopravanza l’essere: «Da troppo tempo / non guardo il mare / per dieci interi minuti! / l’orizzonte che brilla come una chiave magica, / un nitrito di spuma ai piedi della scogliera, / e tutti i silenzi del cielo, i suoi dialetti… / Ecco ora arriva un turbine di vento / tutto vestito di grigio / e si precipita verso la terraferma – / uno sbaffo di arcobaleno / stretto come la borsa della spesa / nella mano destra».

La sua ornitologia diventa una descrizione epistemologica di volo e di attitudine alla cadenza, al colpo del respiro, alla decrittata spoliazione della realtà, per affermarla, avvertire ogni sporgenza o precipitazione, custodirne la potenza e attestarne la profonda freschezza delle linee vaste di marea:

«Una pergola sul mare, un capanno da giardino, / messo assieme con legni raccolti in spiaggia e arredato / di un divano sfondato / è qui che sono seduta, / e mi sforzo di coltivare la filosofia del prendere-o-lasciare / sulla linea di marea, felice di rimanere / finchè l’ultimo piccolo merlo / lascia il nido / incastrato nella rosa canina alla mia sinistra. / Di tanto in tanto padre merlo / saltella attraverso il comune quadrato erboso, / inclinando la testa. / Amico, è il mare che senti, vasto e giusto / oltre quelle dune, oltre la tua contezza di merlo, / ma io cosa so? Maggio è di nuovo disteso / per tutto l’emisfero settentrionale, e oggi / è il mio compleanno. Chicchi di grandine improvvisi / pungono questo asilo provvisorio. Non è ancora finita» (Pergola).

Lo splendore attonito si attesta davanti al mistero e al segreto del vivente, per essere parte non esclusa di un giacimento protratto di sé, in cui ogni particolare celebra l’apparizione stupefatta di ogni sconfitta della ripetibilità, attraverso la capacità di visione che illumina sugli ottenebramenti di – quasi nulla- che la vita tocca e conosce: «C’è mistero nel giardino dietro casa […] Della pioggerella / che fa luccicare il susino / l’ombra della catasta di legna, / il porta noccioline che vibra / quando un passero prende il volo – / e queste margherite / tutte accampate sull’erba / – le stesse della settimana scorsa, dell’anno scorso, stesse / ma non identiche / a quelle che osservavo da ragazza / innocenti e senza pretese / tutte ricevono la loro parte».

In Le cerve (The Hinds), che dà il titolo alla raccolta, allude alla vecchia ballata Tam Lin, dove il cavaliere viene salvato da un’intrepida e aristocratica fanciulla, Janet, rimasta incinta al loro primo incontro. La Regina delle Fate si lamenta con rabbia e afferma: «Si è portata via il più bel cavaliere di tutta la mia compagnia».

Il senso di stupore placato, libertà e abbandono (Le bacche), determinati da questi probabili cervi rossi,  eliminano ogni sentiero alienato, attraverso l’agilità vigile della loro energia. I balzi, i movimenti dello sguardo, le visibilità individuali («poi a turno saltare, / saltare il torrente scuro di torba / da poco rigonfio») che tracciano pienezza, l’antropomorfismo enfatico, la topografia mimetica, l’epica minima, che riporta alle illuminazioni percettive di Kavanagh[5], accordano suoni e rime, in un gesto fluido che non consente indugi e promettono inviti trascritti senza ritorno, oltre ogni argine.

Giorgia Sensi commenta: «In un sogno a occhi aperti, l’autrice incontra diciannove cerve, che con aria regale la fissano e in modo seducente la invitano ad andare con loro, sarà felice – sembrano dirle – a un costo, però, quello di non più ritornare[6]».

Nella fissazione, che sembra frenare ogni movimento, vi è un rallentamento che esclude ogni ritorno, portando energia flessibile, libertà, indipendenza, passo dell’anima nella voce profonda della notte e solstizi come passaggi di luce: «La luce del giorno è al massimo, e ha ancora da fare qui, / almeno così pensa – / ma i rondoni della città sono nascosti / sotto le gronde misteriose / ed è quasi mezzanotte. Poi è finita – / solstizio: una porzione di meno per noi, / una di meno lasciata nel vaso».

La dimensione memoriale è l’esito di una relazione con ciò che si è perduto, guardato con tenerezza modulata nella ricerca di incontro (come The Stair – La scala, dedicata alla nonna) e nella lingua scozzese che meglio affina la dimensione memorativa.

Esiste una dolce e fitta oscurità che lega ricordo e presente, come in The Girls (Le ragazze) in cui i richiami e le rievocazioni scheggiano l’estate nel crepuscolo imminente o nella drammatica Smarrita (The Missing) che riconduce l’allungamento ellittico delle strade a un’assunzione di responsabilità. Non sappiamo come finisce la sua storia e quella di Sandra McQueen, apprendiamo l’apparenza di una scomparsa, di un attimo vibrato e breve che segna e conclude.

Vi è, dunque, in Jamie una vivida sproporzione memoriale e un orlo frastagliato di realtà, che desume sì dalla rievocazione, ma lo riporta in una condizione di attualità emersa, come la penisola di Fianuis, nelle isole Ebridi:

«Bene, amico, eccoci qui di nuovo, / a goderci l’ultimo mezzo miglio fino all’orlo frastagliato della terra / per vedere cosa ci è stato imbandito qui, sparso sul manto erboso – / piume di gabbiano, conchiglie sbiancate, / un intero maschio di foca, essiccato, / esausto per la fregola / (bussiamo sulla testa di cuoio, ma non c’è nessuno in casa). / Cambiamento, cambiamento – gridano le sterne laggiù / sulle rocce verso il mare / nubi in fuga e bacio salato – / tutto il resto è temporaneo, / noi e tutte le nostre opere. / Ecco perché ci piace qui, credo. / Ascolta: una breve pausa, / le note di una pispola piccole come semi» (Fianuis).

Il tentativo di recupero assomiglia a una migrazione che decifra l’esistente in una raccolta condensazione di immagini, che descrivono il singolo gesto come un’approfondita bellezza di suono e visione. Come se la realtà, appunto, dovesse essere registrata, non tanto in una percezione realista quanto piuttosto in un’affermata meta, che ora ripropone Hölderlin, ora asserisce ogni segno possibile che resiste a ogni dileguo di sgomento e congedo. Per farsi intreccio, ascolto e luce sulle maglie («Sento ancora il prurito di quella maglia che portavo, / verde a puntini marrone fatta ai ferri, / assorta su quella spiaggia / a raccogliere una conchiglia dopo l’altra. / Dov’è finita / – la lampada, e tutto quel ricamo / che illuminava / senza sprecare luce?»):

«Ricordi quel cigno? Quello selvatico che trovammo / sul prato col collo inerte, la testa rivolta a nord come un segnale, / e tu ti chinasti ad aprirgli l’ala? / Io prestai scarsa attenzione / all’elenco che facesti delle sue parti: copritrici, ulna, primarie / non sopportavo quel posto, le burrasche e il ruggito del mare / ma quell’aria – quella era una dichiarazione! / Un’ala per il vento, una potenza del bagliore del quarzo! / Un varco radioso / che si poteva aprire e da cui fuggire… / Trascinammo il cigno a ridosso di una vecchia diga / lo coprimmo per bene, una pietra bianca, / poi ci arrampicammo su fuori dal vallone. Al crinale / di nuovo, fummo investiti da una bella raffica di vento, / procedemmo incespicando, mezzo euforici, mezzo sgomenti» (Migratorio I)

 

[1] Jamie K., La compagnia più bella, a cura di Giorgia Sensi, Medusa Edizioni, Milano 2018.

[2] Cfr. Power P., The Bonniest Companie by Kathleen Jamie, (https://www.thelondonmagazine.org/the-bonniest-companie-by-kathleen-jamie/), Dec 22, 2015.

[3] Sensi G., Introduzione, in Jamie K., La compagnia più bella, cit., pp. 10-11.

[4] Battaglini I., Lezioni alla Scuola di Psicoterapia Erich Fromm di Prato, a.a. 2017-2018.

[5] Rumens C., Poem of the week: The Hinds by Kathleen Jamie, (https://www.theguardian.com/books/booksblog/2015/oct/05/poem-of-the-week-the-hinds-by-kathleen-jamie), Oct 5, 2015.

[6] Sensi G. cit., p.11.

Jamie K., La compagnia più bella, a cura di Giorgia Sensi, Medusa Edizioni, Milano 2018, pp. 131, Euro 16.

Jamie K., La compagnia più bella, a cura di Giorgia Sensi, Medusa Edizioni, Milano 2018.

Battaglini I., Lezioni alla Scuola di Psicoterapia Erich Fromm di Prato, a.a. 2017-2018.

Power P., The Bonniest Companie by Kathleen Jamie, (https://www.thelondonmagazine.org/the-bonniest-companie-by-kathleen-jamie/), Dec 22, 2015.

Rumens C., Poem of the week: The Hinds by Kathleen Jamie, (https://www.theguardian.com/books/booksblog/2015/oct/05/poem-of-the-week-the-hinds-by-kathleen-jamie), Oct 5, 2015.