Idea Villariño: la dimora e la frattura

di Andrea Galgano  6 novembre 2021

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La poesia di Idea Villariño, che ora ci viene restituita in tutta la sua fulgida e tenebrosa vertigine, grazie all’antologia Di rose che si aprono nell’acqua[1], edita da Bompiani, a cura di Laura Pugno, racchiude l’enigma della frattura lacerata, la ferita del corpo-mondo, componendo, insieme, l’incolmabile dimora della solitudine, dell’impressione diruta dell’amore e della mancanza.

Come se il paradiso non fosse già esclusione ma lacerto di sogno spezzato, purezza sperduta, dove notte e silenzio si intrecciano, e il limite (e, dunque, la morte) appaiono come segno lucente e oscuro di un contrasto, di una lotta radicale interiore, che, come afferma Roberto Galaverni:

«[…] non cerca di addolcire il ritmo opaco, la routine sorda dei giorni contro i quali l’amore, la speranza spesso si infrangono. Piuttosto sembra conservare il ricordo di un Paradiso perduto, come suona il titolo di una poesia e di un’intera raccolta. Può essere un tempo lontano, può essere la dimensione non contaminata dell’infanzia. Ma questo stesso ricordo o nostalgia, una nostalgia che si direbbe costitutiva, è la molla di un desiderio mai pienamente realizzato oppure solo in modo fuggevole, in un attimo presto consegnato al trapassare e all’oblio […]. Ecco perché, stretta tra la quotidianità delle relazioni e l’idea di un assoluto che sfugge di attimo in attimo, che si polverizza nell’atto stesso di vivere, la poetessa sembra inscrivere nella propria parola una protesta, che è prima di tutto contro la fragilità degli esseri, contro lo scandalo del consumarsi, fino a esprimere quasi un desiderio di annullamento».[2]

La sua rarefazione, però, non tocca il nichilismo, si aggancia, invece, a una linea di fragile inesorabilità che trema («E quando sarà ormai la mia vita, / la mia ardua vita, / in solitudine / come una lenta goccia / che sempre vuole cadere / e sempre resta dov’è / reggendosi, riempiendosi / di sé, tremando, / affrettando il suo brillare / e il ritornare al fiume. / Ormai senza luce né tremore / cadere nell’oscurità»), di implacabile strazio (come trovarsi sotto l’acqua e sotto l’aria), disegnando, pur nella cupa linea degli orizzonti ripiegati, come un ramo di fiori scuri sul petto, una rigorosa trama umana, uno spasimo di eccellenza femminile nella sua nudità completa e, infine, un inchiostro vitale di luce rifiutata, che cerca, senza fine, una piccola luce lontana:

«In nudità completa ormai / misteriosa assenza / di processi e formule e metodi / fiore a fiore, / essere a essere, / coscienza ancora / e un cadere in silenzio e senza oggetto. / L’angoscia è ormai / appena un sapore, / non vi entra il dolore, / la tristezza non tocca. / Una forma che dura senza senso, / un colore, / uno stare per stare / e l’attesa insensata. / In nudità completa ormai / sapienza / definitiva, unica e gelata. / Luce a luce, / essere a essere, / quasi in ameba / forma, sete, durata, / luce rifiutata».

Nella sua opera, legata sia all’esperienza politica, di cui sente tutto il peso, il dolore, anche attraverso la dura repressione della dittatura militare, sia alla cosiddetta generazione del ’45, permane questo tracciamento di platense travaglio luminoso, di lacerto mai obnubilato, di amore che cerca metamorfosi e si trasferisce nelle sue armonie spezzate.

Martha L. Canfield scrive:

«Echi di Baudelaire e di Darío, ai quali Idea dedica una poesia ciascuno, si percepiscono disseminati nella sua opera, benché soltanto, specialmente per quanto riguarda il secondo, come punti di riferimento da cui prende l’avvio il suo personale codice d’interpretazione del mondo. E naturalmente non tratta mai del Darío estetizzante, ma del Darío tormentato dall’ineluttabilità della morte. […] L’inclinazione morale e filosofica della poesia di Idea, la sera e costante riflessione sulla morte concepita come una presenza attiva in ogni essere mortale, che cresce con la vita fino a trionfare su questa cancellandola, richiama direttamente la poesia di Quevedo. Ma anche quella di Paul Valery, con il suo “Misticismo senza Dio” e il suo anelito di purezza; e di César Vallejo con la sua pietà per l’uomo […] Così la poesia di Idea diventa espressione intensissima del malessere contemporaneo. Si può dire che in lei l’essere contemporaneo si definisce a partire dalla sua angolazione più drammatica: il dolore di esistere, l’impossibilità di mantenere quella coerenza e quella “purezza” che implicherebbero il rifiuto stesso della vita, la perdita di ogni speranza di trascendenza metafisica o religiosa, la perdita di ogni teologia che non sia negativa».[3]

Laura Pugno aggiunge: :

«nell’opera di Villariño tutto cambia, e allo stesso tempo tutto rimane inesorabilmente com’è. Il vivere di questa poesia è, e non cessa mai di essere, un vivere con la morte e per la morte. È una poesia totalmente laica, e allo stesso tempo irriducibilmente metafisica nella sua apparente semplicità. Una poesia radicata in quella che è vissuta come irrimediabile separatezza del corpo dal mondo, e dei corpi umani tra loro. Corpi che si slanciano con ardore verso cosa? Perché non possono evitarlo, pur nella consapevolezza che l’esito di quello slancio non potrà essere che il fallimento, e che qualcosa verso cui ci si slancia sia l’amore o la politica poco importa. […] la poesia di Idea Villarino è intima, corporea, dilaniata, esperienziale, è la poesia di un soggetto assoluto al femminile che in modo altrettanto assoluto sente di potersi esprimere di fronte all’assolutezza – crudele – del mondo che ha davanti. Senza con ciò dover sottostare – esattamente come un soggetto assoluto al maschile – a nessuna restrizione che non dipenda dalla propria capacità di dominio sulla lingua. Un soggetto femminile intero, che pensa e trova la propria voce e parla da questo sentimento di interezza di cui una lacerante solitudine è l’inevitabile traduzione, la certa conseguenza»[4].

La sua anima profuma di dolore, che fa essere un corpo di finestre chiuse, gettate in silenzio. È il dolore che ripiega e fa ripiegare, sembra quasi sprofondare ma non si arrende e avverte tutto il limite inspiegabile di ciò che termina: «Questo che va e viene / che prendiamo con noi portiamo via / da una parte all’altra / ossicini gangli midolli / la voce la dolce sensazione del contatto / il cristallino / il pube / questo che ogni notte / mettiamo in salvo / fragile cosa / tutto questo / cos’è questo / sangue / fiato / pelle / nulla».

Essere supplice di cieli lontani, ammantare il proibito di bellezza, il cielo-cielo del paradiso perduto, l’aria sporca che cade, la notte-morte (la chiusa notte umana) che viene: «è giallo fuori / dio mio, / è giallo / come un uccello morto / come un ago d’oro / di ghiaccio / come un grido. / è giallo fuori. / ed è giallo dentro».

La sua opzione negativa, dunque, sente il peso anche della storia e del povero mondo, della violenza ostinata dei corridoi e dello schifo di albe sordide. Resta, però, in fondo, la nostalgia della vita che si pronuncia e che attende:

«Tutta l’aria / i cieli / il vasto mondo ebbro / girano e girano e girano intorno / a questa stanza questo letto / questa luce questo foglio. / Tutta la vita / tutta / vibra fragile e densa / o risplende intorno / o si strazia nell’oscurità. / Tutta la vita vive / tutta la notte è notte / il mondo mondo / tutti / sono lì fuori sono / fuori di qui / del mio ambito / per tutti è sabato / la notte del sabato / e io sto sola sola / e sto sola / e sono sola / anche se a volte / a volte / il sabato, di notte / mi invade a volte una / nostalgia della vita».

In quel confine di detriti, in quel cuore freddo e azzurro, nel peso sulle spalle, l’immensità di essere goccia grigia cade nelle ombre dense, come un fiore di cenere:

«L’amore… ah, è la rosa. / Tienila, sostienila, dalle acque dolci e pure, / veglia la miracolosa ascensione del profumo / quella nebbia di fuoco che prende forma di petali. / L’amore…ah, è la rosa, la rosa vera. / Ah, la rosa totale, voluttuosa, profonda, / dallo stelo superbo e le radici d’angoscia, / da terre terribili, intense, di silenzio, / è la rosa serena. / Tienila, sostienila, sentila, e prima che sfiorisca / inebriati del suo odore, / conficcati alle lame dell’amore, quel fiore, / quella rosa, illusione, / idea della rosa, della rosa perfetta».

Essere nulla ma in quel nulla brillare di densità, essere foglia caduta di occhi chiusi, nella luce delle mani illese e lese, essere corpo di gelsomino assetato o rosa rossa, come cristallo puro di carne: «Ma tu hai qualcosa, non so, quella luce invalida / sulle tue labbra pigre. La pigra nobiltà / che fa svenire le cose sotto le tue lunghe dita, / quel retrogusto amaro / che i tuoi baci più dolci mi lasciano in bocca, / il denso bagliore che fa di cristallo le rocce / quando tu me le dici, la tensione del tuo corpo, / il suo profumo segreto».

L’amore, come quello per lo scrittore uruguaiano Juan Carlos Onetti, a cui dedica le Poesie d’amore del 1957, è dono straniero e sussurro di fuoco, pietre d’ombra («La notte non era il sogno / era la sua bocca / era il suo bel corpo spogliato / dei gesti inutili / del suo viso pallido che mi guardava nell’ombra. / La notte era la sua bocca / la sua forza e la passione / era i suoi occhi seri / pietre d’ombra / che cadevano nei miei occhi / e era il suo amore in me / che invadeva così lenta / così misteriosamente»), lettera disperata che lo dice e che sanguina nella pioggia selvaggia, persino, disamore («Prendo il tuo amore / eppure / ti do il mio amore / eppure / avremo sere notti / ebbrezze / estati / tutto il piacere / la felicità / la tenerezza. / Eppure. / Ci mancherà sempre / l’infinita bugia / il sempre»).

Questa è la sua forza ineludibile, il suo abbandono opaco e oscuro che alza gli occhi al mistero abissale delle stelle, la sua fragile pienezza che non conosce pace, avvinta alle fronti unite delle ombre, all’amore che è sogno, ghiandole, follia, alba nuda:

«Il giorno cresce verso di te come fuoco / dall’alba nuda trasfigurata dal freddo. / Il giorno cresce verso di te come fuoco, / come un fiore di carne celeste, come un fiume. / Il giorno cresce verso di te come fuoco / e quando cadi in me gli abissi chiamano il mio nome. / Il giorno cresce verso di te come fuoco. / Mare d’oblio, profondo oceano d’ombra, / anche di me fai notte assoluta e senza eco, / mare d’oblio, profondo oceano d’ombra / e divento mano a mano che cancelli il mio destino / mare d’oblio, profondo oceano d’ombra».

Nella sua casa di Las Toscas, Idea vede il mare. Forse una pausa, un desiderio di fusione, un’intima segretezza che placa.

Oppure la pericolosa Sirena che conquista («Dire no / dire no / legarmi all’albero / però / desiderando che il vento lo rovesci / che la sirena salga e con i denti / tagli le corde e mi trascini al fondo / dicendo no no no / però seguendola»), l’ametista che aggiunge pienezza, il lungo braccio del no.

Vede il mare e gli occhi brillano di canto finale: «Laggiù ci sarà il mare / che comprerò per me / che ammirerò sempre / che ululerà bellissimo / stenderà le mani / si farà mite bellissimo / triste dimenticato / azzurro profondo / eterno eterno / e passeranno i giorni / mi si stancherà la vita / verrà a fine il corpo / si seccheranno le mani / dimenticherò l’amore / davanti alla sua luce / il suo amore / la sua bellezza / il suo canto».

[1] Villariño I., Di rose che si aprono nell’acqua, a cura di Laura Pugno, Bompiani, Milano 2021.

[2] Galaverni R., Anche in Uruguay vivere la vita uccide l’assoluto, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 31 ottobre 2021.

[3] Canfield L. M., Il sistema poetico di Idea Vilariño, (fanzine.versanteripido.it/il-sistema-poetico-di-idea-vilarino-retrospettiva-di-martha-l-canfield-1/).

[4] Pugno L., Dire no. Sulla poesia di Idea Villariño, in Villariño I., cit., pp. 6-7.

Villariño I., Di rose che si aprono nell’acqua, a cura di Laura Pugno, Bompiani, Milano 2021, pp.375, Euro 22.

Villariño I., Di rose che si aprono nell’acqua, a cura di Laura Pugno, Bompiani, Milano 2021.

Canfield L. M., Il sistema poetico di Idea Vilariño, (fanzine.versanteripido.it/il-sistema-poetico-di-idea-vilarino-retrospettiva-di-martha-l-canfield-1/).

Galaverni R., Anche in Uruguay vivere la vita uccide l’assoluto, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 31 ottobre 2021.