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Un litro e un pugno d’equilibrio artistico

di Guido Rutili 6 novembre  2019

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Certe opere richiedono uno studio attento, di altre basta conoscere titolo e autore, di alcune ci interessa l’ultimo dei riferimenti bibliografici; appunti e sintesi sostituiscono le più inflazionate, poi ci sono quelle che leggiamo in atteggiamento volutamente sognante, gli articoli e i quaderni, poesie d’avanguardia e sonetti classici, montagne di volumi, rilegature e fogli, raccolte lecite e segreti dossiers.

Librerie accessibili a chiunque e inaccessibili ai non autorizzati, ovunque si desideri, a patto che niente esca dalla nostra vita.

Il testo che non sfugge all’esistenza di un uomo sempre ci sarà (folle l’esistenza che rifugge il testo), e chi riesce a creare librerie universali nel proprio passaggio in questo mondo, fa parte degli argonauti della collettività, di coloro che scrivono nel genoma e arricchiscono il patrimonio universale della specie. Perché ciò si realizzi serve però la capacità di raccogliere un impulso, l’unica ed ultima concessione degli dei agli uomini caduti, ovvero la creatività, nell’altisonanza del termine, che la configura come capacità di
ricostruire la forma, a prescindere dai pezzi, ovunque si trovino sparsi.

Leonardo Rocco Antonio Maria Sinisgalli, polimorfo come un nome che lo proietta nel multiverso dello scibile compreso, duttile come il maestro Leon Battista Alberti che inaugura la prima pagina del Furor
Mathematicus, ineluttabile come la coppa disegnata da Lucantonio degli Uberti che fregia l’ultimo foglio del libro, c’insegna a essere in ogni opera letta, in ogni esperienza acquisita, in ogni algoritmo della mente e nel fulmineo flusso inconscio.

Senza sentire il tempo, simultaneamente.

Un evento quantico, come suggerirebbe quel Carlo Rovelli che ritrova il “Furor” nel proprio “Ordine del tempo”, che ci giunge alleviando l’onere di contare i minuti, troppo spesso pesanti nella legislazione della vita; per Sinisgalli l’ordine s’intesse sull’armonia, non sull’ascissa conologica.

In quel vuoto cartesiano, di cui non si sente alcuna mancanza, le coordinate sono paradossalmente ben identificate: l’autore vive in coerenza con ciò che scrive, per questo l’insalata scientifico-umanistica che propone ha un sapore indimenticabile, è una creazione da grande chef.

Sinisgalli sogna matematica e fisica all’Università, intanto pubblica poesie e s’intende d’azienda, salvo poi laurearsi in ingegneria meccanica col progetto di un motore per aeroplano leggero: quella ghisa che leggiadra prende il volo – cosa che a raccontarla farebbe ridere – nel contesto non ci scompone, anzi desta interesse, appare umile e realizzabile.

E qui si compie l’opera unificatrice nucleare di questo artista, capace di tramandare la geometria senza mai
chiamarne in causa le formule:

“L’inverno ci stringe d’assedio nella nostra solitudine. Il corpo è aspro e pulito: l’aria di certi giorni tersa più della falce. Nelle nostre stanze il fuoco ha questo crepitìo continuo, questo attizzarsi, questo mangiarsi il proprio cuore insaziabilmente. Quando eravamo ragazzi ci bastava, per scaldarci, un pezzo di brace raccolto nel cavo delle mani: vi soffiavamo fino a consumarlo col nostro fiato. […] Ci eravamo fatti del mondo l’immagine di un corpo duro che d’inverno ritrovava la sua rigida compattezza, il suo estremo di solidificazione sonora, contro cui la mazza batteva i suoi colpi e si alzavano ripe di sostegno alle frane, si scavavano mine nella roccia”.

Ogni interfaccia col cavo di quella mano rende il solido vivo al punto di ricollegarsi al corpo duro e compatto che può forgiare, non in una sterile danza di riga e squadra, ma nella pulsante cadenza dell’azione senziente e sognante, di chi le due cose sa intrecciarle bene: ecco che la geometria s’imprime come un lampo, per non decadere più.

L’autore lo sa, perciò conclude con un’affermazione tranciante:
“Nessuno ormai dubita dello stimolo che venne a Cartesio dal calore acido della stufa quando, in quel lontanissimo inverno, stendeva le prime miracolose pagine del Discorso”.

Mentre il saggio ci degna della propria presenza osmotica, il precettore sorveglia prestazioni in divenire, il santo frammenta intorno a noi parole infuse ed il maestro c’invita ad osservare l’orma dei propri passi, la figura che nel Furor Mathematicus riveste l’autore è quella del comandante solitario, le cui Moby Dick stanno dietro l’interesse che nutre per ogni flutto. Egli tramanda il fenomeno della curiosità causale senza ulteriore intento di renderci suo equipaggio, volendo leggere a chi ascolta un diario di bordo, suo unico e gradito compagno.

Certo che c’illumina, quando parla dell’attrito come “perdita con cui la natura si ripaga”, come contromisura per fare “di ogni fenomeno un avvenimento sigolare” che ci “toglie qualunque illusione di
perpetuità” e che incarna quel “residuo che dà l’avvertimento più certo della presenza della materia come degradazione, chiusura, ripetizione”. Non potrebbe essere altrimenti, poiché la sua freccia centra l’essenziale con una grazia inattesa, che deve sconvolgere, pena la rilettura coatta finché questo risultato non si verifichi.

Leonardo (solo il nome, nomen omen, di lui che come l’omonimo da Vinci fregia la copertina e poi la firma) soddisfa il limite di ogni ingegnere, raccontandogli finalmente come il giunto cardanico sia la geniale trasposizione in meccanica dell’opera organica compiuta da Dio, ma al contempo meraviglia il poeta, che si nutre affascinato non del concetto sotteso alle parole ma della permeanza dell’intelletto gravido d’eros con cui viene esposto.

Grazie a questa sua mirabile capacità non indispettisce, pur passando di lì al poco al “carciofo alla romana”, nella sfumatura con la quale esso s’innesta nel modello matematico di resa delle superfici complesse: in quel dialoghetto riportato i suoi eminenti interlocutori glissano ma il lettore no, e sorride compiaciuto al prodotto della mente che è passata oltre il calcolo differenziale, non senza averlo prima ben compreso. Se d’insegnamenti dobbiamo parlare quest’ultimo elemento mi è d’aiuto: raramente un testo sorprende per la ricchezza delle conoscenze che lo generano. Spesso un’opera di saggistica indugia in settori tecnici, come invece un bel romanzo parla del piacevole nulla, ma quasi mai si riesce ad odorare il nous generativo dell’opera, con la stessa attitudine che ci restituisce il profumo inconfondibile di casa.

Il Furor Mathematicus non viene mai meno, non delude né abitua anzi, in modo attento impedisce alla “mania di comprensione” di esplodere ed alla “frustrazione di non sapere” di sopraggiungere, in ritmo serrato e cadenzato: chiuderlo prima d’averlo reso inconsciamente proprio, è del tutto impossibile.

È un evento, come ho già detto.

Neanche il cambio psicoide, o solo futurista, del colore degl’intermezzi o la frammentazione dei pensieri randomici, cambiano il magnetismo della seduzione sinisgalliana.

Sono dapprima dialoghi, il cui carattere surreale presto diviene frugale e corroborante come un pasto domenicale, poi discorsi in prosa o aforismi della sera, versetti senza metrica che però s’incollano, in terribile risonanza, a qualcosa di ideico e già noto.

L’intermezzo tra i fogli grigi sorprende, e lo fa con la lama del ricordo; l’autore, quello della memoria che “s’intorbida quando la interroghiamo in un modo brusco o inatteso”, evidentemente sa contemplare immagini senza togliere loro il tempo di rinvenire nella forma.

È un ricordo consapevolmente illusorio e mai idealizzato, dove all’improvviso sorge la struttura dell’anatomia della mente, resa con capacità ritrovata e trasversale, degna di un vecchio professore in medicina che, abbandonata l’aula consueta dei bramosi, decide di dedicarsi ai poveri e i passanti di “là fuori”.

In qualche momento al lettore prende un tremito: qui c’è l’Albero di Porfirio! Gli occhi indugiano senza desiderare, è un meraviglioso viaggio quello in cui ci porta il “Furor”: nessuno vuole più scendere!

Sinisgalli è l’equilibrista che, calcolato il baricentro, s’accorge di camminare sul filo impossibile delle chimere della mente, che in piedi nel mondo non potrebbe stare, eppure da solo “tiene” il peso e la sostanza.

Insomma gli alchimisti non sono scomparsi, neanche nella contemporanea fuga da ogni cosa delle società, ormai apparentemente liquide e segretamente stremate dalle crociate contro i propri fantasmi: prova ne sono ancora i testi, non digitali frutti dell’albero “in cloud”, ma vecchie pagine che vogliamo ancora di colore diverso, perché diverse siano nel contributo alle nostre anime per sempre antiche.

Chiudere un libro, farlo con un ringraziamento nello scoprire che abbiamo nuovi occhiali per vedere ogni cosa, è un complimento per pochi pionieri di ogni futuro, senza che il calcolo delle probabilità che ne sancisce la mutevolezza spaventi più di tanto; ora quel libro chiuso è un’opera d’arte, che un uomo eccezionale ha reso patrimonio comune.

Leonardo Sinisgalli, Furor Mathematicus, a cura di Gian Italo Bischi, Mondadori, Milano 2019.

 

 

 

 

 

 

 

 

Pubblicato anche su “Roma – Cronache Lucane”, 6 novembre 2019

Un litro e un pugno d’equilibrio artistico, Roma Cronache Lucane, 6 novembre 2019

La mezzanotte vana di Virginia Woolf e Vita Sackville-West

di Andrea Galgano 26 giugno 2019/ 12-13 luglio 2019 “Cronache Lucane”

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LA MEZZANOTTE VANA DI VIRGINIA E VITA

L’amore tra Virginia Woolf e Vita Sackville-West, le cui lettere, dal 1924 al 1941, vengono pubblicate da Donzelli, in una elegante edizione dal titolo, Scrivi sempre a mezzanotte. Lettere d’amore e desiderio[1], a cura di Elena Munafò, con un saggio di Nadia Fusini, traduzione di Sara De Simone e Nadia Fusini, è un compendio di ardori e di sogni, segreti, intermittenze cifrate, ombre rifratte, intimità sognate e rarefatte:

«Perché se Vita pratica da tempo con nonchalance e senza pruderie una libertà sessuale che le permette di cogliere il piacere in contatti che indifferentemente la portano nel letto di un uomo, più spesso di una donna; se sa distinguere con chiarezza tra la passione travolgente che prova per la femmina d’uomo, e l’amore casto e volto alla riproduzione che vive con un maschio, il marito, di cui è profondamente amica; se, ripeto, Vita è una donna libera che distingue tra due diversi tipi di amore, quello casto, coniugale, e quello passionale; per Virginia è diverso. Virginia è sì una donna libera, indipendente, ma è anche una donna «sessualmente codarda», impaurita, insicura, che del corpo e del piacere sessuale non conosce l’ardimento. Ma quando incontra Vita, «la donna promiscua», ecco che, miracolo dell’amore, affiora in lei un’altra se stessa, e scopre di essere una donna che ama le donne. Sì, grazie alla saffica Vita, Virginia arriva a conoscere l’amour passion. Tardi, ma lo fa, e grande è per lei la sorpresa».[2]

Il respiro di queste pagine innerva una costellazione di libertà e visione. I sospiri, i viaggi di Vita assieme al marito diplomatico Harold Nicolson (Teheran, Sahara, America), le gratitudini indifese e il desiderio segnano cifre di pensieri avvolto, destinano la lettera a ritmare il sangue, rallentare distanze, narrare il territorio della propria finitudine espansa.

Come un incontro con la realtà più lontana, come la scoperta della proprio respiro vitale che riflette l’esistenza, la «comune progenie» della scrittura e delle sue scadenze, l’ancestrale gioia mistica e coribantica di una visita proibita, di una scintilla di occhi e di una stella immensa. Il loro luogo, nato nella differenza di età (Virginia aveva quarant’anni e scriveva Mrs Dalloway), si perpetua in una sceneggiatura di pudore, foga, segreto e passione.

È un amore che tocca la propria genesi, il proprio solco di energia e desiderio florido, di incarnato fulgido e virgineo, e che scrive la nostalgia e si orienta nelle tenebre, curando gli anditi della letteratura (che non diviene sterile esercizio ma tellurica materia da incidere), come sostiene Nadia Fusini,

«per darsi un appuntamento, per scusarsi dell’assenza, per rimproverarsi di un ritardo; e in ogni caso è l’amore della lingua, che trionfa. Il gusto dei soprannomi, la fantasia delle maschere di animali con cui si travestono, i sottintesi, le allusioni, i silenzi pudichi e le metafore ardite che inventano per dare corpo di parola alle loro emozioni, sono tutti qui, in bella evidenza, in queste lettere di due women in love, di queste due donne innamorate».[3]

La luminosa e remota vicinanza è stordimento di emozioni, voracità di bellezza, stordimento e paura.

«Sono ridotta a una cosa che desidera Virginia. Stanotte avevo composto per te una lettera bellissima, nelle ore insonni, piene di incubi, ma è tutta sparita: mi manchi e basta, in un modo piuttosto semplice, disperato, umano. Tu con tutte le tue lettere intelligenti, non scriveresti mai una frase così elementare; probabilmente non la concepiresti nemmeno in questi termini. Eppure credo che sentirai un piccolo vuoto. Ma lo apparecchieresti in una frase così bella, che finirebbe per perdere un po’ della sua verità. Mentre per me è totale: mi manchi più di quanto potessi credere; ed ero preparata a sentire la tua mancanza, parecchio. Così, in verità, questa lettera è solo un grido di dolore. È incredibile quanto tu sia diventata essenziale per me. Immagino che tu sia abituata a sentirti dire cose del genere dalle persone. Maledetta te, creatura viziata. Non riuscirò a farmi amare di più da te, scoprendomi fino a questo punto – ma tesoro mio, non posso essere furba e distaccata con te: ti amo troppo per farlo. Troppo sinceramente. Tu non hai idea di quanto posso essere scostante con le persone che non amo. Ne ho fatto un’arte sottile. Ma tu hai fatto a pezzi le mie difese».[4]

In quella incarnazione purpurea e femminile, Vita è l’insondabile piega opulenta della realtà, la donna che, proprio in quanto donna, porta con sé l’archetipo della possibilità. Essere primavera e splendore di tenebra. Virginia l’attende come un rovescio rorido di acqua bassa («Per favore, in mezzo a tutta questa baraonda, continua a essere una stella luminosa e costante. Davvero poche cose rimangono a indicare la strada: la poesia, e tu, e la solitudine[5], scriverà Vita a Virginia»), eterea intelligenza di cristallo e incanto, come un lungo abisso splendente e sacro che teme l’oscurità radente della sua amata e ne è pervicacemente avvinta, pur manifestando una sorta di distacco quasi febbrile. Un daimon: «Creatura carissima, era molto molto bella la lettera che hai scritto alla luce delle stelle a mezzanotte. Scrivi sempre a quell’ora, perché il tuo cuore ha bisogno del chiaro di luna per liquefarsi. Da qualche parte ho visto una pallina che continuava a saltare su e giù sul getto di una fontana: tu sei la fontana, io la pallina. È una sensazione che mi dai solo tu[6]».

Ma è lei a compiere il primo gesto sul divano che esplode nella stanza. Non c’è resistenza. Solo la prima unione e l’ingresso in un mondo nuovo. Le irresistibili e giocose metamorfosi di Vita e il desiderio per lei continuo e viscerale, quello che toglie l’anima e, allo stesso tempo, la fa diventare corpo. Vita è per Virginia un fuoco immenso che abita antiche epoche inoltrate:

«Il fascino per quel mondo antico c’entra con l’attrazione che prova per Vita. L’attrazione ha molto a che fare, le pare, con quella profondità storica che sente alle spalle di Vita. Ma c’è anche dell’altro, e di che altro si tratti, prova a spiegarselo. Si auto-analizza13: forse è per puro egoismo, per puro narcisismo che ama Vita: le piace l’idea di piacere a Vita. Ama non Vita, ma il fatto che Vita l’ami. Puro egoismo. Ma è un fatto, pur sempre un fatto che si tratta di un affair ardente, focoso, travolgente. E insieme innocente, giocoso. La verità incontrovertibile è che quando è con Vita si sente completamente e assolutamente felice. Si sente agile, sciolta, trasportata dalla sua energia, quasi fosse una pallina in acrobatico equilibrio sul getto di una fontana, o un bebè a cui venga offerto del latte zuccherato».[7]

Pietro Citati scrive:

«Virginia Woolf incontrò per la prima volta Vita Sackville-West il 14 dicembre 1922; e la invitò a casa sua a Richmond l’11 gennaio 1923, quando le fece visitare la Hogarth Press, la piccola casa editrice che apparteneva a lei e a suo marito Leonard. Da principio, Virginia era diffidente. Ma le piacquero moltissimo le gambe di Vita: quelle esili colonne o quelle betulle, che si slanciavano trionfalmente verso il tronco, piatto come quello d’ un corazziere. Le piacque il volto, simile a uva matura: il labbro sporgente, la peluria di pesca che velava l’incarnato della guancia: l’aria opulenta, la collana di perle, i brillanti, sgargianti colori dei vestiti; e le viole inumidite degli occhi. Quella donna risvegliava in lei l’impressione di un tempo molto antico: l’Inghilterra elisabettiana e shakespeariana, con i suoi castelli, i suoi cavalli, i suoi cani, le sue cacce a perdifiato, le sue passioni incandescenti».[8]

Per i quindici anni della loro storia, Vita e Virginia sono fuochi di stanze osmotiche. Nella lussuria incandescente e nella gioia umbratile, nella furia incendiaria e nella trasparenza centrale, e oltre le regole borghesi, vibra l’ignota destinazione del sangue e la protezione reciproca, in ogni luogo del possibile e dell’inviolabile, come una carezza insonne e perpetua: nella casa dei Woolf a Londra o nella campagna a Rodmell, nelle case di Vita, a Long Barn, Sissinghurst, nel castello di Knole o in Francia.

Vi sono assenze di «giorni sottolineati» e distanze che sembrano attese eterne («Non mi scrivi mai e la tua immagine s’è rimpicciolita nella distanza come l’ombra pallidissima della luna vecchia: ma proprio mentre Vita stava per svanire, è apparso un sottile spicchio d’argento, e ora pendi sulla mia vita come una falce[9]») , nomi-bestiari per ridisegnare il mondo, la forza di Eros che travolge, le infedeltà di Vita e la gelosia di Virginia (chiamerà le amanti di lei «letargiche ostriche oscene e lascive»).

Virginia ridisegna le linee del loro amore. Orlando è il deposito di un mutamento affettivo, la trama arguta e sottile di una linea nuova.

Nadia Fusini scrive:

«Virginia, la scrittrice, prova a slacciarsi dai lacci della seduzione, grazie alla potenza dell’unico potere che è suo, quello dell’immaginazione creativa. S’inventa la «sua» Vita. Sostituisce Mrs Nicolson con una creatura di sua invenzione, ne fa un doppione, un golem infinitamente più affascinante della persona umana. Il personaggio di Orlando è questo. È la Vita di Virginia. Tutta sua. Trasformandosi in un redivivo Minnesänger, Virginia canta l’amata in quella «fantasia» scherzosa – quel divertissement sublime che è Orlando, dove con eccelsa ironia attacca gli stereotipi di genere e descrive le avventure di un personaggio, che è Vita, che nasce maschio nel Cinquecento e diventa femmina nel Settecento e attraversa con scanzonata allegria i secoli, fino al 1928, anno della pubblicazione del romanzo».[10]

Irene Battaglini afferma:

«Non ci sono presupposti morali sufficienti per stabilire se un amore sia autentico oppure no; a maggior ragione non è possibile stilare un codice di trascrizione psicoanalitica dell’amore, che è e deve restare un mistero nell’enclave intrisa di segreto e di simbolo, secondo una chiave di decrittazione nota – solo, e forse neppure a loro stessi – agli amanti. Tuttavia un così ricco e colto, ironico e smascherato, ricorso all’eros per fare della letteratura il cuore trascendente tra Vita e Virginia, può essere anche ricollocato in una lettura di transfert, con la dovuta delicatezza, con il rispetto per quel segreto inespresso, che si è avvalso della metafora epistolare per essere non tanto detto, quanto mostrato, tra le maglie sgranate di un tempo in cui il dialogo amoroso tra due donne era da considerarsi un segno chiaro di eversione, di devianza sociale. Per questo Virginia sceglie la strada della speculazione letteraria, mentre Vita la via del potere e della seduzione. Lo scenario tra Vita e Virginia è solo apparentemente saffico. È almeno parzialmente legato all’evocazione di un transfert plurimo e condensato, in cui maschile e femminile non sono che versanti di un grande archetipo primigenio, di un amore primario che sembra più vicino ad uno stadio avanzato della seduzione narcisistica di Racamier tra madre-figlia, oltre che alla matrice – edipica, incestuale? – di un attaccamento più o meno declinato intorno alla dialettica oggettuale tra distanza-avvicinamento, tra evitamento ed accostamento, tra eccitazione e gratificazione, in un desiderio riconosciuto e chiesto, ma mai esploso, mai confermato dalla parola chiara: ma sempre sotto lo scacco della rivelazione ai limiti del possibile (oltreché del concesso). È questo che rende a tratti perverso un elemento che sarebbe altrimenti carico di bellezza e poesia, di Amore: il non-sapersi dire a loro stesse, in un tra-noi che rinuncia alla metafora ellittica. Il non sapersi dire amanti, ma solamente sfiorati dall’amore, che sembra invece un giocare un ruolo di sfondo, di orizzonte. Un forse verso il destino, attratto dalle vele di un vento sempre e solo immaginato, che non porta a navigare ma a tessere, issare, calare le vele senza mai solcare la rotta: un mare che così, non può tradire. Ad una lettura profana, è Virginia a cadere nell’inganno della donna di mondo Vita, abile manipolatrice delle pulsioni erotiche di femmine acerbe e opportuniste che mettessero in risalto la sua bellezza androgina e sovrana. Ma Virginia sa bene di essere sola, di essere oggetto di quelle pulsioni e contenitore regolativo, e lo fa attraverso un discorso interno in cui Vita è presa a prestito dal suo genio letterario, per rendere omaggio nelle sue opere non tanto a Vita (e ai suoi tentativi goffi di elevarsi ad amante di rango di una delle più grandi scrittrici del suo tempo) quanto all’Amore Perduto, per la madre che nel cuore non ebbe mai, forse, quel linguaggio di amore che Vita spacciò per oscena tenerezza. Per questo, parafrasando Emily Dickinson, non si può dire che questo amore sia stato vano».[11]

Le fughe, gli allontanamenti, le riappacificazioni sono materia vivente anche sotto le bombe, tra doni di burro dal sapore di rugiada e miele e patè, e quello mancato dei pappagallini che lasciano. Il cuore dell’esistenza è fatto di mani, però, che si avvicinano e si raggiungono, fino all’ultimo e all’acqua gelida dell’Ouse: «Mi hai dato tanta felicità» e Vita, subito dopo, le scrive, come penna strappata al cigno:

«Tesoro, quanto mi ha commossa la tua lettera stamattina. Mi è quasi caduta una lacrima dentro l’uovo in camicia. Le tue rare dimostrazioni d’affetto hanno sempre avuto il potere di emozionarmi moltissimo e – siccome suppongo che in questi giorni siamo tutti un po’ tesi (più che altro inconsciamente) – oggi mi arrivano in picchiata, dritte al cuore, come un proiettile che sbatte sul tetto. Ti amo anch’io. Lo sai».[12]

[1] Woolf V. – S. West V., Scrivi sempre a mezzanotte. Lettere d’amore e desiderio, a cura di Elena Munafò, con un saggio di Nadia Fusini, traduzione di Sara De Simone e Nadia Fusini, Donzelli editore, Roma 2019.

[2] Fusini N., Due donne in amore, in Woolf V. – S. West V., Scrivi sempre a mezzanotte, cit., p.9.

[3] Id., cit., p.9.

[4] Lettera di Vita a Virginia, 21 gennaio 1926, Milano, spedita da Trieste; infra, p. 63.

[5] Lettera di Vita a Virginia, 8 gennaio 1926, Long Barn; infra, p.62.

[6] Lettera di Virginia a Vita, 7 ottobre 1928; infra, p.176..

[7] Fusini N., cit., p.17.

[8] Citati P., Il mio amore con Virginia Woolf, in “La Repubblica”, 27 agosto 2002.

[9] Lettera di Virginia a Vita, 29 dicembre 1928; infra, p.180.

[10] Fusini N., cit., p. 19

[11] Battaglini I., Commentari e Lezioni di Psicologia dell’Arte, Scuola di Psicoterapia Erich Fromm, Prato – Padova, a.a.  2018-2019.

[12] Lettera di Vita del 1° settembre 1940; infra, p. 249.

Woolf V. – S. West V., Scrivi sempre a mezzanotte. Lettere d’amore e desiderio, a cura di Elena Munafò, con un saggio di Nadia Fusini, traduzione di Sara De Simone e Nadia Fusini, Donzelli editore, pp. 304, Euro 24,00.

 

Woolf V. – S. West V., Scrivi sempre a mezzanotte. Lettere d’amore e desiderio, a cura di Elena Munafò, con un saggio di Nadia Fusini, traduzione di Sara De Simone e Nadia Fusini, Donzelli editore, Roma 2019.

Battaglini I., Commentari e Lezioni di Psicologia dell’Arte, Scuola di Psicoterapia Erich Fromm, Prato – Padova, a.a.  2018-2019.

Benini A., Lettere rubate, in “Il Foglio”, 23 marzo 2019.

Bentivoglio L., Cara Virginia, Scrivimi ancora, “ La Repubblica – Robinson”, 12 maggio 2019.

Citati P., Il mio amore con Virginia Woolf, in “La Repubblica”, 27 agosto 2002.

Franco T., Strappa una penna al cigno!, in “Il Sole 24ore”, 9 giugno 2019.

Marzi L., Se sapessimo tessere il tempo, in “Letterate Magazine”, 20 maggio 2019.

Pigliaru A., Vita e Virginia, nel cuore delle parole, in “Il Manifesto”, 15 maggio 2019.

Hiroshige “il fluttuante” oscilla sull’onda di Hokusai nel tramonto immoto della natura

di Irene Battaglini

Scuderie del Quirinale. Roma, 27 maggio 2018

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Delle ali e un altro apparato per respirare che ci permettessero di attraversare l’immensità degli spazi, ci sarebbero inutili, perché se salissimo su Marte o Venere conservando gli stessi sensi, questi rivestirebbero dello stesso aspetto delle cose della Terra tutto quello che potremo vedere.

L’unico vero viaggio, l’unico bagno di giovinezza, sarebbe non andare verso nuovi paesaggi, ma avere altri cento occhi, vedere l’universo con gli occhi di un altro, di cento altri, vedere i cento universi che ciascuno vede, che ciascuno è.

Proust, La prigioniera

Il corollario al dilemma del prigioniero, detto di AIE (dai nomi dei tre docenti universitari che lo teorizzarono nel 1988 Astegy, Inglot e Elghi) prevede sempre che uno dei due tradisca l’altro.

La mostra dedicata a Utagawa Hiroshige (Edo, 1787-1858) si apre chiudendosi dietro le tende dai colori spenti e immobili che fanno da sostegno silenzioso al continuo avvicendarsi, in una tensione estrema, di figura e sfondo.  I primi grandi quadri rimandano, in un gioco obliquo e sinestesico tra tinta e spessore, a quella carta porosa e calda, acquattata sotto piccole pile di taccuini accanto agli inchiostri cromati del grande incisore giapponese, noto come tra i più grandi artisti del Mondo Fluttuante.

Dai kimono agli arazzi, dai più piccoli rettangolari e secchi a quelli maestosi e regali, tutti sono orditi torbidi, opachi e muti, e non hanno l’ironia leggendaria di Katsushika Hokusai (Edo, 1760-1849): alludono, senza dire, ad un mondo che non ha alcuna intenzionalità descrittiva, tranne quella di ritrarre se stesso, sottraendosi allo sguardo, che resta forcluso al desiderio (che necessita dell’oggetto “reale”) dello spettatore girovago perché privato della profondità apparente e ingannevole della prospettiva culturale occidentale, che è anche la prospettiva geometrica nella pittura più “realistica” sancita da Giotto e Lorenzetti, che le sottraggono la tensione intrinseca tra trascendenza e immanenza, ancora presente nell’arte astraente dei bizantini, degli antichi. Lo spettatore quindi è catturato all’interno di un discorso labirintico, tra occhio e spirito, tra volontà e rappresentazione, in senso stretto e in senso lato privo di punti di fuga, di quella struttura geometrica vorrebbe tendere a infinito attraverso la proiezione dell’occhio sugli oggetti, e dunque un mondo elusivo e piatto.

L’Ottocento pittorico giapponese non è senza profondità in termini di auto-denuncia, ma sta in una condizione di rinuncia (che incontriamo nella struttura dell’Iki[i]), una posizione di “castrazione” necessaria allo sviluppo di un pensiero simbolico che si astiene dalla cattura proiettiva, e si sommette in osservazione del mondo interiore lacerato dalla ferita del segno lasciato dal di-segno: uno sguardo in ascolto, latore di una quiete aperta, di una negative capability che non a caso Freud stigmatizzò riducendola alla celebre espressione di “attenzione fluttuante”.

Sono la neve, gli acquazzoni, i vapori lungo i canali e dietro i santuari a dire del cuore autentico di Hiroshige. I ciliegi, gli argini delle “Dieci vedute di Edo” (l’attuale Tokyo) dipinte da Hiroshige mentre il contemporaneo e più famoso Hokusai lavora alle “Trentasei vedute del monte Fuji” consacrano l’artista al teatro drammatico della “sospesa presenza”, quasi a voler trasporre il mondo ideale della porta senza porta nel mondo – ancora immobile nella sua identità stilistica – della natura giapponese dell’800.

Che si tratti di “osservazioni sparse sulla bellezza della natura”,[i] o di percorsi ideali e limpidi, animati da un Ki [ii]  disciplinato dalla struttura estetizzante dell’Iki – seduzione, energia spirituale, rinuncia – è il dilemma che abita entrambi i giapponesi, prigionieri di un gioco in cui ciascuno tende all’altro, simbolizzandolo in un pensiero che perpetua il gioco stesso in una geometria esponenziale.

I due protagonisti, Hiroshige e Hokusai, assomigliano ai due prigionieri costretti in due mondi che non comunicano direttamente, eppure ciascuno dei due si rapporta all’altro, in un rimando di specchi e di identificazioni, di colpi e contraccolpi di onde che si abbattono sui monti – come se un’onda potesse realmente tangere il monte, nel suo versante visibile, come se l’onda fosse la parola piena, la verità del dio rivelantesi, l’enigma per eccellenza, spiegando così come la Teoria dei Giochi dei due straordinari prigionieri (condannatisi al silenzio per non consegnare alla parola “data” il loro genio espressivo) puntasse ad un fine più alto, e per questo contemplasse il tradimento degli stilemi senza opporre l’argomento della fedeltà di laboratorio. Scrive Nicola Gardini:

Che enigma e verità si rispecchino a vicenda è già affermato in un celebre frammento di Eraclito: “Il signore che ha oracolo a Delfi non dice né nasconde ma rivela” (fr. 93). Lo stesso verbo [rivela], nella forma dell’infinito, è impiegato nell’Edipo re di Sofocle. […] Qui il verbo indica chiaramente la “rivelazione” di un certo sapere. Alla luce del testo sofocleo il termine “enigma” acquista in precisione: l’enigma è l’espressione linguistica di una verità terribile. Non a caso questa è pronunciata per conto del dio terribile per eccellenza: Apollo.[iii]

Le silografie policrome si nutrono di quel Blu d’Oltremare che impedisce allo spessore di fondersi con il respiro del cielo, come dovrebbe accadere solitamente agli acquerelli. “Il Pino della Luna” è una proboscide del monte tesa verso il cielo, quanto il fiume Tama è il solco che attraversa la terra inerte: i “Ciliegi in Fiore” diventano sontuosi ombrelli per timidi villeggianti – a cui fanno una vuota eco, tutta in Ombra grazie al controsole estremo della Francia neoimpressionista – i Bagnanti ad Asnières di Seurat.[iv]

E così come l’alba è a-prospettica almeno quanto il ponte di Azuma, così “Il giardino dei susini” è la metafora di un ramo che in primo piano diventa tutto: occhi-colore-orizzonte.

Hiroshige è l’incisore giapponese più influente dopo Hokusai, ma da questi si distingue per la ricerca di una recondita armonia tra finitezza del disegno e infinitudine dello sguardo, e di conseguenza è considerato meno dirompente e iconico, tuttavia capace di una astensione estesa, muta non per invidia del lemma, ma per aver scelto una via più di rinuncia che di seduzione all’interno dell’equilibrio perenne dell’Iki. Monet e Van Gogh ne trassero un dettato sintattico che fecondò di chiarezza interiore il loro occhio naturale.

Le “Cento vedute di luoghi celebri di Edo” descrivono, come un grande catalogo scomposto lungo il ciglio delle arterie, la mappa urbanistica di Edo, la città imperiale, avente per centro il Cigno-Pellicano e per confine la grata che si lega all’orizzonte con l’ultimo tempio di Ryogoku. “Kameido. Lo spazio antistante il santuario di Tenjin” (1856) è un chiaro esempio di sovvertimento dell’ordine interno al disegno. È il grande ponte a descrivere lo spazio (ma anche a raggiungere lo spettatore), anche se è eclissato parzialmente dalle propaggini floreali. Il santuario è un elemento dello sfondo, al pari di una capanna, una allegoria della poetica architettonica dell’umiltà delle cose grandi. Scrive il filosofo Suzuki (che lavorò con Erich Fromm a Psicoanalisi e Buddismo Zen):

Si può comprendere quanto i giapponesi amino la natura, a dispetto della loro recente adesione all’idea di una sua “conquista”, quando si tratta di costruire uno studio o una stanza per la meditazione in un bosco di montagna. […] Vista da lontano, questa capanna costituisce una posizione insignificante del paesaggio, ma al tempo stesso sembra farne parte. Per nulla appariscente, è come se appartenesse alla composizione generale del panorama. […] Una capanna costruita con questi criteri è parte integrante della natura e chi siede al suo interno è un oggetto naturale, come tutti gli altri: non è diverso in nulla dagli uccelli che cantano, dagli insetti che ronzano, dalle foglie che ondeggiano, dalle acque mormoranti, neppure dal monte Fuji, che si profila in lontananza dall’altra parte della baia. […] Un edificio grandioso è troppo appariscente per trovarsi in sintonia con gli elementi naturali circostanti. Certo, è possibile che in tal modo risponda a determinate esigenze pratiche, ma è del tutto privo di poesia.[v]

Ma andiamo rapidamente a ritroso, muoviamoci all’interno del percorso come si fa in un sogno, o lavorando con un sogno. All’inizio i disegni a pennino, come le parodie umoristiche delle ombre cinesi, le cronache, i tributi, i personaggi letterari e storici esprimono tutto il virtuosismo talentuoso di Hiroshige. I bellissimi trittici emanano la forza, la determinazione del segno e del cuore dell’artista che fu appassionato e polemico, e anche giovane e oppositivo.

Le verdi risaie, i suoni della pioggia, i tramonti in cui la rugiada cade con il peso solenne dell’uragano, cedono il passo allo slancio violento e sublime, virile e al tempo stesso divino, degli azzurri indomiti di un Giappone visionario, scontornati solo dal rosa e dal nero, dal senape e dall’arancio, che è tuttavia rosso emulsionato dal di dentro, come nelle “Cinquantatré stazioni di posta del Tokaido”. Scrive ancora Suzuki:

Il Giappone ha un territorio prevalentemente montuoso, sono poche le pianure e il Musashino dove sorge oggi la capitale del paese, è una delle più vaste. L’imperatore, che con ogni probabilità non aveva mai lasciato la sua Kyoto cinta da montagne, era curioso di sapere quanto fosse vasto il Musashino. Lo chiese quindi a Dokwan,[vi] che rispose con questi versi:

Non si vedono gocce di rugiada attorno alla mia capanna,

anche se un temporale estivo è appena passato

sulla pianura di Musashino.

Ben più vasta deve essere delle nubi gonfie di pioggia.[vii]

Ad un certo punto, come probabilmente fu per l’imperatore Gotsuchimikado, lo stupore e il desiderio si librano dallo sguardo dell’annoiato flâneur. L’esercizio calligrafico diventa bellezza senza respiro, in un “troppo” di conversione lungo la strada di Kiso.

Al solo sfiorare il mare di Satta, la schiuma di Hiroshige ingaggia un duello a scacchi con la “Grande onda di Kanagawa” firmata da Hokusai, e senza tema di incontrare lo sguardo tagliente del pittore maestro di ogni azzurro d’Oriente, ne diviene assiomatico controcanto, vi fluttua aderendovi, godendone della strabiliante forza paterna, della sua energia oceanica primigenia, trasformandosi in un Nettuno che abilmente ne domina l’oscillante negligenza. Maschile e femminile diventano qui principi non in opposizione ma in una straordinaria commistione tra dionisiaco e apollineo, vincendo con la significazione la sfida del dilemma del prigioniero. L’onda ambivalente di Hokusai si fa terrore oceanico vestito di bianco e di azzurro ed è una forza ctonia, un mare di roccia; il gesto di Hiroshige si fa flutto mercuriale e danza con Atena, signora della pioggia e dei fiumi, femminile mai lezioso ma saggio, di vita che si aggiorna nel fare, e che come Musashi mostra, senza sfoderarla, la katana del pensiero che si fa atto.

La natura acquatica di Hiroshige è fatta di peonie, gru, grandi pesci, che gareggiano con i draghi tra le nuvole tratte da un bianco – un frutto senza buccia – del gesto calligrafico che incide la carta e il bambù o la tavoletta di ciliegio, varcando infine la soglia scevra di porta, ma spesso sostando oziosamente tra figura e calligramma, come un ideogramma in controluce assomiglia a un’anima polivagale, una figuretta di carta velina, su cui solo l’artista può contrarre il limite definitorio con il suo virile accento. Lo spettatore, liberato dal suo disegno precursore prospettico, può fluttuare così dolcemente, ancorato all’abile remo di Hiroshige.

 

[i] Cfr.: A. Schopenhauer, Il mondo come volontà a rappresentazione, supplementi al Libro terzo: Il mondo come rappresentazione. Seconda considerazione: “L’idea platonica: l’oggetto dell’arte”, cap. 33.

[ii] Il concetto orientale di ki è di difficile definizione. In Giappone, tale termine è usato quotidianamente a partire dall’instaurarsi della cultura cinese. Il ki esprime il concetto delle energie fondamentali dell’universo, di cui fanno parte la natura e le funzioni della mente umana.

[iii] Nicola Gardini, Lacuna. Saggio sul non detto. Torino: Einaudi 2014, p. 135.

[iv] Une baignade à Asnières è un dipinto del pittore francese Georges Seurat, realizzato nel 1884 e conservato alla National Gallery di Londra.

[v] Daisetz T. Suzuki (1959), Lo zen e la cultura giapponese. Milano: Adelphi 2014, pp. 270-273.

[vi]  Cfr. Ota Dokwan, poeta-soldato, generale del XV secolo.

[vii] Daisetz T. Suzuki (1959), Lo zen e la cultura giapponese. Milano: Adelphi 2014, p. 273

[i] Nel Giappone del periodo Bunka-Bunsei (1804-1830), questa parola veniva usata per definire l’ineffabile fascino della geisha, il suo stile sprezzante ma accattivante, ammiccante ma riluttante, improntato a sensualità e rigore, inflessibilità ed eleganza. Cfr. Kuki Shuzo, La struttura dell’Iki. Milano: Adelphi 1992

ATENA: L’intelligenza del cuore e la forza del carattere

di Irene Battaglini 11 marzo 2018

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Il contributo appoggia uno sguardo “al femminile” sulla donna Atena nel mito di Atena, come ad esempio il sapersi muoversi all’interno di uno spazio relazionale che oscilla tra la Necessità (Ananke) di individuare un modo di essere-nel-mondo e la Creatività che si esprime nel dono e nel gesto di una sapienza industriosa (da cui l’attributo ergane), attraverso una vera e propria rinuncia al potere sessualizzato, e che appare come una chiamata mistica e contemplativa sublimata nell’arte della strategia militare, attraverso l’adozione di un sofisticato assetto difensivo e valoriale. (L’articolo è il primo di una serie di lavori dedicati al “femminile” intrapsichico e relazionale, nelle sue infinite declinazioni, in pubblicazione nel 2019 sotto forma di saggio).

Questa intelligenza dell’immaginazione risiede nel cuore: l’espressione «intelligenza del cuore» connota l’atto di conoscere e amare simultaneamente per mezzo dell’atto immaginativo. Se tale filosofia è un evento del cuore, gli eventi del cuore possono essere concepiti come eventi filosofici. Il lavoro del cuore è pensiero immaginativo, anche quando si presenta sotto le vesti di filosofie che sembrano senza immagini e senza cuore.

J. Hillman, L’anima del mondo e il pensiero del cuore

Il mondo della pluralità degli dei elimina il dualismo perché espande se stesso in un universo di pluralità.

Panella, S. Zanobetti, Pierre Klossowski. Ritualità e mitologia. Tra verità del simulacro e realtà del mito

Atena è in Omero personaggio “vivo”, vicino all’uomo e alla donna della polis, e per questo oggetto di molte attribuzioni a carico della sua personalità, dovute alle storie e alle gesta di cui è stata protagonista nell’epoca che precede l’imposizione monoteistica giudaico-cristiana; per parlare del suo mito in termini di “psicologia dinamica”, occorre rifarsi necessariamente alla storia del personaggio, ai fatti più o meno veritieri che sostanziano la sua, per così dire, anamnesi. Qui ci apprestiamo, quindi, a rileggere la storia di Atena con il suo modo soggettivo di essere nel mondo, un mondo, connotato dal potere del Dio che è anche il padre Zeus, nel quale la giovane dea solare non ha potuto sviluppare un tempo in cui non c’è il tempo, il tempo della gratuità dell’amore parentale, il tempo eterno del Puer. Nonostante il connotato di eternità, la Dea sviluppa secondo la visione della psicologia archetipica di Jung e Neumann – che ben si coniuga con un’antropologia classica antecedente ai lavori di Gimbutas – e con la psicologia di un mondo in cui la Dea, sia per ragioni di stato sia di economia mitografica, è tenuta a servire il potere quanto a servirsene.

La storia del mito di Atena si inscrive da millenni nella psiche dell’uomo e della donna del Mediterraneo e delle terre che vi si affacciano, tracciando un solco filogenetico che unisce Medio Oriente, Magna Grecia, popolazioni italiche, e invasori indoeuropei. Culture che intrecciandosi hanno sviluppato un mito metastorico in parte rimosso, poiché, se è vero che Atena appartiene ad un potente e virulento ordine titanico, è altrettanto vero che “rappresenta” (in ordine a un concetto di rappresentazione che non appartiene alla capacità rappresentazionale, ma alla sintesi dei contenuti simbolici e semantici che siamo soliti attribuire ad un’icona) le qualità intellettuali, sia dell’uomo sia della donna (infatti la Dea era la protettrice delle arti femminili), unite a quelle di guerriera saggia. Una stratega, diremmo oggi, sotto le cui vesti si nasconde la forza, ma dal cui cuore scaturisce il dono estetico. Atena era chiamata a prendere decisioni in un mondo di uomini, che vi si affidavano perché custodisse i tribunali. Dunque dea della giustizia, o della conservazione del potere istituzionale, affinché non fosse preda degli istinti di sopraffazione di piccoli gruppi? Tuttavia Atena diventa dea della “saggezza” anche per non disperdere i doni ricevuti dalla madre Metis, la Prudenza.[1]

Anche se alcuni studiosi hanno visto in Atena una personificazione della pioggia, sembra più probabile che fosse in origine associata alle tempesta e che fosse la divinità dei fulmini, a cui è possibile ascrivere l’origine e la funzione dell’egida, il suo attributo classico, e il suo epiteto come “Dea dagli occhi brillanti.  È venerata tra le grandi divinità nella sua qualità di dea-guerriero, come dea delle arti, della pace e come dea dall’ intelligenza prudente.

Il “carattere” della Dea va collegato all’idealizzazione delle donne di Sparta di condizione sociale elevata: dovevano essere atletiche, combattive, forti e sagge. La Dea è nata dalla testa del padre Zeus, è quindi “tutta del padre”, con un carattere bellicoso, al punto da saper maneggiare la folgore di Zeus, con la quale uccide Aiace Oileo. Tuttavia, per contrasto, il culto femminile di Atena è attestato in Grecia e Magna Grecia dai numerosi ex voto ritrovati presso i templi; la dea viene anche invocata come protettrice delle nascite e dei bambini, in collegamento con il mito di Erittonio, suo figlio adottivo. Ad Atene, nella processione annuale delle feste Panatenaiche veniva donato alla statua della dea un prezioso peplo tessuto dalle fanciulle della città.[2]

Possiamo dire senza tema di errore che la Dea racchiude in sé qualità contraddittorie, che hanno una probabile scaturigine nel conflitto psichico della sua personalità di fanciulla privata delle cure materne, il cui sviluppo viene affidato al logos, alla dimensione Apollinea del divino, non senza far ricorso ad una aggressività che se da una parte le permette di “sopravvivere” in un olimpo di Dei “maschili”, dall’altra le impone la scelta di restare vergine, ovvero di non essere fecondabile da un maschile diverso da quello endo- gamicamente recepito dal padre. Lo stesso Erittonio,[3] figlio adottivo, è frutto di un’unione spuria di Atena con il fratellastro Efesto,[4] lo stesso Dio che le permise di nascere “spaccando” la testa dolorante al padre. Efesto è un Dio reietto, brutto e storpio, rifiutato dalla madre Era, ma dotato di competenze tecniche ineguagliabili. Ne consegue che se volessimo dare una interpretazione sommaria di queste dinamiche delle relazioni familiari, potremmo dire che Efesto e Atena rappresentano una coppia di orfani – precocemente parentificati – che al pari di Hansel e Gretel colludono nel rimanere invischiati all’interno di una famiglia dominata da genitori autoritari – o abbandonici – e sadici e che, sebbene apparentemente “allargata”, è scarsamente empatica con la prole, che viene asservita a soddisfare i bisogni narcisistici del genitore.

Questo naturalmente consente al mito di rinforzarsi intorno ai nuclei centrali patognomonici,[5] poiché sappiamo che l’integrazione delle parti scisse della personalità implicherebbe una “normalizzazione” che ne indebolirebbe la capacità simbolica e nello stesso tempo ne vanificherebbe la funzione scenica, rappresentazionale. La psicopatologia dell’archetipo, che sembra intagliata intorno a criteri classificatori a se stanti che definiscono lo psichismo specifico del Dio e gli conferiscono qualità immaginativa, consente quella messa in atto della teoria esplicativa di una visione del mondo utile all’uomo della polis per orientarsi, per cercare risposte, per apprendere un nuovo comportamento. Il Dio privo di difetti e di tratti psicopatologici muore, come sostiene Hillman in un lavoro del 1974, La vana fuga dagli dei, in cui è presente una corposa trattazione del rapporto tra Atena e Ananke, la Necessità, generatrice delle Moire, deputate a intessere il filo del fato di ogni uomo intricato a quello della sua condizione iniziale, descrivendo una traiettoria di ineluttabilità, frammista a morte, violenza, oscurità. Una qualità, la necessità, prettamente umana, che rende assai difficile l’idealizzazione trascendente del Dio, che è invece una qualità che acquisirà soltanto con l’avvento giudaico-cristiano. Emerge, quasi a fare il verso alla nuova criminologia, la Triade Oscura, connotata dai tre grandi tratti psicologici del male. La triade oscura delle personalità è un gruppo costituito da tre tratti comportamentali: narcisismo, machiavellismo, e psicopatia, tre strutture correlate ma indipendenti tra di loro, differenti l’una dall’altra e che a volte condividono elementi con altri tratti psicologici.[6] Nulla di più simile e più vicino alle tre figlie di Ananke, nulla di più intrecciato intorno ad Atena a costellarne l’Ombra.

Atena, il cui Io dotato di splendore regale, apollineo e portatore di Logos deve fare i conti con il male “estromesso”, sperimenta il rischio di uno stato limite che non viene mai raggiunto. Se André Green sostiene che nello stato limite il male è funzionale alla coesione narcisistica,[7] con Atena siamo in un funzionamento di alto livello, una forma specifica di psicopatologia su cui Kernberg ha lavorato con Eva Caligor e John Clarkin, definendola “lieve disturbo della personalità”, ovvero di una vita psicologica organizzata intorno a modelli relazionali interiorizzati, indicati con il termine relazioni oggettuali. È illuminante Maria Campolo[8]:

La differenza fra dei e uomini si coglie innanzi tutto in rapporto alla necessità. […] Era destino che da Meti dovessero nascere due figli estremamente saggi: Atena, la fanciulla simile al padre per coraggio e saggezza ed Efesto, il fanciullo “prepotente” capace di soppiantare Zeus nel ruolo di sovrano […]. La fanciulla dagli occhi di gufo fece tremare l’Olimpo appena fu nata e il mare si gonfiò tanto da formare onde rosse e tanto fu lo splendore, anche se terrifico, dell’evento, che Zeus, quando la vide, non poté fare a meno di rallegrarsene. Atena, la vergine guerriera, occupò, da Omero in poi, il secondo posto accanto al padre. Il suo occhio è capace di scorgere da lontano l’imprevedibile per poterlo far rientrare nelle leggi formulate. E’ ad Atena che l’uomo deve l’arte della scienza, della matematica, della logica, dove, come suggerisce Aristotele, “una conclusione non può essere altrimenti” perché discende necessariamente dalle premesse dei processi deduttivi. Nell’universo di Atena, a cui si conferisce lo strumento della ragione, non entra tutto ciò che è emotività, istinto, e quant’altro possa disturbare la calma cristallina che richiede la lucidità intellettuale.

Non può concederselo, presa com’è a fornire strumenti per il bene di tutta la polis. Nella mitologia greca vi sono entità che sono al di sopra degli dei stessi; una, ad esempio, è Ananke (la Necessità) che, pur prendendo a seconda dei casi vari nomi, non viene mai rappresentata.

Arduo stabilire di quali meccanismi di difesa non si avvalesse la Dea, dal momento che ella eccelleva sia nella difesa sia nell’attacco. Sicuramente sapeva come difendere il mondo dai terribili movimenti di morte imposti dagli Dei votati all’oscurità e alla morte; delegava agli eroi mondani la sua magistrale arte della guerra, fornendo loro le armi per combattere, per contrattaccare il potere distruttivo, con la forza di carattere che si addice soltanto a chi ha saputo far fronte alle proprie “carenze” potenziando al massimo le risorse disponibili.

Certamente il suo Io dovette fare i conti con il grande vuoto lasciato dall’assenza di una madre, per cui possiamo affermare che a qualche livello abbiamo a che fare con la formazione reattiva, che è a sua volta frutto secondario del più arcaico meccanismo della rimozione.

Anche l’idealizzazione è un meccanismo di difesa che potrebbe essere stato adottato dalla Dea nella determinazione di una nevrosi del carattere, maturata per far fronte ad un trauma che avrebbe portato ad una grave condizione depressiva.

Immaginiamo una bambina che non riceve offerte di cibo e amore dalla madre, e alla quale viene chiesto di “diventare grande” prima del tempo, di occuparsi di sé e di altri in un processo di parentificazione precoce, che nel caso di Atena induce una rinuncia solamente biologica, acquisendo la Dea una connotazione fortemente produttiva, addirittura biofila, poiché in forza dell’adozione di Erittonio, Atena è anche considerata protettrice delle nascite).

In una prima fase, la bambina abbandonata a se stessa prova impulsi di smarrimento, di sconforto, poi di sgomento e rabbia violenta, con pianti, urli, proteste veementi come richiamo diretto al genitore o al caregiver. Solo in un secondo momento, se la rabbia non ottiene una risposta adeguata e la bambina non si sente contenuta o confortata, in preda alla disperazione rischia di cadere in una “depressione anaclitica” (descritta per primo da René Spitz), uno stato di inerzia, torpore e inappetenza, che porta alla rinuncia alla vita e qualche volta conduce il neonato alla morte. In una condizione di carenza di “struttura”, la bambina si troverebbe costretta a difendere il rapporto con la madre svalorizzando il proprio Sé a favore della negazione o della scissione delle parti aggressive (proprie e della madre) e di difesa dei connotati “buoni” della madre e della relazione oggettuale, sorretta ad uno scheletro di senso di colpa.

Atena, seppure privata dell’affetto materno, si trova invece nella condizione di poter “bypassare” il problema, avendo un padre molto “potente”, e si sposta rapidamente in una posizione di idealizzazione del maschile, che diventa l’unica ipotesi di identificazione attiva, in grado di determinare la nevrosi del carattere e nello stesso tempo di mantenere gli attributi “buoni” ricevuti in dono dalla madre: infatti la titanide Metis lascerà ad Atena tutte quelle caratteristiche di prudenza e saggezza che serviranno non solo alla giovane Dea, ma anche al padre Zeus, che ne è parzialmente privo, e a molti giovani “eroi” suoi protetti. L’adozione di Erittonio può essere letta come uno spostamento dell’investimento affettivo su un oggetto bisognoso di cure, che però non minaccia il legame di tipo narcisistico posto in essere con la nascita “dalla testa del padre”.[9]

È interessante notare come la Dea possa attivare questa idealizzazione delle figure parentali attraverso non soltanto la “delega” del padre e della madre della capacità di pensare con arguzia e di guidare con saggezza, ma, in forza della sua propria capacità di far valere le virtù acquisite, di elaborare l’eredità ricevuta in lascito sul piano psicologico di quei tratti che i genitori le hanno attribuito attraverso un meccanismo proiettivo, avvalendosi di uno specifico dispositivo di modello operativo, come se ella stessa fosse stata consapevole del destino di cui era portatrice fin dal primo giorno di vita.

Dotata di grande intelligenza, Atena non soffrirà di isolamento affettivo: metterà a disposizione degli uomini i tratti del suo carattere che sono andati a rafforzarsi, senza minimizzare quanto le è accaduto, e senza negarlo. Tuttavia, per difendere almeno il padre, Atena dovette in qualche modo ricorrere alla rimozione degli aspetti cattivi connotati da violenza, attuando una scissione a carico di Ares, il Dio della Guerra figlio di Era, sanguinario e vendicativo come il padre Zeus. Quanto ai meccanismi di difesa più maturi, si potrebbe dire che Atena utilizzi, ad esempio, l’anticipazione, ad esempio accostandosi alla divinazione e alla veggenza, e in particolare ai grandi misteri iniziatici. Ella è sacerdotessa prima e depositaria di un sapere non solo arcano e numinoso, ma strategico, psicologico, sociologico, forte della propria natura in cui sono mirabilmente integrati il maschile e il femminile. Queste doti sono strettamente collegate all’intuizione in un “tipo” psicologico di pensiero, come avrebbe probabilmente sostenuto Jung.

Atena quindi previene, impartisce istruzioni, inizia i seguaci ad un sapere più profondo e li guida verso un destino più giusto, consapevole dei doveri che le sono imposti e dalla necessità di guidare i gruppi “dirigenti”, le classi di politici e di religiosi che esercitavano l’autorità. La “dea” dà così un importante contributo alla vita degli uomini della polis. Una saggia conoscitrice dell’animo umano e delle sorti infauste che capitano, quando la guerra viene gestita soltanto dalle emozioni, Atena sviluppa negli uomini il ruolo dell’intelletto e, diremmo oggi, guida il potere di un’intelligence al servizio della stabilità dello Stato.

Anche il meccanismo di difesa della sublimazione, in parte collegato all’anticipazione di cui è in qualche misura estensione, in una dimensione estetizzante, e talvolta estatica, sembra utilizzato dalla Dea della Sapienza. Ella informa di sé la capacità degli artisti e dei folli-visionari di vedere con gli occhi e con la mente, o per meglio dire, con gli occhi della mente. Sappiamo che nell’intelaiatura del mito di Atena, i collegamenti con Iside sono fonte di ipotesi sulla natura “visionaria” e intuitiva della mente femminile, o meglio potremmo dire in un’ottica più archetipica, del “femminile della mente”, come ci indica Serino: «In conseguenza delle ataviche conoscenza magiche, sempre in periodo ellenistico, Iside fu anche associata a dea della Conoscenza e della Sapienza, e vista come una sorta di Pallade Atena o di Minerva egizia»[10].

Relativamente alla sublimazione come meccanismo di difesa, secondo Giuseppe Panella, docente di Estetica alla Scuola Normale Superiore di Pisa:

Atena è la ragione che agisce sulla malinconia (la bile nera per gli antichi). Nel saggio “La spada di Aiace” in Tre furori di Jean Starobinski (Garzanti), Atena interviene a impedire che Aiace uccida i capi achei in preda a mania furiosa perché gli hanno negato le armi di Achille e devia la rabbia di Aiace su un gregge di pecore… Athena è la razionalità che interviene contro la pazzia o la mania… [11]

Atena, stando alla sua storia, dovette diventare forte ed industriosa, cooperante e ingegnosa, integrando le istanze superegoiche dei genitori, una sorta di identificazione con l’aggressore in senso ampio: un tratto della personalità che spodesta le richieste pulsionali e le istanze riproduttive strettamente biologiche. Sosteneva Eraclito (in Colli 1980, 14, A 63, p. 71): chi non spera l’insperabile non lo scoprirà. Atena sembra essere la Dea dell’insperabile, la Dea che combatte in nome di un vero e proprio processo di individuazione: preposta allo sviluppo delle potenzialità, dell’empowerment diremmo oggi. Atena sviluppa una sorta di nevrosi del carattere[12] in relazione al suo tenace portare a compimento quella che potrebbe essere la “delega” del padre Zeus, ovvero il portare le cose in una direzione, ma in nome di un ideale di giustizia, pace, creatività, bellezza e coraggio. Ella non si arrende, non sembra accedere alla maternità in senso stretto, non sembra aver posto nel suo grande cuore psichico per un ventre che genera. Eppure adotta, nutre e alleva Erittonio, in uno sforzo strenuo di combattere contro la sorte che lo vorrebbe orfano.

A proposito della delega del padre, è rilevante l’episodio della lotta tra Atena e la sorellastra Pallade. Robert Graves ne I Miti Greci sostiene che il racconto che ne fa Apollodoro (III, 12, 3) sia una tarda versione patriarcale, costituendo un’ammissione della già avvenuta invasione degli Achei, popolo indoeuropeo portatore di valori e ideali patriarcali. Quest’ultimo, infatti, scrive che Atena, nata da Zeus e allevata dal dio-fiume Tritone, uccise accidentalmente la sua sorellastra Pallade (della quale la Dea si annetterà il nome come un ulteriore appellativo e come a ricordare colei alla quale procurò involontariamente la morte) figlia dello stesso Tritone. Zeus, infatti, avrebbe abbassato il suo scudo tra le due giocose contendenti, per distrarre l’attenzione di Pallade che stava per colpire Atena. La dea, senza volere, colpì così a sua volta Pallade, uccidendola. Zeus qui è un genitore che sposta tutta la sua carica aggressiva sulla figlia, alimentandone i conflitti con i fratelli. Questa ingerenza di Zeus sul mito della Dea, che sappiamo essere inizialmente di origine matriarcale, diffuso sulle coste libiche, a Creta e in tutta l’Ellade anche dopo le invasioni indoeuropee, è confermata dalla tradizione orale, mantenuta dai sacerdoti di Atena che, secondo Graves, credevano nella nascita della dea dalla testa di Zeus.[13]

Oltre ad essere quello di Atena un femminile dedito all’arte, allo studio, alla scienza, alla tecnica, all’arte della strategia (l’aspetto quindi meno cruento della guerra, che invece è appannaggio di Ares-Marte), è un femminile che rinuncia, che sa differire, che si addossa vicariamente il lutto – che doveva essere del padre – prima della madre Meti e poi della sorella Pallade, e lo fa attraverso la sublimazione. Atena rinuncia al controllo sessuale del partner e al controllo biologico della prole, si pone come figlia-sorella e non amante-sposa, complice del maschio nel portare a termine i suoi obiettivi in un mondo aggressivo, crudele, a volte impietoso, sviluppando una competenza al gioco di squadra e al coordinamento delle azioni sul campo. Ella libera anche i prigionieri (gli oggetti persecutori?), accede al livello metacognitivo: è la Dea che conferisce astuzia ad Ulisse, del quale è per antonomasia nume tutelare. In questa dimensione a-sessuale Atena, che è per eccellenza “figlia”, ha anche connotazioni trascendenti, legate alla verginità, all’austerità, alla sacralità della sua veste, il mantello, realizzato con la pelle della capra Amaltea (un materiale indistruttibile e resistente a qualsiasi colpo), che le viene fornito dal padre.[14]

[1] http://mitologiagreca.blogspot.it/2007/06/pallade-atena.html

[2] Cfr.: Maria Papachristos, Gli Dèi dell’Olimpo, 1 novembre 2014, p. 88

[3] Secondo la Biblioteca dello Pseudo-Apollodoro, Efesto tentò di unirsi ad Atena ma non riuscì nell’intento. Il suo seme si sparse al suolo e fecondò Gea e così nacque Erittonio. Atena decise comunque di allevare il bambino come madre adottiva. Esistono comunque numerose altre versioni della nascita di Erittonio.

[4] Efesto (in greco antico: Ἥφαιστος, Hēphaistos) nella mitologia greca è il dio del fuoco, delle fucine, dell’ingegneria, della scultura e della metallurgia. Era adorato in tutte le città della Grecia in cui si trovassero attività artigianali, ma specialmente ad Atene. Nell’Iliade, Omero racconta di come Efesto (Vulcano per i romani) fosse brutto e di cattivo carattere, ma con una grande forza nei muscoli delle braccia e delle spalle, per cui tutto ciò che faceva era di un’impareggiabile perfezione.

[5] Cfr. C.G. Jung: «gli dei sono diventati malattie». Nel mito, di qualsivoglia si tratti, gli aspetti “caratteriali” devono essere netti, devono stigmatizzare la personalità. Non è azzardato affermare che ogni mito sottende un culto della personalità, nel bene e nel male, dei suoi protagonisti. James Hillman sostiene a questo proposito che «Jung ci sta indicando che la causa formale dei nostri malesseri e delle nostre anormalità sono delle persone mitiche; le nostre malattie psichiche non sono immaginarie, bensì immaginali (Corbin). Sono anzi malattie della fantasia, sofferenze delle fantasie, di realtà mitiche, l’incarnazione di eventi archetipici. […] Il nostro intento più profondo è stato di far compiere alla psicopatologia, fondamento del nostro campo, il passaggio da una sistematizzazione ottocentesca, positivistica, della mente e dei suoi disturbi a una psicopatologia degli archetipi, non-agnostica e mitopoietica. Essenziale per compiere questo passaggio è il riconoscimento degli Dei come essi stessi patologizzati, il riconoscimento dell’infirmitas dell’archetipo. […]. Essenziale per compiere questo passaggio è il riconoscimento degli Dei come essi stessi patologizzati, il riconoscimento dell’infirmitas dell’archetipo». J. Hillman (1974), La vana fuga dagli dei, Adelphi, Milano 1991, pp. 42 e segg.

[6] Un punto di vista alternativo suggerisce che i tre misurino tutti la stessa strategia sociale fondamentale. Inoltre, questa prospettiva sostiene che i tratti della personalità siano riflessioni di strategie sociali inconsce ed evolute. Le pressioni delle scelte potrebbero non agire come singole variabili di interesse e, conseguentemente, non dovremmo aspettarci un grado alto di coerenza dai tre tratti quando si misura una cosa qualsiasi. Quando si misurano incarichi adattabili come l’accoppiamento, c’è una coerenza evidente e marcata (Jonason, Li, Webster, & Schmitt, 2009).

[7] Cfr.: A. Green, Psicoanalisi degli stati limite, Cortina, Milano 1991, p. 340.

[8] M. Campolo, Atena in: Individuazione. Trimestrale di psicologia analitica e filosofia sperimentale a cura dell’Associazione GEA, Anno 8°, 30 Dicembre 1999 Pag. 12. http://www.geagea.com/30indi/30_12.htm 2/3

[9] Nel mondo mitologico le narrazioni spesso oltrepassano la nostra visione dualista bene/male di matrice monoteistica e positivistica, e riescono a condensare processi che normalmente richiederebbero ben più lunghe e complesse elaborazioni.

[10] V. Serino, I. Battaglini, Convivio dei Simboli. I sette peccati capitali. La superbia. Corso di Antropologia e Psicoanalisi, Polo Psicodinamiche, Prato 2017

[11] G. Panella, Lezioni di Estetica. Polo Psicodinamiche, Prato 2016.

[12] Cfr. P. Migone, Il concetto di carattere nell’evoluzione del pensiero psicoanalitico, Il Ruolo Terapeutico, 2000, 83: 47-53 (I parte), e 84: 82-88 (II parte): «La psicoanalisi contemporanea ha acquisito grande esperienza nel lavoro sul carattere, grazie anche al cambiamento della psicopatologia di cui si accennava prima, per la quale i sintomi eclatanti si presentano sempre meno alla nostra attenzione. E nei rari casi in cui si presentano, sarebbe ingenuo credere che la loro eliminazione rappresenti la cura, anzi, spesso la cura inizia dopo che essi sono stati ridimensionati, quando si affrontano i problemi del carattere, quei problemi che il paziente magari prima non vedeva perché erano egosintonici. Una volta esaminati i sintomi eclatanti, ci si accorge che essi non possono essere affrontati se prima, o parallelamente, non si lavora alle loro radici, cioè non si rende il paziente progressivamente consapevole della sua “nevrosi del carattere”, delle sue strutture cognitive che permettono che questi sintomi traggano la loro linfa vitale (si noti che, a rigore, il termine “nevrosi del carattere” è un ossimoro, cioè una autocontraddizione, in quanto, secondo la concezione tradizionale, la “nevrosi” viene sempre concepita come egodistonica, mentre il “disturbo di personalità” viene concepito come egosintonico: nel termine quindi “nevrosi del carattere” – proposto da Shapiro – i due termini vengono uniti volutamente, a mo’ di provocazione, per alludere a una problematica nevrotica che rimane in buona parte egosintonica, cioè non riconosciuta, non vista dall’Io)».

[13] Cfr. R. Graves, I miti greci. 25. Carattere e imprese di Atena, Longanesi, Milano 1955.

[14] Amaltea è il nome della capra che allattò Zeus sul monte Ida a Creta (in altre versioni è il nome della ninfa che custodì la capra il cui latte alimentò Zeus). Diventato il re degli dei, Zeus, per ringraziarla, diede un potere alle sue corna: il possessore poteva ottenere tutto ciò che desiderava. Da qui la leggenda del “corno dell’abbondanza”, o cornu copiae, cornucopia, detto anche Corno di Amaltea. Alla sua morte Zeus la pose, insieme ai suoi due capretti, tra gli astri del cielo; consigliato da Temi, Zeus prese la sua pelle e se ne vestì come di una corazza, durante la lotta contro il padre: questo rivestimento è conosciuto come egida.

[1]L’articolo rappresenta una versione ridotta della relazione Atena, l’Anima e la Necessità in occasione del 17° Seminario Itinerante “L’IMMAGINARIO SIMBOLICO” ©, 6° Workshop – Expo “IL FEMMINILE e L’IMMAGINARIO” tenutosi a Marsala dal 26 al 29 ottobre 2017.

Psicologia della transizione: il luogo scenico della performance e la semantica del corpo

di Silverio Zanobetti 29 giugno 2016

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6.CORPO-SUDARIO1copertinaE non si dà capolavoro d’arte. Fuor dell’opera, si è capolavoro[1]

Dal testo al gesto, dalla parola all’atto, dall’oggetto d’arte alla “produzione di sensibilità” come nuovo oggetto dell’arte. L’eterogeneità interdisciplinare degli ambiti di riflessione di Irene Battaglini (antropologia, filosofia, filosofia dell’arte, neuroscienze, poesia, letteratura) le permette di cogliere nel modello performativo dell’arte alcune prospettive feconde per una psicologia dinamica che sfidi le regressioni narcisistiche dell’arte contemporanea: apprendere dall’esperienza è possibile laddove sia presente la consapevolezza che il nostro corpo s’apprende di esteriorità. L’io deve farsi soglia, l’uomo farsi ponte o transizione: «l’uomo in transizione è un ponte che collega verso uno scopo che non è l’uomo stesso ma il superuomo. L’uomo ha il compito di trasformare se stesso»[2].

Non si cerca più la sporca verità inconfessabile dentro il buco nero del profondo nascosto, in cui tutto cade preso nella morsa degli stretti codici psicoanalitici, non è più l’interiore che giustifica il rito, ma quest’ultimo che produce un certo tipo di sensibilità. Il rito è legato alle forze inconsce sociali: la performance trasformativa dell’arte contemporanea, grazie alla sua componente rituale, è inscindibile dalle transizioni sociali che consente.

Ma una re-censione come questa non può diventare gesto, si limita a vivacchiare sui gesti compiuti dalla performer che nella combinazione necessaria di gesto e pensiero ripercorre strade antiche. Quel che rimane delle misteriori performance sperimentali dell’autrice sono queste pagine, quelle gesta hanno lasciato queste statiche tracce: la performance è ormai avvenuta insieme al rituale di passaggio che la accompagna e alla trasformazione che ne consegue. Non rimane che leggere quel che resta della vita irrappresentabile della pittrice, le ceneri di quelle vertiginose e infuocate esperienze collettive in cui la performance trasforma se stessa.

Nelle orge rituali dei ludi scaenici dell’antica Roma, i corpi delle dame romane si facevano impossessare da un Dio ogni volta diverso: le dame si facevano simulacri viventi, soggetti e oggetti di un’esperienza estetica emozionale collettiva. Il loro corpo diventava luogo scenico e non più simbolico. Lo scopo di questi rituali era la produzione di una certa risanante sensibilità, accompagnata dalla consapevolezza che persuasione e seduzione facessero parte integrante della politica e che ci può essere creatività solo laddove si è ancora capaci di servirsi delle nostre funzioni pre-consce nel modo più libero possibile. Nei ludi scaenici il corpo delle matrone è un simulacro involucro di carne e viene considerato come una spoglia: la matrona abita il corpo altrui come se fosse il suo e allo stesso modo attribuisce il proprio ad altri.

Irene ritrova queste dinamiche nell’arte contemporanea che, nelle sue versioni più sadomasochistiche, assorbe la lezione dello “spirito della musica” nietzschiano, opera fondamentale per capire come l’arte sia sopravvissuta alla sua morte, nonostante i numerosi requiem a lei dedicati durante il Novecento:

La performance muove potenti istanze sadomasochistiche, e si svolge come ai margini di un mondo sospeso: Marina Abramović, l’artista-sacerdotessa, restò in piedi, vestita, di fianco a un tavolo piuttosto guarnito di oggetti d’offesa davanti agli spettatori, che sono stati invitati dalla performer a fare qualsiasi cosa del suo corpo utilizzando tali oggetti. Una scritta a parte recitava: “Sul tavolo vi sono settantadue oggetti che potete usare su di me come preferite. Io sono un oggetto”[3].

Attraverso Hillman Irene Battaglini mostra come il demone che si impossessa delle matrone dell’antica Roma e dell’artista contemporaneo, eroe della transizione, non sia quello tramandato dal cristianesimo che lo considerava entità spirituale malvagia, ma intermediario tra gli déi e gli uomini. Il diabolico non è altro che una certa distribuzione delle cose nell’univocità dell’essere: “la particolarità dei demoni è di operare negli intervalli tra i campi d’azione degli déi, come di saltare oltre le barriere e i recinti, recando confusione nelle proprietà”.[4] Il pensiero unico autoreferenziale di molta arte narcisista contemporanea, pur nell’apparente volontà di rottura (assetata soltanto di scandalo), è ancora pensiero-gesto dell’indirizzo. Non più un pensiero dell’indirizzo, è necessario piuttosto far emergere un pensiero dell’orizzonte in cui il mio corpo sia annoverabile tra le cose,  preso nel tessuto del mondo, come scriveva Merleau-Ponty, opportunamente citato da Irene.

Se mi si chiede come definire la sinistra, essere di sinistra, direi due cose.  Ci sono due modi, E anche qui…è innanzitutto una questione di percezione.  C’è una questione di percezione: cosa vuol dire non essere di sinistra? È un po’ come un indirizzo postale. Partire da sé, la via dove ci si trova, la città, lo Stato, gli altri Stati e sempre più lontano.  Si comincia da sé nella misura in cui si è privilegiati, vivendo in paesi ricchi, ci si chiede: come fare perché la situazione tenga? Essere di sinistra è il contrario. È percepire…si dice che i giapponesi percepiscano così. Non percepiscono come noi, ma percepiscono prima di tutto la circonferenza. Dunque direbbero: il mondo, il continente, mettiamo l’Europa, la Francia,  la rue Bizerte…io. È un fenomeno di percezione. Si percepisce innanzi tutto l’orizzonte, si percepisce all’orizzonte[5].

L’arte contemporanea ci apre ad una nuova semiotica del corpo in cui il pensiero cosciente è il risultato di un gioco e di una lotta tra impulsi e prospettive cosmiche (come le chiamerebbe Hillman), appartenenti al mondo del “corpo-spazio”, più che al mondo intrapsichico e interpersonale. L’evento psicologico diventa un fatto spaziale in quanto non è più l’artista che esprime qualcosa che ha “dentro”, bensì il suo stesso corpo è un paesaggio la cui morfologia varia continuamente. Il corpo dell’artista si fa scena, non si limita a ideare, realizzare, controllare ogni sua creazione. Irene coglie nel corpo-sudario una buona immagine per spiegare questo concetto. Il testo è stato per me ricco di stimoli e rimandi alle mie ricerche e un’altra immagine altrettanto efficace mi è venuta alla mente: il klossowskiano “principe delle modificazioni” riproposto nel teatro di Carmelo Bene in cui l’attore è parco lampade, strumentazione fonica dal vivo e registrata, scena e costumi insieme[6].

Irene si prende il tempo che serve, non disdegna lunghe citazioni che non opprimono la lettura ma imprimono un ritmo lento e espansivo che rende giustizia, tra l’altro, di particolari essenziali di alcune performance contemporanee. Come quelle dell’artista francese Gina Pane che continua il percorso iniziato da Manzoni nel trasformare il pubblico in opera d’arte, lavorando inconsapevolmente sulla traccia antica che faceva coincidere bellezza e valore morale. Gina si fletteva davanti agli spettatori a dimostrazione della sua sottomissione, stimolando la manifestazione dell’aggressività dello spettatore rivelando di quest’ultima la gratuità e insensatezza: «Mi voltai verso il pubblico e avvicinai la lametta alla faccia. La tensione era palpabile ed esplose quando mi tagliai entrambe le guance. Tutti gridavano: “No. No, la faccia no!”. Avevo toccato un nervo scoperto: l’estetica delle persone. La faccia è tabù, è il cuore dell’estetica umana, l’unico luogo che mantiene un potere narcisistico»[7]. Non è un caso che Gilles Deleuze invitasse a perdere il volto, a superare o perforare la parete. Se Cristo aveva inventato il volto come passare la parete, evitando di rimbalzare contro di essa, all’indietro, o di essere schiacciati? Deleuze invitava a disfare il viso in modo che i tratti stessi di viseità si sottraessero all’organizzazione del viso, al potere materno che passa per il viso, al potere passionale che passa per il viso dell’amato. Non è il viso che genera il potere, bensì una certa semiotica che organizza il viso e che costringe il viso come organo a non far più parte del corpo[8]. Il linguaggio da solo non potrebbe veicolare alcun messaggio, la lingua rinvia sempre ai volti che ne annunciano gli enunciati. Citando Henri Miller: «Non guardo più negli occhi della donna che tengo fra le braccia, ma ci nuoto dentro, testa, braccia e gambe, e vedo che dietro le occhiaie c’è una regione inesplorata, il mondo del futuro, e qui non c’è logica affatto […] quest’occhio senz’io non rivela né illumina. Viaggia lungo la linea dell’orizzonte, viaggiatore incessante e disinformato. Ho infranto il muro creato dalla nascita, e la linea del viaggio è rotonda e ininterrotta. Il mio corpo intero deve diventare un costante raggio di luce. Perciò chiudo le orecchie, gli occhi, la bocca. Prima di ridiventare uomo forse esisterò come parco»[9]. Chiudere gli occhi, le orecchie e la bocca per “dire” qualche cosa che diversamente sarebbe indicibile, come accade nel capitolo dedicato alla ferita sul vuoto di Lucio Fontana.

Questo lavoro mi incoraggia verso così tante approfondimenti che sarebbe vano tentare di seguire tutti i percorsi tematici aperti dall’autrice; mi limito a citarne uno, quello del femminile ingabbiato dal Logos, a me molto caro, che spero di riaffrontare in altra occasione.

«Superficie è l’anima della donna, una spuma mobile e tempestosa in un’acqua poco profonda»[10].

[1] C. Bene, Opere. Con l’autografia di un ritratto, Bompiani, 2004, p.XXXVII.

[2] F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, in F. Nietzsche, Opere. Vol. VI, Tomo I, cit., pp. 8-9.

[3] I. Battaglini, Il corpo-sudario. Psicologia della transizione. Dalla tela alla performance nell’arte contemporanea, Preludio di A. Galgano, Prefazione di G. Panella, Aracne, 2016, p. 335.

[4] G. Deleuze, Differenza e ripetizione, Raffaello Cortina, 1997, p. 54.

[5] G. Deleuze, Abecedario, DeriveApprodi.

[6] C. Bene, La voce di Narciso in C. Bene, Opere. Con l’autografia d’un ritratto, cit. p. 991.

[7] I. Battaglini, Il corpo-sudario. Psicologia della transizione. Dalla tela alla performance nell’arte contemporanea, cit, p. 171.

[8] G. Deleuze, F. Guattari, Millepiani, Capitalismo e schizofrenia, Castelvecchi, 2010, pp. 264-265.

[9] Ivi, pp. 226-235.

[10] F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit.

I cristalli fluidi di Kandinsky

di Irene Battaglini 25 dicembre 2015

leggi in pdf I cristalli fluidi di Vassily Kandinsky

Io sono consapevole di un mondo che si estende infinitamente nello spazio, e che è stato soggetto ad un infinito divenire nel tempo. Esserne consapevole significa anzitutto che trovo il mondo immediatamente e visivamente dinanzi a me, che lo esperisco. Grazie alle diverse modalità della percezione sensibile, al vedere, al toccare, all’udire, le cose corporee sono qui per me. […] La realtà la trovo come esistente e la assumo esistente, così come mi si offre. Qualunque nostro dubbio o ripudio di dati del mondo naturale non modifica affatto la tesi generale dell’atteggiamento naturale.

Edmund Husserl

Io sono io e la mia circostanza.

José Ortega y Gasset

 KANDINSKY BABY PORTRAIT

Il profilo cromatico e la rimozione della figura classica nell’opera pittorica di Vassily Kandinsky[1] sovrastano in termini di notorietà il suo spessore di poeta, esteta, filosofo e psicologo dell’arte. Fu uno studioso raffinato, che mise a fuoco numerosi esempi di come la psicologia dell’arte possa essere considerata una scienza a tutto tondo, postulando la nascita di una vera e propria “Scienza dell’Arte”[2]. I suoi scritti più noti, come Lo spirituale nell’arte, sono stati ampiamente analizzati e molti esegeti hanno apprezzato la vastità, l’acuzia e l’originalità del portato critico di Vassily Kandinsky.

La psicologia dell’arte ha un suo proprio spazio, dotato di ricche elaborazioni, negli scritti e nelle opere di Kandinsky, ad esempio in riferimento alla dinamica scomposizione-ricomposizione, in cui la Gestalt sembra il frutto di un ribaltamento, una reversibilità della figura postulata da Rubin (1921)[3], ovvero la misura propria dell’intelligenza fluida del russo non applicata unicamente alla forma, come sarebbe intuibile, ma alla sovversione del rapporto tra figura e sfondo, una sovversione fenomenologica dei contenuti e dei colori che divengono invisibili soggetti ricchi di contenuto,  per la via della forma e non solo per la via dello sfondo. È difatti paradossale, a ben pensarci, che a dominare la figura sia lo sfondo, e che siano le variazioni dello sfondo a determinare i rapporti tra le figure, e non già la figura con i suoi confini “di fatto”, a determinarsi. Infatti, il secondo principio della Psicologia della Gestalt[4] enuncia che “una stessa parte del campo percettivo, inserita in due totalità diverse, può assumere caratteristiche diverse”, con il corollario che “una stessa parte del campo percettivo, inserita in due totalità diverse, può assumere caratteristiche diverse”.

Con Kandinsky assistiamo ad una sintesi elegantissima di quella che Kanizsa[5] avrebbe definito una “grammatica del vedere”, frutto di un immane lavoro di cesello del pensiero e delle immagini, a voler sciogliere la cristallizzazione empirista della pittura tradizionale, in cui l’apprendimento è frutto di una stratificazione di esperienze avvenute nella storia passata, evidenziando invece come il tutto delle qualità formali sia più della somma delle parti.

Kandinsky discute empiricamente le leggi della produzione, della fenomenologia e della percezione della forma, e lo fa imbastendo e rimescolando all’infinito i cromatismi geometrici simili ai grafemi di un antenato geniale che si trova a rifrangere la luce attraversando una cascata di cristalli, che fluttuano in un silenzio dormiente di punti muti, in attesa di uno spettatore che dia loro voce, se solo è disposto a spingersi un poco più oltre:

L’opera d’arte si rispecchia sulla superficie della coscienza. Essa sta al di là e si dilegua dalla superficie, senza lasciar traccia, appena scomparso lo stimolo. [Anche in questo caso] c’è una specie di vetro trasparente, ma saldo e duro, che rende impossibile il diretto rapporto interno. Anche qui abbiamo la possibilità di entrare nell’opera, di divenirne parte attiva e di vivere con tutti i sensi la sua pulsazione.[6]

Il movimento desiderante dell’anima di questo pittore russo sembra convergere, al pari di una linea retta che sfugge ad un minaccioso condizionamento cartesiano (come accade in molte delle sue opere in cui sintetizza le coordinate del campo pittorico in una danza di elementi primari che si muovono sul registro dei “principi di unificazione formale”[7]), verso una identità intuitiva, che si costella intorno ai suoi 30 anni:

1896. Risalgono a quest’anno tre eventi decisivi che determineranno una radicale svolta della vita di Kandinskij. A Mosca, a una mostra dedicata agli impressionisti francesi, rimane fortemente colpito dal quadro di Monet I Pagliai che gli fa intravvedere per la prima volta la possibilità di slegare la pittura dal vincolo della rappresentazione; Henri Becquerel scopre la radioattività, la divisibilità dell’atomo, fatto che incrina la fede del giovane Vasilij nella scienza e nella solidità stessa del reale; al Bol’šoj assiste alla rappresentazione del Lohengrin di Richard Wagner, grazie a cui intuisce la corrispondenza tra suono e colore, tra musica e pittura.[8]

Una peculiarità dell’opera di Kandinsky è di non essere connessa alla memoria del passato, ma di costituirne una metamemoria in ordine alle sue scelte e alle sue scoperte:  egli vuole testimoniare una scelta di metodo, non raccontare una storia di oggetti o di persone bensì l’incisione di una «vibrazione spirituale» che aspira a diventare percetto in un rapporto isomorfico tra struttura e sensazione, ed è questa sua predilezione per l’atteggiamento di ricercatore d’azione alla maniera di Kurt Lewin che ne fa un uomo di una psicologia rigorosa, in grado di guardare il mondo con gli occhi di un bambino, da vicinissimo, da lontanissimo, da prospettive insolite, laterali, divergenti, dall’angolazione di una “stanza di Ames”[9], da una sorta di profilo oltre la figura, che fa da sfondo allo sfondo ergendolo a protagonista in un’altalena di orizzonti apparenti, misurando questo universo di microcosmi viventi in base alle catene causali che si offrono alle scienze naturali, in cui i parametri si influenzano reciprocamente sulla scorta dei rapporti interni tra le variabili (che sono gli oggetti fluttuanti nell’universo della tela) che agiscono nel  campo di indagine, che è in definitiva il campo della percezione. In questo gioco dialettico ha pieno campo la facoltà immaginativa in rapporto alla fantasia, come dimensione propria dell’analisi critica delle emozioni dell’arte, suffragata dalla lettura alta che ne dà De Sanctis:

La fantasia è facoltà creatrice, intuitiva e spontanea, è la vera musa, il deus in nobis, che possiede il secreto della vita, e te ne dà l’impressione e il sentimento. L’immaginazione è plastica; ti dà il disegno, ti dà la faccia: “pulchra species, sed cerebrum non habet”;[10] l’immagine è il fine ultimo in cui si adagia. La fantasia lavora al di dentro, e non ti coglie il di fuori, se non come espressione e parola della vita interiore. L’immaginazione è analisi, è più si sforza di ornare, di disegnare, di colorire, più le sfugge il sostanziale, quel tutto insieme, in cui è la vita. La fantasia è sintesi: mira all’essenziale, e di un tratto solo ti suscita le impressioni di persona viva e te ne porge l’immagine. La creatura dell’immaginazione è l’immagine finita in se stessa e opaca; la creatura della fantasia è il “fantasma”, figura abbozzata e trasparente, che si compie nel tuo spirito. L’immaginazione ha molto del meccanico, è comune alla poesia e alla prosa, a’ “sommi” e a’ “mediocri”; la fantasia è essenzialmente organica, ed è privilegio di pochissimi che son detti Poeti.[11]

in ossequio all’enunciato di von Ehrenfels per cui fantasia e intelletto contribuiscono entrambi alla genesi delle qualità formali, grazie all’opera dell’attività psichica che è in grado di integrare le informazioni nei loro rapporti di somiglianza e semplicità[12].

KANDINSKY 2Le ipotesi di apertura di faglie disegnano architetture dagli interni abitati dal futuro (a paventare un esito che trova il suo epigono in Lucio Fontana), le forme dispiegate in piani – a mimare quei volumi di cartoncino pretagliato con cui i bambini in età prescolare apprendono la coerenza strutturale tra piano e profondità, e che ricordano le misteriose veline tratteggiate dalle sarte – comunicano la necessità di difendere la pittura nella sua interezza bidimensionale, nella sua congruenza di argomenti che sono forme, colori, sfondi, punti-linee-superfici (come farà anche Paul Klee), senza mai abdicare ad una posizione di sudditanza tra linguaggi, anzi mettendoli in comunicazione, e diventando noto per i suoi studi di sinestesia. Scriverà a questo proposito lo stesso Kandinsky:

L’opera d’arte consiste di due elementi: – quello interiore, e – quello esteriore.

L’elemento interiore, preso a sé, è l’emozione dell’anima dell’artista, che (al pari del tono musicale concreto di un determinato strumento, che costringe a far vibrare assieme a sé il tono musicale corrispondente di un altro strumento) suscita una vibrazione corrispondente nello spirito di un altro individuo, il ricevente. Allo stesso tempo, dal momento che l’anima è connessa al corpo, essa normalmente può recepire ogni vibrazione solo tramite i sensi, che sono il ponte tra l’immateriale e il materiale (nell’artista) e tra il materiale e l’immateriale (nello spettatore).

Emozione – senso – opera – senso – Emozione.

La vibrazione spirituale dell’artista deve [perciò] trovare, come mezzo d’espressione, una forma materiale atta a essere recepita. Questa forma materiale è il secondo elemento, cioè quello esterno, dell’opera d’arte.

L’opera d’arte è una connessione di interiore e di esteriore, unita indivisibilmente, necessariamente, ineluttabilmente: cioè una connessione di contenuto e forma.

Le forme «casuali», disseminate per il mondo, suscitano una famiglia di emozioni a loro inerente. Questa famiglia è così numerosa ed eterogenea che l’azione delle forme «casuali» (ad esempio, quelle della natura) ci si presenta altrettanto casuale e indefinibile.

Nell’arte, la forma viene definita invariabilmente dal contenuto. Ed è corretta solo quella forma che esprime, materializza conseguentemente un contenuto. […] La forma è l’espressione materiale di un contenuto astratto.[13]

Elementi, quelli sulle tele di Kandinsky, che si inseguono sulla traiettoria animate da vita propria, sorretti da contenuti che si danno in quanto realtà cogente, tangenti all’orizzonte eppure libere, vaganti eppure ancorate, e che si innalzano orgogliosamente vive, univoche, dolcemente galleggianti:

Le altezze e i ritmi dei suoni in continuo mutamento avvolgono gli uomini, salgono turbinosamente e cadono all’improvviso paralizzati. Allo stesso modo i movimenti avvolgono gli uomini, li circondano – un gioco di tratti e linee orizzontali, verticali, che attraverso il movimento si volgono in direzioni diverse, macchie di colore che si ammucchiano e si disperdono, che danno un suono ora alto, ora profondo. [14]

Figure che non chiedono ascolto e nemmeno vogliono dire, “stanno”, e come atto psichico primigenio costituito nella sua stessa “ragione vitale”,[15] umano e riflettente la cosa umana, non si sottraggono alla conoscenza dell’interiorità che si realizza attraverso l’incontro tra «i modi di essere, di apparire, di esistere».[16]  Sostiene Ortega y Gasset (in Il tema del nostro tempo, 1947):

La condizione dell’uomo è, in verità, stupefacente. Non gli viene data né gli è imposta la forma della sua vita come viene imposta all’astro e all’albero la forma del loro essere. L’uomo deve scegliersi in ogni istante la sua. È, per forza, libero.

E dunque le forme del pensiero di Kandinsky, prima ancora di quelle pittoriche, ambiscono a far della necessità visuo-spaziale una condizione essenziale per raggiungere la libertà “per forza”: non forzatamente, ma con la forza generata dalla prigione-crogiuolo del materiale, del concreto, con le sue limitatezze irriducibili.

«Per anni e anni ho cercato di ottenere che gli spettatori passeggiassero nei miei quadri: volevo costringerli a dimenticarsi, a sparire addirittura lì dentro»[17]. Le forme sulla tela, in quella sua pittura che egli stesso ebbe a definire “astratta”, si rincorrono come dadi in un effetto domino a ritroso, costringendo lo spettatore a inciampare in un mondo molteplice, in cui la realtà potesse offrirglisi secondo la sua “prospettiva individuale”[18], quasi travolto da una vertigine di libertà immaginativa, disorientato dal modo in cui egli usa la linea, in qualità di frazione di una retta che protende da e verso infinito, il cui unico stigma identitario è dato dall’intersezione –  dall’ “incontro” cui fa riferimento la fenomenologia di Buytendijk – : sia come soggetto dotato di autonomia, sia come oggetto di confine per arginare il magma della materia cromatica.  L’artista non affronta la pittura, bensì elabora la sua identità di pittore attraverso tre grandi gruppi di opere – “impressioni”, “improvvisazioni” e “composizioni” – che segnano la distanza da un figurativo che non riuscirà più a soddisfare la tensione di Kandinsky verso una ricerca che mai si compie, a sancire la sua adesione ad una eterna modernità, quasi attraccandosi ad un futuro che si sposta di continuo:

È stupenda quell’opera la cui forma esteriore corrisponde perfettamente al suo contenuto interiore (il che, del resto, è un ideale eternamente irraggiungibile). Così la forma dell’opera dell’opera viene definita, in sostanza, dalla sua necessità interiore. Il principio della necessità interiore è in sostanza l’unica legge immutabile dell’arte.[19]

Impressioni sono i quadri nei quali resta visibile l’impressione diretta dell’esteriore; improvvisazioni, quelli nati di getto, dall’interiore dell’artista, e inconsciamente; composizioni quei lavori alla cui costruzione il pittore partecipa, in una sorta di opus contra naturam, attraverso il proprio Io al centro del campo della coscienza, come funzione regolatrice delle forze sottostanti, mondane e spirituali, che agivano in controcampo, in una relazione sovversiva e conflittuale. Dirà egli stesso:

La parola «composizione» mi sembrava sempre emozionante, e mi proponevo poi, come scopo della mia vita, di dipingere una «composizione». Questa parola agiva su di me come una preghiera, mi riempiva di rispetto. Nelle ore di studio mi lasciavo andare e pensavo poco alle case e agli alberi. Tracciavo con la spatola strisce e macchie sulla tela e le lasciavo cantare più forte che potevo. Risuonava in me l’ora crepuscolare di Mosca; avevo davanti agli occhi, nell’atmosfera luminosa di Monaco, la scala satura di colori e di ombre potenti.

FERROVIA A MURNAU, KANDINSKY, 1909

Ne è un chiaro esempio Ferrovia a Murnau (1909, olio su cartone, 36 x 49 cm), denso di tragedia, stupore, con la veemenza di un nero (un nero che Kandinsky userà sempre con la sapienza con cui l’alchimista accosta la nigredo, con prudenza ma con ardore) che serve a creare lo sfondo attraverso gli oggetti in controsole, evidenziando già nel figurativo dei paesaggi la sua conoscenza diretta della legge di Rubin e della scomposizione polinomica in elementi essenziali di una rete formale, in modo che non perda le sue proprietà principali ma sia alleggerita da ogni ridondanza. Recita appunto la legge della Chiusura della Teoria della Gestalt: “Siamo predisposti a fornire le informazioni mancanti per chiudere una figura e distinguerla dal suo fondo. Dunque i margini chiusi o che tendono ad unirsi si impongono come unità figurale su quelli aperti”, o ciò che è lo stesso “Le linee delimitanti una superficie chiusa si percepiscono come unità più facilmente di quelle che non si chiudono, a parità di altre condizioni”.[20]

Non si confonda questo lavoro di sintesi con il loop riduzionistico teorizzato dai Futuristi, indebolito dalla inadeguatezza rappresentativa delle percezioni di origine a-sensoriale[21]. Tra le principali qualità di una ipotetica rete di Gestalten di un’opera d’arte, Kandinsky annovera la qualità intrinseca dell’emozione, che deve risultare non tanto intatta dal lavoro di scomposizione, quanto esaltata, resa stabile e al tempo stesso espressiva, quasi emergesse a propria volta come da uno sfondo (emotivo) che si coagula in una figura più netta: la precipua emozione di una circostanza che riveste di tono affettivo il feedback percettivo del contenuto. Così continuerà Kandinsky nella dolorosa acquiescenza del danno che gli viene inferto dai contemporanei:

E poi, quando ero a casa, mi prendeva una profonda delusione. I colori mi sembravano opachi e piatti e tutto il mio lavoro mi appariva uno sterile sforzo per cogliere il volto della Natura.

Quanto mi parve sorprendente sentir dire che esageravo i colori naturali, che questa esagerazione rendeva incomprensibile la mia pittura e che unica ancora di salvezza era per me imparare a scomporre i colori. I critici di Monaco, che mi si mostrarono in parte molto favorevoli, soprattutto agli inizi, volevano spiegare la mia potenza cromatica con un’influenza bizantina. La critica russa, che quasi senza eccezione mi ingiuriava in termini ben poco diplomatici, sosteneva che ero perduto dall’influenza dell’arte monacense. […] La mia misteriosa predilezione per il nascosto e per il misterioso mi salvò dall’influenza odiosa dell’arte popolare che scoprii sul suo vero terreno, nella sua forma originaria, in occasione del mio viaggio nella provincia di Vologda.[22]

Kandinsky non apprezzò mai i Futuristi, dei quali ebbe a scrivere nel 1915 in una lettera a Walden, che lo incaricherà di organizzare la sezione russa per il primo Salon d’Automne tedesco, nel settembre del 1913 (sezione alla quale i Cubofuturisti sovietici non furono inclusi da Kandinsky):

Ho di nuovo esaminato le tele futuriste nel loro aspetto del disegno […]. Le cose non sono disegnate! I disegni che si trovano sul catalogo futurista sono senza eccezioni superficiali […]. La leggerezza e la gran fretta sono oggi le caratteristiche di molti artisti radicali: è in questo che i futuristi hanno guastato il lato buono delle loro idee.[23]

La scomposizione della forma da cui è attratto Kandinsky, che è la via regia che egli percorre per accedere alla realtà primaria sovvertendo l’ordine classico figura-sfondo è di ordine etico-morale, e soggiace alla psicologia del giudizio di coloro che non intendono applicare i principi scientifici all’arte:

L’opinione dominante fino a oggi, che sarebbe fatale «scomporre» l’arte, perché questa scomposizione porterebbe inevitabilmente alla morte dell’arte, deriva dalla ignara sottovalutazione degli elementi in se stessi e delle loro forze primarie. […]

Il primo problema inevitabile è naturalmente quello degli elementi dell’arte, che sono il materiale da costruzione delle opere e che devono quindi essere diversi per ciascuna arte.

Ora dobbiamo distinguere, prima di tutto, gli elementi primari da altri elementi, cioè gli elementi senza i quali un’opera, in una determinata specie di arte, non può assolutamente nascere.

Gli altri elementi devono essere devono essere denominati elementi secondari.

Nell’uno e nell’altro caso è necessario stabilirne una graduatoria organica.[24]

Le tesi di Kandinsky si sviluppano sulla tela grazie al contributo dominante del colore, al suo valore assoluto come elemento primario della pittura con cui entra in contatto fin da ragazzino, in grado di imprimere alla forma la vibrazione voluta, necessaria, ma prima ancora di coinvolgere tutti i sensi del pittore e di modellare i suoi oggetti ideali attraverso la materia:

Ho ancora presente la mia prima impressione, o meglio, la mia prima meraviglia davanti al colore che usciva dal tubetto. Una pressione del dito e quegli esseri straordinari che si chiamano colori compaiono chiassosi, pomposi, pensosi, sognanti, assorti, profondamente seri, maliziosi, con il sospiro della liberazione, con il suono profondo della sofferenza, con una forza fiduciosa e persistente, con una dolce indulgenza, con caparbio dominio di sé, con l’instabilità e la sensibilità dell’equilibrio. […] [alcuni] giacciono come già vinti, irrigiditi come forze morte o come i ricordi vivi di velleità che il destino non ha portato a maturazione.[25]

Esprime qui un colore quasi scultoreo, che rimanda alla cera plastica di Medardo Rosso, una densità informe che rimane se stessa pur essendo chiaramente sconfitta dal genio dell’impressionista italiano che ne fa volto, maschera, personaggio. Scriveva l’artista di Torino:

Come la pittura anche la scultura ha la possibilità di vibrare in mille spezzature di linee di animarsi per via di sbattimenti d’ombre e di luci, più o meno violenti, d’imprigionarsi misteriosamente in colori caldi e freddi, quantunque la materia ne sia monocroma – ogniqualvolta l’artista sappia calcolare bene il chiaroscuro che è a sua disposizione; di riprodurre in una parola con tutto il loro ambiente proprio e di farceli rivivere.[26]

MOVIMENTO, KANDINSKY, 1935In quadri come Movement (1935, tela di 116 x 89 cm che si trova alla State Tretyakov Gallery di Mosca), le qualità del colore si danno allo spettatore in ogni loro direzione percettiva: vibrazione, vista, movimento, spazialità, … e quasi mimano quella dinamica maieutica con cui la materia “veniva alla luce” durante la sua adolescenza di giovane artista. Colori che «vagabondano lontano dalla loro origine e si materializzano utilmente sulla tela».

Una specie di miracolo della nascita che si perpetua fino a oggi. L’arte non morirà mai finché i critici, gli psicologi e gli artisti impareranno da Kandinsky, o cercheranno di assomigliargli.

KANDINSKY PORTRAIT

[1] Vasilij Vasil’evič Kandinskij, in russo: Василий Васильевич Кандинский, noto anche come Vassily Kandinsky (Mosca, 4 dicembre 1866 – Neuilly-sur-Seine, 13 dicembre 1944).

[2] Wassily Kandinsky (1926), Punto, Linea, Superficie, Adelphi, Milano, 2014, pp. 3-4, pp. 8-14.

[3] Edgar Rubin, psicologo danese che dedicò i suoi studi ai rapporti figura-sfondo e noto per la Coppa dai due profili (1921).

[4] Cfr.: Kurt Koffka (1935), Principi della psicologia della Gestalt, che è l’opera più estesa e sistematica della Teoria della Forma.

[5] Cfr.: Gaetano Kanizsa, Grammatica del vedere. Saggi su percezione e Gestalt. Il Mulino, Bologna 1980.

[6] Wassily Kandinsky (1926), Punto, Linea, Superficie, Adelphi, Milano 2014, p. 4.

[7] Cfr.: Max Wertheimer, le leggi di formazione delle unità fenomeniche nella Psicologia della Gestalt.

[8] Vasilij Kandinskij, Album, Abscondita, Milano 2014, p. 26.

[9] La stanza di Ames è una camera dalla forma distorta in modo tale da creare un’illusione ottica di alterazione della prospettiva, inventata nel 1946 dall’oftalmologo americano Adelbert Ames sulla scorta di una idea di Hermann Helmholtz. Video (link attivo al 23.12.2015).

Per effetto dell’illusione una persona in piedi in un angolo della stanza appare essere un gigante, mentre un’altra persona situata nell’angolo opposto sembra minuscola. L’effetto è così realistico che una persona che cammini da un angolo all’altro sembra ingrandirsi o rimpicciolirsi. La stanza è costruita in modo che vista frontalmente appaia come una normale stanza a forma di parallelepipedo, con due pareti laterali verticali parallele, una parete di fondo, un soffitto ed un pavimento paralleli all’orizzonte, mentre in realtà la pianta della stanza ha forma di trapezio, le pareti sono divergenti ed il pavimento ed il soffitto sono inclinati.

[10] Cfr. Fedro. Significa “Di bell’aspetto ma non ha cervello”.

[11] Francesco De Sanctis, Storia della Letteratura Italiana, Sansoni, Firenze 1965, p. 61.

[12] Il dibattito sul concetto di forma e sulle sue qualità si è aperto con un saggio del 1890 di von Ehrenfels, Gestaltqualitäten , in cui egli introduce la distinzione tra qualità sensibili e qualità formali, attraverso l’esempio della percezione di una melodia: nella melodia le qualità sensibili corrispondono agli stimoli provocati dalle vibrazioni sonore, mentre le qualità formali, come sostiene il francese Guillaume (1937, it. 1963), «sono una percezione dei rapporti tra le vibrazioni».

[13] Vasilij Kandinskij, Soderžanie i forma, Katalog II. Salona Izdebskogo, Odessa 1910-1911. [trad.it. Contenuto e forma, in Testo d’autore e altri scritti, a cura di Cesare G. De Michelis, Abscondita, Milano 2013, pp.13-14]. (corsivi dell’autore).

[14] Wassily Kandinsky (1926), Punto, Linea, Superficie, Adelphi, Milano 2014, pp. 7-8.

[15] Cfr. José Ortega y Gasset: La vita circostanziale a cui allude Ortega è l’accadimento originario per via del quale l’uomo, catapultato fuori di sé, lontano dalla sua intimità, si trova ad esistere fuori di sé, in quell’oggettività delimitata spazialmente e temporalmente che è, per l’appunto, la circostanza. È un rapporto problematico: l’uomo vive le cose circostanziali come a lui straniere, quasi ostili, e deve piegarle ai bisogni del suo vivere. In questa prospettiva, “salvare la circostanza” per salvare noi stessi significa darle un senso, e ciò è il compito della cultura e di quello che ad essa sta a fondamento: la ragione, ma non quella fredda ed astratta del razionalismo, che pretende di dar leggi alla vita; bensì quella che è al servizio della vita, quella cioè che crea teorie che la chiariscano a se stessa e le diano sicurezza. Questa tipologia di ragione viene da Ortega definita – per distinguerla da quella del razionalismo di matrice cartesiana – “ragione vitale”, con un evidente riferimento alla sua internità rispetto alla vita stessa, di cui è strumento. Fonte: filosofico.net/ortega105.htm (link attivo al 23.12.2015).

[16] Cfr. Frederik J.J. Buytendijk, 1967.

[17] Vasilij Kandinskij, Rückblicke, Sturm, Berlino 1913. [trad.it. Sguardi sul passato, a cura di Milena Milani, SE, Milano 1999, p. 27].

[18] Cfr.: José Ortega y Gasset: La verità a cui conduce questa ragione [vitale] non è quella della scienza, ma è quella della vita: a questa tematica, il filosofo spagnolo dedica due saggi, Sensazione, costruzione e intuizione (1913) e Verità e prospettiva (1916). Con lo sguardo rivolto a Leibniz, Ortega si schiera contro ogni teoria che propugni «l’erronea credenza che il punto di vista dell’individuo sia falso», giacché, viceversa, esso è «l’unico da cui il mondo possa essere guardato nella sua verità». Ne consegue che, se la realtà «si offre in prospettive individuali», allora si può dire che ciascuno di noi è assolutamente necessario, insostituibile; non solo ogni singolo, ma addirittura ogni gruppo, ogni specie, poiché ciascuno «è un organo di percezione distinto da tutti gli altri e come un tentacolo che raggiunge frammenti di percezione dell’universo inattingibili da tutti gli altri». Fonte: filosofico.net/ortega105.htm (link attivo al 23.12.2015).

[19] Vasilij Kandinskij, Soderžanie i forma, Katalog II. Salona Izdebskogo, Odessa 1910-1911. [trad.it. Contenuto e forma, in Testo d’autore e altri scritti, a cura di Cesare G. De Michelis, Abscondita, Milano 2013, p. 14]. (corsivi dell’autore).

[20] Cfr. Max Wertheimer, psicologo ceco, uno dei maggiori esponenti della psicologia gestaltistica assieme a Wolfgang Köhler e Kurt Koffka.

[21] Cfr. Vittorio Benussi, psicologo italiano che poco prima della Grande Guerra entrò in polemica con i gestaltisti, in particolare con Kurt Koffka, sviluppando un suo modello della percezione in cui distinse nel rapporto tra percepito e reale il ruolo dei processi di origine sensoriale da quello dei processi di origine a-sensoriale. Con il termine “a-sensoriale” Benussi indicava gli oggetti ideali, le figure gestaltistiche prodotte in base alla percezione, ma non univocamente riducibili ad esse. Benussi sostenne e verificò sperimentalmente che a parità di stimolazione gli oggetti (in particolare le illusioni ottiche come il cubo Necker e le figure vaso/faccia di Rubin) mostrano una possibilità di diversi rendiconti percettivi, una plurivocità e ambiguità gestaltica che non può che essere di origine a-sensoriale, quindi priva di realtà e di origine puramente ideativa.

[22] Vasilij Kandinskij, Rückblicke, Sturm, Berlino 1913. [trad.it. Sguardi sul passato, a cura di Milena Milani, SE, Milano 1999, p. 25].

[23] Stanis Zadora, Dizionario del Futurismo, voce Kandinskij, Vasilij, in Futurismo & Futurismi, a cura di Pontus Hulten, Gruppo Editoriale Bompiani, Fabbri, Sonzogno, Etas S.p.A., Milano 1986, p. 495.

[24] Wassily Kandinsky (1926), Punto, Linea, Superficie, Adelphi, Milano 2014, pp. 8, 12.

[25] Vasilij Kandinskij, Rückblicke, Sturm, Berlino 1913. [trad.it. Sguardi sul passato, a cura di Milena Milani, SE, Milano 1999, p. 31].

[26] Cfr. Medardo Rosso, Scritti e pensieri, 1889-1927, a cura di Elda Fezzi, Turris, 1994 e Scritti sulla scultura, Abscondita, Milano 2003.

 

Kandinsky: il colore del suono

di Andrea Galgano 15 dicembre 2015

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Wassily Kandinsky, vers 1913 /Gabriele Münter /sc
Kandinsky: il colore del suono

La poesia di Vassily Kandinsky (1866-1944) assume i segni architettonici di un’improvvisazione pittorica che inventa una lingua che trasfigura e crea il mistero vivente, un’intuizione palpabile che attraverso i segnali della nostalgia per la forma perduta condensa il tempo nel colore puro, che sente la forza e la composizione di un controcanto sentimentale in tutta la sua specifica potenza e palpito e, in questo senso, come sostiene Vittorio Sgarbi, «la pittura astratta non è soltanto sperimentazione ma è pittura psicologica e, in nessun pittore come Kandinsky, questo elemento psicologico è così fortemente presente».
Pertanto, tutta la sua opera, come scrive Roberta Scorranese, «è attraversata da un sentimento vivo, riconoscibile, palpabile: l’insoddisfazione. Mai sazio, prese i colori delle sue terre d’origine e ne fece astrazione: punti, linee, superficie. Ma non era ancora abbastanza: l’arte non riesce a riprodurre, diceva, “l’ora più bella delle giornate di Mosca”. Non era solo una questione di stile o genere: la pittura, da sola, non era sufficiente a raccontare quel mondo che giocava a dadi con la guerra, con le rivolte sociali» e poi, soffermandosi sul valore sinestetico dei versi dell’artista russo continua: «[…] in lui la sinestesia non era soltanto una forma retorica: era una poetica precisa. Dipingere e scrivere versi, comporre musica o imbastire riflessioni teoriche, erano semplicemente la stessa cosa. […] Ecco perché la poesia di Kandinsky non è solo poesia: è, insieme, suono, colore, gesto, linea, punto, superficie».
Il suo punto fiammeggiante si attesta nell’estremo desiderio di cogliere i nessi profondi del mondo, l’anima stremata e segreta, la frantumazione illuminata di una coltre casta, la sinestesia musicale di una linea selvaggia e incrociata, poi Mosca, la duale e mobile, regina che splende nel suo grido intagliato di gioia irraggiungibile che, come dice egli stesso, «si liquefa in questo sole, diventa una macchia che fa vibrare tutto il vostro essere interiore, come lo squillo in una tromba frenetica» (W. Kandisnky, Sguardi sul passato, p. 15):

«Il rosa, il lilla, il giallo, il bianco, il turchino, il verde pistacchio, il rosso fiamma delle case e delle chiese si uniscono al coro con il prato di un verde folle e il mormorio profondo degli alberi; e insieme è la neve dalle mille voci canore e l’allegretto dei rami spogli e infine la cintura della rossa muraglia del Cremlino severo, diritto, silenzioso. E sopra tutto, come un grido di trionfo, come un alleluia immortale scoppia la linea bianca intagliata, rigida del campanile di Ivan Velikij. La testa d’oro della sua cupola tende verso il cielo una nostalgia acuta ed eterna. La sua sagoma slanciata è, tra le stelle multicolori o dorate delle altre cupole, il vero sole di Mosca» (ibid., p. 15).

Ancora il tormento chiaro spodesta il suo limite, il suono vivo di una rinascita che in ogni particolare diventa figurazione riscoperta e istante denso come un volto mostrato, il coro dei colori che invade tutto il sistema percettivo:

«Tutto ciò che era inerte, fremeva; tutto quello che era morto, riviveva. Non soltanto le stelle, la luna, le foreste, i fiori tanto cantati dai poeti, ma anche il mozzicone nel portacenere, il bottone di madreperla che vi fissa dal ruscello, bianco e paziente, il filo di corteccia che la formica stringe con tutte le sue forze e trascina fra l’erba alta, verso mete indeterminate e importanti; un foglietto di calendario che una mano cosciente strappa dalla calda comunità degli altri fogli. Tutto mi mostra il suo volto, il suo essere profondo, la sua anima segreta che tace più spesso invece di parlare. Fu così che ogni punto, ogni linea immota o animata per me diventavano vive e mi offrivano la loro anima. Questo bastò a farmi scoprire, con tutto il mio essere e con tutti i miei sensi, le possibilità dell’esistenza di un’arte da determinare e che oggi, in contrasto con l’arte figurativa, è chiamata “arte astratta”». (ibid., p.16).

La scoperta della “divisione” dell’atomo introduce, nell’artista, lo spasmo di un crollo, di una vaghezza incerta e improvvisa, destinando la fatalità di un vacillamento mitico che elabora lo stremo dell’irregolare traduzione geometrica lirica, dei contrasti giustapposti e infine delle lontananze delle terre magiche, percorse da un’oscurata dimensione sognante dell’oggetto assorbito che crea il mondo, si appropria delle screpolature cromatiche, isola il suo stupore selvatico.

«L’arte, per molti punti, è simile a una religione» perché, scrive, «il suo sviluppo non dipende da invenzioni nuove che cancellano vecchie verità per consacrare nuovi errori, come avviene per la scienza. Il suo sviluppo procede per illuminazioni repentine, simili al lampo; per esplosioni, come i razzi di un fuoco d’artificio esplodono nel cielo per comporre il mazzo finale di stelle multicolori. Queste illuminazioni rischiarano di una luce abbagliante nuove prospettive, nuove verità, che, in fondo, non sono che lo sviluppo organico, la crescita organica della saggezza prima […]» (ibid., pp.40-41).

Nel 1913, Kandinsky pubblica la sua prima raccolta di poesie Suoni, trentotto testi in versi liberi, accompagnati da 55 xilografie che cercano la percezione visiva della sonorità. Ogni pronunciamento verbale è costituito, secondo Kandinsky, da tre elementi che si intrecciano e si intersecano nel calco figurativo, nel mero suono e nella rappresentazione ecoica del reale: «1) da una rappresentazione puramente concreta o reale (per esempio il cielo, un albero, l’uomo); 2) da un suono che si potrebbe dire fisico, ma che non si presta a una definizione verbale chiara (si può esprimere come agiscono su di noi le parole “cielo”, “albero”, “uomo”?); 3) da un suono puro, poiché ogni parola possiede la propria sonorità, peculiare a essa soltanto».(cfr.W. Kandinsky, Tutti gli scritti: vol.II: Dello spirituale nell’arte, scritti critici e autobiografici, teatro, poesie).
In Colline, l’incipit rimanda a un calco stereotipato della collina, prosegue attraverso una personalizzazione di territorio, si chiude nella definibilità dell’eco umana:

«Una quantità di colline, in tutti i colori che uno può e vuole immaginarsi. Tutte di diversa grandezza, ma di forme sempre uguali,ossia solo una: grosse in basso, gonfie ai lati, piane e tondeggianti in alto. Dunque colline semplici, abituali, come uno le immagina sempre e non le vede mai. Fra le colline serpeggia uno stretto sentiero semplicemente bianco, ossia né azzurrastro né giallino, né tendente all’azzurro né al giallo. Un uomo che indossa un lungo mantello nero, senza pieghe, che gli copre persino i talloni, va per questo sentiero. Ha il volto pallido ma con due chiazze rosse sulle guance. Anche le labbra sono rosse. Porta a tracolla un gran tamburo e lo suona. L’uomo cammina in modo assai buffo. Talvolta corre e percuote il tamburo febbrilmente, con colpi irregolari. Talvolta procede con lentezza, forse assorto nei suoi pensieri, e suona il tamburo quasi meccanicamente, con un ritmo molto lento: uno…uno…uno…uno…Talvolta addirittura si ferma del tutto e batte come il coniglietto bianco dal pelo morbido, il giocattolo che noi tutti amiamo. Quest’immobilità non dura però a lungo. L’uomo ricomincia a correre e percuote il tamburo con colpi febbrili, irregolari. Come del tutto sfinito, l’uomo nero giace lungo disteso sul sentiero bianco, fra le colline di tutti i colori. Accanto a lui sono i tamburi e anche i due mazzuoli. Ma eccolo già in piedi. E riprenderà a correre. Tutto ciò l’ho visto dall’alto e prego anche voi di volerlo osservare dall’alto» (ibid.).

Le interne polarità cromatiche si esprimono in coppie di opposti, in cui il blu e il bianco segnano quiete e distanza, come in Visione: «Blu, blu si alzò e cadde. / Appuntito, sottile fischiò e s’introdusse, ma non passò da parte a parte. / In tutti gli angoli è rimbombato. / Grassobruno rimase impigliato apparentemente per tutte le eternità. / Apparentemente. Apparentemente. / Devi solo stendere di più le tue braccia. / Di più. Di più. / E devi coprirti il viso con panno rosso. / E forse non c’è ancora stato uno spostamento: soltanto tu ti sei spostato. / salto bianco dopo salto bianco. / E dopo questo salto bianco di nuovo un salto bianco. / E in questo salto bianco un salto bianco. In ogni salto bianco un salto bianco. / Non è certo un bene che tu non veda il torbido; poiché nel torbido c’è davvero. / Perciò anche tutto comincia…..È scoppiato…..».

In Aperto, invece, Kandinsky crea un’ossessione recitativa, attraverso un ritmo al contrario, definito nello schema eco-gestalt-calco, spogliando le canne dal verde: «Ora nell’erba verde lente dileguanti. / Ora nascoste nella grigia mota. / Or nella bianca neve lente dileguanti. / Ora nascoste nella grigia mota. / Giacquero a lungo: grosse lunghe nere canne. / Giacquero a lungo. / Lunghe canne. / Canne. / Canne».
La forma acquista sintesi, si spinge verso una forte dinamica grafica che discioglie il dato reale nel contrasto e nella tensione, e il dizionario cromatico, messo in atto dall’artista russo, rappresenta il termine libero di un’esplosione di confine: «I primi colori che mi fecero grande impressione sono il verde chiaro e brillante, il bianco, il rosso carminio, il nero e il giallo ocra. Avevo allora tre anni. Quei colori appartenevano a oggetti che non rivedo più chiaramente, come rivedo, invece, i colori» (Sguardi sul passato, p. 11).

O come scrive nel volume Lo spirituale nell’arte, a cui lavorerà alacremente dal 1904 al 1909, tra i boschi di Murnau in Baviera: «Chi ha sentito parlare di cromoterapia sa che la luce può avere effetti sull’organismo. Più volte si è tentato di adoperare la forza del colore per curare varie malattie nervose, e si è osservato che la luce rossa ha un effetto vivificante e stimolante anche sul cuore, mentre la luce azzurra può portare ad una paralisi temporanea. [….] Questi fatti dimostrano comunque che il colore ha una forza, poco studiata ma immensa, che può influenzare il corpo umano, come organismo fisico. […] In generale il colore è un mezzo per influenzare direttamente un’anima. Il colore è il tasto. L’occhio è il martelletto. L’anima è un pianoforte con molte corde. L’artista è la mano che, toccando questo o quel tasto, fa vibrare l’anima. E’ chiaro che l’armonia dei colori è fondata solo su un principio: l’efficace contatto con l’anima. Questo fondamento si può definire principio della necessità interiore» (p.46).

È lo spirituale che rende possibile la costruzione di una grammatica pittorica che è profezia oracolare, incisione assoluta del tempo interiore, svegliata dopo il periodo del materialismo, protesa e rivestita dalla ricerca della libertà. L’illuminazione kandiskiana rinuncia alla mimesi naturale per appropriarsi della semantica cromatica e del frantume dei suoni che oltrepassano il linguaggio: «Partiamo dall’idea che l’artista, al di là dell’impressione che riceve dal mondo esterno e dalla natura, accumuli continuamente un tesoro di esperienze nel suo mondo interiore. La ricerca di forme artistiche che esprimano la compenetrazione di tutte queste esperienze, la ricerca di forme che eliminino il secondario per esprimere il necessario, insomma la tendenza alla sintesi ci sembra la caratteristica che in questo momento unisce un sempre maggiore numero di artisti».
«L’arte», come annota Elena Pontiggia, «è una creazione della storia. E dunque l’arte spirituale che sta per manifestarsi è il segno di un’età nuova: l’età dello spirito. Il soggetto del suo libro non è l’arte, è la spiritualità. E se la situazione della pittura è analizzata con particolare attenzione […] i continui riferimenti alla poesia, alla musica, al teatro, alla danza, l’aspirazione a un’arte monumentale che sia una sintesi delle singole espressioni dimostrano che Kandinsky si interessa alla pittura solo perché è un aspetto dell’arte. E si interessa all’arte solo perché è un aspetto dello spirito».

La parola che si dispone come puro suono interiore, è la Stimmung di una percezione evocativa che accosta suoni e segni grafici, rumori e figure geometriche, in una dinamica sonora e visiva che attrae e distanzia. La sua opera rappresenta l’esito di una vita interiore, ricollegata con l’esigenza di un’esperienza di epifania mistica, perché la forma, in un movimento ascensionale progressivo, nasce con lo Spirito e creata per esso: «Notai allora con mio grande stupore che questa esigenza è sorta sulle basi che il Cristo erige a fondamento dei valori della Morale, che questa visione dell’Arte è una visione cristiana e contiene in sé al tempo stesso gli elementi necessari per ricevere la terza rivelazione, la rivelazione dello Spirito». (ibid., pp.42-43).

La cromestesia rappresenta il trait d’union con l’anima, laddove, come suggerisce Elena Pontiggia: «La scelta di un colore o di una linea, di una parola o di un suono non dipende dall’arbitrio dell’artista. L’abbandono dell’imitazione verista non comporta una libertà soggettiva assoluta. L’adozione di una certa forma avviene anzi in base a una legge fondamentale, che Kandinsky chiama principio della necessità interiore. Necessaria è quella forma che sa parlare all’anima e sa raggiungere l’anima delle cose. La necessità coincide allora con l’efficacia espressiva, nel duplice senso di una capacità di comunicare con l’interiorità e di comunicare l’interiorità. L’artista sceglie la forma interiormente necessaria, cioè quella più adatta a rivelare la divinità».
Ecco allora che il dominio della forma si adatta al contenuto per diventare urgenza, narrazione della lotta dei toni che nascono dalla necessità interiore, vivono in essa e sfociano nella totalità espressiva che arriva persino all’ “eliminazione” degli oggetti, scovandoli nell’ultimità della loro presenza, per farsi “penetrazione” di stile e personalità nella trama oggettiva dell’arte, dove il punto dell’anima è il respiro al quale rimanere fedeli: la forma, pertanto, addensa non solo l’estremità delle superfici ma rappresenta la risultante di una vibrazione celata nell’interiorità: «Se [… ] ci accontentassimo dell’accordo di colori puri e forme autonome», dice Kandinsky, «creeremmo solo delle decorazioni geometriche paragonabili, grosso modo, a una cravatta o a un tappeto». Scrive in Inno: «Dentro culla l’onda blu. / Panno rosso lacerato. / Cenci rossi. Ondate blu. / Vecchio libro accantonato. / Sguardo noto in lontananza. / Piste oscure dentro il bosco. / Tenebrosa si fa l’onda. / Dove il panno rosso affonda».

Lo sguardo dell’artista, allora, posa la tela degli occhi sulla vita interiore, sull’apocalisse che cerca la germinazione sacra, appropriandosi di una ierofania del sentimento che destina la luce a un firmamento polifonico e segreto di colori «I tubetti sono come esseri umani, di grande ricchezza interiore, ma dall’aspetto dimesso, che improvvisamente, in caso di necessità, rivelano e attivano le loro forze segrete».
In Campana, Kandinsky sperimenta la vibrazione prodotta da un suono indipendentemente dalla sua connotazione: «Disse una volta un uomo a Bela Crkva: “non lo farò mai, mai.”
Esattamente nello stesso tempo una donna diceva a Mühlhausen: “carne di manzo con salsa di barbaforte”. Entrambi hanno detto ciascuno la propria frase, e proprio così e non altrimenti andò la cosa. Ho in mano una penna e con essa scrivo. Non potrei scrivere se fosse scarica.
L’animale grande e forte che aveva provato molta gioia a masticare e a ruminare, fu stordito con rapide mazzate, dal suono cupo sul cranio. Stramazzò. Una ferita apertagli nel corpo lasciò via libera al sangue. Un sangue denso, viscoso, dall’odore forte scorse via per un tempo che parve infinito. Con quale meravigliosa abilità fu strappata via la pelle spessa, calda, vellutata, ricoperta da peli bianchi e bruni ben disposti. Pelle scuoiata e carne rossa odorosa, fumante.
Paesaggio molto piatto, che si perde alla vista in tutti gli orizzonti. In fondo a sinistra un piccolo boschetto di betulle. Fusti, ancora molto giovani, di un bianco delicato; rami spogli. Solo campi bruni, arati a piccole strisce rettilinee. Al centro di questo cerchio gigantesco c’è un piccolo villaggio, formato da poche case di un bianco grigiastro. Esattamente in centro un campanile. La piccola campana obbedisce al movimento della fune e fa: deng, deng, deng, deng, deng…».

La poesia diviene un’associazione di script mentali che vengono uniti in una sorta di lungo recitativo immaginifico, laddove il segno grafico, il brandello onirico, il suono affilato si uniscono a una variante cromatica che strappa la vita, come in Primavera: «[…] La vecchia casa scivola lentamente giù dalla collina. Il vecchio cielo azzurro si nasconde disperato fra i rami e le foglie. / Non chiamarmi! / Il suono rimane disperatamente sospeso nell’aria, come il cucchiaio in un minestrone compatto. I piedi rimangono incollati all’erba. E l’erba vuole trafiggere l’invisibile con le sue punte. / Solleva alta l’ascia sopra il tuo capo e colpisci! Colpisci dunque! Le tue parole non giungono fino a me. Esse pendono dai cespugli come stracci bagnati. / Perché là al bivio non cresce nulla, e solo c’è questa putrida croce di legno? Le braccia hanno trafitto l’aria a destra e a sinistra. E l capo ha forato il cielo. Dai bordi strisciano sofferenti nubi rosse e blu. E fulmini le lacerano e le fendono là dove meno te l’aspetti e risanano senza lasciar tracce le loro punture e le loro spaccature. E qualcuno parla, parla — parla — / Sei di nuovo tu, tu uomo frivolo? Di nuovo tu?».
Seguendo le guide ispirative di Dante Gabriel Rossetti, il simbolismo estremo e tragico di Stefan George, lo spunto complesso di Maurice Maeterlinck, Kandinsky ricerca la cattura dei suoni in forme («L’universo risuona e solo l’artista è capace di catturare questi suoni e di tradurli in forme»), il punto («Nello scorrere del discorso, il punto è il simbolo dell’interruzione, del non essere (elemento negativo), e, nello stesso tempo, è un ponte da un essere a un altro essere (elemento positivo). Questo è il suo significato interno nella scrittura») come legame di silenzio e segno («Il punto geometrico è un ente invisibile. Esso dev’essere definito anche un ente immateriale. Dal punto di vista materiale il punto equivale allo zero. In questo zero sono però nascoste varie proprietà “umane”. Ai nostri occhi questo punto zero – il punto geometrico – è associato alla massima concisione, al massimo riserbo, che però parla. Così il punto geometrico diviene l’unione suprema di silenzio e parole»), la linea come traccia dinamica («La linea geometrica è un ente invisibile. Essa è la traccia lasciata dal punto in movimento, quindi un suo prodotto. Essa è sorta dal movimento – e precisamente attraverso l’annientamento della quiete suprema in sé conchiusa nel punto. Qui ha luogo il salto della staticità al dinamismo. La linea costituisce dunque la massima opposizione dell’elemento pittorico primigenio – il punto») e, infine, la spodestata dimensione oggettuale: «Volto. / Lontananza. / Nube. / …. / …. / C’è un uomo in piedi. Impugna una lunga spada. La spada è lunga e anche larga. Molto larga. / …. / …./ Egli cercò spesso di trarmi in inganno e, lo ammetto, gli riuscì anche, di ingannarmi. E forse troppo spesso. / …./ ….. / Occhi, occhi, occhi…occhi. / …. / …./ Una donna magra e non giovane, ha in testa uno scialle che le sta sul viso come uno scudo e lo fa rimanere in ombra. / La donna tira con la fune il vitello, che è ancora piccolo e non si regge con sicurezza sulle gambe sbilenche. Talvolta il vitello corre dietro di lei con buona voglia, talaltra non vuole. Allora la donna lo tira con la fune. Il vitello inclina la testa e la scuote e impunta le gambe- Ma le gambe sono deboli e la fune non si strappa. / …./ …./ Occhi guardano da lontano. / La nube sale / …. / …../ Il volto. / La lontananza. / La nube. / La spada. / La fune» (Suoni).
Nel 1925 disegna la Linea curva libera verso il punto, un disegno a inchiostro su carta, «come un pezzo di ghiaccio entro cui brucia una fiamma», esprime l’irriducibilità delle cose e la «perfetta esemplificazione del suo intento: rendere chiara e pura una dinamica pienamente reale e umana. Questa dinamica è l’attrazione esercitata sulla linea (la nostra vita) da un punto (l’altro, l’ospite inatteso). Un qualcosa che, per quanto smaterializzato nella rappresentazione di Kandinsky, produce, come lui stesso aveva scritto, «una vibrazione del cuore». E forse le curve che accompagnano la traiettoria potrebbero essere proprio lette come la rappresentazione di questa vibrazione…» (Giuseppe Frangi).
In Canto, egli dipinge le percezioni frante e chiastiche del mondo plastico: «Seduto è un uomo / nel cerchio angusto, / nel cerchio angusto / un uomo ossuto. / È soddisfatto. / È senza orecchi. / È privo d’occhi. / Del rosso suono / del solar globo / non sente traccia. / Ciò ch’è crollato / pure sta in piedi. / Ciò ch’era muto, / intona un canto. / Sentirà l’uomo / che non ha orecchi / e privo è d’occhi / del rosso suono / del solar globo / fievoli tracce» o in Bianco-corno, in cui la rarefazione del bianco sovrasta la compattezza del viola e l’interno della figuralità.
In questa contrazione di linee, dove solo apparentemente l’io sembra essere rilevato dalla geometria e dallo sperdimento astratto, l’insorgenza umana si ritrova in tutto il suo vitale vigore, come una linea convessa (dalle braccia di Dio ad Adamo), misteriosa e assoluta, che chiama alla purificazione e alla salvazione del proprio manto di frammenti: «Il contatto dell’angolo acuto di un triangolo con un cerchio non ha un effetto minore di quello dell’indice di Dio con quello di Adamo in Michelangelo. E se le dita non sono anatomia o fisiologia, ma qualcosa di più, ossia mezzi pittorici, il triangolo e il cerchio non sono semplice geometria ma qualcosa di più: mezzi pittorici. Accade così che talvolta il silenzio parli più alto del rumore e che il mutismo abbia una voce eloquente».

Kandinsky-Linea curva libera verso il punto
Linea curva libera verso il punto

KANDINSKIJ V., Lo spirituale nell’arte, a cura di Elena Pontiggia, SE, Milano 2005.
ID., Sguardi sul passato, a cura di Milena Milani, SE, Milano 2006.
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ID., Tutti gli scritti: vol.II: Dello spirituale nell’arte, scritti critici e autobiografici, teatro, poesie, Mimesis, Sesto San Giovanni (Mi) 2015.
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Il narcisismo nell’arte contemporanea. Le implicazioni e le interpretazioni della psicologia dell’arte

XVII Congresso Mondiale di Psichiatria Dinamica, San Pietroburgo 2014

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Doctor Irene Battaglini, graduate degree in organizational psychology at the University of Studies of Florence, CEO & Founder Polo Psicodinamiche & Erich Fromm School of Psychotherapy; International Foundation Erich Fromm (vicepresident); painter and professor of Psychology of Art; Florence. Member of the Order of Psychologists of Tuscany sect. B n. 5305.

Italian Branch
Chairman Doctor Ezio Benelli, International Foundation Erich Fromm, Florence

Abstract

Spreta latet silvis pudibundaque frondibus ora
protegit et solis ex illo vivit in antris;
sed tamen haeret amor crescitque dolore repulsae;
extenuant vigiles corpus miserabile curae
adducitque cutem macies et in aera sucus
corporis omnis abit; vox tantum atque ossa supersunt:
vox manet, ossa ferunt lapidis traxisse figuram.
Inde latet silvis nulloque in monte videtur,
omnibus auditur: sonus est, qui vivit in illa.
Ovidio, Metamorphoseon, book III, vv. 393-401

One of the contributions of the psychology of art lies in illuminating the path that leads to the discovery of the complex dynamics that govern the relationship between Art and Psyche. If the creative process is realized with the presentification tangible or perceptible a work called just “artwork”, by one or more authors, the dynamic psychology does not shirk the task of investigating the links that underlie the psyche of the contemporary authors and their talent. The technique, the need for expression and communication, the body in movement and language, metaphorical thinking and clairvoyance of the artist, are all elements that are included in the largest and most fascinating aesthetic experience, are confronted with the problem of escape of God from the temple: the pursuit of beauty has given way to anxiety over limit, in a pursuit of the artistic act exasperated understood in a phenomenological sense, aesthetic, pragmatic, which inevitably requires the folding of man on himself, plagued by a pervasive feeling vacuum and a serious disqualification of the “Self” in favour of the “Ego”. The psychology of art can make use of “pensiero immaginale”, of the archetypal psychology and of the philosophical investigation to understand the nature social and narcissistic of the contemporary art. Starting from the work of Picasso and Duchamp, passing Cy Twombly, Andy Warhol, Lucio Fontana, we can reflect on how the sharp emotion applied to the coldest contemporary art forms (kinetics art, performance, body art), not is the result of a lust of money, visibility and presenteeism, but the consequence of a certain condition: the narcissistic wound of form in favor of the superegoic and uncontested domain of the mediatic metaphor.

leggi in pdf IL NARCISISMO NELL’ARTE CONTEMPORANEA

Parte I. “L’Architrave e la Foglia”
Premessa metodologica
Il Mito di Narciso e le sue raffigurazioni
Come opera il modello narcisistico

The integrated internal combined object learns from experience in advance of the self and is almost certainly the fountainhead of creative thought and imagination.
DONALD MELTZER, The Claustrum, 1992.

Odio e amore sono differenti aspetti della stessa costellazione emozionale e necessitano di esser esperiti simultaneamente perché siano costruttivi. La chiave dello sviluppo è passione e turbolenza, su di una scala qualitativa, piuttosto che quantitativa – gli incrementi possono essere anche minuscoli. Mentre il concepire le relazioni intime sia nella vita che nell’arte come prive di conflitti, risulta ad un’indebolita, eccessivamente liberale, mentalità “soft umanista”.
MEG HARRIS WILLIAMS, 1986.

La psicoanalisi e tutta la psicologia moderna, senza dimenticare il contributo della sociologia e dell’antropologia, mettono a disposizione teorie e opere interamente spese a favore di una indagine il più possibile ampia ed accurata del mitologema celebrato da Ovidio nelle Metamorfosi. Si racconta di Narciso, bellissimo figlio del dio fluviale Censo e della ninfa Lirope, una delle Oceanine (figlie del titano Oceano e della titanide Teti) la quale interrogò l’indovino Tiresia circa il destino riservato al figlio ed ebbe come risposta una frase che risulterà emblematica: Narciso sarebbe vissuto finché non si fosse conosciuto. Narciso cresce come un bellissimo ragazzo dal cuore arido, pieno di sé, che non ha attenzioni per nessun altro che non sia se stesso. Grazie al suo fascino cattura il cuore di molte fanciulle rifiutandole però duramente. La ninfa Eco fu una di queste, s’innamorò perdutamente di lui dopo averlo incontrato nel bosco dove Narciso era solito andare a caccia, come le altre però venne rifiutata. Eco in seguito a tale delusione si consumò d’amore divenendo un’ombra della quale non rimase altro che la voce. Gli dei colpiti decisero di punire Narciso e incaricarono Nèmesi, dea debita alla distribuzione della giustizia, di punire l’indifferenza da lui dimostrata nei confronti dell’amore di Eco. Così Nèmesi guidò il giovane sulla sponda di una fonte di limpida acqua che nel momento in cui Narciso vi si affacciò gli rese come in uno specchio la sua immagine molto nitida.
Nel vedere il proprio volto riflesso nelle acque della fonte, il giovane Narciso ne è stupefatto tanto da esclamare che dopo aver visto una tale sublime bellezza niente lo avrebbe potuto tenere in vita senza che questa risplendesse continuamente nei propri occhi. Narciso s’innamora così di se stesso. Non trovando le forze per staccarsi dalla propria immagine e consapevole di non poterla mai avere per sé, muore consunto dal dolore. Il mito si conclude con il gesto delle Ninfe che arrivando alla fonte non trovano più il giovane ma al suo posto un fiore bianco e giallo cresciuto come d’incanto, al quale viene poi dato il nome di Narciso.
Non è interessante, dal punto di vista di questo contributo, enumerare le tante raffigurazioni del mito nella pittura classica e nell’arte moderna. Caravaggio con il Narciso del 1597-1599 e Salvador Dalì con le Metamorfosi di Narciso del 1937 costituiscono i poli dirimenti di questo continuum di figure duplicate, la cui nemesi è nella storia di narcisismo espresso dall’infinita serie di autoritratti e di selfie di cui siamo vittime, dai grandi pittori ai più comuni possessori di smartphone.
Tuttavia l’inganno di Narciso ai danni di Eco sta proprio in questo misunderstanding. Egli perpetra in primo luogo il furto dell’idea di amore in termini di proiezione, ancora prima del rapimento dei sensi a favore dell’immagine. L’autoritratto, il selfie sono echi di un suono composto unicamente da figure. Non sono altro che ripiegamenti tecnici di una elaborazione di un oggetto estetico, che può essere costituito dal proprio volto come avere le sembianze di qualsiasi altro oggetto che l’artista o il ritraente sentono incompiuto dentro di sé e che ritraggono nel tentativo mai placato di ridurre il divario tra idea e percezione. L’eco è il processo in cui si esaurisce all’infinito lo scarto tra il suono originario e quello che si arriva a scrivere, a imprimere da qualche parte. Ne consegue che, psicodinamicamente, si è fatta grande confusione tra il problema narcisistico in senso stretto e la necessità di dare un segno ed una forma all’idea di noi stessi e di ciò che amiamo. Inoltre, a carico del mito sta la questione del furto della rappresentazione ai danni della raffigurazione. Narciso ruba da Eco l’unica possibilità di trasformare l’oggetto in relazione oggettuale7. Ed è proprio questa forma di violenta usurpazione che fa di Narciso un mito evidentemente mercuriale: non a caso Robert Graves nel caposaldo I miti greci (85 2; Longanesi, 1986) sostiene che uno dei nomi di Narciso fosse Anteo, appellativo di Dioniso, e che i fiori associati alla figura mitologica fossero il narciso, il giacinto e il fiordaliso: una identità con più sfaccettature, dedita alla meditazione e alla contemplazione, ma in grado di mutare con improvvisi slanci di passione.
La raffigurazione di Narciso in un quadro o in una statua, in un’opera teatrale o in una commedia sono espressioni, più o meno geniali, dell’arte figurativa o narrativa intese nella loro funzione illustrativa. Non è implicito, e naturalmente neppure escluso, infatti, l’accento narcisistico che deve essere considerato come un movimento interno, una dinamica che informa dall’interno il processo creativo e il concept di un’opera: in altre parole, il narcisismo è più che altro una condizione di partenza che viene impressa all’opera, una motivazione intrinseca o ancora meglio il mito che abita l’autore e l’opera, l’archetipo che cavalca una sponda dell’arte, che la fa propria, al qua della volontà dell’artista. Scrive Gilles Deleuze2:

La pittura deve strappare la Figura al figurativo. Bacon evoca due dati stando ai quali pittura non avrebbe con la figurazione o l’illustrazione lo stesso rapporto della pittura moderna. Da un lato la fotografia ha assunto su di sé la funzione illustrativa e documentaria, al punto che la pittura moderna non deve più assolvere a questo compito, che invece spettava ancora alla pittura antica. Dall’altro, la pittura antica era ancora vincolata a certe “possibilità religiose” che davano un senso pittorico alla figurazione, mentre la pittura moderna è un gioco ateo3. Non è sicuro, tuttavia che queste due idee, riprese da Malraux, siano adeguate. […] nella pittura antica il legame tra l’elemento pittorico e il sentimento religioso sembra a sua volta mal definito dall’ipotesi di una funzione figurativa che sarebbe semplicemente santificata dalla fede. […] Non si può certo dire che nella pittura antica fosse il sentimento religioso a sostenere la figurazione: viceversa, esso rendeva possibile la liberazione delle Figure, il sorgere delle Figure al di là di ogni figurazione. Né si può dire che alla pittura moderna, in quanto gioco, sia più facile rinunciare alla figurazione. Anzi, la pittura moderna è invasa, assediata dalle foto e dai cliché che si collocano sulla tela prima ancora che il pittore abbia iniziato il suo lavoro. Si cadrebbe infatti in errore se si credesse che il pittore operi in una superficie bianca e incontaminata. L’intera superficie è fin da subito investita virtualmente da ogni genere di cliché con cui è necessario rompere. E Bacon intende appunto questo quando parla della foto: essa non è una figurazione di ciò che si vede, ma è quanto l’uomo moderno vede. Essa non è dannosa semplicemente perché figurativa, ma perché pretende di regnare sulla vista, dunque sulla pittura. Così, avendo rinunciato al sentimento religioso, ma assediata dalla foto, la pittura moderna, suo malgrado, è in una situazione difficile per rompere con la figurazione, la quale sembrerebbe il suo miserabile dominio esclusivo. Questa difficoltà è attestata dalla pittura astratta: c’è voluta la straordinaria opera della figura astratta per strappare l’arte moderna alla figurazione. Non vi è però un’altra via, più diretta e più sensibile?

Narciso possiede l’immagine di sé come unica via della conoscenza. Egli spicca la melagrana infetta di un doloroso desiderio non di amore, ma di una gnosi della morte e della vita: dell’estremo sacrificio di sé. Guardarsi da fuori, come fosse estraneo a se stesso, o vivere nella limitazione dell’amore che è conoscenza dell’altro come condizione di conoscenza di sé attraverso l’altro? Fa ammenda della possibilità di raffigurare con religiosa aderenza al Vero, al Dio, al Mondo e all’Uomo per restare nel gioco di rimandi della rappresentazione illusoria che è, in definitiva, la sua unica “visione”: il suo orizzonte multiplo, che si moltiplica ad ogni gesto, ad ogni battito di ciglia. E il suo dolore sta nel doversi rapportare a questo orizzonte nel tentativo di scalfirlo e guardarvi dentro come uno scenario di forze anatomiche nel tentativo estremo di restituire sulla tela il mistero che sta dentro la realtà (Bacon); placarne la silenziosa inutilità resa dagli oggetti sviliti del quotidiano e celebrati nella loro immortalità (Warhol), ferire il campo proiettivo come una tela tesa e chiusa (Fontana), combattere contro quella figura che è simulacro e immagine di sé agitandone e sfocandone i contorni come un allievo privo di maestro (Twombly), ma non mai sfiorando la veste degli dei e di una qualche verità esperienziale, oltrepassando la logica della percezione e della sensazione, in un gioco di forze che stanca, che invita al “senza titolo”.
Ci focalizzeremo sull’opera di alcuni grandi pittori e artisti che hanno contribuito a trasformare il comune significato di “pittura”, portandola a qualche cosa di molto complesso che ha un rapporto difensivo o passionale, e qualche volta distruttivo, con la figurazione, e non meramente rappresentativo, ma evidentemente rappresentazionale. L’atteggiamento verso la realtà dell’arte, in questo lavoro, terrà conto del fatto che qualsiasi pittura deriva sia dalla precedente arte sia dalla precedente realtà extra-pittorica, oltre che dalle influenze delle condizioni ambientali, socioculturali, storiche e personali degli autori presi in considerazione: è l’approccio storiografico appreso dalla lezione di Mario Praz con un tematismo che «passa sopra a ogni divario di qualità estetica»4 assumendoci la «responsabilità del raccordo»5: la visione sarà eretica per essere feconda. Il nostro giudizio di valore estetico è separato da ogni analisi positivistica perché passa dall’intuizione, da ogni storia perché presuppone l’universalità dell’arte come dimensione – e non solo come esperienza fortuita mutuata dall’assemblaggio fortunato di percezioni altrimenti caotiche – assiomaticamente fondante della psiche umana.
Quando un processo artistico può definirsi abitato da una connotazione di tipo narcisistico? Si potrebbe dire, con un passaggio letterario, che il narcisismo «non è opera di carne ma di triste iniziazione», come riflette Isabella Inghirami nel Forse che si, forse che no di Gabriele D’Annunzio, a proposito della teoria della dolorosa voluttà incestuosa. Lasciando ad altri approfondimenti gli aspetti psicopatologici del narcisismo, proviamo a metterne a fuoco gli aspetti peculiari alla psicologia dell’arte, tenendo conto del monito di Jung, secondo cui «gli dei sono diventati malattie»6.
Per andare in questa direzione, occorre superare la dicotomia che vede contrapposti l’amore per sé e l’amore per gli altri, e di conseguenza l’amore narcisistico e l’amore oggettuale; non sappiamo quale sia il destino di una possibile cooperazione tra questi due livelli che, nella psicoanalisi di Freud, sembrano in contrapposizione; tuttavia sappiamo che un artista in primo luogo si occupa ed approfondisce tematiche da cui è intimamente toccato, perché ha a che fare con la propria più intima ferita. Kouth afferma che «L’individuo creativo nell’arte o nella scienza, è meno separato psicologicamente dal suo ambiente dell’individuo non creativo: la barriera Io-Tu non è così chiaramente definita […]»8. In altre parole, nella visione di Kouth l’artista rivela un’esperienza narcisistica del mondo, che lo psicoanalista definisce «avventura amorosa col mondo», un modo di cui si abbia dunque un vissuto narcisistico, ovvero una sorta di “inclusione” del mondo nel proprio Sé, che è in definitiva l’oggetto-Sé. L’amore oggettuale, quindi è in pieno concorso per uno sviluppo positivo della personalità dell’artista, in cui il ruolo dell’empatia è determinante a partire proprio dallo sviluppo della funzione estetica. Egli sostiene che

gli oggetti-sé sono oggetti da noi esperiti come parte del nostro Sé; il controllo che ci attendiamo di esercitare su di essi è quindi più vicino al concetto di controllo che un adulto si aspetta di avere sul proprio corpo o sulla propria mente piuttosto che a quello del controllo che si aspetta di avere sugli altri9.

A questo proposito Romolo Rossi e Lisa Attolini del Dipartimento di Neuroscienze, Sezione di Psichiatria, Università di Genova10:

Il termine usato da Freud per descrivere lo stato originario del lattante è «narcisismo primario». Questo stato primario del sé dà luogo, secondo Kouth, a due forme interrelate ma differenziate, centrate rispettivamente sul senso di ammirazione per il sé e sull’immagine idealizzata dell’altro. In un aspetto dell’esperienza di sé ci si aggrappa al sentimento originario di onnipotenza, nell’altro al senso di «beatitudine originaria, potenza, perfezione e bontà» della figura genitoriale. Tuttavia, la difficoltà nella sistemazione del narcisismo è quella di trovare i modi di incanalarlo e indirizzarlo nelle strutture mediatrici del sé, ed è qui che sta la chiave per impiegare efficacemente il senso della propria grandezza. Grandiosità ed idealizzazione sono dimensioni del narcisismo da cui si può partire come forme di narcisismo che si sviluppa con l’integrazione in vari tipi di trasformazioni. La prima di queste trasformazioni da prendere in esame è appunto la creatività. La creatività consiste di per sé in una forma di narcisismo trasformato. I residui delle forme più primitive di narcisismo anche nelle espressioni più avanzate del lavoro scientifico si possono scorgere, in parte, nelle maniere spesso infantili che caratterizzano la persona creativa. Il compito principale della vita è di mantenersi attivamente creativi, e ciò può venire solo dalla capacità di «stare in contatto col bambino che gioca, nel profondo della personalità, di tenersi ben stretti alla freschezza dell’incontro del bambino col mondo». L’empatia è il secondo esempio di narcisismo trasformato proposto da Kouth. L’empatia è la modalità mediante la quale raccogliamo dati psicologici a proposito delle altre persone. In sé l’empatia, che nasce dall’estetica (Einfühlung), ha in origine il significato dell’emozione del fruitore dell’opera l’arte: è ovvio che il termine indica qualcosa che deve essere del tutto a sé rispetto a qualsiasi teoria sistematica esplicativa. Un vissuto interno che è una riedizione con un’antica relazione materna, per esempio, e cioè una situazione propriamente transferale riportandosi alla sistematicità della teoria psicoanalitica, non può essere a rigore considerata empatica. Nonostante ciò, per Kohut, abbastanza contraddit-toriamente, la capacità di empatia nasce dalla nostra fusione originaria con la madre, i cui sentimenti, atti e comportamenti sono parte integrante del sé. Questa empatia primaria con la madre ci prepara a riconoscere il fatto che le esperienze interne fondamentali degli altri sono in larga misura simili alle nostre. Ma è evidente che più che derivare dalla relazione con la madre, questa relazione non è che il primo evento empatico. Il terzo esempio di narcisismo trasformato trattato da Kouth è quello dell’umorismo, che viene affiancato al «narcisismo cosmico». Entrambe a livello più profondo si collegano alla morte.

 

PARTE II. “Signo ergo sum”
Come si esprime il modello narcisistico nelle opere di Andy Warhol, Cy Twombly, Francis Bacon, Lucio Fontana.

La memento mori di Andy Warhol

Andy Warhol 11(Pittsburgh, 1928 – New York, 1987) si avvicina al ritratto con astuzia mercuriale, attraverso una precisissima opera di elusione delle regole pittoriche, tanto è vero che egli non è da tutti considerato un artista nell’accezione classica del termine ma più verosimilmente un fenomeno di tipo socioculturale e mediatico. C’è da dire che “artista” è una parola ambigua e spesso diventa il contenitore per le persone il cui contributo esce dalle cornici delle forme fino a quel momento conosciute. In ogni caso le sue opere sono un elemento centrale nelle dinamiche dell’arte contemporanea e direi della Storia dell’arte più in generale.
L’identità espressa nei ritratti è “passata”, la vita è “trascorsa”, sfiorando quel corpo eletto a simulacro e divenuto oggetto della compravendita dei diritti di servitù per il passaggio di accesi colori stesi “a zona”. Nulla vieta che il patchwork possa produrre coperte che scaldano, ma è complicato fare del patchwork qualche cosa di veramente nuovo, perché si tratta di pezzetti presi qua e là da cose conosciute e consumate. Diventa nuovo se genera un insieme diverso dalle parti di cui è composto, ma non soltanto perché è qualche cosa di più della somma delle parti. Voglio parlare dell’immagine che si costella a partire dal mosaico di elementi accostati che presi singolarmente non alludono al tutto, poiché quel tutto è qualche cosa di nuovo che non sarebbe esistito senza quel preciso modo di mettere insieme le parti e che non dipende tanto dalle parti quanto dall’equazione compositiva che sta nella mente del mosaicista. I colori usati da Warhol sono già conosciuti nel mondo della moda, i volti sono di vite consumate dalla fama, dalla vita, dal successo. Come ha potuto egli arrivare ad un volto completamente nuovo, ad esempio, di Marilyn, senza svilirne l’eleganza e senza utilizzare elementi ulteriori? Probabilmente con la potenziale spinta necrofila di chi deve mantenere in vita ciò che vivo non è. Attraverso l’illusione del venditore. L’illusione tra l’immagine emergente e la sua verità sottostante (che afferisce alla memoria di quel volto nell’immaginario comune) genera uno iato di senso difficilmente catalogabile. Se la forma resta identica (il volto), se il nome resta invariato (ad esempio Marilyn), perché immediatamente ricaviamo l’idea di qualche cosa di completamente diverso, che si proietta nel futuro alla stregua di una icona museale? In altre parole, perché una fotografia semplicissima del volto di Marilyn all’improvviso dovrebbe assomigliare ad un vaso cretese elegantemente decorato, in cui il vaso perde la sua funzione di utensile per addivenire il palco della narrazione di una storia? E che storia racconta il ritratto di Marilyn? Parla di lei o più verosimilmente parla di quello che lei NON è stata?, ovvero racconta quelle cose del suo volto di cui non ci eravamo accorti? La sua bellezza ubertosa viene stravolta a favore della possibilità di consumarla attraverso l’utilizzo del quadro sulla scorta dei bisogni dello spettatore. Esattamente come avrebbe fatto lo spettatore nelle sue fantasie private, ma tuttavia in questo caso alla piena luce, gettate in faccia, eliminando la componente di Ombra, l’elemento “segreto”. La privatezza della proiezione – una sorta di autonomia iconologica che ciascuno di noi coltiva nel proprio dominio psicologico – viene sostituita dalla valenza “sociografica” dell’idea di Marilyn, che si fa oggetto seriale un po’ come un articolo di consumo, un barattolo della Campbell.
Il mondo dell’arte infatti, attraversa a partire dalla Pop Art – e non solo per mano della Pop Art, ma in risposta ad una tensione interna irrisolta –una dinamica regressiva che porta alla dissoluzione della materia nell’opera d’arte. Se Picasso in Europa compie la stessa operazione “ferendo” la figura, e chiudendo pressoché definitivamente il capitolo millenario del dominio della forma, Warhol non ferisce ma, si potrebbe dire ab-usa, usa illecitamente e smodatamente non tanto la forma quanto l’immagine che stabilisce una nominazione: il nostro volto è l’istanza primaria che si collega al nostro nome, ma anche la Brillo Box identifica un mondo, una categoria, e Warhol stravolge non il significato ma la rappresentabilità di quell’istanza.
Decontestualizzare equivale ad estirpare, sradicare, se in gioco è l’identità. Una componente aggressiva che mal si coniuga al tema della spiritualità (ripreso anche da Arthur C. Danto in Quotidianità e sacralità nell’arte di Andy Warhol)12 in cui dovrebbe essere sublimata, canalizzata. L’affettività ne risulta coartata, perversa, autodestruente.

 Infatti il problema è fondazionale, e il critico, a partire dal pretesto della Brillo Box, si trova incagliato in una palude di contraddizioni, che hanno per oggetto principale il tema della Bellezza e i suoi assunti. La riflessione di Danto non si esaurisce all’interno di categorie filosofiche ma tiene conto degli aspetti storici e sociologici, come sostiene Tiziana Andina:

La tesi di Danto, estremamente coerente negli anni, è che il formalismo non colga nel segno nella misura in cui non tiene conto della dimensione storica delle opere. La Brillo Box non avrebbe potuto avere il valore e il significato che ha se, poniamo, Warhol avesse avuto la stessa identica idea nel 1864.13

Ed è il sociologo Howard S. Becker – noto per la “Teoria dell’etichettamento sociale” – a dare sostegno a questa lettura: nell’opera I mondi dell’arte egli propugna una «sociologia del lavoro applicata all’attività artistica» al posto di una «sociologia dell’arte»14.
L’approccio etnografico inaugura quindi il grande fiume delle teorie contestuali. Utilissime, e rischiose: ci allontaniamo dall’urgenza di Danto di trovare una definizione si flessibile, ma universale, senza tempo, di opera d’arte. Il problema quindi si pone come una costante che si sposta continuamente, aprendo ad uno scivolamento relativistico. Una zattera, il cui intreccio porta con sé il background socioculturale del naufrago-inventore, in cui la validazione del processo artistico è definita dalla tenuta di mare della zattera, la cui “bellezza” sarà il frutto dell’apprezzabilità pratica. In altre parole Warhol ridefinisce il “contenuto” dell’opera d’arte a partire da due elementi costitutivi: la “cassetta degli attrezzi” e l’accessibilità agli occhi del mondo.
Tuttavia, questo non è sufficiente a comprendere come, ad un certo punto, si sia dovuto cambiare il modello interpretativo per far fronte alla nuova realtà, connotata dalla destrutturazione della forma e dell’immagine, dalla smaterializzazione, e dall’inclusione delle tecniche più svariate e innovative, negli atelier e nelle scuole, in cui il gesto e l’azione sostituiscono la contemplazione, lo studio, il duro lavoro di bottega. A quale esigenza non tanto dell’artista ma dell’uomo, risponde questo fenomeno? Qual è quell’uomo che non ha più bisogno della forma classica, ma che sente come affine al suo gusto la forma destruente, l’immagine dissonante, l’installazione rarefatta, che si priva dei maestri (e quindi degli allievi) per far posto agli artigiani estetici? Perché la Pop Art non avrebbe una così grande rilevanza se non avesse sradicato la pittura dalla storia. E se non avesse inaugurato la trasformazione del Dna dell’arte il cui sviluppo è oggi ad un intricato crossing-over: un punto di non ritorno, una perdita della tradizione e della conoscenza che, con le nuove generazioni, non sarà possibile recuperare. Ma il nostro occhio deve essere addestrato al disincanto, poiché tutto è in perenne divenire, e nulla di ciò che osserviamo è privo di un suo precipuo inconscio.
La deriva narcisistica che sta alla base della dinamica dissociativa, che tende a separare l’oggetto dal soggetto, offre possibili sponde interpretative non solo di Andy Warhol ma di molta arte contemporanea. Partiamo dal «conflitto estetico» di Donald Meltzer: «Il conflitto estetico è quel conflitto suscitato dalla bellezza del mondo e dalla sua rappresentazione primaria»15; «… la madre bella che si offre agli organi sensitivi… (del bambino)… e il suo interno enigmatico che deve essere costruito attraverso l’immaginazione creativa»16: si tratta di andare a comprendere l’impatto estetico che la “vista” della madre-arte ha sulla psicologia dei figli-artisti. Questa madre sembra come assente, sorda, cieca, taciturna, assorbita dalla sua necessità di generare ed espandersi, mentre all’uomo il grave peso di insegnare, imparare, insegnare, imparare. Migliorare, accendere, pregare, servire, trasferire conoscenza, incendiare città, costruire città, attraversare oceani, essere pronto a salpare ancora. È priva, questa madre-arte, di una “visione” longitudinale del destino dell’uomo-apprendista, tutta protesa com’è a estendersi, a ramificarsi, a decorare tutte le chiese, a ornare le case, a farsi storia, guerra, società, organizzazione, impresa. Il ripiegamento dell’uomo su se stesso, la sua solitudine, si riflettono sulla sua capacità simbolica.
Andy Warhol è l’uomo che esprime appieno la contemporaneità dell’artista privato del conflitto estetico, si muove in una direzione apparentemente caotica. La bellezza della Grande Madre-Arte è estraniante, metamorfica, il suo seno è inafferrabile e forse troppo lontano: la vecchia Europa con le sue cattedrali è inaccessibile, soverchiante di bellezza nelle segrete e nelle catacombe, chiusa a difendersi dalle minacce della guerra. La società “occidentale” diventa la madre presente, che consente l’unica possibile simbolizzazione attraverso la distruzione della bellezza negata. La reciprocità di proiezione tra arte e oggetto dell’arte si costella come unica forma di identità, segnando il destino autoreferenziale e narcisistico dell’arte che seguirà negli anni successivi, in America come in Europa. Warhol sembra utilizzare quindi il potenziale emozionale negativo di dotazione, per neutralizzare l’impatto della bellezza sulla sua fragile e bizzarra struttura polimorfica. Il suo merito è quello di aver reso “accessibile”, come un oggetto sostitutivo, l’inafferrabile. Marilyn, inafferrabile. Detersivi e scatole di minestra, scarpe e poltrone, residui di memoria di una madre-altrove17.

Il gesto in piena di Cy Twombly

L’arte di Cy Twombly18 è un grido sull’America. Un richiamo di sangue e di cieli densi di fiori che si rompono in un boato crespo di farfalle contaminate. La sua pittura è un fiotto che rompe gli argini dell’armonia, è un soffio che imprime voli per mete non raggiunte, non possibili. La pittura di Twombly (Virginia, 1928 ‒ Italia 2011), esprime il fallimento delle utopie moderniste. Illeggibile, incoerente, improbabile. Eppure è vera e bellissima. Bisogna capire come sia stato possibile creare questa unione violenta e irreversibile, come un aereo in velocissima precipitazione che prende fuoco sulla coda, e nell’atto di avvolgersi su di sé diventa una stella cometa.
Quadri di una straordinaria epifania cromatica, di luce che esplode. In cui segni, colori e forme sono gli strumenti dell’agrimensore in un pianeta desertico di cui scongiura l’imminente deflagrazione. Sono il canto e la preghiera di un ultimo uomo verso Dio i cui occhi, che per dirla con Cormac McCarthy, un altro americano dignitario della più alta contemporaneità, «tradivano non disperazione, ma soltanto quell’insondabile, profonda solitudine che è l’impronta più tipica di questo mondo»19.
Tutta l’arte di Cy Twombly (pittore, incisore, disegnatore, scultore) è notte inoltrata che deflagra nell’aurora, è il “linguaggio dimenticato” di Erich Fromm su una lavagna stridente, è ardesia che si sbriciola a creare forme improbabili, è gemmazione di scarabocchi di luce bruciante dalle forme svelte, come le braccia di un nuotatore esperto che farfugliano nell’abisso e che nell’inconscio tumulto non smarriscono – nello smarrirsi – l’eleganza di quanto hanno appreso.
Il “quadro” deciso da Cy Twombly è una forma concreta di non-pittura, è una decisione spasmodica di andare verso la crisi linguistica e di immergersi in questo spasmo come all’imbocco della neoplasia che ha corroso velocemente l’universo percettivo del cui declino siamo attori, costretti alla visione monoculare della realtà dell’emarginazione o alla confusione conglobante e regressiva dei social-network. È una pittura di voci che si affollano ad un crocevia, dove è obbligato a stare l’artista contemporaneo che deve organizzare e riorganizzare continuamente immagini, metafore e rappresentazioni nella stanza della propria coscienza, che si affligge del proprio paradosso esistenziale, per dover essere nello stesso tempo figlio e dio, creatura e creatore.

Cy Twombly sembra aderire, per far fronte allo stress della devastante mitologia unilaterale del mondo contemporaneo, ad una tradizione “anticreativa”, come se il suo atelier fosse una prestigiosa accademia in cui lo scranno più alto è perennemente disabitato. La sua originalità è così potente che deve per forza nascondersi a se stesso, per capire qualche cosa della sua stessa talentuosa e indisciplinata arte del segno. La tecnica che lo vuole maestro nello sfocare la linea del contorno dal disegno è l’espressione di una strategia di attacco ai fianchi dell’ortodossia, è un modo per dire che l’infante è più indipendente del dio e più arrogante, più violento, più demoniaco. Del resto, il desiderio di unione deve essere spostato in una fuga in avanti verso la dimora della perfezione, verso la quale il puer muove con incessanti cadute e inappagato desiderio.
La proiezione sul futuro, su quello che sarebbe stato un disegno di Cy Twombly se egli ci avesse donato le forme belle del suo immane talento pittorico a detrimento della sua scelta di uomo autentico che decide di farsi scenario del mito della luce del mondo post-industriale, comincia già a costellarsi nel controverso ambiente del ventre acido dell’espressionismo, in cui nascono le sue prime opere, non in ordine ad una casualità, ma ad un divenire in prospettiva mitica del dramma della propria vita lacerata in cui segno e disegno, contorno e ombra, sono scissi eppure appaiati in un affiancamento in cui sembrano alloggiare danzatori solitari. Dice lo junghiano Adolf Guggenbühl-Craig:

Abbiamo [quindi] a che fare con due tradizioni: da un lato la creatività viene fatta oggetto di ammirazione, dall’altra essa viene ritenuta un attributo esclusivo di Dio e, per quanto riguarda gli uomini, la si considera soltanto una forma di hybris, di tracotanza. Sia quel che sia, con la creatività noi giungiamo faccia a faccia con Dio. E che cosa succede con l’indipedenza? Sicuramente possiamo ritenere che l’unico essere davvero indipendente in questo mondo sia Dio. Per definizione Dio è indipendente da tutto e da tutti, e tutto è dipendente da lui. Egli è l’inizio e la fine, alfa e omega del creato; […]. Noi stessi cerchiamo di raggiungere questo tipo di divinità, cadiamo vittima del complesso di Dio20.

La prospettiva mitica fu, per Twombly, forza e sembianza, significato e bellezza. Il pittore amava nutrirsene, e fare dei suoi disegni “veicoli per contenuti letterari”, dai quali cercava di liberare le figure.
L’opera di Twombly, se fosse tutta ordinata su piani paralleli, mostrerebbe una morfologia simile ad una stratificazione geologica intra-psichica in cui sembrano essersi fissati i marcatori del processo alchemico. Gli esordi, agli inizi degli anni ’50, sono connotati dall’influenza di Franz Kline e Paul Klee, e sono prevalentemente pennellate gestuali-espressioniste, in un originale e morbido intreccio di tratti, parole, numeri e porzioni (“frazioni“) di oggetti. È molto attratto dall’Italia, dove si stabilisce definitivamente nel 1960, anno in cui allestisce la prima mostra alla Galleria di Leo Castelli.
Gli anni ’60 sono caratterizzati dai cosiddetti Quadri della Lavagna, opere di grande dimensioni in cui usava la tecnica calligrafica dei graffiti su sfondi solidi di colore grigio, marrone o bianco (una tecnica a metà tra la pittura e l’incisione), in cui la scrittura viene svestita del suo ruolo comunicativo e trasferita nel campo semantico del gesto, fino a costellare appieno l’action painting, ricco di citazioni come Leda e il cigno o la famosa Battaglia di Lepanto.
In questo periodo, che è estremamente proficuo, comincia a creare le sue prime sculture astratte, le quali, sebbene varie nella forma e nel materiale, erano sempre ricoperte di pittura bianca. Twombly utilizzerà (e sarà scultore di quest’arte povera per tutta la vita) materiale preso a prestito dal fabbro, dal maniscalco, dal falegname, per dare altezza a forme semplici dalla struttura assemblata, a ricordare l’arte dei mastri antichi nel forgiare gli strumenti del lavoro: un omaggio alle cose, che si liberano della condizione di oggetti utili (come le lettere e la parola scritta) per diventare il simbolo del proprio servilismo: l’oggetto svilito dalla sua destinazione strumentale diventa un soggetto di bellezza silenziosa e perenne, come in un processo di mummificazione, in cui gesso, vernice, legno, cartone, metallo, carta, stoffa, spago, matite, diventano elementi del lavoro manuale che, ricoperti di vernice bianca e opaca, subiscono l’ultimo trattamento immortale.
Nella metà degli anni ’70 Twombly realizza opere “multistrato”, vere e proprie creature che rappresentano la piena realizzazione del suo repertorio anticonvenzionale, costruite assemblando il collage di fogli ad altri media pittorici.

Gli spazi “vuoti” sono il collante necessario al dipanarsi di una creatività splendente, che attinge spietatamente alla linguistica, piratandone i sistemi di base. Il segno diventa “lemma” e spesso è contratto in un calco filologico: come se un bambino geniale avesse la capacità improvvisa di comunicare attraverso un linguaggio in cui verbo e immagine convergono in una bocca vulcanica fatta di meraviglie e di delicatezze, che vengono alla luce con estrema cura, a volte con riferimenti geografici, come la serie dei quadri Bolsena (il lago vulcanico vicino a Viterbo).
In questi lavori, gli elementi grafici si fondono con forza tecnica sempre più rilevante in una sorta di dissoluzione vorticosa, di totale imprendibilità, ma sono talvolta caratterizzati da un nitore fantasmatico, come una sorta di alfabeto decifrabile dalla perizia di pochi eletti, come ad esempio in Apollodoro, fino a raggiungere negli anni ’90 l’acme estetico di eleganti esemplari floreali che in qualche modo lo ricongiungono, in una sorta di re-unione con il principio, ai Fauve che ne connotarono gli inizi del percorso mezzo secolo prima, nel periodo americano, in cui fu della scuola dei grandi Robert Rauschenberg e Jasper Johns.
Un esempio folgorante è quello delle Quattro Stagioni, giganteschi pannelli che sembrano dimorare tra lo spazio scenico e quello architettonico, in una sorta di danza dei colori che si raccordano in chiazze in perenne tentativo di scendere verso il basso, trattenute contro la tela da invisibili fili, come mani che tentano di mitigare l’urlo di una dea di bellezza arcaica, maestra delle pitture rupestri.
L’interno delle tavole è carico di una fortissima tensione, di una conflittualità invadente e di una cripticità linguistica che rimanda alla costante alternanza tra violenza e silenzio, tra sessualità e gioco, tra luce e fondale, in un rapporto emotivamente coinvolgente con lo spettatore: al quale non è difficile desiderare di balzare dentro il quadro e affondare gli occhi in quel coacervo di colore.
I fiori sono, in alcuni lavori, vere e proprie esplosioni e non è un caso se appartengono all’ultima parte del viaggio pittorico di Twombly. Artista ricchissimo e avido, così viene descritto, non fu mai collocato dalla critica americana nella Pop Art; questa sua ostinata originalità stilistica fu la sua fortuna: i suoi quadri sono valutati milioni di dollari e ambiti dai maggiori galleristi.
Non essendo “schematico”, si può solo ripercorrere a ritroso il suo progetto e intercettarne alcune coordinate, con una visione dall’interno, che sembra l’unica via percorribile, proprio come farebbe quello spettatore curioso e invadente. E tornando a quel processo alchemico stigmatizzato nella geologia delle opere, non è difficile individuare un alternarsi di strati di bianco, di rosso, di nero. La qualità dinamica dell’opera di Twombly si interseca con quella statica di depositaria del messaggio, è quindi un’opera magistrale che separa l’oro dal fango, e aggiunge un’aura di mistero e di sapienza, per quella inusuale competenza del maestro a rendere coscienti e ricchi sia il nero che il rosso l’uno dell’altro, stretti al confine tra il simbolico e l’astratto, uniti dall’invisibile catena dell’espressione del colore in piena luce, che sembra poter dire tutto, ma che di fatto rimanda sempre ad altro in un infinito specchio di rappresentazioni.
La catalogazione in “espressionismo”, infatti, è sempre relativizzante, perché non fa altro che dire continuamente che sotto l’espressione c’è una volontà di manifestare, di dire, di esprimere. Il messaggio “espresso” da Twombly è ancora totalmente indecifrato. Un’idea, un desiderio, di destituire il mito restituendo al sogno gli eroi e le anfore di un tempo passato21.

Il dominio della forza e della forma di Francis Bacon

Per me il mistero del dipingere oggi è il come rendere l’apparenza. So che può essere illustrata, so che può essere fotografata. Ma come può essere resa in modo da catturare il suo mistero dentro al mistero della fattura?                            FRANCIS BACON

Francis Bacon (Dublino 1909 – Madrid 1992), in una perfetta corrispondenza con la disamina narcisista, mantiene una posizione isolata rispetto ai suoi contemporanei, pur rivolgendosi all’ambito figurale22. Opera con l’ausilio di fonti diversificate (poesia, dramma, opere di altri autori, fotografia). La critica ha messo in evidenza il rapporto della poetica di Francis Bacon con il nichilismo, l’esistenzialismo, e con il surrealismo, in virtù della risonanza di Bacon con le riflessioni di George Bataille e André Breton. Tuttavia ogni tentativo di avvicinarci a Francis Bacon implica e conchiude il rispecchiamento di parti del nostro Sé. Le sue opere coinvolgono con una forza immane che ha scaturigine nella sua adesione piena e diciamo iper-narcisistica al proprio modo di sentire, vedere e percepire il mondo. Come la morte di un figlio tocca la corda più profonda di una madre (ed Eco, madre-amante mancata, si consuma nella perdita di Narciso, consapevole di non poter mediare per lui l’incontro con il mondo), così il dolore dei suoi volti, dei suoi corpi e dei suo ambienti risuonano nella stanza più profonda di chi vi si accosta. La necessità di esporre la perdita degli oggetti primari nell’arte di Bacon è un’alchimia della vergogna e del ripudio, l’apoteosi della realtà stuprata per evitarne l’immanente collasso; la deformazione come ultima istanza di deflagrazione del riflesso nello stagno, per farne l’unica possibile reificazione, esponente ideale di un Io negativo, di segno opposto al grandioso, che non è censurabile dal Super-Io, perché nasce all’interno, condizionato dalle pulsioni istintuali alla base della struttura psichica: una manifestazione esteriore del funzionamento della carne, una soddisfazione in cui«l’oggetto è importante solo in quanto è invitato a partecipare al piacere narcisistico [del bambino] e quindi a confermarlo»23, sviluppato attraverso un’intelligenza creativa straordinaria, che riesce in qualche modo a rappresentare l’annegamento di Narciso entro se stesso, come una sorta di attaccamento narcisistico all’interno del corpo come appendice dell’immagine di Sé. Questa ricerca radicale è denunciata dallo stesso Bacon, quando afferma: «Io voglio deformare le cose al di là delle apparenze ma allo stesso tempo voglio che la deformazione registri l’apparenza»24. Scriverà Gilles Deleuze25:

In arte, in pittura come in musica, non si tratta di riprodurre o di inventare delle forme, bensì di captare delle forze. È per questa ragione che nessuna arte è figurativa. La celebre formula di Klee: «non rendere il visibile, ma rendere visibile», non significa niente altro. Il compito della pittura si definisce come il tentativo di rendere visibili delle forze che non lo sono. […] E il genio di Cézanne non consiste proprio nell’aver subordinato a questo compito tutti i mezzi della pittura? Rendere visibile la forza di corrugamento delle montagne, la forza di germinazione della mela, la forza termica di un paesaggio… E Van Gogh, non ha forse anch’egli dato espressione a forze sconosciute – la forza inaudita di un seme di girasole? […] Si direbbe che, nella storia della pittura, le Figure di Bacon siano tra le risposte più sorprendenti alla domanda: come rendere visibili forze invisibili? Tale è anche la funzione primordiale delle Figure. […]. È come se forze invisibili schiaffeggiassero la testa dalle angolazioni più svariate. E qui le regioni del volto ripulite, trattate a spazzola, assumono un nuovo significato, poiché evidenziano proprio la zona in cui la forza sta colpendo. In questo senso i problemi di Bacon sono di deformazione, non di trasformazione. La trasformazione della forma può essere astratta o dinamica. Ma la deformazione inerisce sempre al corpo, è statica, si produce nell’immobilità; subordina il movimento alla forza, come pure l’astratto alla Figura. […] Cézanne, a forza di ricondurre la verità al corpo, è forse il primo ad aver prodotto deformazioni senza trasformazione. Anche per questo Bacon è cézanniano: in Bacon come in Cézanne, la deformazione è ottenuta sulla forma in riposo; e al tempo stesso tutto il contorno materiale, la struttura, cominciano a muoversi, «le pareti si contraggono e si spostano, le sedie di chinano oppure si sollevano di un poco, gli abiti si accartocciano come fogli di carta in fiamme» (D.H. Lawrence). […] Le deformazioni di Bacon raramente risultano imposte o forzate, nonostante l’apparenza, non sono mai torture: sono, al contrario, le posizioni più naturali di un corpo che si raccoglie in funzione della forza semplice che si esercita su di lui, voglia di dormire, di vomitare, di voltarsi, di rimanere seduto il più a lungo possibile…

Per Deleuze, Bacon agisce come un rivelatore della forza e del movimento della forza. Individua tre grandi gruppi di forze invisibili in Bacon: le forze di isolamento, le forze di deformazione, le forze di dissipazione. Naturalmente ne enumera molte altre, ad esempio la forza di accoppiamento, la forza del tempo mutevole e la forza del tempo eterno…26
La prospettiva mitica è predominante e la dinamica de-idealizzante applicata alle figure non fa che rinforzare la specularità narcisistica che muove forze arcaiche, alla ricerca di una empatia residuale, attraverso un processo assimilabile a quello che nell’analisi del transfert Kouth chiama «internalizzazioni trasmutanti», volte a mitigare e modificare il Sé grandioso del paziente. Si potrebbe definire questo narcisismo estetico come una fase di conquista dell’autonomia iconologica e iconografica, che definisce «uno speciale campo poetico, una situazione in cui l’arte poteva imboccare la strada dell’emancipazione dai mezzi espressivi ereditati, che in passato avevano servito ai compiti d’illustrazione, interpretazione, documentazione ideologica»28.

Jean-François Lyotard, nella sua analisi critica del “soggetto” nella postmodernità, dedica al rapporto tra arte e figura un saggio fondamentale, Discorso, figura29 del 1971. Svettano, tra tutte le opere, gli autoritratti: si offrono come fianchi animati al nostro sguardo, aprendo alla riflessione sulla creatività divergente e delirante del narcisismo dialettico. Xenia Nibrandt, nel suo lavoro La schiuma dell’inconscio. Un approccio lyotardiano alla deformazione negli autoritratti di Francis Bacon30, sostiene:

La figura umana è il soggetto che «divora l’anima»31 a Bacon, facendolo insistere sui ritratti, degli amici, degli amanti, di sé. Sebbene si possano considerare tutti i suoi dipinti, a suo stesso dire, dei ritratti e anche degli autoritratti – in essi si oggettiva la relazione intima dell’artista, a livello percettivo e reattivo, con il mondo in cui opera –,4 la preoccupazione della presente riflessione è la deformazione cui sono sottoposti gli autoritratti. Nei cinquantadue dipinti individuati sul tema e realizzati tutti, tranne il primo, nella seconda metà del Novecento, Bacon si autorappresenta secondo due modalità: a grandezza quasi naturale, in primissimi piani della testa a malapena contenuti in tele dalle dimensioni 35,5 x 30,5 cm, e a figura intera in formato verticale, che dagli anni settanta in poi si fissa alle misure 198 x 147,5 cm. L’artista predilige il lavoro in serie, forma che lega assieme le immagini dei singoli pannelli e nello stesso tempo conserva la loro autonomia, come indicano anche gli sguardi che non si incrociano mai. Ci sono tre dittici (1970, 1972 e 1977) e quattro studi su un’unica tela (1967), ma la forma preferita è il trittico, adottato quasi esclusivamente per gli autoritratti-teste disposte nei singoli pannelli a volte «come fossero foto segnaletiche, prima un profilo, poi di fronte, poi l’altro profilo» (1967, 1983), altre volte in pose similari (1973, 1974, 1976 e 1980); pochi i trittici a figura intera (1973, 1985-86, 1991). Già il primo autoritratto, risalente al 1930 e scoperto soltanto una decina d’anni fa, mostra una testa scomposta in superfici spigolose e cromaticamente vivaci che, nonostante la chiara influenza del cubismo, prelude già a ciò che sarà la sua maniera più caratteristica di lavorare: «trascinare i lineamenti ora in una direzione ora nell’altra».                                               […] Diversamente agisce la deformazione sulla spazialità che accoglie e a volte circonda gli autoritratti a figura intera. Bacon conserva la rappresentazione dello spazio secondo il sistema prospettico ereditata dal rinascimento, ma la altera. Nei due autoritratti degli anni cinquanta lo spazio si perde nell’oscurità dello sfondo condividendo la sorte con la figura. Un effetto prospettico, perfino un’esasperazione di esso, deriva soltanto dall’ardito scorcio dei piedi, la parte più vicina all’osservatore, presente nella figura del 1956 e da allora in poi in molte altre. La produzione successiva è caratterizzata da una profondità esigua e poco articolata. Più di tutto sortisce un effetto di piattezza, che contraddice la profondità che invece vorrebbe evocare, mentre proietta le figure in avanti, l’uso di dipingere il fondo ad ampie campiture monocrome con colori acrilici puri stesi in maniera uniforme e liscia. Lo spazio può perfino restringersi alla bidimensionalità della tela pittorica posta a modo di parete inclinata (1970), o a evocarlo è sufficiente un riquadro nero sulla tela grezza (1972, trittico del 1991).

Lo spazio fittizio è incrinato e squilibrato ancor di più dall’inserimento di piani bidimensionali che non si integrano nella scena.
Possiamo afferrare, a questo punto, la veste di Narciso mentre sta per inabissarsi nella sua propria immagine, e fare qualche considerazione prima di lasciarlo al proprio destino. Le istanze di disintegrazione sono così evidenti da lasciare interdetto il pensiero, da lasciarlo indietro. Le emozioni si aggrovigliano al limite dei corpi e dei tratti del volto, nel tentativo di aggrapparsi alla vita ultima. Alla necessità di rappresentare si sostituisce la necessità di trovare un linguaggio adeguato ad una minima comprensione che non lasci l’occhio irrigidito ed escluso, unico testimone smarrito di una storia di solitudine, di amori e specchi infranti, di dolore per dover esistere al limitare di uno stagno, di urli inascoltati che si disperdono negli echi delle rovine e delle macerie, in un viaggio ad incontrare l’uomo straniero a se stesso, definitivamente privato all’Altro. Questo linguaggio va formulato, ed è forse il linguaggio del sogno, o gli assomiglia moltissimo. Ancora Xenia Nibrandt33:

La costituzione dell’oggettività va intesa come un «manifestare che nasconde», poiché da forma a una presenza-assenza, sul modello della relazione fort-da osservata da Freud. Il linguaggio riesce a porre il sensibile come oggetto dotato di spessore in quanto simultaneamente lo rende presente (designa) e lo sottrae al suo senso immediato (significa). Ma, per la sua fondamentale proprietà referenziale, riesce a costituire non solo ciò che manifesta-afferma, ma anche ciò che nasconde-nega: nell’esistenza è contenuta e occultata un’inesistenza, al lato invisibile del mondo visibile corrisponde un non mondo – l’inconscio delle pulsioni dispiacevoli che sono state rimosse-negate.

L’ingresso nell’Ade vivificante dell’inconscio apre a digressioni pressoché infinite. Uno dei problemi è che nel sogno, il linguaggio è solo apparentemente destrutturato e caotico, e di fatto ancora viene esercitato un controllo da parte delle istanze super-egoiche, degli archetipi, dai desideri.

Come rileva Deleuze, Bacon ritiene che i tratti asignificanti debbano essere inseriti nell’insieme attraverso un sapiente gioco di contrappesi e al contrario esecra un’estensione indiscriminata degli elementi caotici a tutte le fasi della realizzazione artistica, come nell’action painting, o all’intero quadro, come nella pittura informale34.

Limitiamoci a dire che al Narciso che decide di intraprendere la strada della conoscenza di sé non resta una distruzione immediata e indolore: intraprende in realtà un percorso che è croce e resurrezione, un’onda percettiva la cui costante che passa attraverso il corpo e il volto umano. Narciso Anarca, cui tocca vagare con lo sguardo acceso dal Sé straniero, cui non sa offrire un destino compiuto, privato del senso del tempo, non resta che la caduta incompiuta nel sogno e nel mondo infero, prima di accogliere una cura per la sua ferita narcisistica.

La ferita sul vuoto di Lucio Fontana

Non appena pone il punto, lo spirito è un occhio (lo diventa nell’esperienza come lo era diventato nell’azione).
GEORGES BATAILLE

Un sogno, serve a vedere l’invisibile, e a nascondere il visibile. Una ferita è sicuramente un luogo elettivo per poter accedere al mondo immaginale, e al cuore di quell’ “estetica del male”, per dirla alla Bataille, che assomiglia al rovescio di un ricamo gentile, a quella duplice esazione di verità che si costella ogni volta che il supplemento dell’Io si ritrova ad annaspare nella palude che per Narciso fu stagno e specchio. Che cos’è, quindi, la ferita in un ordine linguistico come quello proposto da Lucio Fontana nei suoi straordinari “tagli“? Più addentro, immagine e parola. E questo cambio di prospettiva si apre come una faglia, non c’è il tempo per tornare a guardare come prima che si spalancasse l’orizzonte sotterraneo.
Orizzonte che è telos e nostos. Perché è scoperta e viaggio e ricordo, è passaggio e visione dal di dentro. Questo è il registro del doppelgänger nel tema del sogno. Ed è metafora. Metafora pura, spaziata, ordini e disordini protoverbali di idee primigenie, embodied cognitions nell’involucro percettivo dei sensi. Nulla vieta di percorrere sentieri riduzionistici in una mappa di digressioni che ci facciano da sponda. La ferita è declinazione, è segno complesso, è morfema in grado di definire un atto linguistico in rapporto a quel che accade, nel modo in cui accade.
Ridurre la produzione creativa (figurativa, astratta, informale ma sempre sperimentale) di Lucio Fontana (Rosario, 1899 – Comabbio, 1968), fondatore del movimento spazialista, ai “buchi” e ai “tagli”, è una evidente caduta stereotipica. Tuttavia non possiamo non tenere conto del fatto evidente che è con questi che viene spesso identificato dal pubblico e dalla critica. Una delle ragioni potrebbe essere proprio la rilevanza psicodinamica del “taglio”, autentico colpo inferto con forza a quella nuda immagine che è una tela senza alcuna voce, senza più eco. Un atto di estrema libertà, che ferisce e che permette di vedere, di valicare, di accedere ad uno spazio nuovo, in cui la tensione formale e immaginativa subisce il contraccolpo del viaggio, dell’esperienza dolorosa: uno spazio che è una nuova annessione a favore della coscienza, una nuova domanda. Francesco Poli35 a proposito dei Concetti spaziali:

Comunemente definiti Tagli, i Concetti spaziali, attese sono i lavori più famosi dell’artista. Sono opere che mettono in gioco, nel modo più essenziale e sostanziale, la natura stessa dell’identità dello spazio pittorico. Attraverso un’azione diretta che si attua in un attimo, l’artista, tagliando la tela con una lama affilata, traccia sulla superficie uno o più segni che aprono letteralmente la via della terza dimensione (la profondità reale), uno spazio “al di là” che mette in moto una carica di energia estetica, nel senso della tensione formale e immaginativa. […] Fontana ha prodotto numerose tele tagliate con caratteristiche variate: con più tagli in sequenze ritmiche; su superfici lisce monocrome o con spessori materici (anche con frammenti di vetro colorato); in gruppi di tele diversamente sagomate e disposte sul muro (I quanta); con interventi su lastre di ottone lucido. Ma forse, per il loro impatto visivo icastico ed essenziale, sono i quadri con solo taglio centrale su fondo monocromo, in particolare bianco, quelli più affascinanti. E lui stesso ha dichiarato: «Conta l’idea. Basta un taglio». Questa operazione artistica è stata interpretata nei modi più diversi. Per esempio: come uno sfregio puramente provocatorio; come una performance gestuale (una sorta di action painting più “incisiva“); come metafora sessuale; e anche, con qualche ragione, come un gesto che ha certe valenze Zen (gli arcieri Zen dicono: «Un colpo. Una vita»).

Un taglio si presta a infinite interpretazioni, si potrebbe obiettare. Il problema potrebbe essere ribaltato in ottica di rinuncia. A che cosa “serve” tagliare una tela, se non a “dire” qualche cosa che diversamente è indicibile? In questo infatti sta il logos di ogni pittura, la sintassi di un’operazione grammaticale altrimenti inutile. Il fuoco della riflessione deve essere, a nostro avviso, la richiesta di «“superamento” di tutti i generi, le forme, le materie e le procedure tradizionali in nome di un’arte nuova, un’arte con intenzioni totalizzanti che comprende materia, suono, movimento, colore in unità di tempo e spazio»36, auspicata da Fontana attraverso il Manifesto Blanco (Buenos Aires, 1946) e sintetizzata nell’integrazione in una «unità fisico-psichica» delle manifestazioni dell’arte, e nel Manifesto tecnico dello spazialismo del 1951, scritto dal solo Fontana. Il solipsismo di questi enunciati, la loro ira di grandioso rifiuto di tutti i codici precedentemente utilizzati dagli artisti, sembra essere l’estrema voce di una necessità di oltrepassare il guado e di annientare la funzione di rispecchiamento, evidenziando una impossibilità di accedere ad una qualche identificazione nei maestri precedenti: l’irreversibile “caduta degli Dei”, profetizzata da Nietzsche agli inizi del Novecento. Se, sempre con Nietzsche, «Tutto ciò che è profondo ha bisogno di una maschera», che cos’è l’implicito di là della tela, quale identità sopraggiunge in quello spazio agognato con veemenza furibonda e graffiante? Forse un nauseabondo vuoto vertiginoso e nullificante, sartriano. Ed è la maschera, la tela, la “cosa ferita”, che acquisisce identità al posto dello spazio desiderato: il desiderante controlla l’oggetto appropriandosene, integrandolo in un luogo inscindibile dall’Io, proprio come avviene nella classica formulazione narcisistica psicodinamica. Marìa Zambrano offre, nello scritto sulla pittura La distruzione delle forme (Buenos Aires, 1945)37, una disamina lucidissima e incantevole, preziosa:

Nella maschera si erge davanti all’uomo l’ambiguo, il demoniaco, il sacro insomma, con quell’ambivalenza che del sacro è caratteristica. Forgiare un volto nell’arte è conseguenza di averlo già forgiato nella mente, è lo specchio e il risultato della decisione di essere uomini e del fatto di aver ormai trovato una nozione, un sapere previo, intorno al consistere dell’uomo. In mancanza di questo, come sarebbe stata possibile la nitida immagine, la semplicità ottenuta da un Fidia, da una scultura che è tutta una definizione? Immagine plastica che è conseguenza della Filosofia, strumento che l’uomo ha forgiato nel momento in cui ha deciso di essere tale. Nel nostro tempo si verifica, tuttavia, un evento strano, dinanzi al quale le persone ancora si scandalizzavano frivolamente, «dando per scontato…»: è l’istante in cui l’arte europea di qualsiasi provenienza si presenta nell’agghiacciante aspetto della distruzione delle forme. […] Era di nuovo la maschera. […] Era l’eclissi del «naturale». Quel naturale che il capriccio di alcuni – questa l’opinione dei più – metteva al bando. Il volto umano, il volto degli uomini e il volto con cui l’umano guardava a se stesso, contemplandosi nel suo specchio rassicurante, scompariva. L’arte, quella della figura e quella della parola, cessava di assolvere questa funzione di equilibrio e di pacificazione che le era stata tacitamente affidata da tanti secoli; rinunciava ad essere la medicina, rimedio e stimolo confortante. Per la prima volta era inquietante a un grado estremo, deprimente in qualche caso. Tornavano a mostrarsi cose che l’umanità non ricordava; un passato remoto lasciato indietro riviveva. Vecchissimi dèi dovettero sorridere, e migliaia di potenze sconfitte dovettero accorrere, leggere, alla chiamata. Ciò che a prima vista appariva, così, era una disintegrazione evocatrice della morte: l’esperienza che abbiamo della vita, è che la morte è ciò che distrugge e disintegra soltanto, e che unicamente essa è capace di far retrocedere il divino processo con cui qualcosa di vivo si genera. La morte è la genesi al contrario, […].

Quale straniamento può pervadere l’artista, dunque l’uomo, che pratica una così netta dissoluzione della forma a favore di una svolta che segni la storia intera dell’arte del ’900, avviandola al suo destino estetico? Alla videoart, alla performance, all’installazione, alla rarefazione della materia? Uno straniamento che è simile al risveglio perpetrato per la via del delirio, del fantasma, dell’illusione.
L’aggressività del gesto espresso in Fontana, non è dissimile dall’aggressività di una vita che tenta di uscire dal magma estatico di una condizione unicamente narcisistica. È un tentativo che persegue la via estetica, in una dinamica eroica, che possiamo “rileggere” ribaltando la tela, esaminandola dal di dentro e dal suo interno, dalla stessa parte da cui Bacon osserva i corpi degli uomini che ritrae. Giovanni Cucci e Andrea Monda, nel saggio L’arazzo rovesciato. L’enigma del male38, enunciano le caratteristiche dell’eroe, che sembra in qualche modo ricalcare il modello:

Percezione di ciò che sta capitando in termini di gravità etica; riconoscimento di un potere a disposizione; urgenza di un intervento da mettere in atto; il coraggio di attuare l’esigenza di giustizia. Inoltre l’eroe avrà l’autotrascendenza come capacità di comprendere l’avvenimento nella sua globalità, rendendo possibile la consapevolezza; e infine la capacità di essere «presenti al presente», la traduzione psicologica della vigilanza evangelica.

Quello spazio “oltre la linea” è la terra di una promessa estetica cui approda l’artista che sente una forte responsabilità, per il compito che gli è stato assegnato: rinnegare i maestri per approdare a una vitalità completamente rinnovata, in un desiderio idealizzante di unità e di unicità. La passione con cui opera è pari soltanto al controllo che gli necessita esercitare per non essere avviluppato dalla sua stessa natura, che è materia al pari di quella terra-madre che deve deturpare, di quella tela grezza su cui ha organizzato i primi segni ancestrali della sua arte. L’arma è affilata, il bordo cruento, lo sguardo aguzzo e pietrificato, saturo.

Parte III. “Di Passione e di Ombra”

Osservazioni Conclusive

Non è forse la massima sventura, quando si lotta contro Dio, quella di non essere vinti?
SIMONE WEIL, L’ombra e la grazia

Art is the triumph over chaos.
JOHN CHEEVER, The Stories of John Cheever, 1978

Alcuni grandi artisti dell’arte moderna hanno utilizzato un sistema simbolico-rappresentativo «importante», facendo ricorso anche al mito, nel tentativo di «comprendere» le dinamiche dell’aggressività, spiegarle, sottoporle ad interrogativo filosofico, psicologico, religioso, etico.

Nell’arte contemporanea l’artista sembra rinunciare alla propria funzione di «mediatore» tra istanze inconsce e realtà oggettiva, talvolta essere privo della forza psichica necessaria a gestire la tensione che è generata dall’essere contemporaneamente «mezzo» e «creatore», rinunciando alla dimensione religiosa e alla posizione filosofica che lo investirebbero oltre le sue possibilità. Il nichilismo del ’900 aggrava la sua condizione di impotenza, che spesso esprime attraverso un passaggio all’azione artistica trasferendo l’«istinto» in un sistema di «tracce» che afferiscono alla sfera concettuale, informale, linguistica. Il linguaggio dell’arte contemporanea tende quindi ad esprimere l’aggressività e la violenza applicando una ferita alla rappresentazione: con Picasso (e Les demoiselles d’Avignon, 1907) crolla il dominio della forma e ha inizio la grande trasformazione delle rappresentazioni, che si trasferiscono nel dominio della metaforizzazione. Impariamo dalla psicologia interpersonale di Romano Biancoli che

la passione di controllare non si placa mai, perché la sicurezza che rincorre svanisce nel momento in cui è afferrata. Volendo agguantare la vita, ci si ritrova padroni solo di uno schema di vita. […] L’efficacia del controllo e la voluttà che esso procura stanno nell’alternarsi ottimale fra stretta della presa e suo allentamento. La passione del controllo si intensifica fino all’affacciarsi della morte e poi si ferma39.

La connotazione fortemente narcisista dell’arte contemporanea rende sempre più improbabili i processi di identificazione che stanno alla base della visione e re-visione della dimensione creativa. L’opera d’arte cede il posto alla performance e all’arte informatizzata e multimediale. La perdita massiva della quota «concreta» che caratterizza questo attuale e complesso «mondo» iper-comunicativo necessità di una risposta da parte dell’Uomo.
L’Io, la Coscienza, necessitano di un campo visivo, relazionale, di movimento e di linguaggio che riportino ad una condizione primaria e primigenia l’espressione concreta del mondo delle rappresentazioni. La società contemporanea ha esploso il rimosso del corpo attraverso una particolare forma di psicodramma che vede protagonista la superficie corporea e il mondo delle relazioni sessuali come unici scenari disponibili al ritorno delle rappresentazioni.
La costellazione di Ombra che si delinea apre ad orizzonti che richiedono amplificazioni dell’analisi della funzione trascendente nella psicologia dell’artista e nelle dinamiche interne all’arte contemporanea. Il narcisismo sociale e individuale, tematiche di una vastità estrema, che mettono timore e tremore.

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1Metamorphoseon libri XV, poema epico in latino scritto tra il 2 e l’8 d.C., libro III.
2 G. DELEUZE, Francis Bacon. La logica della sensazione, pp. 29-31. Quod Libet, Macerata 1995 (ed. originale: Francis Bacon. La logique de la sensation, Éditions de la différence, Parigi 1981).
3 Deleuze si riferisce a Bacon, quando si chiede perché Velàzquez poteva restare tanto vicino alla “figurazione”. E risponde che, da un lato, la foto non esisteva ancora e, dall’altro, la pittura era legata a un sentimento religioso, sia pure vago, in Conversazioni, ovvero La brutalità delle cose: conversazioni con David Sylvester, di Francis Bacon, nei “Quaderni Pier Paolo Pasolini”, Editore Associazione Fondo Pier Paolo Pasolini, 1991, pp. 26-27 (David Sylvester, The Brutality of Fact: Interviews with Francis Bacon 1962-1979). Gilles Deleuze dice inoltre a questo proposito: «E quando Bacon, per parte sua, parla della foto e del rapporto fotografia-pittura, dice qualcosa di molto più profondo», in Francis Bacon Logica della sensazione, op. cit., p. 29.
4 F. ORLANDO, Costanti tematiche, varianti estetiche e precedenti storici, p. XII, saggio introduttivo a M. PRAZ (1930), La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, Bur, RCS, Milano 20092 .
5 Ibidem.
6 C.G. JUNG (1967), Opere Complete, vol. XIII par. 54, p. 47. Ed. italiana a cura di L. AURIGEMMA, Bollati Boringheri, Torino 1966-2007.
7 Nel 1966, nel saggio Forme e trasformazioni del narcisismo, Kohut sostiene che «L’antitesi del narcisismo non è la relazione oggettuale, ma l’amore oggettuale. Una profusione di relazioni oggettuali può occultare l’esperienza narcisistica del mondo oggettuale, mentre l’apparente isolamento può essere lo scenario per una quantità di investimenti oggettuali abituali».
8 H. KOUTH (1957), La ricerca del Sé, Bollati Boringhieri, Torino 2005 (Death in Venice by Thomas Mann. A story about the disintegration of artistic sublimation, Psychoanal Q, n° 26, pp. 206-228).
9 H. KOUTH (1971), Narcisismo e analisi del Sé, trad.it. Bollati Boringhieri, Torino 1976.
10 R. ROSSI, L. ATTOLINI, L’arte del guarire o guarire con l’arte, Revue des Littératures de l’Union Européenne, n. 6, 2007, pp. 73-83. www.rilune.org
11 Tratto da I. BATTAGLINI, La memento mori di Andy Warhol. Frontieradipagine_magazine on line. Polo Psicodinamiche, Prato 2014
12 A. DANTO, Quotidianità e sacralità nell’arte di Andy Warhol, in G. MERCURIO (a cura di), Andy Warhol. Pentiti e non peccare più! (Repent and sin no more!), SkieaMilano, Skira, 2006.

13 T. ANDINA, Arthur Danto. The Abuse of Beauty, 2003, in “2R – Rivista di Recensioni Filosofiche”, vol. 6, 2007.
14 Cfr.: H.S. BECKER, I mondi dell’arte, ed. italiana a cura di M. Sassatelli, Il Mulino, Bologna 2004.
15 D. MELTZER, Sinceridad y otros trabajos, Spartia, Buones Aires, 1997, p. 493.
16 D. MELTZER, M. HARRIS WILLIAMS (1988), The Apprehension of Beauty. The Role of Aesthetic Conflict in Development, Art and Violence. London: The Roland Harris Educational Trust [trad. it. Amore e timore della bellezza: il ruolo del conflitto estetico in sviluppo, l’arte e la violenza. Roma: Borla, 1989].
17 Tratto da I. BATTAGLINI, op. cit., 2014.
18Tratto da I. BATTAGLINI, Il gesto in piena di Cy Twombly, Frontieradipagine_magazine on line. Polo Psicodinamiche, Prato 2013.
19 Cfr.: C. MCCARTHY, Oltre il confine, Einaudi, Torino 2006.
20 A. GUGGENBÜHL-CRAIG, Il bene del male. Paradossi del senso comune, Moretti&Vitali, Bergamo 1998, pp. 27-28.
21 Tratto da I. BATTAGLINI, op. cit., 2013
22 Lyotard adopera la parola “figurale” come sostantivo, e per opporla a “figurativo”. Cfr: J.-F. LYOTARD, Discorso, figura (1971), Edizioni Unicopli, Milano 1988.
23 H. KOHUT, Potere, coraggio e narcisismo: psicologia e scienze umane, Astrolabio, Roma 1986, p. 123.
24 F. BACON, La brutalità delle cose. Conversazioni con David Sylvester, Quaderni Pier Paolo Pasolini, Garzanti, Milano 1991, p. 35.
25 G. DELEUZE, Francis Bacon. La logica della sensazione, pp. 117-125. Quod Libet, Macerata 1995 (ed. originale: Francis Bacon. La logique de la sensation, Éditions de la différence, Parigi 1981).
26 Ibidem.
27 P. MIGONE, il Concetto di Narcisismo, in Il ruolo terapeutico, Psicoterapia e Scienze Umane, 1993, pp. 63-64.
28 K.TEIGE, Il mercato dell’arte, in K. TEIGE, Il mercato dell’arte. L’arte tra capitalismo e rivoluzione, a cura di G. PACINI, Einaudi Torino 1973, p. 12.
29 F. LYOTARD (1971), Discorso, figura, Edizioni Unicopli, Milano 1988.
30 X. NIBRANDT, La schiuma dell’inconscio. Un approccio lyotardiano alla deformazione negli autoritratti di Francis Bacon. Esercizi Filosofici 3, 2008, pp. 72-89.
31 «Per me l’arte è un’ossessione della vita e poiché siamo degli esseri umani, siamo noi il soggetto della nostra ossessione. Poi vengono gli animali e dopo ancora il paesaggio» (F. BACON, in D. SYLVESTER, 1991, p. 49).
32 Il giudizio di R. Alley è riportato, assieme alle circostanze del rinvenimento, nel quotidiano Daily Telegraph, 18 giugno 1998 (at http://www.francis-bacon.cx./newfound/bacon-stewart.html).
33 X. NIBRANDT, Op. cit.
34 G. DELEUZE, Francis Bacon. La logica della sensazione, pp. 184-185. Quod Libet, Macerata 1995 (ed. originale: Francis Bacon. La logique de la sensation, Éditions de la différence, Parigi 1981).
35 F. POLI, Fontana. Spazio e libertà, in “Arte”, mensile di arte, cultura, informazione, Aprile 2014, pp.70-76.
36 Ibidem.
37 M. ZAMBRANO (1945), La distruzione delle forme, in Dire Luce. Scritti sulla pittura, a cura di Carmen Del Valle, Bur, Milano 2013, pp. 49-64.
38 G. CUCCI, A. MONDA, L’arazzo rovesciato. L’enigma del male, Cittadella Editrice, Assisi 2010, pp. 135-136.
39 R. BIANCOLI, Controllo e creatività, Relazioni al convegno “Dalla necrofilia alla biofilia: linee per una psicoanalisi umanistica“, Firenze 1986.

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Irene Battaglini, 2014
ceo@polopsicodinamiche.com

I contenuti di questo articolo sono parte integrante e sono pubblicati in versione tradotta sul Dynamic Psychiatry Intl Journal, Pinel Verlag Human Psychiatrie, Berlin.
Per gentile concessione della Prof.ssa Maria Ammon, Dap, Berlino, sono stati pubblicati on line in:
Frontiera di Pagine, Prato www.polimniaprofessioni.com/rivista/
e Psicoanalisi Neofreudiana, Prato www.ifefromm.it/rivista.php
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La memento mori di Andy Warhol

di Irene Battaglini

L’Immaginale

articolo in pdf La memento mori di Andy Warhol

 

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andywarhol-self-portrait-1986

Andy Warhol – autoritratto (1963-64)
 

The integrated internal combined object learns from experience in advance of the self and is almost certainly the fountainhead of creative thought and imagination.  (Donald Meltzer, The Claustrum, 1992)

Odio e amore sono  differenti aspetti della stessa costellazione emozionale e necessitano di esser esperiti simultaneamente perché siano costruttivi. La chiave dello sviluppo è passione e turbolenza, su di una scala qualitativa, piuttosto che quantitativa – gli incrementi possono essere anche minuscoli. Mentre il concepire le relazioni intime sia nella vita che nell’arte come prive di conflitti, risulta ad un’indebolita, eccessivamente liberale, mentalità “soft umanista”(Meg Harris Williams, 1986)

Si è soliti pensare che la percezione del volto umano si modifichi per due ragioni, per lo più: per il trascorrere del tempo, invecchiando, e per il “passaggio” mimico delle espressioni, delle emozioni, dei pensieri, degli elementi paralinguistici della comunicazione. Naturalmente il volto può cambiare anche a causa di un trauma, o transitando dall’infanzia all’adolescenza, subendo variazioni antropometriche significative che possono influire sull’immagine di sé di chi ne è portatore, anche a livello dell’identità. Andy Warhol (Pittsburgh, 6 agosto 1928 – New York, 22 febbraio 1987) entra nel mito dell’iconografia con l’innesto di un nuovo livello di rappresentazione del volto: il cambiamento avviene a livello di organizzazione topologico-cromatica, attivando connessioni tra “aree” facciali che solitamente non vengono “prese insieme” per la qualità (i colori) dai centri del sistema nervoso dedicati al riconoscimento dei volti ma per i rapporti dimensionali. Egli stesso, in realtà, non fa che diventare il volto dell’arte contemporanea, sebbene egli stesso in continuo mutamento di immagine e di concettualizzazione del proprio lavoro.

Andy Warhol afferma l’esordio della grande arte contemporanea americana anche attraverso i suoi famosissimi ritratti, e con questi attua il grande cambiamento (a partire dagli anni ’60) anche al livello del genoma linguistico della stessa Pop Art. Se Andy Warhol nei ritratti sancisce una modalità completamente nuova di interpretare il volto umano, con un cambiamento radicale delle tracce neurali che vanno a “comporre” una identità attraverso la faccia, è vero anche che attraverso questo complesso meccanismo di ristrutturazione cognitiva, percettiva ed emozionale consacra l’immortalità di quei volti, di quegli esseri umani ritratti, transitando con un salto psicologico di proporzioni titaniche da una dimensione mondana ad una dimensione iperuranica con cui ci dice qualche cosa a proposito del rapporto con la morte e la caducità della vita umana. Dice Antonio Spadaro:

<<La morte del padre, quando Warhol era ancora molto giovane, lo aveva profondamente segnato. Ma consideriamo pure che egli si salvò da un tentativo di omicidio per mano della fanatica femminista radicale Valérie Solanas. Molti sono i segni di morte o decadenza che lo accompagnarono nella sua breve vita. […] Warhol esorcizza il timore della perdita e della dissoluzione ostentando la morte nella sua riproducibilità mediatica. C’è qualcosa di elusivo e di «scivoloso» nell’opera warholiana. È vero: Warhol ci ha ingannati, il suo è un camuffamento. Chi considera la sua opera come il trionfo delle merci, dei colori del consumo e del successo mondano, perde di vista il gusto amaro dell’effimero che appare evidente, in realtà, considerando le sue «icone» di Marylin Monroe (che era appena morta) o di Jacqueline Kennedy (ritratta dopo la morte del marito), Liz Taylor (malata di alcolismo), Elvis Presley, ma anche Lenin, che viene ritratto a morte e imbalsamatura avvenute. La felicità sembra essere il retro della tragedia>>.[1]

Andy Warhol si avvicina al ritratto con astuzia mercuriale, attraverso una potentissima opera di elusione delle regole pittoriche, tanto è vero che egli non è da tutti considerato un artista nell’accezione classica del termine ma più verosimilmente un fenomeno di tipo socioculturale e mediatico. C’è da dire che “artista” è una parola ambigua e spesso diventa il contenitore per le persone il cui contributo esce dalle cornici delle forme fino a quel momento conosciute. In ogni caso le sue opere sono un elemento centrale nelle dinamiche dell’arte contemporanea e direi della Storia dell’arte più in generale.

<<C’è un quadro di Klee, – dice Walter Benjamin nelle “Tesi sul concetto di storia” (1939-40, Sul concetto di storia, Einaudi, 1997), – che si chiama Angelus Novus. Vi è rappresentato un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui ha fisso lo sguardo. I suoi occhi sono spalancati, la bocca è aperta, e le ali sono dispiegate. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e riconnettere i frantumi. Ma dal paradiso soffia una bufera, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che l’angelo non può più chiuderle. Questa bufera lo spinge inevitabilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle, mentre cresce verso il cielo il cumulo delle macerie davanti a lui. Ciò che noi chiamiamo il progresso, è questa la bufera>>.[2]

Nella Storia dell’arte i ritratti di Andy Warhol sono una sequela di declinazioni fisiognomiche dell’Angelus Novus incarnatosi nei personaggi profetici ivi rappresentati. Quando muore Marilyn Monroe, nell’agosto del 1962, Warhol rende omaggio all’attrice con una serie di opere che partono da una fotografia diffusa dalla stampa di tutto il mondo del viso ormai mitico della star. Dal 1972 si dedica soprattutto al ritratto: personaggi famosi della moda e del jet set (Giorgio Armani, Carolina di Monaco…), politici (Mao Tze Tung…), attori (Liz Taylor…), cantanti (Mick Jagger…), artisti (Keith Haring, Basquiat…) e se stesso. Quei volti sono sembianze, “sembianti”, sembrano e non sono, potremmo dire, ma vogliono dire. Vogliono esporre un tentativo di rappresentare il passato di quelle vite in una prospettiva storiografica mercificatoria dell’identità. L’ottica di Warhol non ha alcun intento moralizzatore. Egli è scaltro, ineffabile, attento ai bisogni dei clienti, al pari di un ineguagliabile couturier. L’identità espressa nei ritratti è “passata”, la vita è “trascorsa”, sfiorando quel corpo eletto a simulacro e divenuto oggetto della compravendita dei diritti di servitù per il passaggio di accesi colori stesi “a zona”. Nulla vieta che il patchwork possa produrre coperte che scaldano, ma è complicato fare del patchwork qualche cosa di veramente nuovo, perché si tratta di pezzetti presi qua e là da cose conosciute e consumate. Diventa nuovo se genera un insieme diverso dalle parti di cui è composto, ma non soltanto perché è qualche cosa di più della somma delle parti. Voglio parlare dell’immagine che si costella a partire dal mosaico di elementi accostati che presi singolarmente non alludono al tutto, poiché quel tutto è qualche cosa di nuovo che non sarebbe esistito senza quel preciso modo di mettere insieme le parti e che non dipende tanto dalle parti quanto dall’equazione compositiva che sta nella mente del mosaicista. I colori usati da Warhol sono già conosciuti nel mondo della moda, i volti sono di vite consumate dalla fama, dalla vita, dal successo. Come ha potuto egli arrivare ad un volto completamente nuovo, ad esempio, di Marylin, senza svilirne l’eleganza e senza utilizzare elementi ulteriori? Probabilmente con la potenziale spinta necrofila di chi deve mantenere in vita ciò che vivo non è. Attraverso l’illusione del venditore. L’illusione tra l’immagine emergente e la sua verità sottostante (che afferisce alla memoria di quel volto nell’immaginario comune) genera uno iato di senso difficilmente catalogabile. Se la forma resta identica (il volto), se il nome resta invariato (ad esempio Marylin), perché immediatamente ricaviamo l’idea di qualche cosa di completamente diverso, che si proietta nel futuro alla stregua di una icona museale? In altre parole, perché una fotografia semplicissima del volto di Marylin all’improvviso dovrebbe assomigliare ad un vaso cretese elegantemente decorato, in cui il vaso perde la sua funzione di utensile per addivenire il palco della narrazione di una storia? E che storia racconta il ritratto di Marylin? Parla di lei o più verosimilmente parla di quello che lei NON è stata?, ovvero racconta quelle cose del suo volto di cui non ci eravamo accorti? La sua bellezza ubertosa viene stravolta a favore della possibilità di consumarla attraverso l’utilizzo del quadro sulla scorta dei bisogni dello spettatore. Esattamente come avrebbe fatto lo spettatore nelle sue fantasie private, ma tuttavia in questo caso alla piena luce, gettate in faccia, eliminando la componente di Ombra, l’elemento “segreto”. La privatezza della proiezione – una sorta di autonomia iconologica che ciascuno di noi coltiva nel proprio dominio psicologico – viene sostituita dalla valenza “sociografica” dell’idea di Marylin, che si fa oggetto seriale un po’ come un articolo di consumo, un barattolo della Campbell. Non a caso dagli anni ’60, Warhol trova altre fonti d’ispirazione, lontane dai prodotti dei negozi lussuosi e si rivolge agli articoli di consumo di massa americani venduti nei supermercati del Bronx e di Brooklyn. Il fenomeno di appiattimento che deriva dall’eliminazione della profondità volumetrica – o dalla rimozione dell’ombra in senso stretto, o dell’Ombra in termini archetipici – fa fuori in un solo colpo diversi secoli di dominazione della prospettiva di Brunelleschi e di conseguenza attiva l’associazione per cui ciò che è seriale è anche privo di futuro e di spessore, è privo di personalità ed è controdipendente, è un soldatino implotonato, un dispositivo sociale utile alla collettività. Tutto questo utilizzando i colori in semplici campiture piatte. Certo! Tuttavia non sono le campiture piatte di un allievo inesperto, ma le implosioni cromatiche di un genio creativo della moda e della comunicazione, che si fa in questo caso “artista del suo tempo”, inquieto anfitrione della sua Factory, un polo d’attrazione per la scena culturale newyorkese. Molti artisti si ritrovano in questo atelier ed è lì che nasce il gruppo rock Velvet Underground.  Con Roy Lichtenstein, Claes Oldenburg, Robert Rauschenberg e Jasper Johns, egli fonda incolpevolmente la discussa Pop Art americana. Il suo contributo è qualche cosa di assimilabile all’idea di “rumore” del filosofo austriaco Heinz von Foerster (1911-2002), da cui il paradossale “principio dell’ordine dal rumore”: in un sistema complesso, il rumore non è sempre fonte di disordine, ma può invece portare a una crescita di organizzazione. Perché non è tanto l’arte contemporanea ad essere “sconvolta” da questo “perturbante”, quanto il mondo dell’arte. Sostiene Philippe Daverio: «All’inizio degli anni Sessanta la Pop Art conquistò l’Europa e oggi non si può prescindere da questa corrente artistica per indagare l’arte dei nostri giorni, comprese le sperimentazioni delle giovani generazioni d’Italia». Il mondo dell’arte infatti, attraversa a partire dalla Pop Art – e non solo per mano della Pop Art, ma in risposta ad una tensione interna irrisolta –una dinamica regressiva che porta alla dissoluzione della materia nell’opera d’arte. Se Picasso in Europa compie la stessa operazione “ferendo” la figura, e chiudendo pressoché definitivamente il capitolo millenario del dominio della forma, Warhol non ferisce ma, si potrebbe dire ab-usa, usa illecitamente e smodatamente non tanto la forma quanto l’immagine che stabilisce una nominazione: il nostro volto è l’istanza primaria che si collega al nostro nome, ma anche la Brillo Box identifica un mondo, una categoria, e Warhol stravolge non il significato ma la rappresentabilità di quell’istanza. Sempre Spadaro:

<<Se guardiamo i quadri di Warhol avendo presenti le icone orientali verifichiamo che sono molti gli aspetti comuni. Il fondo oro delle icone si traduce nel fondo dal colore astratto, vivido e acceso, dei suoi ritratti. La staticità della rappresentazione orientale[3] è data dal senso di «fermo immagine» che si sperimenta guardando le sue opere, sia che rappresentino persone, sia che rappresentino oggetti. La decontestualizzazione è massima rispetto al contesto visivo e a quello storico. Così è anche evidente la mancanza di coinvolgimento emotivo. I contrasti sono accesi. Il confronto tra le icone e i quadri di Warhol può sembrare ardito, ma diventa piuttosto naturale se condotto avendo davanti agli occhi le immagini. I quadri di Warhol sono vere e proprie «icone pop», com’è stato detto. I suoi ritratti sono quelli dei «santi» pop. Accanto a queste figure però, è da notare che nella sua produzione è sempre ben presente il tema della morte e della caducità della vita. […] Non fu possibile per Warhol sottrarsi a una sorta di costante memento mori>>.[4]

Decontestualizzare equivale ad estirpare, sradicare, se in gioco è l’identità. Una componente aggressiva che mal si coniuga al tema della spiritualità (ripreso anche da Arthur C. Danto in Quotidianità e sacralità nell’arte di Andy Warhol)[5]  in cui dovrebbe essere sublimata, canalizzata. L’affettività ne risulta coartata, perversa, autodistruttiva. La grandezza di Warhol sta principalmente nell’aver trasformato il conflitto estetico di base in una appassionata contrapposizione tra notorietà e originalità, da una parte, e riproducibilità e serialità, dall’altra. Lo stesso Gianni Mercurio in una intervista a www.ilsussidiario.net:

<<Il rifiuto dell’unicità sembra in effetti una delle sue più «diaboliche» invenzioni, non so se consapevole o no, ma con Warhol l’inconsapevolezza è assai remota perché in lui di casuale c’è ben poco. Egli si appropria ed estremizza il famoso concetto di Walter Benjamin della riproducibilità. Benjamin era di matrice marxista e l’annullamento in lui dell’aura di unicità propria dell’opera d’arte in qualche modo era bilanciata in favore della popolarità dell’arte, che doveva raggiungere le classi meno abbienti. Warhol fa la stessa cosa ma al servizio, in qualche modo, del capitalismo. Spoglia della matrice marxista la molteplicità di Benjamin, e la riveste con un matrice di tipo capitalista>>.

Tuttavia la critica d’arte e le teorie formaliste sembrano non possedere gli strumenti diagnostici per comprendere il cambiamento avvenuto nell’arte contemporanea, per capire e spiegare quello che di nuovo si trova davanti, e per “leggere” opere come la Brillo Box o l’orinatoio “Readymade” di Marcel Duchamp. Liquidare il tutto con un editto, dichiarare che “non sono opere d’arte”, non spiega perché tra le due scatole di detersivo Brillo, quella di Warhol trovi posto nei musei, e quella “originale” (che è però “seriale”) trovi spazio sugli scaffali dei supermercati. Tiziana Andina, nella recensione di The Abuse of Beauty di Arthur Danto, sostiene che «in questa prospettiva, l’inafferrabilità della Pop Art è, in fondo, un problema eminentemente filosofico, anzi a ben guardare, metafisico».[6] In estrema sintesi Danto vorrebbe offrire

<<una teoria essenzialista. In che significa che se prescindiamo dal punto di partenza, che può sembrare quanto di più storicamente determinato si possa immaginare, Danto intende fornire una definizione universale dell’arte, vale a dire una definizione che non si veda costretta a mutare storicamente seguendo i mutamenti dei suoi oggetti. Per questo, la definizione che Danto ha in mente deve essere sufficientemente ampia e flessibile da poter includere anche le scatole Brillo e da poter giustificare l’inclusione o l’esclusione della bellezza dall’arte contemporanea>>.[7]

Infatti il problema è fondazionale, e il critico, a partire dal pretesto della Brillo Box, si trova incagliato in una palude di contraddizioni, che hanno per oggetto principale il tema della Bellezza e i suoi assunti. La riflessione di Danto non si esaurisce  all’interno di categorie filosofiche ma tiene conto degli aspetti storici e sociologici: «La tesi di Danto, estremamente coerente negli anni, è che il formalismo non colga nel segno nella misura in cui non tiene conto della dimensione storica delle opere. La Brillo Box non avrebbe potuto avere il valore e il significato che ha se, poniamo, Warhol avesse avuto la stessa identica idea nel 1864».[8] Ed è il sociologo Howard S. Becker – noto per la “teoria dell’etichettamento sociale” – a dare sostegno a questa lettura: nell’opera I mondi dell’arte (1982; Il Mulino, 2004), egli propugna una «sociologia del lavoro applicata all’attività artistica» al posto di una «sociologia dell’arte». L’approccio etnografico inaugura quindi il grande fiume delle teorie contestuali. Utilissime, e rischiose: ci allontaniamo dall’urgenza di Danto di trovare una definizione si flessibile, ma universale, senza tempo, di opera d’arte. Il problema quindi si pone come una costante che si sposta continuamente, aprendo ad uno scivolamento relativistico. Una zattera, il cui intreccio porta con sé il background socioculturale del naufrago-inventore, in cui la validazione del processo artistico è definita dalla tenuta di mare della zattera, la cui “bellezza” sarà il frutto dell’apprezzabilità pratica. In altre parole Warhol ridefinisce il “contenuto” dell’opera d’arte a partire da due elementi costitutivi: la “cassetta degli attrezzi” e l’accessibilità agli occhi del mondo.

Tuttavia, questo non è sufficiente a comprendere come, ad un certo punto, si sia dovuto cambiare il modello interpretativo per far fronte alla nuova realtà, connotata dalla destrutturazione della forma e dell’immagine, dalla smaterializzazione, e dall’inclusione delle tecniche più svariate e innovative, negli atelier e nelle scuole, in cui il gesto e l’azione sostituiscono la contemplazione, lo studio, il duro lavoro di bottega. A quale esigenza non tanto dell’artista ma dell’uomo, risponde questo fenomeno? Qual è quell’uomo che non ha più bisogno della forma classica, ma che sente come affine al suo gusto la forma destruente, l’immagine dissonante, l’installazione rarefatta, che si priva dei maestri (e quindi degli allievi) per far posto agli artigiani estetici? Perché la Pop Art non avrebbe una così grande rilevanza se non avesse sradicato la pittura dalla storia. E se non avesse inaugurato la trasformazione del Dna dell’arte il cui sviluppo è oggi ad un intricato crossing-over: un punto di non ritorno, una perdita della tradizione e della conoscenza che, con le nuove generazioni, non sarà possibile recuperare. Ma il nostro occhio deve essere addestrato al disincanto, poiché tutto è in perenne divenire, e nulla di ciò che osserviamo è privo di un suo precipuo inconscio.

La deriva narcisistica che sta alla base della dinamica dissociativa, che tende a separare l’oggetto dal soggetto, offre possibili sponde interpretative non solo di Andy Warhol ma di molta arte contemporanea. Partiamo dal «conflitto estetico» di Donald Meltzer: «Il conflitto estetico è quel conflitto suscitato dalla bellezza del mondo e dalla sua rappresentazione primaria»;[9] «… la madre bella che si offre agli organi sensitivi… (del bambino)… e il suo interno enigmatico che deve essere costruito attraverso l’immaginazione creativa»[10]. Si tratta di andare a comprendere l’impatto estetico che la “vista” della madre-arte ha sulla psicologia dei figli-artisti. Questa madre sembra come assente, sorda, cieca, taciturna, assorbita dalla sua necessità di generare e diffondersi, mentre all’uomo il grave peso di insegnare, imparare, insegnare, imparare. Migliorare, accendere, pregare, servire, trasferire conoscenza, incendiare città, costruire città, attraversare oceani, essere pronto a salpare ancora. È priva, questa madre-arte, di una “visione” longitudinale del destino dell’uomo-apprendista, tutta protesa com’è a estendersi, a ramificarsi, a decorare tutte le chiese, a ornare le case, a farsi storia, guerra, società, organizzazione, impresa. Il ripiegamento dell’uomo su se stesso, la sua solitudine, si riflettono sulla sua capacità simbolica. Meg Harris Williams:[11]

<<Usando una vecchia metafora (di Platone) spesso ripetuta dai poeti, Bion dice che la conoscenza è derivata per mezzo di LHK,[12] che costituisce “cibo per la mente”. Questo cibo prende la forma dei simboli, che incorporano la conoscenza nella personalità. In questo la teoria psicoanalitica è in linea con la poetica Romantica, rappresentata da Coleridge quando dice che «un’idea non può essere trasmessa se non da un simbolo» (Coleridge, 1816). Anche la Klein aveva riconosciuto che la formazione dei simboli era la base per tutte le attitudini (e come è risultato dal suo lavoro con i bambini, era ben consapevole che un simbolo non necessariamente è verbale, ma è un mezzo per l’espressione di una fantasia inconscia in ogni mezzo) – l’immaginazione, come i sogni, e così il teatro emozionale degli oggetti interni e di oggetti parziali. […] Don [Donald Meltzer] ha preferito non allontanarsi dai termini tradizionali kleiniani della madre interna e dell’oggetto combinato. I poeti inglesi, similmente, vedevano la loro musa come “mediatrice” tra la massima divinità e l’anima infantile che sta per ottenere una personale “identità” (Keats, 1819). […] Nella critica letteraria «l’ansia da influenza» (Bloom) si riferisce a quel tipo di competitività maschile provata nei confronti di un poeta precedente. In ogni caso, nello scrivere genuinamente e con ispirazione, questo è abbandonato a favore di una rispondenza tra oggetti interni (Williams). Invece di suscitare zoppicanti dubbi e sospetti, il predecessore raggiunge un livello più alto di astrazione – ciò che Bion chiama la «compagnia divina interna» e Meltzer «i santi e gli angeli della realtà psichica» (Meltzer 2005, 428). Tutto ciò non è compiacenza dell’idealizzazione; al contrario, provoca dedizione alla causa della promulgazione della bellezza di tali idee e del contributo al «frutto del mondo» (come dice Keats). Don ha descritto la propria ispirazione a Bion in Studi di metapsicologia allargata (Armando ed.). Qui egli riporta come abbia capito che la costellazione emozionale di L, H, K corrisponda all’impatto della bellezza della madre sul neonato, inizialmente ad un livello di oggetto parziale: «In principio era l’oggetto estetico e l’oggetto estetico era il seno e il seno era il mondo» (Meltzer 1986, 204)>>.

Andy Warhol è l’uomo che esprime appieno la contemporaneità dell’artista privato del conflitto estetico, si muove in una direzione apparentemente caotica. La bellezza della Grande Madre-Arte è estraniante, metamorfica, il suo seno è inafferrabile e forse troppo lontano: la vecchia Europa con le sue cattedrali è inaccessibile, soverchiante di bellezza nelle segrete e nelle catacombe, chiusa a difendersi dalle minacce della guerra. La società “occidentale” diventa la madre presente, che consente l’unica possibile simbolizzazione attraverso la distruzione della bellezza negata. La reciprocità di proiezione tra arte e oggetto dell’arte si costella come unica forma di identità, segnando il destino autoreferenziale e narcisistico dell’arte che seguirà negli anni successivi, in America come in Europa. Warhol sembra utilizzare quindi il potenziale emozionale negativo di dotazione, per neutralizzare l’impatto della bellezza sulla sua fragile e bizzarra struttura polimorfica. Il suo merito è quello di aver reso “accessibile”, come un oggetto sostitutivo, l’inafferrabile. Marylin, inafferrabile. Detersivi e scatole di minestra, scarpe e poltrone, residui di memoria di una madre-altrove.


[1] Antonio Spadaro S.I., Quale religiosità nell’arte di Andy Warhol?, La Civiltà Cattolica 2007 III 54-60 quaderno 3769 (7 luglio 2007)

[2] http://www.filosofico.net/benjamin.htm

[3] Spadaro qui si riferisce alla considerazione di Gianni Mercurio per cui «Si resta sconcertati dal fatto che pochi critici negli anni passati, ma soprattutto nel periodo in cui Warhol era vivo, abbiano notato l’evidente richiamo, anche stilistico della sua opera con le icone delle tradizioni tardo bizantina e russo ortodossa», in G. Mercurio, Andy Warhol ci ha ingannati, in Andy Warhol. Pentiti e non peccare più!, 2006, Skyra

[4] Antonio Spadaro S.I., Quale religiosità nell’arte di Andy Warhol?, La Civiltà Cattolica 2007 III 54-60 quaderno 3769 (7 luglio 2007)

[5] Quotidianità e sacralità nell’arte di Andy Warhol in Andy Warhol. Pentiti e non peccare più!, 2006, Skyra

[6] Tiziana Andina, Arthur Danto, The Abuse of Beauty, 2003, in “2R – Rivista di Recensioni Filosofiche”, vol. 6, 2007 www.swif.uniba.it/lei/2r

[7] ibidem

[8] ibidem

[9] p. 493, Sinceridad y otros trabajos, Spartia, Buones Aires, 1997

[10] Amore e timore della Bellezza, 1989, Borla (The apprehension of Beauty, 1988)

[11] Meg Harris Williams, (2005, 2011), Genesis of the ‘aesthetic conflict’, www.harris-meltzer-trust.org.uk/ papers;  traduzione a cura di Teresa Tona

[12] Meg Harris Williams si riferisce qui alla griglia dei “vertici” del potenziale emozionale positivo di Wilfred Bion, in contrapposizione alla “griglia negativa” di -L, -H, -K che corrispondono alla negazione dei fatti emozionali.

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Ringrazio il prof. Franco Bruschi per i contributi bibliografici offerti alla mia ricerca dalla sua libreria.

© articolo stampato da Polo Psicodinamiche S.r.l. P. IVA 05226740487 Tutti i diritti sono riservati. Editing MusaMuta®  www.polopsicodinamiche.com     www.polimniaprofessioni.com

Irene Battaglini “La memento mori di Andy Warhol”, 10 marzo 2014

Il gesto in piena di Cy Twombly

di Irene Battaglini

Prato, 30 settembre 2013

Cy Twombly

 

«Art is the triumph over chaos». John Cheever,  The Stories of John Cheever (1978)

articolo in pdf  IL GESTO IN PIENA DI CY TWOMBLY

 
 
 
 

The Four Seasons, Spring, Summer, Autumn and Winter, 1993-1994, Cy Twombly 2The Four Seasons, Spring, Summer, Autumn and Winter, 1993-1994, Cy Twombly 3The Four Seasons, Spring, Summer, Autumn and Winter, 1993-1994, Cy Twombly

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

The Four Seasons, Spring, Summer, Autumn and Winter, 1993-1994, Cy Twombly 4

The Four Seasons: Spring, Summer, Autumn, and Winter. 1993-94, Synthetic polymer paint, oil, house paint, pencil and crayon on four canvases

L’arte di Cy Twombly è un grido sull’America. Un richiamo di sangue e di cieli densi di fiori che si rompono in un boato crespo di farfalle contaminate. La sua pittura è un fiotto che rompe gli argini dell’armonia, è un soffio che imprime voli per mete non raggiunte, non possibili. La pittura di Twombly (Virginia, 1928-Italia 2011), esprime il fallimento delle utopie moderniste. Illeggibile, incoerente, improbabile. Eppure è vera e bellissima. Bisogna capire come sia stato possibile creare questa unione violenta e irreversibile, come un aereo in velocissima precipitazione che prende fuoco sulla coda, e nell’atto di avvolgersi su di sé diventa una stella cometa. Quadri di una straordinaria epifania cromatica, di luce che esplode. In cui segni, colori e forme sono gli strumenti dell’agrimensore in un pianeta desertico di cui scongiura l’imminente deflagrazione. Sono il canto e la preghiera di un ultimo uomo verso Dio i cui occhi, che per dirla con McCarthy, un altro americano dignitario della più alta contemporaneità, «tradivano non disperazione, ma soltanto quell’insondabile, profonda solitudine che è l’impronta più tipica di questo mondo». (da Oltre il confine)

Tutta l’arte di Cy Twombly (pittore, incisore, disegnatore, scultore) è notte inoltrata che deflagra nell’aurora, è il “linguaggio dimenticato” di Erich Fromm su una lavagna stridente, è ardesia che si sbriciola a creare forme improbabili, è gemmazione di scarabocchi di luce bruciante dalle forme svelte, come le braccia di un nuotatore esperto che farfugliano nell’abisso e che nell’inconscio tumulto non smarriscono – nello smarrirsi – l’eleganza di quanto hanno appreso.

Il “quadro” deciso da Cy Twombly è una forma concreta di non-pittura, è una decisione spasmodica di andare verso la crisi linguistica e di immergersi in questo spasmo come all’imbocco della neoplasia che ha corroso velocemente l’universo percettivo del cui declino siamo attori, costretti alla visione monoculare della realtà dell’emarginazione o alla confusione conglobante e regressiva dei social-network. È una pittura di voci che si affollano ad un crocevia, dove è obbligato a stare l’artista contemporaneo che deve organizzare e riorganizzare continuamente immagini, metafore e rappresentazioni nella stanza della propria coscienza, che si affligge del proprio paradosso esistenziale, per dover essere nello stesso tempo figlio e dio, creatura e creatore.

Cy Twombly sembra aderire, per far fronte allo stress della devastante mitologia unilaterale del mondo contemporaneo, ad una tradizione “anticreativa”, come se il suo atelier fosse una prestigiosa accademia in cui lo scranno più alto è perennemente disabitato. La sua originalità è così potente che deve per forza nascondersi a se stesso, per capire qualche cosa della sua stessa talentuosa e indisciplinata arte del segno. La tecnica che lo vuole maestro nello sfocare la linea del contorno dal disegno è l’espressione di una strategia di attacco ai fianchi dell’ortodossia, è un modo per dire che l’infante è più indipendente del dio e più arrogante, più violento, più demoniaco. Del resto, il desiderio di unione deve essere spostato in una fuga in avanti verso la dimora della perfezione, verso la quale il puer muove con incessanti cadute e inappagato desiderio.

La proiezione sul futuro, su quello che sarebbe stato un disegno di Cy Twombly se egli ci avesse donato le forme belle del suo immane talento pittorico a detrimento della sua scelta di uomo autentico che decide di farsi scenario del mito della luce del mondo post-industriale, comincia già a costellarsi nel controverso ambiente del ventre materno dell’espressionismo, in cui nascono le sue prime opere, non in ordine ad una casualità, ma ad un divenire in prospettiva mitica del dramma della propria vita lacerata in cui segno e disegno, contorno e ombra, sono scissi eppure appaiati in un affiancamento in cui sembrano alloggiare danzatori solitari. Dice Adolf Guggenbühl-Craig nel libro Il bene del male. Paradossi del senso comune (Moretti&Vitali, 1998, pp. 27 e 28):

«Abbiamo [quindi] a che fare con due tradizioni: da un lato la creatività viene fatta oggetto di ammirazione, dall’altra essa viene ritenuta un attributo esclusivo di Dio e, per quanto riguarda gli uomini, la si considera soltanto una forma di hybris, di tracotanza. Sia quel che sia, con la creatività noi giungiamo faccia a faccia con Dio. E che cosa succede con l’indipedenza? Sicuramente possiamo ritenere che l’unico essere davvero indipendente in questo mondo sia Dio. Per definizione Dio è indipendente da tutto e da tutti, e tutto è dipendente da lui. Egli è l’inizio e la fine, alfa e omega del creato; […]. Noi stessi cerchiamo di raggiungere questo tipo di divinità, cadiamo vittima del complesso di Dio».

La prospettiva mitica fu, per Twombly, forza e sembianza, significato e bellezza. Il pittore amava nutrirsene, e fare dei suoi disegni “veicoli per contenuti letterari”,[i] dai quali cercava di liberare le figure.

L’opera di Twombly, se fosse tutta ordinata su piani paralleli, mostrerebbe una morfologia simile ad una stratificazione geologica intra-psichica in cui sembrano essersi fissati i marcatori del processo alchemico. Gli esordi, agli inizi degli anni ’50, sono connotati dall’influenza di Kline e Paul Klee, e sono prevalentemente pennellate gestuali-espressioniste, in un originale e morbido intreccio di tratti, parole, numeri e porzioni (“frazioni”) di oggetti. È molto attratto dall’Italia, dove si stabilisce definitivamente nel 1960, anno in cui allestisce la prima mostra alla Galleria di Leo Castelli.

Leda and the Swan, 1962, Cy TwomblyGli anni ’60 sono caratterizzati dai cosiddetti “Quadri della Lavagna”, opere di grande dimensioni in cui usava la tecnica calligrafica dei graffiti su sfondi solidi di colore grigio, marrone o bianco (una tecnica a metà tra la pittura e l’incisione), in cui la scrittura viene svestita del suo ruolo comunicativo e trasferita nel campo semantico del gesto, fino a costellare appieno l’action painting, ricco di citazioni come Leda e il cigno (1962, fig.1) o la famosa battaglia di Lepanto. In questo periodo, che è estremamente proficuo, comincia a creare le sue prime sculture astratte, le quali, sebbene varie nella forma e nel materiale, erano sempre ricoperte di pittura bianca. Twombly utilizzerà (e sarà scultore di quest’arte povera per tutta la vita) materiale preso a prestito dal fabbro, dal maniscalco, dal falegname, per dare altezza a forme semplici dalla struttura assemblata, a ricordare l’arte dei mastri antichi nel forgiare gli strumenti del lavoro: un omaggio alle cose, che si liberano della condizione di oggetti utili (come le lettere e la parola scritta) per diventare il simbolo del proprio servilismo: l’oggetto svilito dalla sua destinazione strumentale diventa un soggetto di bellezza silenziosa e perenne, come  in un processo di mummificazione, in cui gesso, vernice, legno, cartone, metallo, carta, stoffa, spago, matite, diventano elementi del lavoro manuale che, ricoperti di vernice bianca e opaca, subiscono l’ultimo trattamento immortale.

Nella metà degli anni ’70 Twombly realizza opere “multistrato”, vere e proprie creature che rappresentano la piena realizzazione del suo repertorio anticonvenzionale, costruite assemblando il collage di fogli ad altri media pittorici.

Gli spazi “vuoti” sono il collante necessario al dipanarsi di una creatività splendente, che attinge spietatamente alla linguistica, piratandone i sistemi di base. Il segno diventa “lemma” e spesso è contratto in un calco filologico: come se un bambino geniale avesse la capacità improvvisa di comunicare attraverso un linguaggio in cui verbo e immagine convergono in una bocca vulcanica fatta di meraviglie e di delicatezze, che vengono alla luce con estrema cura, a  volte con riferimenti geografici, come la serie dei quadri Bolsena (il lago vulcanico vicino a Viterbo).

Apollodoro from the portfolio Six Latin Writers and Poets, 1976-76, Cy TwomblyIn questi lavori, gli elementi grafici si fondono con forza tecnica sempre più rilevante in una sorta di dissoluzione vorticosa, di totale imprendibilità, ma sono talvolta caratterizzati da un nitore fantasmatico, come una sorta di alfabeto decifrabile dalla perizia di pochi eletti, come ad esempio in Apollodoro, (fig. 2), fino a raggiungere negli anni ’90 l’acme estetico di eleganti esemplari floreali che in qualche modo lo ricongiungono, in una sorta di re-unione con il principio, ai Fauve che ne connotarono gli inizi del percorso mezzo secolo prima, nel periodo americano, in cui fu della scuola dei grandi Robert Rauschenberg e Jasper Johns.

Un esempio folgorante è quello delle Quattro Stagioni, giganteschi pannelli che sembrano dimorare tra lo spazio scenico e quello architettonico, in una sorta di danza dei colori che si raccordano in chiazze in perenne tentativo di scendere verso il basso, trattenute contro la tela da invisibili fili, come mani che tentano di mitigare l’urlo di una dea di bellezza arcaica, maestra delle pitture rupestri.

L’ interno delle tavole è carico di una fortissima tensione, di una conflittualità invadente e di una cripticità linguistica che rimanda alla costante alternanza tra violenza e silenzio, tra sessualità e gioco, tra luce e fondale, in un rapporto emotivamente coinvolgente con lo spettatore: al quale non è difficile desiderare di balzare dentro il quadro e affondare gli occhi in quel coacervo di colore.

I fiori sono, in alcuni lavori, vere e proprie esplosioni e non è un caso se appartengono all’ultima parte del viaggio pittorico di Twombly. Artista ricchissimo e avido, così viene descritto, non fu mai collocato dalla critica americana nella Pop Art; questa sua ostinata originalità stilistica fu la sua fortuna: i suoi quadri sono valutati milioni di dollari e ambiti dai maggiori galleristi.

Non essendo “schematico”, si può solo ripercorrere a ritroso il suo progetto e intercettarne alcune coordinate, con una visione dall’interno, che sembra l’unica via percorribile, proprio come farebbe quello spettatore curioso e invadente. E tornando a quel processo alchemico stigmatizzato nella geologia delle opere, non è difficile individuare un alternarsi di strati di bianco, di rosso, di nero. La qualità dinamica dell’opera di Twombly si interseca con quella statica di depositaria del messaggio, è quindi un’opera magistrale che separa l’oro dal fango, e aggiunge un’aura di mistero e di sapienza, per quella inusuale competenza del maestro a rendere coscienti e ricchi sia il nero che il rosso l’uno dell’altro, stretti al confine tra il simbolico e l’astratto, uniti dall’invisibile catena dell’espressione del colore in piena luce, che sembra poter dire tutto, ma che di fatto rimanda sempre ad altro in un infinito specchio di rappresentazioni.

La catalogazione in “espressionismo”, infatti, è sempre relativizzante, perché non fa altro che dire continuamente che sotto l’espressione c’è una volontà di manifestare, di dire, di esprimere. Il messaggio “espresso” da Twombly è ancora totalmente indecifrato. Un’idea, un desiderio, di destituire il mito restituendo al sogno gli eroi e le anfore di un tempo passato.