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Note critiche a “Non vogliono morire questi canneti” di Andrea Galgano

di Diego Baldassarre

17 giugno 2019

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L’ultima opera di Andrea Galgano “Non vogliono morire questi canneti” è una silloge poetica che mostra come l’autore sappia mescolare attentamente modernità e linguaggio poetico classico. Leggendolo si sente prepotente la forza evocativa di D’Annunzio ma anche l’insegnamento filosofico di Leopardi.

Già dal titolo si può evincere l’influenza del poeta di Recanati. I canneti come metafora di frapposizione tra interiore ed esteriore che già caratterizzava la “siepe” dell’Infinito.

Canneti, cresciuti tra la sabbia della spiaggia e il mare, che simboleggiano anche quel limbo dove il poeta sovente si pone. Uno spazio angusto eppure immenso da cui osservare in ogni direzione.

E non vogliono morire questi canneti, nonostante la siccità della vita ordinaria o le alluvioni della vita interiore.

Il libro si compone di tre sezioni.

La prima, intitolata “Cartografie”, ci presenta una serie di acquerelli poetici che trattano di strade (Via del Popolo(PZ); Via Lillo; Via Gioberti e Via Panzani a Firenze) e di luoghi della memoria affettiva legati a Maratea e al Golfo di Policastro, con tutti i colori di un mare che ad ogni ora del giorno pervade ogni poesia con il suo panorama esteriore e interiore.

Tra questi dipinti poetici spiccano, come soggetto, anche molte città care all’autore. E sono tutte città di mare. Quasi a voler sottolineare  quel rapporto tra realtà e anima che l’acqua suggerisce. Infatti troviamo Livorno dove “ … l’anima terrazza / ha balaustre e scacchi di albe / sul sibilo dei porti,/ sulle cale di Calafuria …” ma anche San Pietroburgo, il luogo in cui “… le sponde della Neva / vibrano di sangue notturno / e il lampo della luce genitrice, / la gloria dell’oro di sant’Isacco / che scorta i nugoli rossi / di bionde e magre matriosche…”; e poi Rimini in cui “… la terra di sale delle darsene / sostiene i moli trasparenti / e i crepuscoli della stazione …” e ancora il sole di Salerno che inonda la città e il golfo; ma anche Marsiglia con le sue case d’avorio.

Questa sezione è un viaggio che Andrea Galgano percorre con le sue parole e in cui trascina  per mano il lettore, avvolgendolo con  i colori e le emozioni che ha vissuto. E nel descrivere i luoghi utilizza lo stesso sguardo esterno che porta verso l’interno proprio del pittore  Edward Hopper  a cui  ha dedicato la poesia “Monopoli”.

La seconda sezione “Je suis un autre” sembra quasi una parafrasi del “Je est un autre” di Rimbaud.

Ma al contrario del poeta francese qui l’Io non è impotente di fronte al pensiero ma è il pensiero stesso che si immedesima in altri “Io”.

E troviamo personaggi che hanno attraversato l’immaginario del poeta, attori come Massimo Troisi o Paolo Villaggio, ma anche cantanti come Mango e Jannacci e persino un giocatore simbolo della sua generazione quale Paolo Maldini.

Sempre in questa sezione troviamo anche l’aspetto più religioso dell’autore. Dio e la fede si affacciano tra le pagine del libro nei ritratti di Don Giussani, e di altre persone che in un modo o nell’altro hanno significato qualcosa di spiritualmente importante per il poeta come “ Mancusedda” , “Anna Antonia” , “ Michele”, “Mel”.

L’immedesimazione dell’autore prosegue in questa sezione con i quadri dell’amica pittrice  Irene Battaglini  (“Tra bore” e “Dioniso in esilio”), e con la fotografia di Renato Maffione (“La donna ospite”). Il tutto a sottolineare ancora una volta  un rapporto strettissimo tra Andrea Galgano e l’arte figurativa.

L’ultima sezione “Algoritmi” è la sezione più intimistica dell’autore. Sono 7 poesie in cui l’io poetico non parla a se stesso ma a qualcun altro. Sono poesie affettive ricolme di passioni colorate, malinconiche eppure vivaci nel descrivere un sentimento antico e profondo quale è l’amore.

La poesia che chiude la raccolta, forse la più ricca di suggestioni dell’intera silloge, è  il suggello ad un libro che può essere considerato come l’approdo di Andrea Galgano alla propria maturità poetica.

Il cielo crisalide di novembre

apre la tenebra

e il temporale sui pioppi tremuli

lo spiraglio del viale che trepida

e il tuo cappello viola

 

sembrò venire

dagli altipiani

il rovaio sulle eriche,

il lungo sorriso

come un damasco di nebbia

 

fece chinare gli occhi

il tremore di essere due

le mani che principiavano

gli uccelli e le camelie

 

le nostre uve bionde

e il sigillo delle brine

 

il taglio del nudo mondo

ci insegue

nei muri spezzati

 

è grazia

è terra.