Grace Paley: l’attenzione nascosta

di Andrea Galgano  25 gennaio  2021

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L’anima di Grace Paley (1922-2007) è un’urgenza di domanda. Lo è nella esatta puntualità dei suoi racconti, nella registrazione puntuale dei dettagli del mondo, nella narrazione, solo apparentemente semplice (e quindi, chiara e trasparente) delle sue raffigurazioni.

La raccolta dei suoi testi di poesia, ora riuniti in volume, dal titolo Volevo scrivere una poesia, invece ho fatto una torta[1], tradotto da Paolo Cognetti e Isabella Zani, per l’editore Sur, ha segnato gli anni più tardi della sua vita, toccata dalle vertiginose bellezze autunnali del Vermont, dove viveva con il marito fino alla morte, avvenuta nel 2007.

Nella prefazione, Paolo Cognetti racconta l’estremità di due poli identitari che comunicano tra loro, l’anima versatile dei racconti, in perfetta linea di congiunzione con Hemingway, Carver e Bukowski, ambientati nel Bronx, a New York, dove il fulcro popolare, le frontiere di passaggio dell’immigrazione erano la cifra e la firma di una umanità in lotta, e il tempismo lirico e sagace del gesto poetico:

«Con Bukowski, Grace Paley ha piuttosto in comune il carattere: l’esuberanza, l’anticonformismo, l’ironia, l’idea della scrittura come luogo di libertà, l’insofferenza a ogni tipo di autorità sulla pagina e nella vita, e anche l’orecchio che le permetteva di registrare la musica del mondo. Le piaceva definirsi una story-listener, ascoltatrice di storie: prima ascoltare e poi riferire, era la sua idea del lavoro di scrittore. E con ciò fare della scrittura un atto politico, perché riferire è un dar voce a chi non ce l’ha: agli ebrei, alle donne, ai bambini, ai migranti – ai dimenticati e agli sconfitti delle guerre del nostro tempo. E infine agli sconfitti della guerra tra noi e il pianeta, che sono gli alberi e gli animali. […] Grace Paley non poteva scindere il suo lavoro di scrittrice dall’impegno politico, ma se sulla pagina era una compositrice raffinata, musicale, una jazzista della lingua inglese, per strada era una combattente che non si tirava indietro davanti alla violenza del potere […]».[2]

Roberto Galaverni scrive:

«Paley è stata quel che si dice una scrittrice civilmente impegnata, una protagonista della controcultura newyorchese che ha costantemente avuto nel proprio mirino il militarismo, la discriminazione razziale e quella sessuale, nei confronti delle donne anzitutto; ma poi anche l’avidità, la mancanza di idee, di coscienza politica, di partecipazione comunitaria, di prese di posizione forti e consapevoli. […] Per un temperamento simile la lettura non poteva certo consistere in un rifugio o in un mondo a parte. Al contrario, l’esercizio della scrittura risulta sempre subordinato alle necessità dell’esistenza, pubblica o privata senza particolari differenze. Anche per questo ha scritto poco: l’impegno diretto nella e per la vita aveva comunque la precedenza sulle pur amate parole».[3]

Il garbo, l’ironia, l’azione necessaria della scrittura, il travaglio e la dolenza, il discorso e la passione, la cura per la realtà e per l’umano, l’interesse vitale sono le linee del suo orizzonte, celebrano il dettaglio universale per farsi battito puro e secco della forza tenuta da un avamposto, senza bisogno di fuga. Un allarme contro ogni scomparsa, piccole avvertenze quotidiane che vivono e intessono le dinamiche esistenziali, anche nei decentramenti e negli spaesamenti della lingua:

«Un giorno nella vita della mia famiglia / io sono entrata nella lingua inglese / le d e le t fra i denti   il fischio delle s / Allungavo le i / mi perdevo in qualche r  / le infilavo / dove non erano richieste / spesso piazzavo una preposizione / alla fine della frase / questo per guardarmi da / un’inflessione risentita / Con mia grande sorpresa gli estranei mi capivano / ho continuato a parlare   / ero sfrontata   / dicevo / ovunque vada trovo verbi che non combinano niente / sono anni che certi nomi comuni non vengono più chiamati / col loro nome proprio / devo fare una domanda triste / le leggi dell’entropia agiranno a dispetto del rigore? / esiste una letteratura che canti la scomparsa / delle lingue madri?».

Le fragilità degli avvisi, il cuore umano in tutta la sua contrastata pulsazione, il limite e la precarietà di ogni finitudine, la voce di ciò che non si sente, l’arguzia a servizio di una parola che è dettato e spazio, sono il tempo dell’umano, lo consegnano all’umano, vissuto dal treno, dal gesto vissuto e dal dialogo, appena gridato o sussurrato:

«Che diceva la poesia quel giorno / stavamo parlando  parlando / diceva  sta’ buona   lasciami / l’ultima parola  senza quella / hai a stento un pensiero  / Ai tempi / avevo le tasche piene / di ottime pietre / ma non ero / senza peccato  che cosa / potevo fare se non passi pesanti  pesanti / Un giorno ho smesso di reggere le battute / riuscivo a farle con la facilità di sempre / ma mi chiedevo perché l’altra persona rideva / non era anche lei nei guai / come il resto del mondo? / La vita è due sogni / il tuo e quello di chi ami / a colazione  una fatica ascoltare / una pena raccontare  qualcuno / piange  chi ha fatto il caffè / e tutto è perduto».

La forza di Grace Paley è questa attenzione nascosta, dove le immagini, i richiami, la memoria e il conflitto, la sintonia naturale custodiscono un ponte di sollievo, ciò che raduna i bisbigli di madre, ciò che non si tacita e dove persino una parola, come stormire, è arrivata tardi ma non ha oblio, non conosce l’oblio, è solo un ritardo di affrancamento: «è una parola meravigliosa / ho tentato di usarla ma non ci sono riuscita / mi è squillata davanti in una poesia di Jane Cooper / adesso vivo tra gli alberi  le fronde / i rametti e le foglie  / soffia un vento leggero / ma la parola stormire mi è arrivata troppo tardi» (LA PAROLA STORMIRE).

Già il titolo della raccolta, che è l’incipit di uno dei testi, richiama l’essenzialità della procedura e del gesto poetico, la non-canonizzazione dell’aura poetica, il gradiente arguto e intelligente del dire, dove le pause sono respiri e sillabe dilatate, dove il paradosso è il modo per innervare gli ossimori del mondo, i dolori, i traumi e le inibizioni del corpo che cambia («la carne incontra l’anima / e sussurra   tu»), le latitudini autunnali della meraviglia del Vermont, la sua benevolenza visibile.

«Non volevo dipendere dall’autunno / volevo perdermelo per una volta   saltare / a un’altra latitudine dove non era così / famoso  volevo mostrare che la bellezza / si può trattenere nel respiro così come respiriamo / dolore e tradimento   non sempre devono / accadere nell’attimo presente / Guardate  eccolo là  il nostro celebre / dorato autunno del Vermont color del vino  verde / come l’estate per cominciare e poi il sole / mattutino tira su la bruma dal freddo fiume notturno / gli aceri addolciscono  / senti un certo / battito accelerato  una vampata   in te che vivi quella / fedele campagna  in fiamme  in tremante / attesa del suo lungo inverno  nessuno dovrebbe  / esser costretto a sopportare tanta bellezza motivata dalla / morte / ogni singolo anno  / questo corpo stagionato sa / che insopportabile».

Tutta la poesia di Grace Paley è un indizio visibile, come avviene in Lettura dei giornali all’edicola di paese, dove l’ironia compensa le notizie lette e scabre e vi è «la retorica asciutta e la logica paradossale di chi sa destrutturare i luoghi comuni, con lo stesso riverbero lirico entro una natura antropomorfizzata[4]».

L’addensarsi del tempo, i cambiamenti, la cooperazione naturale («perché la luna estiva è bassa / ad abbagliare i campi in ombra e / fa talmente luce alla finestra  è / la legge naturale come anche un bambino / capirebbe della luna dell’amore della notte»), la vita lieve, la morte e la bufera che infuria, segnano le sue buone stelle, come l’ultima bellezza di uno sguardo d’amore, nella luce spoglia:

«Volevo portarle un calice / o magari un bicchiere d’amore / o d’acqua fresca  volevo sedermi / accanto a lei mentre riposava / dopo una lunga giornata  volevo ingiungere / encomiare  ammonire dicendo non / fare così  ma certo  perfetto  provaci / volevo aiutarla a invecchiare  volevo / dire parole ultime  / le parole famose  / per l’illuminazione definitiva / volevo / dirgliele adesso  casomai fossi / placida in sonno quando l’ultimo sonno colpisce / o disordinata dalla vecchiaia  volevo / portarle un bicchier d’acqua fresca / volevo spiegarle che  la stanchezza è / normale  anzi perfino opportuna / alla fine del giorno».

[1] Paley G., Volevo scrivere una poesia, invece ho fatto una torta, prefazione di Paolo Cognetti, sur Edizioni, Roma 2022.

[2] Cognetti P., prefazione, in Paley G., cit., pp. 6-8.

[3] Galaverni R., La seconda stagione dell’ardente Grace Paley, in “La Lettura – Corriere della Sera”, 16 gennaio 2022. 

[4] Tolusso Mary B.,  se ami stare al mondo fai come l’acero anche mezzo secco si slancia vero il sole, “TuttoLibri – La Stampa”, 15 gennaio 2022.  

Paley G., Volevo scrivere una poesia, invece ho fatto una torta, prefazione di Paolo Cognetti, sur Edizioni, Roma 2022, pp.130, Euro 14,00.