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L’ellisse «vitruviana» di Leonardo Sinisgalli tra la scienza e l’arte

di Andrea Galgano

4 marzo 2020

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La pubblicazione, per Mondadori, di Tutte le poesie di Leonardo Sinisgalli (1908-1981), a cura di Franco Vitelli e con il contributo della BCC Basilicata, toglie, finalmente, la ricezione elitaria della sua poesia, poiché, come Vitelli afferma: «troppo forte è stata la capacità anticipatrice, per cui si è trovato in dissenso col suo tempo e contemporaneo della posterità, la quale ha messo in pratica le sue idee geniali quando per lui andavano prendendo un’altra piega».

Il suo incontro musaico è un segno infinitesimo di inquietudine e di spostamento che insegue l’arcaica visione di un meravigliato itinerario, di un legame scientifico e metamorfico con l’umano, in un chiasmo di orizzonti e ombre:

«Sulla collina / Io certo vidi le Muse / Appollaiate tra le foglie. / Io vidi allora le Muse / Tra le foglie larghe delle querce / Mangiare ghiande e coccole. / Vidi le Muse su una quercia / Secolare che gracchiavano. / Meravigliato il mio cuore / Chiesi al mio cuore meravigliato / Io dissi al mio cuore la meraviglia».

Il suo simulacro musivo risente di una vivace doppiezza, che se, da un lato vive dell’agone prospettico “rinascimentale”, in cui scienza (matematica, in particolar modo) e arte confluiscono in un unico proscenio di disciplina e metodo, dall’altro la vertigine poematica costruisce un’istanza di luce che riunisce grottesco e ironico, dolce furore familiare e «colore carnale».

La scena rappresenta, pertanto, uno strappo di opacità. La parola di Sinisgalli, irrorata dalla lezione di Mallarmé, Ungaretti e Valéry, distesa sulla geometria cartesiana e sull’architettura albertiana, ricerca il numinoso prodigio della «fulmineità dell’atto creativo», dove «Troppi eventi nella natura e nell’intelletto accadono in un istante: sono cariche e scariche di energia enorme, di energia animale e cosmica, che distruggono la cosa per creare l’immagine». In tale mobilità, nata dalla apicale prosa leonardesca, Sinigalli bracca l’immaginario algebrico, la geometria e la metrica dell’invisibile, unendole con le forze della inner vision poetica.

Nel suo sincretismo, che gli permetterà di progettare, dapprima, la pubblicità della Olivetti, allestendo a Milano, tra il 1936 e il 1940 una rivoluzione anticipatrice della pop art, facendo coesistere la linea della grammatica visiva di Kandinskij e il dramma plastico di Consagra con gli automi, per poi fondare e dirigere la rivista «Civiltà delle Macchine», per Finmeccanica, in cui fondere la nuda polifonia del sapere scientifico con l’osmosi letteraria, come egli stesso afferma in una intervista a Ferdinando Camon del 1965:

«L’inverno del 1953, a Roma in un ufficio di Piazza del Popolo, quando io misi a fuoco il progetto di Civiltà delle Macchine […] la cultura dell’Occidente era rimasta incredibilmente arretrata e scettica nei confronti della tecnica, dell’ingegneria. Voglio dire che erano sfuggite alla cultura le scoperte di Archimede e di Leonardo, di Cardano e di Galilei, di Newton e di Einstein. Io volevo sfondare le porte dei laboratori, delle specole, delle celle. Mi ero convinto che c’è una simbiosi tra intelletto e istinto, tra ragione e passione, tra reale e immaginario. Ch’era urgente tentare una commistione, un innesto, anche a costo di sacrificare la purezza».

Successivamente, il suo desiderio di unità sincretica tra discipline confluirà anche nella direzione di «La botte e il violino», bimestrale dell’Eni di Mattei. L’inseguimento delle Muse cerca le ombre, i compagni che gridano a perdifiato, le monete rosse, l’ultima luce chiamata nella piena dei canali e le mani affondate nel grano in una tiepida suoneria, fino al ricordo intriso d’autunno che respira il vento di Porta Nuova. La terra, l’inquieto nomadismo, il reticolo memoriale di strade, luoghi, fiumi, città confluiscono in un perfetto squilibrio di tempo. Tempo arcaico, cosmico, ciclico, percepito in tutte le gradazioni affettive, come i rosei del rosa dolce delle case, la figura paterna, il mattino fondo e roco dell’essere.

È l’energia che strepita e che segna il territorio del suo immaginario vissuto nella percezione e nell’ingresso della natura «nelle nostre capsule, nelle parole e nei simboli, nelle lettere e nelle cifre. Ci entrano anche i pensieri. Entrano le formule semplicissime che regolano il mondo. Le equazioni di Einstein sono brevi come le formule dell’acqua e del sale. Dio è laconico».

E poi ancora, nella vita di transito del poeta «entrano in giuoco delle cariche di energia incommensurabili, che vivono magari per attimi infinitesimali e si consumano in un soffio. Tuttavia non sono i fenomeni del mondo fisico che possono offrirci qualche analogia di questi transiti, ma proprio alcuni fenomeni biologici cosmici e nucleari». L’energia di Sinisgalli è sì visiva e tattile ma è fatta di aria capovolta, che fissa l’immagine in una sproporzione che diviene «coscienza dello spazio terrestre» (Giuseppe Pontiggia), come afferma Augusto Ficele: «Sinisgalli sarà perpetuamente turbato dal fissare una grammatica speciale all’interno di capsule a cui sfuggiranno quei transiti celesti, quelle piume invisibili che irrobustiscono il cielo. Mobilita tutte le sue forze cognitive, non smette mai di indagare il vuoto, di tracciare tutte le possibili spirali del sapere, e se la matematica non si stanca di fabbricare ipotesi, la poesia scopre ciò che non esiste»: «Eri dritta e felice / Sulla porta che il vento / Apriva alla campagna. / Intrisa di luce / Stavi ferma nel giorno, / Al tempo delle vespe d’oro / Quando al sambuco / Si fanno dolci le midolla. / Allora s’andava scalzi / Per i fossi, si misurava l’ardore / Del sole dalle impronte / Lasciate sui sassi».

La Lucania di Sinisgalli appartiene al tempo remoto e arcaico della primigenia. Cadenza il ritmo favoloso della realtà, avverte tutta la sovrapposizione temporale attraverso l’indizio, la prova e il presagio di una rêverie al presente, laddove la terra abita l’esistenza in tutta la sua drammatica contemplazione di scena e scoperta di ambiente, come se si volesse possedere quello strappo, quella acrobazia dolorosa del quotidiano, quella memoria vitale che raccoglie cocci ed epigrafi, racconti e fiammelle, nell’aria sfatta dell’amore che, a fatica, scioglie nodi e segni perduti nella luna di settembre, per ricordare, sentire e indovinare:

«Lo spirito del silenzio sta nei luoghi / della mia dolorosa provincia. Da Elea a Metaponto, / sofistico e d’oro, problematico e sottile, / divora l’olio nelle chiese, mette il cappuccio / nelle case, fa il monaco nelle grotte, cresce / con l’erba alle soglie dei vecchi paesi franati. / Il sole sbieco sui lauri, il sole buono / con le grandi corna, l’odoroso palato, / il sole avido di bambini, eccolo per le piazze! / Ha il passo pigro del bue, e sull’erba, / sulle selci lascia le grandi chiazze / zeppe di larve. / Terra di mamme grasse, di padri scuri / e lustri come scheletri, piena di galli / e di cani, boschi e di calcare, terra / magra dove il grano cresce a stento (carosella, granoturco, granofino) / e il vino non è squillante (menta / dell’Agri, basilico del Basento!) / e l’uliva ha il gusto dell’oblio, / il sapore del pianto».

In La vigna vecchia, l’orma dell’urto con le cose si fa sempre più composita. Vi è ancora una primitiva forza che appartiene a una mitologia domestica che si spoglia indecifrabile, accostando «le concrete illuminazioni», come ha avvertito Giacinto Spagnoletti, alla «pluralità irreale delle visioni» (Oreste Macrì), innervando i rimbalzi di luce alla sua continuazione: la polvere, il quartiere sotto la collina, la vigna e il fondo degli alberi, il cratere spento, il freddo di aprile, il febbraio dolce e amaro, la memoria quasi fossile. Ma se con L’età della luna, il margine della imprendibilità della realtà, come un lungo appunto di postille puntuali, che omaggiano anche il taglio inciso di Fontana, fa convergere l’esattezza del verso nella prosa poetica e dimostrando il profondo attaccamento alla poesia, distaccata da ogni meccanizzazione e quasi sorvolando l’inaridimento dei luoghi (anche mentali), con Il passero e il lebbroso (1970) l’entità della sua vocazione poetica attesta lo sgomento e lo sconforto («Le parole non vengono sulle labbra, / solo un alfabeto da carcerati / parlato con le dita. / Tu ti penti di aver perduto / la vita per dovere. / Puoi trascorrere ore e ore / a guardare le foglie nuove. / Il mondo è lontano di là»), la lotta della non-poesia, per affermare l’ultimità dell’ars poetica, l’attrito alimentativo della concisione, il battito della felicità, presa per la coda:

«Bolsi sulla ghiaietta sotto gli olmi / ammirano le foglie / ancora verdi, trasparenti / a fine ottobre. / Non c’erano venuti mai / insieme in tanti anni. / Sono qui tutte le mattine alle undici / per consiglio dei medici. / Girano a passi piccoli, / il luogo non è immenso, / lo percorrono in un’ora / sempre nello stesso senso. / Quando stanno meglio / e possono camminare spediti / fanno una visita / al Museo di Storia Naturale. / guardano i mammut, i cristalli, / gli scheletri dei pesci e degli uccelli: / teste grandi come teatri, ossa / sottili come aghi. Siedono / sulla panchina davanti al lago».

L’anima di Sinisgalli diviene un volo sospeso e rappreso che fa tinnire le boccole contro i muri, che ricerca la parola unica e assoluta, e che assomiglia alla mosca che si posa e poi si discosta. Restano così le cose più insignificanti a sopravvivere, il dialogo d’inverno e il rito dell’amore bandito, rilasciato in un’ellisse di forza:

«Restano sempre le cose più insignificanti /  a sopravvivere / fourrures, souvenirs, / l’amante che ti morde l’orecchio, / il più sciocco, il più vecchio / ti gira intorno, ti guarda morire. / L’amore arrivò davanti a me / come un dannato. / Sceglieva per i nostri riti / le ore del mattino, / voleva essere strozzato in una gelateria vuota. / Sarebbe salito su un palco / nudo, alla gogna, / colpito da pietre e flagelli / senza dolore, senza vergogna. / Ma i banditi d’amore / vivono all’inferno. / Finchè vivo, finchè affogo / non brucerò il suo ritratto. / Parlerò col fuoco, parlerò col gatto / queste sere d’inverno».

L’ellisse vitruviana di Leonardo Sinisgalli tra la scienza e l’arte – Roma Cronache Lucane, 4 marzo 2020

Un litro e un pugno d’equilibrio artistico

di Guido Rutili 6 novembre  2019

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Certe opere richiedono uno studio attento, di altre basta conoscere titolo e autore, di alcune ci interessa l’ultimo dei riferimenti bibliografici; appunti e sintesi sostituiscono le più inflazionate, poi ci sono quelle che leggiamo in atteggiamento volutamente sognante, gli articoli e i quaderni, poesie d’avanguardia e sonetti classici, montagne di volumi, rilegature e fogli, raccolte lecite e segreti dossiers.

Librerie accessibili a chiunque e inaccessibili ai non autorizzati, ovunque si desideri, a patto che niente esca dalla nostra vita.

Il testo che non sfugge all’esistenza di un uomo sempre ci sarà (folle l’esistenza che rifugge il testo), e chi riesce a creare librerie universali nel proprio passaggio in questo mondo, fa parte degli argonauti della collettività, di coloro che scrivono nel genoma e arricchiscono il patrimonio universale della specie. Perché ciò si realizzi serve però la capacità di raccogliere un impulso, l’unica ed ultima concessione degli dei agli uomini caduti, ovvero la creatività, nell’altisonanza del termine, che la configura come capacità di
ricostruire la forma, a prescindere dai pezzi, ovunque si trovino sparsi.

Leonardo Rocco Antonio Maria Sinisgalli, polimorfo come un nome che lo proietta nel multiverso dello scibile compreso, duttile come il maestro Leon Battista Alberti che inaugura la prima pagina del Furor
Mathematicus, ineluttabile come la coppa disegnata da Lucantonio degli Uberti che fregia l’ultimo foglio del libro, c’insegna a essere in ogni opera letta, in ogni esperienza acquisita, in ogni algoritmo della mente e nel fulmineo flusso inconscio.

Senza sentire il tempo, simultaneamente.

Un evento quantico, come suggerirebbe quel Carlo Rovelli che ritrova il “Furor” nel proprio “Ordine del tempo”, che ci giunge alleviando l’onere di contare i minuti, troppo spesso pesanti nella legislazione della vita; per Sinisgalli l’ordine s’intesse sull’armonia, non sull’ascissa conologica.

In quel vuoto cartesiano, di cui non si sente alcuna mancanza, le coordinate sono paradossalmente ben identificate: l’autore vive in coerenza con ciò che scrive, per questo l’insalata scientifico-umanistica che propone ha un sapore indimenticabile, è una creazione da grande chef.

Sinisgalli sogna matematica e fisica all’Università, intanto pubblica poesie e s’intende d’azienda, salvo poi laurearsi in ingegneria meccanica col progetto di un motore per aeroplano leggero: quella ghisa che leggiadra prende il volo – cosa che a raccontarla farebbe ridere – nel contesto non ci scompone, anzi desta interesse, appare umile e realizzabile.

E qui si compie l’opera unificatrice nucleare di questo artista, capace di tramandare la geometria senza mai
chiamarne in causa le formule:

“L’inverno ci stringe d’assedio nella nostra solitudine. Il corpo è aspro e pulito: l’aria di certi giorni tersa più della falce. Nelle nostre stanze il fuoco ha questo crepitìo continuo, questo attizzarsi, questo mangiarsi il proprio cuore insaziabilmente. Quando eravamo ragazzi ci bastava, per scaldarci, un pezzo di brace raccolto nel cavo delle mani: vi soffiavamo fino a consumarlo col nostro fiato. […] Ci eravamo fatti del mondo l’immagine di un corpo duro che d’inverno ritrovava la sua rigida compattezza, il suo estremo di solidificazione sonora, contro cui la mazza batteva i suoi colpi e si alzavano ripe di sostegno alle frane, si scavavano mine nella roccia”.

Ogni interfaccia col cavo di quella mano rende il solido vivo al punto di ricollegarsi al corpo duro e compatto che può forgiare, non in una sterile danza di riga e squadra, ma nella pulsante cadenza dell’azione senziente e sognante, di chi le due cose sa intrecciarle bene: ecco che la geometria s’imprime come un lampo, per non decadere più.

L’autore lo sa, perciò conclude con un’affermazione tranciante:
“Nessuno ormai dubita dello stimolo che venne a Cartesio dal calore acido della stufa quando, in quel lontanissimo inverno, stendeva le prime miracolose pagine del Discorso”.

Mentre il saggio ci degna della propria presenza osmotica, il precettore sorveglia prestazioni in divenire, il santo frammenta intorno a noi parole infuse ed il maestro c’invita ad osservare l’orma dei propri passi, la figura che nel Furor Mathematicus riveste l’autore è quella del comandante solitario, le cui Moby Dick stanno dietro l’interesse che nutre per ogni flutto. Egli tramanda il fenomeno della curiosità causale senza ulteriore intento di renderci suo equipaggio, volendo leggere a chi ascolta un diario di bordo, suo unico e gradito compagno.

Certo che c’illumina, quando parla dell’attrito come “perdita con cui la natura si ripaga”, come contromisura per fare “di ogni fenomeno un avvenimento sigolare” che ci “toglie qualunque illusione di
perpetuità” e che incarna quel “residuo che dà l’avvertimento più certo della presenza della materia come degradazione, chiusura, ripetizione”. Non potrebbe essere altrimenti, poiché la sua freccia centra l’essenziale con una grazia inattesa, che deve sconvolgere, pena la rilettura coatta finché questo risultato non si verifichi.

Leonardo (solo il nome, nomen omen, di lui che come l’omonimo da Vinci fregia la copertina e poi la firma) soddisfa il limite di ogni ingegnere, raccontandogli finalmente come il giunto cardanico sia la geniale trasposizione in meccanica dell’opera organica compiuta da Dio, ma al contempo meraviglia il poeta, che si nutre affascinato non del concetto sotteso alle parole ma della permeanza dell’intelletto gravido d’eros con cui viene esposto.

Grazie a questa sua mirabile capacità non indispettisce, pur passando di lì al poco al “carciofo alla romana”, nella sfumatura con la quale esso s’innesta nel modello matematico di resa delle superfici complesse: in quel dialoghetto riportato i suoi eminenti interlocutori glissano ma il lettore no, e sorride compiaciuto al prodotto della mente che è passata oltre il calcolo differenziale, non senza averlo prima ben compreso. Se d’insegnamenti dobbiamo parlare quest’ultimo elemento mi è d’aiuto: raramente un testo sorprende per la ricchezza delle conoscenze che lo generano. Spesso un’opera di saggistica indugia in settori tecnici, come invece un bel romanzo parla del piacevole nulla, ma quasi mai si riesce ad odorare il nous generativo dell’opera, con la stessa attitudine che ci restituisce il profumo inconfondibile di casa.

Il Furor Mathematicus non viene mai meno, non delude né abitua anzi, in modo attento impedisce alla “mania di comprensione” di esplodere ed alla “frustrazione di non sapere” di sopraggiungere, in ritmo serrato e cadenzato: chiuderlo prima d’averlo reso inconsciamente proprio, è del tutto impossibile.

È un evento, come ho già detto.

Neanche il cambio psicoide, o solo futurista, del colore degl’intermezzi o la frammentazione dei pensieri randomici, cambiano il magnetismo della seduzione sinisgalliana.

Sono dapprima dialoghi, il cui carattere surreale presto diviene frugale e corroborante come un pasto domenicale, poi discorsi in prosa o aforismi della sera, versetti senza metrica che però s’incollano, in terribile risonanza, a qualcosa di ideico e già noto.

L’intermezzo tra i fogli grigi sorprende, e lo fa con la lama del ricordo; l’autore, quello della memoria che “s’intorbida quando la interroghiamo in un modo brusco o inatteso”, evidentemente sa contemplare immagini senza togliere loro il tempo di rinvenire nella forma.

È un ricordo consapevolmente illusorio e mai idealizzato, dove all’improvviso sorge la struttura dell’anatomia della mente, resa con capacità ritrovata e trasversale, degna di un vecchio professore in medicina che, abbandonata l’aula consueta dei bramosi, decide di dedicarsi ai poveri e i passanti di “là fuori”.

In qualche momento al lettore prende un tremito: qui c’è l’Albero di Porfirio! Gli occhi indugiano senza desiderare, è un meraviglioso viaggio quello in cui ci porta il “Furor”: nessuno vuole più scendere!

Sinisgalli è l’equilibrista che, calcolato il baricentro, s’accorge di camminare sul filo impossibile delle chimere della mente, che in piedi nel mondo non potrebbe stare, eppure da solo “tiene” il peso e la sostanza.

Insomma gli alchimisti non sono scomparsi, neanche nella contemporanea fuga da ogni cosa delle società, ormai apparentemente liquide e segretamente stremate dalle crociate contro i propri fantasmi: prova ne sono ancora i testi, non digitali frutti dell’albero “in cloud”, ma vecchie pagine che vogliamo ancora di colore diverso, perché diverse siano nel contributo alle nostre anime per sempre antiche.

Chiudere un libro, farlo con un ringraziamento nello scoprire che abbiamo nuovi occhiali per vedere ogni cosa, è un complimento per pochi pionieri di ogni futuro, senza che il calcolo delle probabilità che ne sancisce la mutevolezza spaventi più di tanto; ora quel libro chiuso è un’opera d’arte, che un uomo eccezionale ha reso patrimonio comune.

Leonardo Sinisgalli, Furor Mathematicus, a cura di Gian Italo Bischi, Mondadori, Milano 2019.

 

 

 

 

 

 

 

 

Pubblicato anche su “Roma – Cronache Lucane”, 6 novembre 2019

Un litro e un pugno d’equilibrio artistico, Roma Cronache Lucane, 6 novembre 2019