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L’insufficienza nitida di Giovanni Giudici

di Andrea Galgano 13 novembre 2014

leggi in pdf  L’insufficienza nitida di Giovanni Giudici

giudici-giovanni-447x387Il laboratorio poetico di Giovanni Giudici (1924-2011) ha l’esito fertile di una biografia mirata, di uno scoperchiamento che tende alla pienezza della metafora, come corpo e della lingua e materia testuale: «Farsi di te non ci fu dato mia parola / Scrittura di scrittura e vanità».
Il dato biologico e biografico condensa la frammentarietà di uno spazio autentico che, come scrive Silvio Ramat su «Poesia» del gennaio 2001:

radicalizza, cioè sospinge verso le radici, l’autobiografia: senza contraddirla ma integrandovi elementi più oscuri e profondi, ed elaborando un mito inesauribile: quello che in Giudici nasce dalla, e nella, sua più acuta lacuna, l’assenza della madre, perduta nel novembre del ’27 e tuttavia nella costruzione del ricordo, accreditata dalla capacità di fornire al figlio i fondamenti di quella “educazione cattolica” di cui recan traccia più o meno visibile tante poesie. […] Il “sublime, venga salutato con un “Ciao” confidenziale o misurato nel suo “prezzo” è storicamente ingrato e ambiguo: comportando di necessità, a secolo così inoltrato, la coscienza di quanto sia arduo spenderlo pubblicamente. Non a caso, di qui in avanti, Giudici s’imporrà come il massimo parodista del nostro Novecento, in poesia […].

L’elezione dell’istante secerne il suo rito quotidiano, il gesto della sommessa esperienza che si impone di colorare il fulcro impiegatizio, come un lampo o un avvenuta partecipazione di anni affluenti: «Eppure sempre a ricominciare / frugare un minimo vero / Al di qua della fine individuale / sempre / consumati a vigilie lente / noi sempre a non osare / promettere paradisi – ma / Un vedere per enigma / nella insidiata convivenza -» (Da un tempo di nessuno).
Esiste pertanto nella sua poesia, come sostiene Raboni, «una svolta, una scoperta che ne segna il vero principio» e «consiste nell’abbandono dell’io lirico-autobiografico a favore di un io-personaggio, un intellettuale di estrazione e destino emblematicamente piccolo-borghesi che assume su di sé – ma deformandole, distanziandole, ironizzandole – vicende, aspirazione e amarezze dell’autore» laddove «lo scambio delle parti arriva a punte di quasi inafferrabile e ineffabile (e poeticamente assai produttiva) ambiguità».
È sulla materia del sublime che il suo fulcro poetico tocca il fulcro della perplessità e della contraddizione, verso cui giustificare la sponda della sua insufficienza che «è fuori, o fuoriesce, si oggettiva, nel mascheramento, in un eletto apparato di ritmi e metri, timbri e, ovviamente, toni, insomma un sistema variabile, ma sempre impetuoso e cogente, da cui trapelano a un tempo il sublime […] e la consapevolezza che lo si può esporre (o montalianamente “contrabbandare”?) solo per travestimenti e parodie» (Silvio Ramat): «Non io che per mancanza di eroismo ti deludo / Mia umiliata via al sublime / Ma almeno voglio dirti che lo sapevo / Quel che dovevo – mentre guardavo al fondo della fine» (Noi).
Scrive Goffredo Fofi:

C’era in lui una forma di narcisismo sottile, che cercava complicità e condivisione, e la sua capacità di auto-ironia lo portava fin quasi all’auto-denigrazione su quelli che riteneva suoi difetti (da confessione cattolica e però pubblica, di chi tollera e si tollera nella comune coscienza dei limiti dell’umano, dell’imperfezione di tutti). Questa era una caratteristica del tutto insolita nell’ambiente culturale del tempo, che lo faceva resistere assai bene all’austerità fortiniana e che mi servì forse di modello per resistervi anch’io.

Il trapasso liturgico alla litania diviene occasione per raccogliere la possibilità di un reperto lucente di quotidianità, un saluto, appunto, che si allunga sull’illimitatezza e sulla reversibilità del tempo, sull’avvenimento della parola e sulla totalità della deposta insufficienza della propria fragilità: «Tu, cosa della cosa / o Sublime. / Al di là della fine / e senza fine. / Senza principio» o ancora «Ciao, Sublime. / Ciao, Sublime. / Sublime che non si volta. / Sublime che non si ascolta. / Sublime senza prima / né ultima volta», «Io no – che sempre aspetto / il cominciare, l’apertura. / Io no – per poca fede. / Per poca paura. / Io – senza occhi per contemplarti. / Io che non ho ginocchi per adorarti».
In O beatrice, il raggiungimento autobiologico del sublime convoglia verso una pacata sicurezza e una desinenza linguistica e temporale, destinate a un prezzo decisivo: «Mi domandi se potrai, / Mi domando se potrò. / Io sarò – non sarai. / Tu sarai – non sarò. / Per noi sarà quello che non potremo. / Quello che non saremo su noi potrà. / Non-tu non-io noi -remo. / Ma contro la specie che siamo orgoglio estremo / verbi avvento al cliname[n] / che ci rotola a previste tane / umanamente inumane / persone del futuro seconde e prime. / Io -rò. / Tu -rai. / Il niente / è il prezzo del sublime».
Commenta Giulio Ferroni: «Nel confronto col sublime appare insomma in atto la paradossalità dell’esperienza, viene come a scavarsi la dimensione interna, oscura e contraddittoria del reale, della grammatica che tenta di fissare il tempo in una misura umana, che, nell’atto stesso di quel proiettarsi nel tempo, rotola verso il niente».
L’intreccio sabotato di vita e morte, il proprio essere concreto divenie slancio oltre il dicibile, immediatezza esistente, imprevedibilità sfuggente che squaderna le prigionie del sé per riappropriarsi in una fragilità senza riparo.
Il limbo «delle intermedie balaustre» richiama un’ulteriorità che è corporea e metafisica, e allo stesso tempo, aspirazione e furtiva umanità.
La consequenzialità e la prossimità del suo dettato poetico certifica l’istanza e l’ironia chiaroscurale come purità pulviscolare, come apertura dell’esistenza e biologia smarrita, in cui l’ironia e l’integralità del suo limite si trasferiscono e tendono a una chiarità inattingibile e sperduta.
È la coltre della sua onirica teatralità, il barlume di una sincronia che espone il suo umano travestimento al suo umido chiaroscuro, alla liturgia spezzata che misura i limiti del suo laboratorio cittadino (Milano, Roma) e il crepuscolarismo della sua vertigine.
Laddove la gestione dell’universo privato affolla la scena in cui la scrittura vive, Giudici descrive i volti, le maschere, l’atomo urbanizzato degli anni Sessanta, la cupezza del decennio successivo, le contraddizioni della sinistra «vivendo questa dialettica storica da una specola di morale cattolica e comunista, intesa in senso tutto cittadino, entro un esercizio di valori, turbamenti, colpe, illusioni e contraddizioni maturati per le strade della città, nei luoghi di ritrovo pubblici o negli interni casalinghi» (Giulio Ferroni).
Aggiunge ancora Ferroni:

Nei suoi esiti ultimi […] la poesia di Giudici dà voce per vie indirette, per appassionate tangenze, attraverso i suoi scatti esistenziali, teatrali e linguistici, a questa ansia per la situazione del mondo e il suo destino: ma questa ansia sembra spesso provvisoriamente sospendersi in un severo incauto musicale, in misteriose e ambigue percezioni di luce che si proiettano sulla storia individuale: sempre in un affidarsi al ritmo, a un impulso ritmico che sembra quasi portare i versi a farsi da sé, con una possibilità di esiti direttamente colloquiali e di diversioni verso un’oscurità come sospesa, in bilico tra lo svelare e il nascondere.

La sua perpetua riduzione, se da un lato si impadronisce della scena nella minima disposizione quotidiana, dall’altro conosce gli spigoli ebbri dell’esperienza sociale, in attesa di una epifania salvifica e attraverso la modestia salutare della pura grammaticalità biografica.
È l’esito di un rapporto semplice, di una autenticità che disarma e propende al segno della storia: «Nomino i nomi – / Quanto di storia mi è transitato addosso / a me che non sono un privato / uno che incontri puoi anche capirlo / Chi è – non quel che è per diventare».
La scena onirica, la passione sotterranea, la presenza e l’occorrenza casalinga, la suggestione elitaria e la proficuità di massa, lo squarcio dell’essere e la sfida al sublime, rappresentano l’esito di una ascensione che, dapprima, si impossessa dell’invocazione per poi cercare il punto di fuga e lotta con il dio del foglio per un ultimo e infinito scarto di senso: «Poi non scorgo che via d’uscita / Nel lume di questa vita / In te rifugio il triste orgoglio / Spessore di questo foglio / E nella mente mi assottiglio / Microbo figlio di figlia d’un figlio / Specchio del nostro doppio io / Ti do del tu ti chiamo dio».
La liturgia cadenzata e il recitativo battente culmineranno poi in Lume dei tuoi misteri (1984) e in Salutz (1986), dove l’inaudita parodia e il profumo medievale contribuiranno allo scatto ironico e ossimorico del limite, come accensione ed eccesso, formulazione ed espansione amorosa.
L’io che tenta (invano?) di possedere il suo universo calcolato, ingarbugliato nelle colpe, nelle speranze, nei segreti, che cerca di proteggersi nelle sue abitudini quotidiane, dopo la guerra nefasta, non coincide propriamente con l’autore, bensì, come annota Giulio Ferroni: «è piuttosto una recitazione di sé, non priva di suggestioni letterarie, che convoca intorno a sé altre maschere recitanti, tra gioco e disagio, tra divertimento e malessere, come nell’impossibilità a uscire da sé, pur nell’aspirazione a un’altra vita di cui, da quello spazio, non si può nemmeno figurare l’immagine»: «Una sera come tante, ed è la mia vecchia impostura / che dice: domani, domani… pur sapendo / che il nostro domani era già ieri da sempre. / La verità chiedeva assai più semplici tempre. / Ride il tranquillo despota che lo sa: / mi numera fra i suoi lungo la strada che scendo. / C’è più onore in tradire che in essere fedeli a metà» (Una sera come tante).
L’associazione di cadenze e suoni traspongono il tempo dell’attesa in una prigionia- aspettativa che invoca l’altrove, come una gioia rattrappita e negata.
È un “oltre” proclamato ed escluso, visitato nei reperti onirici e in un altro da sé trasognato e immaginato: «Parlo di me, dal cuore del miracolo: / la mia colpa sociale è di non ridere, / di non commuovermi al momento giusto. / E intanto muoio, per aspettare a vivere. / Il rancore è di chi non ha speranza: / dunque è pietà di me che mi fa credere / essere altrove una vita più vera? / Già piegato, presumo di non cedere» (Dal cuore del miracolo).
L’immaginazione di trasformarsi, per sfuggire all’imminenza burocratica della morte, è l’esito di un’immersione inafferrabile e di un rilievo intangibile, come strana resurrezione di abiti: «Abiti che sopravvivrete / Al niente dell’eterna quiete […] Abiti – e non già corpi / Di quel resurgere, o risorti / ai quali estremo soprassalto / lasciò ogni vita un po’ di caldo: / Che vani e stretti in Giosafàt / su voi di noi respirerà».
Scrive Daniele Piccini: «Ecco, da Autobiologia a O beatrice e oltre, il poeta immagina e sbozza figure ed emblemi di una compiutezza e integrità vitale che non può ch esprimersi in forma allusiva, cifrata, quasi onirica, con un senso di inadempienza ormai sollevato sul piano dell’esistenza».
Ma è una improvvida insufficienza. La poesia di Giudici fa i conti con la irreperibile sceneggiatura del testo. La cura dell’essere, invece, con l’impalpabilità linguistica e con la carta sottratta: «Lei che ha potuto accedere ai più gelosi manoscritti / Non darà troppo peso a ogni variante del testo / Altro è filologia altro è la vita né mai / Presume la propria maestria il maestro / Che faticò e stentò sulle carte sottratte / da una fatua speranza familiare / Alla sorte del fuoco che abolisce e perdona / Stipate nell’angustia di quella casa sul mare / Egli che spesso si era basato sul parere / Di frastornati parenti di passaggio / Vocante uxore ad cenam e di un fautore / Troppo devoto all’incerto messaggio / Però al di sopra del corrivo consenso / se stesso infine vagliando allo specchio / se non avesse inteso la sua parola / Coprire di vano suono uno spazio vuoto / O dubitando nel declinante intelletto / Se il partito più saggio non fosse lasciare la cosa / Così com’era venuta d’emblèe / Essendo nostra scienza l’esatto del press’a poco».
Il convenuto richiamo ai fantasmi, le soste inerti, l’orizzonte approssimato (Quanto spera di campare Giovanni) figurano il procedimento e la retrocessione di un ritmo che fonde lingua e dispiegamento dell’esperienza, come implacabile nudità.
È la maternità della lingua che ritorna alla poesia e si offre, vitale e spontanea, abbracciando il vivente e il molteplice, come illusione e durezza, come umiltà lucente e calore, che levigano la vita presente e la casa che abitano in una estremità assoluta: «Mia lingua – mia vita / dolcezza flatus vocis che m’hai tradito / tuo servo che t’ho servito / anch’io perduto per poco / di calda madre / in letto con noi per gioco / Mia lingua – italiana / variante umile tosco-genovese / lingua del mio bel paese / guastata nei futili suoni / di vacue clausole / e perfide commozioni».
Commenta Giulio Ferroni: «Per lui la vera poesia è quella che fa della lingua, anche di quella più intimamente conosciuta e praticata, qualcosa di strano: cattura tracce di possibilità sconosciute, segni di un prima o di un oltre rispetto alla normalità del linguaggio e dell’esperienza».
La distillazione forgiata dai millimetri dell’esistenza, il dizionario che richiama e raschia il fondo delle cose, come «morse di voci nel freddo», nel «Chiuso idioma e apertissimo / Dei due veglianti nel quale / carpisco nitido il suono / E perdo il significare».
Il silenzio roco, il balbettìo di una lingua più che muta («Balbetto il parlare di un altro / Io fatto di persona non vera / Mi riascolto compitando / pensieri di lingua straniera»), che unisce idiomi e assedia lo spazio onirico, conosce il vero che sovrasta, la sua voce difficile da comprendere e, ancora una volta, l’insufficienza di proiezione, il limite degli inizi, la contraddittorietà delle stagioni.
Commenta ancora Ferroni:

Il fuggire del tempo suscita inoltre una tensione a concentrarne e superarne la fuga nella percezione di un punto definitivo, nella fissazione di un attimo in cui si risolva tutta l’insufficienza dell’esistere. Il personaggio sognato e immaginato, le molteplici maschere e dislocazioni teatrali che si danno in questa poesia, tendono sempre a collocarsi in un “altro” tempo, sospeso tra cominciare e finire e in continua investigazione dell’attimo-punto in cui si afferma lo sfuggente senso della realtà, l’inafferrabile essenza dell’io, con tutte le sue passioni, i suoi desideri, le sue colpe.

Contro la cancellazione del tempo, l’avvicinamento come negazione, la costruzione che implode, sembra schiudersi lo sguardo della domanda e il futuro, pertanto, rischia di apparire incerto e sconcertato: «Noi guardiamo / E si chiude / Il volto a lungo a noi negato. / Come sarà – ci domandammo. / Ci domandiamo – com’è stato / E tutto l’amore che amiamo. / Tutto l’odore che odoriamo, / Tutto il patire che patiamo: / Sei tu che ami e odori e patisci, / O Futuro che ti demolisci. / O Futuro che entri / dentro le nostre porte. / O Futuro che ci costruisci. / O Futuro che Sali a noi / Tua morte».
La convergenza delle immagini si sofferma sulla franta quotidianità, in cui ripararsi, ed ecco la fortezza che allontana la brevità consumata e la risposta tardiva dell’io alla realtà.
Forse il nuovo inizio è dimensione e sovrapposizione di un rivelamento di oggetti e vertigini che sottentrano a una perdita inguaribile: «E dunque ho amato l’inizio / La voglia di essere accolto / nei bei luoghi diversi invidiati / Nell’aldiquà del gelido cristallo quotidiano / La balbettata lingua silenziosa / Plaghe remote le mie mani brancolando / Oggetti fuor della vista / A ogni scoperta tu sai / ride e fa festa l’infante rassicurato / passo a passo movendo al suo adempiersi – / Si distrugge così nel costruire / L’animale adulto / Che mai più ricomincia: / Io invento questo inizio al mio finire».
Scrive Maurizio Cucchi:

Ciò che appare evidente, in Giudici, è la consapevolezza dell’inevitabilità di una condizione. Una condizione di esibita mediocrità, espressa nell’adeguarsi dei gesti e delle parole a tale realtà, nell’assumere un atteggiamento e un gestire conseguente che è quello di una commedia spesso grottesca, condotta per episodi narrati e momenti di acuta sintesi definitoria. Un collocarsi prudenziale del personaggio, dell’io narrante-lirico, dietro una maschera remissiva (ma, appunto, una maschera), di accettazione del grigiore quotidiano, inteso come l’autentica dimensione, o quanto meno l’unica dimensione possibile concessagli, di cui il fare poetico diviene in fondo la forma più alta di smentita e di riscatto. Anche perché un atteggiamento, proprio in quanto tale, suppone o sottende un diverso sentire, magari persino opposto, magari intimamente inteso come liberatorio, come possibile via di fuga.

Empie stelle (1996) e Eresia della sera (1999) ripercorrono l’esistenza dell’io, affermano la lotta dell’inizio e della fine e la loro «vanificazione», come afferma Giulio Ferroni.
La notte sul «cuscino sempre asciutto» è come l’orma della fuga inabitata della quotidianità minima e del nido senza piume, «di quel bar luminare io appena uno / Separato persisto se tu mai / A frugarti infinita / In me ti posi e sposi e vieni e vai».
Il perenne transito mostra non l’ignavia ma, ancora una volta, il segmento della vita imperfetta, la mancanza di coraggio che non ha armato gli aerei corpi di letizia, il caro prezzo dell’apparenza, il tardo amore, sospeso nel silenzio, che fu «nella diversa lingua / E non mai forse accaduto».
Ora il nostro avvento che permane nell’ «essere chi non siamo stati / Essere un tempo che non siamo», ricerca ancora il balzo della sosta perduta, al cospetto dell’eterno, per essere dove non viviamo e forse proclama il taciuto addio all’infanzia, come consueta sovrapposizione di memoria: «Addio, addio giuochi dorati / Da voi di nuovo incominciare / Alla palla a nascondino / Quasi fossimo oggi nati / Cullati da una lenta storia / Nel cuore di un sonno bambino», o ancora come l’inerme esiguo volo dell’amica Grazia Cherchi che non allinea più distanze ma dice: «Vivo per essere vivo / Quando che sia raggiunto / dal fine del mio nascere / dal fine del mio nascere / Dove remoto scrivo – / il Vero il Nulla il Punto».
Il «dormiveglia di spine» di Eresia della sera (1999) confluisce ne Frammenti dal comunismo e nel suo reiterato profumo illuso, finisce per arretrare e lasciare la scena.
Il repertorio di Giudici si apparta nella remota condizione del tempo affiorato dal disordine memoriale, come un ritaglio o un approdo che dilaga sui lindi smalti e sulle sbilenche figure dei ricordi di guerra.
La solida e sghemba scena, descritta dal poeta, si accompagna alla sensazione della precipitazione del tempo della vita «nell’attimo risolutivo in cui si fissa la fine, sulla spinta del fulmineo invito a sentire la temperatura del latte con il dito, per evitare che nel bollire vada fuori: irrisoria e insieme stupita risoluzione di ogni esperienza nel punto del suo dissolversi» (Giulio Ferroni).
L’aria raggrinzita accompagna l’esistenza tracimata: «Come in quest’aria si raggrinza / Il tempo della vita che tracima / Ciò che fu immenso preso stretto in una pinza – / Un passo ed è finito: / Senti il latte se è caldo / Mettici il dito».
Il tempo confluisce ancora nell’amore-non amore dei ventiquattro frammenti del Primo amore che impongono la vertigine della nostalgica coltre lontana e conclusiva. Però, di contro, racchiudono l’indizio di una storia personale che si risolve e si chiude nel tempo disfatto e irraggiungibile, come sigillo iniziatico e come ironia di una giusta gloria: «Uno che in versi a un suo deschetto invano / Di te scriva serale eppure c’è / Nella disfatta pancia di milano / AI margini del sonno e sembra me / Se nel remoto cuor e il dubbio insista / Non altri esser che te della mia storia / Di non amore la protagonista / credi che è vero e ti dà giusta gloria».

GIUDICI G., Tutte le poesie, con introduzione di Maurizio Cucchi, Mondadori, Milano 2014.
CORTELLESSA A., Qualcosa che c’è. Giudici e Zanzotto, in Due poeti, due amici, due uomini comuni: Giudici e Zanzotto, Atti della giornata di studi di Roma, 16 dicembre 2011, sezione monografica a cura di Giulio Ferroni de «l’immaginazione», XXVIII, 268, marzo-aprile 2012.
FERRONI G., Gli ultimi Poeti. Giovanni Giudici e Andrea Zanzotto, Il Saggiatore, Milano 2013.
FOFI G., Ricordo di Giovanni Giudici, in «Lo Straniero», 2011.
PICCINI D., La vita mancata in versi, in «Poesia», settembre 2004.
RABONI G., Poesia degli anni Sessanta, Editori Riuniti, Roma 1976.
RAMAT S., Giovanni Giudici / I versi della vita, in «Poesia», gennaio 2001.