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Walt Whitman e la fecondità dell’essere

di Andrea Galgano                                         20 novembre 2013

Poesia moderna Walt Whitman e la fecondità dell’essere

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H.D. Thoreau scrisse che Walt Whitman (1819-1892) «con il suo vigore e con il grande respiro dei suoi versi, mi mette in uno stato mentale di libertà, pronto a vedere meraviglie; mi porta, per così dire, in cima a una collina o al centro di una piana; mi scuote e poi mi getta addosso migliaia di mattoni», e in questa visionaria tessitura si può scorgere come Whitman, con il suo Foglie d’erba, rappresenti il crinale estremo di un canone che racchiude un popolo in un poema, lo accarezza nelle linee storiche e, infine, lo pronuncia: «Gli americani, di tutti i popoli che sono mai apparsi su questa terra, possiedono forse la natura poetica più piena. Gli Stati Uniti in sé, nella loro essenza, sono il più grande dei poemi. […] Qui finalmente troviamo nell’umano operare qualcosa che risponde all’operare maestoso del giorno e della notte».

La voce di Whitman non si nasconde nella prosopopea retorica, bensì, nelle sfumature profonde, insegue la sua freschezza vitale, come «i poeti del cosmo» che «avanzano attraverso tutte le interferenze, gli occultamenti, i turbamenti e gli stratagemmi verso i primi principi».

La celebrazione scolpita, come forza e abbandono, della materia vivente, l’aspetto numinoso della realtà e la sospensione rappresentano il suo territorio unico, laddove «qualunque possa essere stato nel passato, il vero uso della immaginazione nei tempi moderni è quello che vivifica i fatti, la scienza e la vita comune, dotandoli di quello splendore, quella gloria e quella fama che appartengono a ogni cosa reale, soltanto alle cose reali. Senza questa definitiva vivificazione – che solo il poeta o l’artista può mettere in atto – la realtà sembrerebbe incompleta,e la scienza, la democrazia, la vita stessa alla fine, cosa vana».

Se il suo canto si sofferma sull’abbandono alle forme di «cameratismo», «allegria», «soddisfazione», «speranza», la furiosa scultura del vivente e la calura del suo magma introducono, come scrive Giuseppe Conte: «la pulsante istantaneità della vita nella poesia e nel verso. Il vivo del Tempo, l’immanenza, ciò che di misterioso e palpabile lega l’io all’universo. Se esiste una poesia inafferrabile, del puro presente, quella di Whitman è la migliore del genere».

Nato in un villaggio di Long Island nel 1819, tipografo, carpentiere, giornalista, Whitman ha assaggiato le grandi masse democratiche dell’America, come un grande fiume che trascina forze commiste, nei giorni in cui stava diventando una grande Nazione, da New Orleans a Chicago, fino a New York, passando per il Mississippi, i Grandi Laghi e il fiume Hudson, in un’estatica virulenza fiduciosa, nelle forze dell’uomo, nel canto-bardo universale, come «Adamo nel primo mattino, che usciva di sotto il riparo di fronde, ristorato dal sonno» (Figli d’Adamo).

La felice brillantezza del mattino dell’umano impone la sua purezza senza peccato, racchiude il gemito e l’ardimento di una imprescindibilità valoriale, assoluta e primigenia: «Io dico che l’intera terra e le stelle universe nel cielo esistono per la religione. / Dico che nessun uomo è mai stato abbastanza devoto, neppure la metà del necessario».

È la religione che permette l’unione inclusiva e fulgida dello sforzo umano, nell’ Amore e nella Democrazia: «Noi non consideriamo divine le bibbie e le religioni – e io non dico che non siano divine, / Ma dico che sono nate da voi, e da voi altre volte possono nascere ancora».

La lettura del Vecchio e del Nuovo Testamento, come analizzato acutamente da G.W. Allen, di Shakespeare, di Omero, di Eschilo, del Canto dei Nibelunghi, hanno innalzato il pinnacolo della poesia stuporosa e ampia dell’uomo e del suo definitivo istante, come afferma David Herbert Lawrence: «Senza principio né fine, senza né base né frontone, continua a passar vicino superbamente, come un vento che trascorre senza posa né si può incatenare. Whitman in realtà guardava al prima e al dopo: ma non sospirava per ciò che non è. La chiave di tutto il suo segreto espressivo sta nella stima del momento istantaneo e nient’altro, della vita che si gonfia essa medesima in espressione alla sua reale sorgente».

La feconda prosodia partecipa alla elencazione scandita del mondo. Le novità della scrittura rinomina il mondo in un nuovo parto di energia originaria, come ritmo e pazienza di splendore.  

La poesia è l’Evento del destino, in cui la complicanza, grezza ed entusiasta del suo ritmo panteistico e democratico, apre la sua recitazione.

G.K. Chesterton, soffermandosi sulla «materia per poetare misticamente» che valorizza l’umano in Whitman, in L’umanesimo è una religione? scrive: «Ciò che apprezzavo era quella proposta di una nuova eguaglianza, che non consisteva in uno squallido livellamento, ma in un entusiastico guardare in alto; un grido di gioia sul semplice fatto che gli uomini erano uomini. […] ognuno di essi possedeva quella maestà e quella mistica propria degli dei, pur essendo nello stesso tempo franco e confortante amico», e continuando afferma che «La gloria apparteneva agli uomini in quanto tali; il culto comune andava cercato nell’amicizia e anche la persona meno importante deve poter far parte di questa fratellanza; un negro gobbo mezzo scemo, orbo da un occhio e con tendenze omicide, deve anche lui avere la sua aureola dorata e illuminata».

La poesia che abbraccia, esonda, diviene coraggiosa, che guarda alla gente comune, all’interezza di un popolo, fatta di falegnami, boscaioli, calzolai, diviene immagini di un grido barbarico fresco e spontaneo: «Io canto il sé, la semplice singola persona, / E tuttavia pronuncio la parola Democratico, la parola En masse».

Commenta Giuseppe Conte: «C’è un che di fluido, organico, tempestoso, innocente, progettante, esclamativo in lui, un’enfasi, una volontà predicatoria, un pioneristico respiro vitale, una corporeità selvatica che fonda una saldissima, idealistica fede nella democrazia, una visione attiva del mondo e del linguaggio, […] la poesia di Whitman si pone da un lato come forza eversiva, energia che libera energie, pratica che scardina il conformismo di ogni ordine, dall’altro come canto che celebra, glorifica il presente, la realtà nei suoi aspetti ora minimi, un filo d’erba che nasce, ora solenni, un eroe che cade».

È nel popolo che la Musa trova dimora, il luogo oltre tempo dove esaltare la presentificazione del reale e radicarla in esso, parlando a chiunque: «Ecco, io ti presento, qui oggi, o Musa, / Le occupazioni tutte, i doveri grandi e modesti, / Il lavoro, il sano lavoro e il sudore infiniti, incessanti».

La semplicità gioiosa si affaccia allo spirito del Paese, per «esprimersi letterariamente con la perfetta rettitudine e insouciance dei movimenti degli animali e l’incontestabilità del sentimento degli alberi nei boschi e dell’erba ai margini delle strade».

Ecco la vastità dell’io che tocca il mondo, la sua avventura, la sua dilatazione ricettiva: «Dentro me le latitudini si ampliano, le longitudini si allungano», per essere «Una snella nave che gonfia le vele, piena di ricche parole, piena di gioie» e dove inalare, aspirare con avidità «lunghi sorsi di spazio, / l’est e l’ovest sono miei e il nord e il sud sono miei, / Più grande, migliore son io di quello che pensassi, / Io non sapevo di avere in me tanta bontà. / Tutto mi sembra bello».

La fulgida corrispondenza tra corpo e io, nazione a terra, compone il suo gemito: «Fate che possa contenere tutti i suoni (io grido come un folle) / Riempitemi di tutte le voci dell’universo, / datemi i loro palpiti, anche quelli della Natura, / E le tempeste, le acque, i venti, le opere e i cori, le marce e le danze, / Cantateli, versateli in me, perché io tutto vorrei contenere».

Commenta padre Antonio Spadaro: «Le visioni whitmaniane mai si fermano ad una tensione visiva astratta o vagamente fantasiosa perché il poeta si fa subito veggente del concreto e del reale. Dunque lo appassionano non solo la natura, i suoi campi aperti, le tempeste, le montagne e il mare, ma anche «l’opera dell’uomo» che ”è egualmente grande nell’artificiale – in questa profusione di brulicante umanità – in queste prove di ingegnosità, strade, merci, case, navi – queste frettolose, febbrili, elettriche, masse d’uomini”».

L’ebrietudine della pienezza soffia sulle strade, sulle linee compiute e infinite, sui lacci che sfiorano gli spazi: «Su, anima, non scorgi tu subito lo scopo di Dio? / Che la terra è percorsa e congiunta da reti di strade e di ferro, / Le razze, i vicini sono congiunti perché si sposino e siano sposati, / Gli oceani sono attraversati per avvicinare chi è distante, / E per cucire insieme le terre». La maestà della vita e la maestà del reale in un unico vertice di vertigini esplose.

La pulsazione, la potenza, la passione congiungono la loro visione metaforica, finendo per cogliere il «filo che connette le stelle, gli uteri e il seme paterno» e, come commenta ancora Conte, «per questa visione, tutto è divino, il poeta è divino dentro e fuori di sé, e così santifica tutto ciò che tocca, ed è santificato da ciò che lo tocca».

Il respiro di Whitman cerca la inaugurale vibrazione, la vorace estasi, l’incarnazione della cosa pensata, come barbarico battito dispiegato che insegue la chiarezza materica, la fragranza che sboccia, per giungere, come commenta Spadaro, «alla natura vera delle cose, per vedere le cose con occhi vergini»: «Tutte le verità attendono in tutte le cose, / Esse né affrettano la propria liberazione, né resistono, / Non richiedono il forcipe dell’ostetrico: / L’insignificante è così grande per me, come ogni altra cosa».

Scrive Harold Bloom: «Whitman divideva se stesso (o riconosceva se stesso come diviso) in «my self», «my soul», e «real Me» non è per nulla un Es. […] Questo «Me myself» non è esattamente «bramoso, grezzo, mistico, nudo» e nemmeno «turbolento, carnale, sensuale, che mangia, che beve e procrea». Aggraziato e in disparte, assolutamente equilibrato, affascinante oltre misura, questo strano «real Me» è maschile e femminile, molto americano per quanto non rude, stimolante e in accordo con se stesso. Qualunque cosa sia l’anima di Whitman, questo «Me myself» non può evidentemente avere con essa alcuna relazione egualitaria». Quando l’ «Io» di Whitman si rivolge all’anima, sentiamo un avvertimento».

La sua catalogazione è la declamazione dell’essere, pensato, ricreato, innovato, persino guardato con sfrontatezza, come un cosmo dilatato che si presenta. La maschera del suo io ideale che fronteggia il suo io reale e vero. È in se stesso che ogni uomo è tutto: «Walt Whitman, americano, uno dei duri, un kosmos / turbolento, fatto di carne e ossa», perché ciò che costituisce la sua idealità «non costituisce il mio Io. Ciò che io sono in disparte sta da quanto mi attira e trascina, / Se ne sta divertito, compiacente, compassionevole, inattivo, in se conchiuso, / Guarda dall’alto in basso, eretto, o piega il braccio su un punto di impalpabile quiete, / Guarda col capo reclinato, curioso di ciò che accadrà, / Partecipe e fuori del gioco, osserva e stupisce».

Lo stupore conosce. Cosicchè «Deluso, respinto, piegato a terra / Oppresso da me stesso, che ho osato aprir bocca, / Conscio ora che tra tante vane parole, i cui echi ricadono su me, non ho mai avuto la minima idea di chi o che cosa io sia, / Ma che di fronte a tutte le mie arroganti poesie il mio vero Io resta intatto, inespresso, tuttora inattinto, / e, ritiratosi lontano, mi irride con beffarde congratulazioni e inchini, / Con scrosci di lontane risate ironiche per ogni parola che ho scritto, / in silenzio indicando questi canti, e poi la sabbia che m’è sotto i piedi, / m’avvedo che non ho mai nulla capito, neppure una cosa, e che nessuno vi riesce, / La natura, qui, in vista del mare, approfittando di me per scagliarsi su me e ferirmi, / Perché ho avuto l’audacia d’aprir bocca e cantare».

Il prodigioso vortice dell’essere si attesta in una radicale novità originaria che esalta l’individuo, il singolo, ma anche la massa e l’eguaglianza, per essere una istintiva e ubertosa libertà, farsi natura, concepire la vitalità come prodromo di desiderio, allegoria sognante di abbagli, larga e piena di moltitudini.

L’esperienza della guerra civile rappresenta la trama ferita di una stagione che apre il sentiero della fatalità e del mistero inesplicabili, ma che scoperchia anche una pietà intensa, visiva, sofferente, persino scolpita, come avviene nella cristica morte di un giovane.

Quasi un vagito che cambia prospettiva: «Dovrò dunque mutare i miei canti trionfali? Mi chiesi, / dovrò imparare a cantare le fredde nenie dei vinti? / e i cupi inni degli sconfitti?».

Oppure geme nella preghiera sofferta di affidamento e di bacio, come tempio di anima navigante che percepisce il nome delle onde lontane: «Prossima è la mia fine, / le nubi già si serrano su me, / il viaggio è contrastato, dubbio, smarrito il corso, / i miei vascelli ecco li affido a Te. / Le mani, le mie membra son divenute inerti, / Il mio cervello, sotto le torture si smarrisce, / si sfasci pure la vecchia mia carcassa, io non mi sfascio, / Mi stringo stretto a Te, mio Dio, mi colpiscano pure le onde, / Te, Te almeno so».

Una foglia d’erba non è meno di un giorno di lavoro di tutte le stelle.

 

whitman W., Foglie d’erba, a cura di Giuseppe Conte, Mondadori, Milano 1991.  

allen G.W., «Biblical Echoes in Whitman’sWorks», in American Literature, VI, 1934.

Id., A reader’s guide to Walt Whitman, University Press, Syracuse (Ny) 1997.

Lawrence d.h., Studies in Classic American Literature, University Press, Cambridge 2003.

Manicardi L.,Walt Whitman e la poesia, Tip. Degli Artigiani, Reggio Emilia 1895.

Mathiessen F.O., Rinascimento americano. Arte ed espressione nell’età di Emerson e Whitman,

Enaudi, Torino 1954.

Pavese c., La letteratura americana e altri saggi, Einaudi, Torino 1951.

Pisanti T., Poesia dell’Ottocento americano, Guida, Napoli 1984.

Spadaro A., «Le verità attendono in tutte le cose». La poesia di Walt Whitman, in «La Civiltà Cattolica», II, 526.

Id., Nelle vene d’America, Jaca Book, Milano 2013.

Il dettato amoroso di Edmund Spenser

di Andrea Galgano                                         20 ottobre 2013

Poesia moderna

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Edmund Spenser (1552-1599) rappresenta una traccia ambiziosa nell’epoca elisabettiana. Di lui si è detto che fosse “il nuovo poeta” o “il poeta dei poeti”, secondo le definizioni di epoca romantica, ma, sicuramente, fu colui che meglio incarnò lo spirito della sua epoca e che riuscì a fondere le diverse anime della letteratura a lui coeva, nell’alto esempio di scrittura, nel fitto fondo petrarchesco e nel suo discorso d’amore che si attesta sulle prossimità ultime.

Nonostante la controversa, per molti aspetti, carriera politica, segnata dalla fedeltà al trono d’Inghilterra e dalla vicinanza a lord Arthur Gray, responsabile dell’eccidio di seimila cattolici, la sua vocazione fu preminentemente poetica, al servizio della forma e dell’espressione. Essere “poeta dei poeti” significa percorrere non solo la tradizione (Chaucer e le sue possibilità dialogiche, oltre che Petrarca), ma anche definire la soglia di visione di autori che a lui e alle sue famose stanze (un’ottava ariostesca con un alessandrino finale) hanno guardato, come Keats, Shelley, Byron, fino a Tennyson.

La sua Faerie Queene rappresenta la prima visione epica che l’Inghilterra abbia avuto, come programmatica, visionaria e irriducibile celebrazione della Vergine che veglia sull’Impero britannico, e un omaggio eroico alla Corona sulla scorta dell’Eneide. «è un poema cavalleresco», scrive Luca Manini, perché i suoi protagonisti sono cavalieri erranti che si muovono in un territorio indefinito, a tratti coincidente con l’antica Bretagna, e in cui il tempo e lo spazio rispondono a istanze fantastiche».

Doveva includere dodici libri, ma ne riuscì a scrivere solo sei e un settimo incompiuto. Dodici come le virtù aristoteliche (Santità, Temperanza, Castità, Amicizia, Giustizia, Cortesia), canonizzate cristianamente da San Tommaso d’Aquino. Ogni libro è suddiviso in dodici canti e, recuperando l’impianto virgiliano attraverso l’exemplum e l’iniziazione di un gentiluomo alla gentile disciplina, testimonia l’ascensione al trono della regina. Protagoniste, pertanto sono, una principessa cristiana che si chiama Una e la sua avversaria, Duessa. Attorno a loro una schiera di più di duecento personaggi, sotto il comando, da una parte del negromante Arcimago e dall’altra, del Cavaliere della Rossa Croce che affronta e sconfigge Errore, dalle cui viscere oltre a «rane ributtanti e rospi senza occhi», contiene anche libri e documenti. In alto, la regina Gloriana, sovrana di virtù e specchio morale, che abita nella Terra Fatata e che si aggira nel poema come una sorta di sfondo menzionato in dissolvenza.

E, infatti, lo scopo del poema, come scrive Spenser, è quello di «formare un gentiluomo o una persona nobile nella disciplina della virtù», come forma in divenire, come erranza di un mondo caduto inafferrabile e ininterpretabile, come, ad esempio, avviene nell’immagine di Arthegall: «E subito le fu porto allo sguardo un bel cavaliere, armato di tutto punto, con la scintillante visiera sollevata, sotto la quale appariva un volto virile, che faceva tremare i nemici e invitava gli amici a stringere con lui tranquille tregue; era pari al volto di Febo quando questi, ad oriente, si leva tra due ombrose montagne; era pieno di dignità nella persona, e ancor di più lo pareva per la grazia eroica e il portamento fiero. Sul cimiero aveva un segugio accucciato, e l’armatura sembrava di foggia antica, straordinariamente solida e massiccia, tutta tempestata d’oro; v’era scritto, in lettere antiche: Le armi di Achille che Arthegall a sé vinse. Sullo scudo dai sette strati portava un piccolo ermellino incoronato, che, con la candida pelliccia, risaltava sul campo azzurro».

La descrizione delle scene, filtrate attraverso la finzione storica e il riflesso, come in questo caso, porta al dettato poetico una struttura armonica e musicale di realtà e di ombra, che fa di quest’opera un grande orizzonte epico, in un flusso senza fine e in una prospettiva di meraviglia e varietà. Basti pensare alle storie meravigliose di Belfebe e di Amoretta, all’amore di Florimell per Marinell o ancora al matrimonio del Tamigi e del Medway.

Afferma Thomas P. Roche, jr: «è mia congettura che Spenser vide nelle oscillazioni della storia tra Elisabetta e Leicester la possibilità di un poema epico inglese che ancora non era stato scritto, con Elisabetta come Gloriana e Leicester come Artù. Sarebbe stata un’ottima mossa politica ed economica, e sarebbe stato completato prima che Elisabetta e Leicester fossero regina e re. Ma, naturalmente, le cose non andarono così».

Il passato mitico e il presente tendono ad unirsi in una unità fiabesca che mira a una funzione storica, per accreditare la piena veridicità della vicenda arturiana. Gli autori che lo hanno preceduto condensano, nella loro arte, la storia e la via di Spenser, attraverso le deviazioni, e il complesso impianto strutturale, il gesto sovraccarico di emblemi e arazzi, si spinge alla creazione di un poema cavalleresco, in cui i cavalieri, britannici e fatati, abitano il tempo irreale e immaginifico dello spazio, come epica trasmutata, percussione eroica e cristiana e lotta.

Scrive Luca Manini: «Spenser è l’osservatore consapevole della varietà infinita delle vicende umane, della natura come inesausta generatrice, del passaggio inevitabile, e irrefrenabile, dalla generazione al decadimento e alla sparizione; è il poeta della transitorietà delle umane cose, delle virgiliane lacrimae rerum, dell’incerto confine tra essere e apparire, della maschera e della metamorfosi; è l’artista sorretto da un mai esaurito anelito alla stabilità delle cose, stabilità impossibile qui, sulla terra,e possibile solo in una dimensione ultraterrena; e se passiamo a chiederci cosa affascinò Spenser nei poemi di Ariosto e Tasso, dobbiamo dare risposte diverse […]».

Il finto disordine ariostesco, se da un lato non permette una unidirezionalità di visione, dall’altro impone una netta partecipazione alla creaturalità, al suo limite indicibile, all’inseguimento del suo compimento e allo spostamento della piena realizzazione della sua sfuggente e inafferrabile felicità.

La precarietà umana abita il mondo ariostesco come tematica di rapporto e acuto stridore di stabilità, dai comportamenti, ai gesti, ai codici, fino alla frattura e al contrasto dell’ideale e perfetto mondo cavalleresco e la realtà mutevole del presente.

Il pieno ordine tassiano richiamava, invece, alla «storia della nascita dell’unità» (specie nel rapporto conflittuale tra l’Uno, Sommo Bene, e la mutevolezza del creato, in Spenser quasi una ferita), alla discreta ed evidente linea narrativa, con le strutture logiche, teleologiche e, non ultime, teologiche, la coincidentia oppositorum, e la fede come riconoscimento di una presenza che svela e “fa” il mondo: il Cavaliere della Rossa Croce (san Giorgio d’Inghilterra) che, come Goffredo combatte per liberare Gerusalemme, si muove per liberare la terra di Una da un drago demoniaco, finendo, dopo incidenti erranze, per liberare i genitori di Una o Sir Guyon che tenta di distruggere il Giardino del Piacere, quasi alciniano archetipo di Circe, dove vive Acrasia, la maga lussuriosa contenuta nel fato potente della sua bellezza e simbolo dell’intemperanza o Arthegall che libera il regno di Irena dal gigante Grantorto, compongono il sentiero di una redenta e finale meta, approdo che disegna ed è funzionale al disegno simbolico, narrativo ed allegorico del poema.

L’allegoria continua che permane, come accostamento di temi e di stile, e la volontà di rendere esemplare ogni episodio, invita il lettore a prender coscienza di un atto poetico che possa formare, educare e infine scuotere nell’intimo: «Io sono l’uomo la cui Musa, un tempo, indossò, come il momento le dettava, le umili vesti di un pastore, e al quale ora è imposto un compito che non sento mio: mutare le zampogne in trombe severe e cantare le nobili gesta di cavalieri e dame; troppo a lungo, nel silenzio, ha dormito la loro fama, e ora la sacra Musa invita me, che non ne sono degno, a diffonderla tra i suoi seguaci; guerre feroci e fedeli amori saranno materia e esempio del mio canto».

Commenta Manini: «Come in Ariosto, Spenser unisce le lezioni marziali del ciclo carolingio con l’amore del ciclo arturiano, ma egli qualifica gli amori di cui canterà con l’aggettivo “fedeli”,e, nel nono verso che aggiunge all’ottava italiana, usa il verbo moralize, ovvero rendere morale ed esemplare le storie che narrerà, introducendo un piano assente in Ariosto, e sottolineando la propria volontà di trasmettere, mediante la composizione del poema, un messaggio chiaramente diretto all’educazione del lettore».

L’erranza dei cavalieri, i quali deviano la loro rotta in spazi angusti e labirintici (foreste, imi, caverne, spelonche) e vittime di peccati ed errori, tende sempre a una finale ricostituzione unitaria e singola di redenzione ed elezione, in una lotta strenua ed estrema che unisce integrità fisica e integrità morale.

Nel canto III del libro VI, il protagonista Calidore, modello di cortesia, finisce per trovarsi in un luogo pastorale, deviando dal suo compito che è quello di distruggere la Bestia Berciante (Blatant Beast), vera allegoria della calunnia, che un giorno si libererà, pervertendo di nuovo la verità, creando, nuovamente, disordine, disomogeneità e degenerazione. Nella contrapposizione e caratterizzazione positive e negative di vita attiva e contemplativa, egli si arrampica sul monte Acidale, sacro a Venere, dove assiste, non visto, alla danza delle ninfe accompagnate dal pifferaio Colin Clout, (controfigura e alter ego di Spenser). Appena uscito dal nascondiglio, Calidore interrompe l’incantesimo, mettendo in fuga le damigelle.

Colina dice all’eroe che le tre donne che compongono il cerchio, circondate dalle fanciulle, sono le tre Grazie, le quali porgono doni per il corpo e la mente (offrire, accettare e infine restituire i benefici), mentre la donna al centro del cerchio simboleggia l’Amore, in una sorta di quadratura armonica e cosmica, richiamata dalla poesia. Ecco la trama di Spenser che riluce nei contrasti: il dicibile e l’indicibile, l’informe o il difforme che alla forma piena, lo smisurato alla contorsione malvagia.

L’uomo ha il compito, pertanto, di leggere il mondo, osservarlo, guardarlo, indagarlo e rivelando la propria lettura, può giudicarlo. Ogni evento, stratificato e complesso, ama svelarsi in una fantasia data, impastata con il reale, fucinata in forme sempre nuove.

In Spenser, sembra non affermarsi l’ironia ariostesca, anzi, la precisa linearità della sua espressione conferisce una serietà continuata e dottrinaria e una moralizzazione estesa.

La sequela ad Ariosto e Tasso permette di affermare, con maggiore vigoria, l’impeto dell’ambiguità immaginifica. L’immagine è lo specchio della sua anima, apparentemente artificiosa, ma intimo richiamo e sentiero di una tensione che non si risolve nel concetto, ma lo amplia e lo fa vivere, mettendosi al suo servizio, come colore della parola e delizia di stanza, evocatrici di emblemi e simboli. L’inganno di Duessa ai danni del Cavaliere della Rossa Croce si incastona in un groviglio di dubbi, spiriti e false immagini, come quando egli si imbatte in un albero nel quale vive lo spirito di Fradubbio, il quale narra del suo abbaglio dinanzi all’apparenza splendente della maga e di come lei lo abbia poi tramutato in albero, dopo essersi reso conto della verità. Il cavaliere segue il racconto di Fradubbio e Duessa, come signum della sua erranza cieca, del suo asservimento sensuale e della mancata distinzione, mescolata e non cosciente, tra falso e reale, dal momento in cui egli ha abbandonato Una, la Verità, e si è abbandonato ai piaceri di una donna duplice.

Ma la salvezza non appartiene alla singola volontà dei personaggi, bensì a qualcosa di superiore che è in grado di ridare vita e fortezza di spirito, come purificazione redentrice e nuovo battesimo.

In aggiunta alla formidabile proliferazione di vicende e intrico di personaggi fanno la loro comparsa i Mutability Cantos (1609), i canti della fuggevole e negativa Mutevolezza «che esige d’esser sovrana degli dei e degli uomini», ma alla quale non appartiene la consistenza ontologica, costretta ad appoggiarsi al suo contrario come presupposto.

Luca Manini, facendo riferimento al passaggio della Mutevolezza e all’episodio di Una che cavalca assieme al cavaliere della Rossa Croce (Asinus portans mysteria), scorge una stretta vicinanza alla Cabala del cavallo pegaseo di Giordano Bruno e afferma che però: «Al di là di queste suggestioni, però, ampio resta il divario tra la visione cosmologica e teleologica di Bruno e di Spenser, né Spenser avrebbe potuto fare propria l’idea di una natura e di un universo che fossero uno e infinito; per lui, la visione del mondo naturale della caducità e della peribilità si accompagna alla credenza di un perfetto e immobile (e distinto) mondo divino, meta finale dell’uomo».

Nel transito e nelle soste dei canti, Spenser compone la sua umanità in cerca di verità. Mai arresa impara a convivere con il limite, la caduta, il peccato e l’errore, ridisegnando, nella prospettiva del mondo incaduto, la sua coltre immobile che sosta, in una eterna attesa e promessa, fino alla visione dell’eterno bene.

Gli Amoretti, una raccolta di 89 sonetti dedicati a Elizabeth Boyle sua seconda moglie, rappresentano un canzoniere cristallino e netto allo stesso tempo, che vive di giustapposizioni ed echi precisi, non solo nella dicitura del nome Elizabeth, facilmente sovrapponibile, ma anche nella ipostasi amorosa, vista nella parabola non finita e cadenzata del ritmo delle stagioni.

Il dettato amoroso di Spenser, tende ad allontanarsi dalla secreta ironia di Astrophil and Stella di Sidney, giungendo, attraverso i suoi cupidi verbali, a una liquidità armonica e corposa, attraverso un personale intreccio di sostanza vissuta e trama del mondo («the lesson that the Lord us taught») e fusione di agape ed eros.

La caducità delle cose non tocca l’amore e la fama, perché esse sembrano proporre una meta immortale ed infinita. L’amore che guarda l’intensità del suo teatro, che nella sua innata fragilità sospesa, come l’arte, si fa terreno quando aspira al cielo, come unione acuta e imperitura.

Elizabeth rappresenta l’esito di una fusione ideale e carnale, come Stella polare di una firmamento acceso, in cui egli «parla di lei non a lei» (Giorgio Melchiori) e molto vicina all’eco del Cantico dei Cantici, si appropria del passaggio sensuale della verità, come fulgore e risveglio del tempo: «Venendo a baciare le sue labbra (tale grazia ho trovato) / mi sembrava di sentire l’odore di un giardino di dolci fiori».

Il suo io vive attraverso la voce dell’amata, in un dialogo di anime che si impregnano del verso fluido e armonioso dell’esistenza, come incanto e la delizia, marriage poem che abbraccia la realtà e che passa nella cruna del frammento e della riconciliazione. L’io si salva perché ama e anticipa l’eternità, con il suo movimento di archi sottesi: «Io scrissi, un giorno, il suo nome sulla spiaggia / ma vennero le onde a cancellarlo; / lo scrissi di nuovo, con l’altra mano; / ma vanne la marea a depredare le mie fatiche. “Uomo sciocco – mi disse Lei – che tenti invano / d’immortalare una cosa mortale: / poiché io stessa perirò allo stesso modo, / e persino il mio nome sarà cancellato”. “No – risposi – lascia che siano le cose meschine / a morire e farsi polvere; tu che invece vivrai nella gloria: / i miei versi terneranno le tue rare virtù / e scriveranno nei cieli il tuo nome glorioso. / E nei cieli, mentre la morte abbatterà il mondo intero, / vivrà il nostro amore, rinnovano un’altra vita».

Il canzoniere ha calma torrenziale e intimo prodigio. Conosce la bellezza sovrana e la rapsodia delle figure, la pace e la pena di un unico sospiro, di un unico bisbiglio donato alle porte del tempo.

 

spenser e., La regina delle fate, a cura di Luca Mainini, Bompiani, Milano 2012.

id., Amoretti, La Vita Felice, Milano 2003.

bertinetti p., Storia della Letteratura inglese. Dalle origini al Settecento, vol.I, Einaudi, Torino 2000.

manini l., Dal caos al cosmos: il canzoniere di Edmund Spenser, Bulzoni, Roma 2006.

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di Andrea Galgano                                         12 ottobre 2013

Poesia Latina

pdf Ausonio, Claudiano, Rutilio Namaziano: La vela obliqua della latinità

Ausonius

Le corti imperiali della seconda metà del IV secolo portano il nido di una interessante produzione poetica. La presenza di un pubblico importante e colto, la possibilità di una intensa carriera poetica dopo un carme ben composto, l’interesse suscitato dall’imperatore e dalla sua famiglia che nella pagina degli autori potevano diffondere la loro ideologia soprattutto ai ceti dominanti, rappresentavano, per i poeti e gli scrittori del tempo, una decisiva visibilità espressiva.

Uomini di ogni estrazione, dall’otium dei ricchi signori, fino a rispettabili maestri di scuola o uomini viandanti, componevano in modo variegato, intrisi di tradizione e vicinanza ai classici e fermi nell’immagine di Augusto, imperatore illuminato e uomo di pace.

Decimo Magno Ausonio (Burdigala, odierna Bordeaux, ca. 310- dopo il 393), insegnante di retorica prima a Tolosa e poi nella città di origine per trent’anni, amico e corrispondente di Simmaco, fu il più celebre tra i grammatici di Gallia, percorse una splendida carriera di onori.

Fu chiamato nel 365 dall’imperatore Valentiniano I alla corte di Treviri come precettore di Graziano che, quando fu imperatore, lo volle questore del palazzo imperiale, prefetto per Gallia, Italia e Africa, e console per l’anno 379. Morto Graziano nel 383, si ritirò nella sua città. L’imperatore Teodosio (379-395) lo considerava al pari dei grandi letterati dell’età augustea, chiamandolo parens (padre).

Scrive Luca Canali: «Intanto il Cristianesimo pervadeva la società, entrava nelle corti, conquistava gli imperatori, ma con ciò stesso si snaturava, diveniva lassista, a volte si corrompeva, perdeva lo slancio evangelico, si faceva opzione opportunistica per la carriera, o peggio, come scrisse impietosamente Salviano, il retore gallico fattosi poi monaco rigorista, si abbrutiva in «ricettacolo di tutti i vizi», «contro i quali ci si scaglia in pubblico per poi praticarli in privato». All’interno del cristianesimo la crisi morale – prima ancora di quella teologica e intellettuale delle eresie – spinge al monachesimo ascetico “grandi intellettuali” come Paolino da Nola, che ripudierà l’intera sua formazione culturale classica, mentre san Girolamo continuerà a coltivare la tradizione letteraria latina ma sentendosi dolorosamente “diviso” fra Cristo e Cicerone»

L’anima cristiana di Ausonio era imbevuta di ispirazione profana. La sua abbondantissima produzione, dai Versus Paschales, chiusa degli Epigrammi, fino all’Ephemeris, ai Parentalia, all’artificio del Technopaegnion, alle sofferenze d’amore del Cupido cruciatus o alla Bissula e alla Mosella, e la tensione poetica verso la tradizione, a lui precedente, rappresentano lo sfondo di una intensa ispirazione, concentrata sul lavorio verbale e sulla polimetria, che danno vita a un accentuato e un virtuosistico sperimentalismo di carte affastellate.

La transizione tra il mondo antico e quello tardo medioevale, già percorso dai barbari, segna in lui un vortice prezioso e debole, il limite del vissuto che, però, ha sempre bisogno di riflettersi in sfoggio retorico, misura, spregiudicatezza.

L’originalità del suo gesto, ricolmo di interessanti forme grafiche, assume su di sé il domino della lingua, l’originalità dell’espediente che scoperchia la tradizione, per assumere freschezza di ombre e ambiguità di apparenze.

Bissula è il nome privato e intimo dell’amore, «forse la prima figura germanica vista da vicino, senza deformazioni prospettiche», come scrive Francesco Arnaldi, che si unisce all’amore «per i suoi e per la sua terra fanno di Ausonio un romantico provinciale, in cui, se è vano cercare una grande arte, il lettore attento può sempre trovare una vena di sentimento poetico. Di fronte a questo, merita appena d’essere rilevato il fatto che dalle svariatissime produzioni poetiche di Ausonio, noi possiamo farci una chiara idea delle opere dei neoterici, poeti latini del sec. II che amavano dire di ogni argomento in versi rari. E se c’è nell’ammirazione per Ausonio dei suoi protettori e nel suo cattedratico orgoglio molta ingenuità da Medioevo, noi oggi possiamo, pur sorridendo, comprendere quell’entusiasmo».

Uno schizzo, un bozzetto e un invito a decretarne la bellezza, l’incarnazione racchiusa di un volto che si apre e si svela: «Né cera né colore possono rappresentare il volto di Bissula / la sua nativa bellezza non si presta agli artifici della pittura. / Vermiglio e bianco possono riprodurre altre fanciulle: / la mano del pittore non conosce la proporzione giusta dei toni per rendere il volto. E dunque, pittore, / mescola alla porpora della rosa una vena di giglio, / e quel chiaro color d’ari che ne verrà, quello sia il colore del suo viso».

Ma è nel poemetto Mosella (satura odeporica, epibaterion, encomio, epillio o idillio, ecfrasis?) che Ausonio offre la sua visione narrativa e descrittiva: «egli sa giocare come pochi con le ombre capovolte, con i riflessi trascoloranti degli alberi nelle acque dei fiumi, con le brevi e rapide composizioni sui sessi incerti o doppi e incompleti nella loro castrante duplicità, gli innamoramenti impossibili e mortali, le disperazioni inconsolabili risolte in autodistruzioni liberatorie». Il grande fiume che nasce sui Vosgi, si getta nel Reno e sulle cui rive si sporgeva la capitale Treviri (Trier) è un transito di freschezza, in cui il paesaggio arioso e libero, dove Satiri e Ninfe abbandonano il loro corpo alla danza tattile nella canicola solitaria.

Pur nella abbondante misura retorica, l’ispirazione è levità che si poggia sulla limpidità, sulla pienezza dei vigneti e dei declivi e sull’ariosità del cielo.

Aveva trascorso molti anni a Treviri, lì aveva svolto la funzione di precettore al figlio dell’imperatore Valentiniano e alla Mosella porge il suo canto mai sfiorito, come passo di danza inattesa e dipinto di suono: «Salve, o fiume elogiato per i campi che ti costeggiano / lodato per i tuoi coloni; / a te i Belgi sono debitori delle mura degne della sede imperiale, / i cui colli sono coltivati a vigneti dal succo fragrante, / o fiume verdissimo che scorri fra le rive erbose! (vv.23-26).

I riflessi sono ombre ricolme e piene: «quando il glauco fiume riflette l’ombra dei colli e sembra / che le sue acque frondeggino e nella corrente siano piantati tralci di vite. / Quale colore nei flutti quando Vespero sospinge le sue tarde / ombre e soffonde la Mosella del verde dei monti! / Gli interi gioghi nuotano negli increspati movimenti dell’acqua / trema l’immagine dei pampini e i grappoli sembrano più turgidi / nelle vitree onde. / l’illuso battelliere conta le verdi viti, / quel battelliere che sulla barca scavata in un tronco d’albero oscilla / sulle acque in mezzo alla corrente là dove il profilo d’un colle / si confonde col fiume, e il fiume intreccia fra lori i confini delle ombre (vv.189-199)».

È una freschezza flessibile ed evocatrice che cadenza il ritmo vitale, come il pescatore che si curva e i cui ami spazzano frotte di pesci impigliati nei nodi delle maglie e sentono la ferita mortale delle esche.

L’angolatura prospettica condensa tutte le possibili intensità visuali, che riuniscono mondo umano e mondo vegetale e animale, come vivente trama e sbocco poetico, come navigazione fanciulla e stuporosa verso i rapimenti dei transiti, l’affetto dei paesaggi, l’incontro.

L’abbandono, che pur ama frequentare la catalogazione erudita, deve abbracciare l’evasione crepuscolare, la metafora maestosa e serena del fischio del tempo, dell’ironia, del battito lieve e non ancora rassegnato. Qui la sua forza e la sua perdita, come il limite di un ristoro momentaneo.

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La poesia di Claudio Claudiano (370-404 d.C.) è erranza itinerante. Nato ad Alessandria d’Egitto, attivo alla corte d’Occidente dopo Ausonio, celebra il suo imperatore, all’interno dell’amministrazione imperiale (fu tribunus et notarius). Egli, giunto dall’Egitto, bilingue scaltrito di cultura greca, come una voce lontana che disegna la romanità, si trova nel quadro della celebrazione di Roma e di Stilicone (De bello Gildonico, De consulatu Stilichonis, De bello Gothico, così come le lodi alla benefattrice Serena, moglie di Stilicone), in uno di quei scrinia, tempio di decisioni segrete e di fedeltà incrollabili. Si trasferì poi a Milano, entrando nelle grazie di Onorio, imperatore di Occidente.

L’esametro dei panegirici, delle invettive, contro Rufino ed Eutropio, dei poemi storici e mitologici, degli epitalami, dei carmi in greco (la Gigantomachia tanto cercata da Poliziano nelle sue missive a Bembo) è la sua coltre prigioniera che inquadra il tempo, tenta di sforarlo, scompaginarlo, viverlo.

«Il genio di Claudiano», scrive Laura Micozzi, «è allusivo, assimilativo e consapevole; la sua poesia non è certo “ingenua”, ma fondata piuttosto sul lucido governo della tradizione precedente. Il suo stile è un raffinato prodotto di riflesso, saturo di esperienze culturali, fedele all’egemonia dei modelli della grande poesia latina. Tutta la cultura pagana del tardo impero tende del resto a coltivare una letteratura colta, nata nel laboratorio di poeti professionisti (che all’occorrenza si guadagnano da vivere, anche come maestri ed insegnanti), e lo studio dei classici dà in quel periodo frutti rilevanti anche nella lettura e nell’interpretazione dei testi».

«Il primo e più inquietante dei poeti moderni» che suona l’ultima fanfara incompiuta all’Impero, come scrisse Coleridge, getta le sue carte sul tavolo e sono i segni virgiliani e ovidiani di un a Christi nomine alienus (Agostino).

Oltre alla Gigantomachia, anche il De raptu Proserpinae, che narra il mito di Prosèrpina, rapita, nel caldo lussureggiante della Sicilia, da Ade, dio degli inferi, che la sposa nell’Erebo e Demetra, la madre della fanciulla, si mette sulle sue tracce.

I dibattiti sulla datazione dell’opera hanno aperto scenari di composizione che prediligono ora la storia a danno del mito o viceversa, ma di sicuro la sua stesura ha aperto una posizione privilegiata di una elisione e di un enigma. Un fatto di letteratura che racchiude l’inclusione di motivi antichi, varia i modelli, colloca suggestioni nuove.

Dall’invocazione solenne della prima scena, ai sogni e presagi premonitori, la fedeltà alla memoria poetica è un tratto saliente e un gradiente di espressività, che riflette la precarietà del presente con le angosce, le riflessioni, gli sguardi opachi: «I destrieri del rapitore, signore dell’abisso, e le stelle, incalzate dall’ansare del occhio tenario, e il talamo cinto di tenebra di Giunone infernale: questo mi spinge a svelare con l’audacia del canto la mente che trabocca. Fatevi indietro profani! Già il furore divino mi ha sgombrato dal petto ogni senso umano e il cuore è colmo dell’ispirazione di Febo» (vv.1-6).

La scomposizione di elementi diversi, la coerenza, la decadenza che scompagina il testo si afferma in Claudiano, come accensione molteplice di figura.

La scena isolata che profuma splendente, che afferma i dettagli e contorsioni verbali, porta dentro il sentore della perdita, dell’ossessione frequente e infine della lacerazione che indugia, come una irruzione di tempo sparpagliato e cialtrone.

La narrazione dilatata del rapimento si appende al mondo e ne esplora le rifrazioni, i segni sparsi e «come l’Achille staziano, il suo Plutone sperimenta infatti l’amore (non la guerra), e l’eros introduce una dinamica nuova nella caratterizzazione del personaggio, che nei modelli aveva una fisionomia piuttosto stereotipata» (Laura Micozzi).

L’etica mitologica rimane incompiuta, pur cercando di colmare i vuoti del distacco e del tempo lontano della tradizione, per finire nell’ultimo scrigno di una civiltà in declino.

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Nella stessa atmosfera culturale è immerso il poeta gallico Claudio Rutilio Namaziano, altissimo dignitario dell’Impero d’Occidente e praefectus urbi nel 414, di famiglia illustre e pagano convinto.

Quando nel 410, c’era stato il sacco di Roma, compiuto per tre dai Goti di Alarico, queste popolazioni erano risalite in Provenza e in Aquitania, saccheggiando e devastando, il poeta si vide costretto a ritornare in Gallia per sovrintendere alle necessarie riparazioni delle sue terre.

Lo storico Camille Jullian scrive: «[…] Che cos’erano diventati quei templi, quelle terme, quei teatri rurali, dove nei luoghi di fiera o di pellegrinaggio della Gallia romana, da tre secoli si erano distribuiti tanti piaceri e accumulate tante ricchezze? Senza dubbio non erano più che resti di muri a metà calcinati, e non serviranno più che a rifornire di pietre o di marmi i villaggi vicini, il giorno in cui questi si potranno ricostruire. […] Sui colli vicini alle sorgenti, al riparo di boschi profondi, molte ricche villae erano crollate, e nessuno pensava di utilizzarne i resti. A poco a poco la foresta si avvicinava ad essi: essa finirà, poiché nessuno le oppone resistenza, con il ricoprire queste vestigia miserevoli e far sparire e dimenticare sotto le sue fronde rinnovate i ricordi della ricchezza e delle calamità romane».

Il viaggio autunnale di Rutilio Namaziano per mare verso la Gallia, dal porto di Augusto ad Ostia, costeggiando le rive del Tirreno fino a Luni, alla foce del Magra, si avvale di brevi tappe e brevi scali in località in cui egli ne approfitta per descrivere luoghi e ricordare amici celebrandoli, lanciare invettive contro gli avversari e i nemici.

Le sfiorenti rovine occupano gli occhi, come commenta Alessandro Fo: «Il mondo che Rutilio ritrae è quello di un’Italia ferita dalle scorribande barbariche, in cui singole località destano memorie storiche o mitologiche, e più spesso offrono l’occasione di segnalare il passaggio o la presenza di amici e nemici. Gli amici sono nobili esponenti di quella aristocrazia senatoria in cui Rutilio ravvisa ancora il baluardo dell’antico valore romano. I nemici sono avversari politici o ideologici: famoso è il suo attacco allo stile di vita monastico, praticato nelle isole di Capraia e Gorgona, davanti alle quali si trova a passare. Rutilio appare fermamente arroccato nel paganesimo della tradizione: vede in Roma personificata una dea, accenna con sguardo partecipe ai culti di Osiride, mentre per il suo poemetto, se si esclude l’aggressione ai monaci, il cristianesimo – di recente assurto a religione ufficiale dell’impero – non sembra neppure figurare nei registri dell’esistenza».

Lo spopolamento, la rovina morale e la distruzione (Ambrogio dirà che gli edifici in rovina «semirutarum urbium cadavera», sono cadaveri di città semidistrutte) di luoghi come Castro Nuovo o Alsio e Pirgi, in passato fiorite d’oro, o Populonia distrutta dal tempo, non portano la resa di un’affezione a Roma, alla quale innalza il fervore di un inno di fede e resurrezione assorta, come proclamazione di un’antica gloria che vale anche per il presente: «fecisti patriam diversis genti bus unam» o ancora «Urbem fecisti quod prius orbis erat».

I monaci che fuggono la luce, rintanati nell’angustia degli occhi e degli spazi, rappresentano, per lui, la coltre di una umanità rinnegata, responsabili del declino dell’Impero.

Un mondo chiuso sottratto al presente rattrappito in una nostalgia che frequenta le ferite e le devastazioni e persino sulla fuga in una illusione antica prigioniera di una sottrazione civile evidente, aleggia l’ombra del multiforme Stilicone, colui che ha aperto le porte dell’Italia ad Alarico e Ataulfo.

il viaggio di un viaggio, condensato nelle divagazioni, nelle chiose, nella trama non sempre fertile dei giorni, apre il suo exitus finale a un tempo che si appropria di esistente e inesistente, come fragile membrana di una promessa irrisolta.

Alessandro Fo, analizzando la complessità dello sguardo rutiliano, commenta ancora: «Oscilla fra dolente constatazione degli insulti del tempo e un ottimismo propositivo fondato sulla fiducia nell’eternità di Roma e nella capacità ricostruttiva dei Romani – da quella dei cittadini che, sotto gli auspici di Costanzo hanno ricostruito Albingaunum a quella di chi, come lui stesso, si accinge a provvedere di persona al restauro dei propri beni.»

La necessità di ritornare alle proprie terre, distrutte dai barbari, rapporta il testo al gemito di una franta umanità, che nel diletto, strappa il mantello della Fortuna e si attesta al tradizionalismo celebrativo: «è tempo di costruire, dopo feroci incendi, su fondi laceri / anche soltanto casette di pastori. / Che se le stesse fonti, anzi, dare voce, / se i nostri arbusti potessero parlare, / con giusti pianti mi stringerebbero mentre tardo / mettendo al mio desiderio le vele».

Il desiderio di vele ama sostare sulla morbida delicatezza del ritratto velato e viandante, come il porto di Centocelle, la rugiada dell’alba sulla porpora, il riflesso della costa sull’orlo dei flutti, l’aurora secca di saline, il nembo tagliato: «La prima luce brillò rugiadosa nel cielo purpureo: / tendiamo le vele inclinate in una piega obliqua. / Per un tratto evitiamo il fondale basso lungo le foci del Mignone: / anguste imboccature vi agitano onde infide. / quindi avvistiamo i tetti sparpagliati di Gravisca, / oppressa spesso in estate, da odore di palude, / ma i dintorni boscosi verdeggiano di fitte foreste / e sull’orlo del mare tremola l’ombra dei pini. / Scorgiamo le antiche rovine, senza alcuna custodia, / e le squallide mura di Cosa abbandonata. / Quasi ci si vergogna a rivelare, in mezzo a cose serie, la ragione / ridicola della disfatta, però mi spiace mascherare il riso (vv.277-288)».

ausonio, La Mosella e altre poesie, Mondadori, Milano 2011.

arnaldi f., Dopo Costantino, Mariotti Pacini, Pisa 1927.

claudiano, Il rapimento di Proserpina, Mondadori, Milano 2013.

id., De bello Gothico, Pàtron, Bologna 1979.

conte g.b.- pianezzola e., Il libro della letteratura latina. La storia e i testi, Milano, Le Monnier 2000.

jullian c., Histoire de la Gaulle, vol. VII, Hachette, Bruxelles 1964.

lana i., Letteratura latina. Disegno storico della civiltà letteraria di Roma e del mondo romano, D’Anna, Messina-Firenze 1983.

paratore e., La letteratura latina dell’età imperiale, Firenze, Sansoni 1959.

prenner a., Quattro studi su Claudiano, Loffredo, Napoli 2003.

rutilio namaziano, Il ritorno, Aragno, Roma 2011.

scafoglio g., Intertestualità e contaminazione dei generi letterari nella Mosella di Ausonio, in «L’Antiquité Classique», 68, 1999.  

 

L’inconscio della scrittura. Andrea Galgano – Irene Battaglini, Frontiera di pagine, Roma, Aracne, 2013

L’inconscio della scrittura. Andrea Galgano ­– Irene Battaglini, Frontiera di pagine, Roma, Aracne, 2013 

recensione di Giuseppe Panella

Frontiera di Pagine5 ottobre 2013

Fin dalle sue origini, la psicoanalisi si è cimentata con la letteratura e con l’arte, provandosi a dare una serie di risposte agli stessi interrogativi che la critica letteraria si pone da sempre.

Una lunga serie di analisi freudiane al riguardo costituiscono un corpus impressionante di tentativi di spiegare, attraverso l’interrogazione dell’inconscio, del perché un’opera d’arte sia nata così e abbia assunto proprio l’assetto formale che ad essa risulta necessario e consapevolmente più adeguato ad esprimere le esigenze dell’artista che l’ha realizzata.

Il caso rappresentato dal saggio di Freud sul Mosè di Michelangelo del 1914 (ma anonimo e poi riconosciuto solo nel 1924) è al riguardo esemplare: l’atteggiamento e la postura del profeta biblico sono la spia, la traccia manifesta della volontà di Michelangelo di spiegarne il comportamento successivo e l’atteggiamento umano di collera che lo contraddistinguono.

La raccolta degli scritti di Irene Battaglini e di Andrea Galgano, simbolicamente intitolata Frontiera di pagine, vuole disporsi teoricamente sul discrimine esistente tra critica d’arte ed esercizio psicoanalitico e cercare di utilizzare entrambe per raggiungere il risultato voluto: la ricostruzione del percorso di un’artista importante e significativo e lo svelamento del segreto contenuto nelle sue opere in modo tale da far esplodere tutta la potenza dell’inconscio che in esse si dispiega.

Nell’Introduzione, firmata da entrambi gli autori, si può conoscere esaurientemente lo scopo che essi si sono prefissi con questa loro raccolta:

<<La scrittura impone l’esperienza di un viaggio e di un possibile approdo che richiedono la speranza come messa alla prova, scuotimento, tocco, abbandono e dono delle responsabilità. E’ il gesto della beatitudine e della ferita che ogni volta si annunciano e si impongono a cogliere il nome che plasma la realtà, e che sconvolge misure strette, destando il suono di un’attenzione. La parola che “squadri da ogni lato l’animo nostro informe”, direbbe Montale, ha un limite sfarzoso e doloroso: toccare il sigillo rinnovato delle cose e non riuscire a sagomare tutta la realtà. E’ il limite passionale e fragile della condizione umana, la luce che si incide in solchi di tela e strappi di fogli, nei chiaroscuri dove non si esiliano le ombre[1]>>.

 L’esperienza della letteratura rappresenta <<abitare l’inizio delle cose>> – affermano i due autori citando uno splendido saggio della scrittrice statunitense Flannery O’ Connor (Natura e scopo della narrativa, contenuto in Nel territorio del diavolo. Sul mistero dello scrivere) -, scrivere significa agire sui sensi del lettore, motivarli e permettergli di andare al fondo del reale, nella sua concreta reviviscenza effettuale, nel suo esplicito definire il mondo e dargli un nuovo perimetro, una nuova sagomatura. Scrivere significa rifare la realtà attraverso una ri-forma dell’apparato percettivo sia di chi scrive sia di chi legge, sia dell’autore che del “suo” lettore (esplicito ma anche “implicito” – se si deve prestar fede alle analisi semiologiche di Umberto Eco).

L’interesse principale di Irene Battaglini è rivolto alla pittura, in primo luogo a quegli scienziati come Eric R. Kandel, Premio Nobel per la medicina nel 2000 per i suoi studi sulla conservazione della memoria, che ha dedicato a pittori della Grande Vienna di inizio Novecento (Gustave Klimt, Oscar Kokoschka, Egon Schiele) ed anche a pensatori e scrittori come Freud, Arthur Schnitzler o Friedrich Nietzsche, un saggio di grande rilevanza teorica in cui cerca di ritrovare nei meandri ancora oscuri della mente il senso profondo della loro luminosità.

Ma, dopo il neurologo Kandel, fanno la loro apparizione il grande pittore pugliese De Nittis e le sue rappresentazioni della Roma postunitaria, Giorgio Morandi e il senso inesprimibile delle sue “bottiglie” e dei suoi cortili, le notti ebraico-orientali di Marc Chagall, il velo impalpabile dei quadri di Gaetano Previati, il movimento “panico”di Henri Matisse con la danza primigenia dei suoi semidei “impaludati nella natura” (p. 57), i colli eleganti e invalicabili delle donne di Amedeo Modigliani, il mondo notturno e falsamente realistico bensì stilizzato ed erratico di Edward Hopper (si pensi al suo quadro più noto, Nighthawk oppure a Morning Sun che la Battaglini analizza con grande finezza), il “mare di nebbia” di David Caspar Friedrich e il suo Viandante, icona vivente del Sublime, per finire con Il Calvario di Pieter Bruegel il Vecchio, la materia tormentata della spiritualità religiosa di William Congdon, i colori aspri e sanguigni di Renato Guttuso e i disegni dechirichiani ed inquietanti dello scrittore Dino Buzzati.

Lo spazio che Andrea Galgano si ritaglia è molto ampio ed è, quindi, impossibile ripercorrerlo tutto nello spazio di una nota di recensione: il critico letterario parte di “profumi della trasparenza” di Saffo per passare attraverso Catullo e l’amore impossibile per Lesbia, l’elegia tormentata di Tibullo e Properzio, i Tristia di Ovidio, la vertiginosa archeologia del poema dedicato a Beowulf, la saga sanguinosa e poetica dei Nibelunghi, Perceval le Gaulois di Chretien de Troyes e la sua innocente ricerca dell’innocenza perduta tramite la cerca del Santo Graal, Maria di Francia e i suoi Lais, Geoffrey Chaucer e i suoi Canterbury Tales di ispirazione boccacciana, la sequenza di vita e morte del Ragno Amore di John Donne, il Dolce Stil Novo di Guido Cavalcanti, Luis de Camões e i viaggi di scoperta di Vasco da Gama, il teatro sacro (e profano) di Jean Racine, la Notte oscura Juan de la Cruz e il suo tormento spirituale, la squillante ritmicità dei poemi di Fjodor Tjutčev (che furono straordinariamente tradotti un tempo da Tommaso Landolfi), la narrativa inquietante e “inesauribile” di Charles Dickens…

E ancora, scivolando sempre più verso il Novecento, la “camera chiusa” di Emily Dickinson, la poesia “barbara” e l’amore passionale (e segreto) di Giosuè Carducci, il mondo del “sottosuolo” dell’anima di Renè de Chateaubriand, la di speranza ricerca di certezze di Heinrich von Kleist e la sua crisi kantiana culminata nell’amore di Penthesilea per Achille, la teratomorfa poetica angoscia di Isidore Ducasse (falso) conte di Lautrèamont e le sue creazioni allucinate e perverse, e poi ancora The tempest di William Shakespeare (chiunque egli sia stato) e il mondo provvidenzialistico di Alessandro Manzoni fino alla lirica narratività di Thomas Hardy, al “canto fioco” di Marceline Desbordes-Valmore per culminare nella poesia (e nella vita) errante di Arthur Rimbaud.

Il percorso di Galgano attraversa tutta la grande cultura letteraria del Novecento, quella che egli definisce giustamente Il fuoco della contemporaneità dall’appena scomparso Àlvaro Mutis a Thonas Stearns Eliot, da Joseph Conrad a Flannery O’ Connor, da Harold Pinter a Guillaume Apollinaire, dal Premio Nobel Tomas Tranströmer, da John Cheever a Sherwood Anderson per dedicare poi un nutrito paragrafo all’amata Flannery O’ Connor.

Le analisi di Galgano sono brevi ma preziose nella loro minuta ed esauriente concisività: poche frasi, qualche citazione e una manciata di giudizi critici che bastano a definire l’essenza profonda della poesia o della narrativa di autori studiati a profusione e sui quali sono stati spesi tempo e versati fiumi d’inchiostro in maniera straordinaria (e talvolta fin troppo dispersiva).

Galgano riassume il loro mondo con brevi tratti di penna e ne mette in progressione “ritratti in piedi” suggestivi e calzanti, puntando su particolari significativi piuttosto che cercare una compiutezza che sarebbe impossibile, se non nociva per la comprensione del personaggio studiato.

Nel testo dedicato a Flannery O’ Connor, Galgano ha accenti di forte pathos (ma criticamente motivato e fondato sulla natura delle opere realizzate dalla scrittrice americana):

<<E’ sempre un mondo in continua creazione, ricolmo di promesse, un abisso di ombra – basti pensare a La schiena di Parker -, in cui spesso la visio Dei è piena, soggiace non già ad un’intuizione spirituale ma a un dato di realtà, raccolto in modo anagogico. Lo spirituale anzi diventa materia, il tragico cristiano si evidenzia appieno, come strumento conoscitivo e lente della realtà. Solo nella Grazia si scopre il destino. In essa si ritrova quella salvezza, che dall’esterno interviene con dirompente misericordia a rendere più uomo l’uomo (Un brav’uomo è difficile da trovare) e rende la fede un atto ragionevole di apertura libera. Il campo di Flannery O’ Connor è la pagina umana, vista nel suo effimero e nella sua debolezza, ma è anticamera concreta e terribile appoggiata al cielo>>.[2]

 Con accenti certamente diversi ma con la stessa passione di ricerca Irene Battaglini aveva scritto di Edward Hopper e della sua ricerca pittorica:

<<Il realismo di Hopper è di fatto “o-sceno”: il grande artista americano intendeva far parlare quella fenomenologia della parola che si rappresenta nel suo silenzio, e che si dà a volte all’uomo anche contro la sua volontà. Un sogno, una chiamata, un insight. Ogni esperienza di certezza è preclusa a coloro che indagano la realtà in rapporto alla sua rappresentazione. Occorre abbandonare i manuali, le scale quantitative, le misure di falsificazione e quell’orgoglioso ricorso al regno delle cose probabili, quando si tenta di dirimere la controversia tra possibile e impossibile, tra vero e falso. Nel divario tra le due ali di una farfalla non si registra alcuna probabilità, piuttosto si osserva il movimento preciso: la serena accettazione dell’ala di avere una compagna gemella e irraggiungibile, speculare e vitale. Edward Hopper ha fatto esperienza di sé e viaggio iniziatici nella dimensione conoscitiva della luce che invade lo spazio, indagando con coerenza sperimentalista il piano dei piccoli infiniti che si affastellano sulla tela>>.[3]

 Per entrambi, dunque, l’analisi critica non è disgiunta dalla ricerca letteraria e la volontà di usare la parola non soltanto per spiegare o analizzare ma soprattutto per dire una verità che solo arte e letteratura sono in grado di far comprendere appieno e di utilizzare in tutta la sua interezza ermeneutica.



[1] Andrea Galgano – Irene Battaglini, Introduzione a Frontiera di pagine, Roma, Aracne, 2013, p. 17.

[2] Andrea Galgano – Irene Battaglini, Frontiera di pagine cit., p. 264.

[3] Andrea Galgano – Irene Battaglini, Frontiera di pagine cit., p. 71.

 

Lo spasmo di Alexandr Blok

di Andrea Galgano                                         26 settembre 2013

Poesia Contemporanea

pdf Lo spasmo di  Alexandr Blok

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«Aleksàndr Aleksàandrovič Blok è la figura più cospicua di quella generazione di simbolisti russi che percepirono in modo spasmodico il rombo sotterraneo degli avvenimenti, la crisi della cultura borghese, l’approssimarsi della tempesta. Maturati sul limitare di due epoche, con tutta l’irrequietezza di chi vive sul limitare di due epoche, con tutta l’irrequietezza di chi vive su un’incerta striscia di confine, i giovani simbolisti respinsero il positivismo, le formule naturalistiche, i vezzi dei decadenti in nome di concezioni messianiche, di teorie religiose che appagassero la loro brama di grandi rivolgimenti» (Angelo M. Ripellino).

La poesia di Alexandr Blok (1880-1921) è uno spasmo sottile di confine, come un sisma che si impossessa dell’aura mistica e della profezia. La smania che condensa gli anni febbrili di San Pietroburgo attesta, sin da subito, la sua fascinazione, come avverrà ne i Ricordi di Alexandr Blok, scritti da Andrèj Bèlyj, altro grande emarginato della letteratura di quel tempo.

C’è una sorta di veggenza viandante e rivelatrice nella sua persona, un abbaglio di coltre che promana dalla sua vertigine, come annota Massimo Barili, in un articolo tratto dalla rivista «Il Club degli Autori» del febbraio 2012: «La stessa opera di Aleksandr Blok rappresenta, in fin dei conti, una sorta di diario lirico che diventa specchio fedele delle sue visioni, delle sofferte e tumultuose metamorfosi, dei suoi mutamenti esistenziali e del dramma interiore dopo l’accertamento del crollo della figura della mistica amante, della donna che poi aveva sposato, e della successiva presa d’atto dell’assenza della Bellissima Dama, che aveva ispirato le sue prime poesie, sostituendola con l’immagine terrena e tremendamente mondana della figura di una donna “sconosciuta”, che si aggira nei locali tra gli ubriachi, pronta a offrire anche lei una “rivelazione mistica-estatica” ma di tutt’altro genere. E, poi, nell’ultima stagione della sua vita, anche la figura della “sconosciuta” verrà sostituita con l’amore per la propria Terra, per la Madre Russia, che vivrà il periodo drammatico e sanguinoso della rivoluzione».

L’inizio patriarcale e sereno delle sue prime liriche, raccolte in Ante lucem (1898-1900), afferma la potenza dell’infanzia trascorsa a San Pietroburgo e tra i tigli e le iridi di Ŝachmatovo, dove l’inizio di quella visione nel cielo di geroglifici, intagliava brume, profilava scenari boreali, languiva nei paesaggi, come scrive Pasternak:

«[…] E quando in questo regno dell’artificiosità ormai solidamente affermata, ma di cui nessuno più si accorge, qualcuno apre la bocca non per inclinazione alle belle lettere, ma perché sa e vuole dire qualcosa, questo fatto produce l’impressione di un mutamento improvviso, come se i portoni si spalancassero di colpo e irrompesse il frastuono della vita che si svolge di fuori, come se non fosse un uomo a dar notizia di ciò che avviene nella città, ma la città stessa parlasse di sé per bocca di un uomo. Così, per Blok, tale fu la sua parola, solitaria, pura, come di fanciullo, tale la forza della sua creazione. Sembrava che la novità stessa, spontaneamente, da sé si fosse disposta sul foglio stampato, e che i versi non fossero stati scritti e composti da nessuno. Sembrava che la pagina non fosse rigata dai versi sul vento e sulle pozzanghere, sui fanali e sulle stelle, ma che fanali e pozzanghere fossero loro a increspare, come bava di vento, la superficie della rivista e solcarla di umide, possenti tracce».

La membrana dell’orizzonte impalpabile compone la distesa sonnolenta e fluttuante del paesaggio, un fruscio di fronde mitiche, una burla inseminata di terra: «Penso che, se la voce si tacesse, / mi sarebbe difficile il respiro, / e il cavallo, sbuffando, crollerebbe / sulla strada, e non potrei arrivare! / Pigre e pesanti nuotano le nuvole, / e la foresta languida mi attornia. / Il mio cammino è lungo, faticoso, / ma la canzone amica mi accompagna».

Le visioni cerulee condensano lo sguardo in una sorta di erotismo mistico, una speranza messianica che incontra l’Eterno femminino, in una gracile attesa di sogno veemente, in una vivezza di invocazione e richiamo.

La bianca foresta dei simboli è il bagliore dell’arte che «vede l’incendio rovinoso della vita», come un argonauta di chimere lontane e voce sparsa nel vento dell’inverno o nel crepuscolo delle primavere, nell’alba che «spilla come un rosso fantasma».

Il baluginio della Bellissima Dama che scintilla di rosse lampade diviene il soggetto di una litania densa e stratificata. Assomiglia alle nebbie fugaci e perenni di una ingemmata fiaba antica che indizia il suo avvento, scrive l’amore nei diari, fa esplodere le sue fiamme.

Scrive ancora Barile: «Blok si muove, all’inizio del suo cammino, come a ricercare l’estasi rivelatrice in un mondo irrisolto, in una vita che può essere oscura e pericolosa, in una dimensione nella quale immergersi e avvertire l’approssimarsi della tempesta. Nel flusso della realtà, cosparsa di mistero e tragicità, si può aprire una porta invisibile che conduce alla sostanza stessa dell’esistere, cercando di possederla attraverso una mistica visione, grazie ad un incanto metafisico. Il vortice dell’esistenza vede dissolvere la patina superficiale che vela ogni cosa e tutto ciò permette, come fosse iniziazione dei misteri, di penetrare nelle zone più segrete ed inconoscibili. L’illuminazione lirica, nella sua forma estatica, elimina la banalità della superficialità quotidiana e introduce alla radice dell’esistenza pura, come a vivere l’ebbrezza suprema».

L’ineffabile percezione dell’esperienza, la vaghezza e indefinitezza dei passaggi, trova in Blok, la fiamma dell’ornato indefinibile, del folclore, della linea che ripercorre le strade, i boschi, le chiese, i campi.

L’accenno preciso del colore, fa risultare, pertanto, «un universo largo e ipnotico, una creazione contrattile e senza contorni, che palpita in ogni sua fibra per la spasmodica attesa di impossibili eventi» (Angelo M. Ripellino).

L’anima atemporale di Ljuba-femminino è un vortice di austerità patriarcale, un nastro che compone l’universo e si fa incontro impenetrabile. Ma gli occhi randagi di Blok hanno già solcato lo sperdimento della città, gli umiliati e offesi che la abitano, la notte nei buchi e le tenebre di luce. La lacerazione e la frattura iniziano a propagare nell’anima.

Blok frequenta i salotti letterari, da quello di Zinaida Gippius fino a quello di Ivànov e Gorodeckij descrive il poeta prima della declamazione: «Nella sua lunga prefettizia, con la morbida cravatta annodata in maniera raffinatamente negligente, con l’aureola dei capelli oro cinerino, egli era romanticamente bello allora, nell’anno 1906-07. Si avvicinava lentamente al tavolino con le candele, sfiorava tutti con occhi di pietra ed egli stesso si faceva di pietra, finché il silenzio non diventava assoluto. E si metteva a recitare, tenendo la strofa tormentosamente bene e rallentando appena il tempo nelle rime. Egli incantava con la sua lettura e quando terminava la poesia, senza cambiare voce, improvvisamente, sembrava sempre che il godimento fosse terminato troppo presto e fosse necessario ascoltare ancora».

Il travaglio di un’epoca, l’illusoria liberazione nei fumi dell’alcool, sostengono lo spaesamento di una congiunzione di esilio.

La nuova figura femminile che compare all’orizzonte ha tratti netti ed è tempesta di giorni febbrili. Dal suo occhio, radicato e suburbano, Blok delinea nuovi contorni:

 «Si è dunque compiuto: il mio mondo magico è diventato l’arena delle mie azioni personali, il mio “teatro anatomico” o teatro dei burattini, dove io stesso svolgo un ruolo insieme alle mie mirabili marionette (ecce homo!). La spada d’oro si è spenta, i mondi color lilla mi hanno irrorato il cuore. Il mio cuore è un oceano, tutto in esso è ugualmente magico: non distinguo la vita, il sogno e la morte, questo mondo e gli altri mondi (attimo, fermati!). […] La vita è diventata arte, ho fatto gli esorcismi e dinnanzi a me è sorto infine ciò che io (personalmente) chiamo la “Sconosciuta”: una bellezza-marionetta, uno spettro azzurro, un prodigio terrestre. Questo è il coronamento dell’antitesi. E dura a lungo la leggiadra,  alata meraviglia dinnanzi alla mia creazione. I violini la glorificano nel loro linguaggio. La Sconosciuta. Non è affatto semplicemente una dama in una veste nera con piume di struzzo sul cappello. È una lega diabolica di molti mondi, principalmente azzurri e lilla. […] È una creazione dell’arte. Per me è un fatto compiuto. Sto dinnanzi alla creazione della mia arte e non so cosa fare. Detto diversamente, cosa fare con questi mondi, cosa fare della propria vita, che d’ora in poi è diventata arte, perché accanto a me vive la mia creazione – né viva, né mor-ta, uno spettro azzurro. Vedo chiaramente “il lampo fra le sopracciglia delle nubi” di Bacco (“Eros” di VjaC. Ivanov), chiaramente distinguo la madreperla delle ali (Vrubel’ — “Il demone”, “La principessa-cigno”) o sento il fruscio delle sete (“La sconosciuta”). Ma tutto è uno spettro».

È il solco inguainato di azzurro, una voragine di tempi lontani. Inizia persino a comparire l’’immagine paludosa, principio di colore viola, letargo di guerrieri e fiammelle palustri.

Il sogno-grido dell’azzurro è violino sbandato di una stella caduta. La Sconosciuta diviene il ponte di un abbaglio che inclina e oscilla.

Commenta Angelo M. Ripellino: «la Violetta Notturna è la Bellissima Dama, non più miraggio di teologali lontananze, ma fantasma ipnotico che germina dalle paludi; il giovane scaldo, irrigidito in una torpida adorazione, è un sosia, un riflesso del poeta ingolfato in un culto sterile e ozioso; e i guerrieri del seguito arieggiano agli “Argonauti”».

Il pianto e il grido addosso, cullati nel vento dell’alba, dei tripudi dell’esilio confuso e impalpabile, intuisce un doppio mondo che evoca e adombra specchiamenti e riflessi.

L’altrove lontano e negato risuona il suo fondo catturato. Da ora in poi la coltre cittadina di Blok è rappresentata dai postriboli, dalle bettole, dallo spolvero delle nebbie, dove le prostitute raccontano l’aura della loro parabola.

Pietroburgo è rossastra, striata di sangue e vermiglia: «La nostra realtà trascorre in un rosso chiarore. I giorni son sempre più rumorosi di gridi, di rosse bandiere sventolanti; a sera la città, assopitasi un attimo, è insanguinata dal crepuscolo. Di notte il rosso canta sugli abiti, sulle guance, sulle labbra delle donne da conio. Solo la pallida mattina scaccia l’ultima tinta dai volti emaciati» (Tempi calamitosi, 1906).

I rossi crepuscoli sfuggono nelle notti bianche, nelle raffiche inondate della Nevà, come atmosfera palustre, singhiozzo di alberi e goccia sui contorni.

Anche l’impegno nel teatro (La baracca dei saltimbanchi, I dodici) testimonia uno sguardo che accarezza i precipizi, nel racconto di un drappello di dodici guardie rosse che pattugliano la città, prima dell’arrivo di Cristo.

La durezza della rivoluzione raccoglie una voragine di giostre che sfarina voli,colora veleni e distrugge: «Striscia da me come serpe strisciante, / assordami nella sorda mezzanotte, / con le labbra languide tormentami, / soffocami con la treccia nera».

Scrive Ripellino: «L’umor nero di Blok non è una propensione letteraria, un abito esteriore, ma il basso continuo, la fosca filigrana della sua vita, giorni e notti, giorni e notti. Incalzato dall’ansia di ramingare, di perdersi negli angoli abietti e remoti della periferia cittadina, egli va alla ventura, girando per le squallide strade fiancheggiate da lerci abituri, alla luce di lampioni che vacillano nella nebbia».

La luce è raminga come lo spasmo. Una metafisica del non essere che racchiude un universo oscuro senza fanali, in cui lo sguardo scorre nel mondo terribile e randagio, come il vischio di una genesi rifiutata. Rende spazio al gioiello scuro di una creaturalità dolente, sconsolata e magmatica, in cui il singhiozzo del tempo si addensa, laddove il deserto rapina la sua figura malferma.

È nella linea malferma che egli scova il fondale dell’esistere, la caligine nel vuoto, il velo evaso della nebbia che termina nel tormento.

blok a., Poesie, introduzione di Angelo M. Ripellino, Guanda, Milano 2000.

id., I dodici, Marsilio, Venezia 1995.

bazzarelli e., Invito alla lettura di Aleksandr Blok, Mursia, Milano, 1986

berberova n., Un figlio degli anni terribili. Vita di Aleksandr Blok, Guanda, Milano 2004.

böhmig m., Analisi di una poesia: Neznakomka di Alexandr Blok, in «Europa Orientalis», 10, 1991.

etkind e., La poetica di Blok, in Storia della letteratura russa, III. Il Novecento. I. Dal decadentismo all’avanguardia, Einaudi, Torino 1989.

tynjanov j., Blok, in j.tynjanov, Avanguardia e tradizione, Laterza, Bari 1968.

L’epica di John Steinbeck

di Andrea Galgano                                         21 settembre 2013

Letteratura Contemporanea

pdf L’epica di John Steinbeck

Steinbeck J.

La lettura di John Steinbeck (1902-1968), nel nostro Paese, è passata dalle mani di Cesare Pavese che tradusse nel 1938, Uomini e topi, uscito in America un anno prima, Elio Vittorini con Pian della Tortilla (1935) nel 1940, e come commenta Fernanda Pivano:

«sono stati questi i due libri a rappresentare la Narrativa Proletaria o della Depressione proposta da Franklin Delano Roosevelt come un modello di scrittura comprensibile alle masse e come una scelta di tematiche ispirate alla tragedia economica degli anni Trenta e alla sua umanità disperata. Proprio il contrario dell’ umanità proposta dal trionfalismo fascista, con diffidenza di chi a quel trionfalismo non credeva. I due libri erano arrivati in un’ Italia dominata dalla prosa d’ arte di allora, totalmente ignara della Narrativa Proletaria, e avevano accostato alcuni di noi a quelle tematiche e soprattutto a quel linguaggio. Era prevedibile che venissero disprezzati dai nostri critici come «picareschi e folkloristici» e che le nostre autorità governative li permettessero perché davano dell’ America un ritratto di devastazione utile per la loro propaganda. Così Uomini e topi era diventato per alcuni di noi una specie di metafora; del suo valore letterario aveva parlato prima la Francia quando Maurice Coindreau aveva indicato il libro come “modello di virtuosismo nel dosaggio delle sue componenti”». (da “Corriere della Sera” 24 febbraio 2002).

La scrittura iniziale di Uomini e topi era stata, per Steinbeck, un tentativo (e un esperimento) di scrivere un libro per bambini, come testimonia questa lettera del febbraio 1936: «Voglio ricreare un mondo infantile, non di fate e di giganti, ma di colori più chiari di quanto lo siano per gli adulti, di sapori più acuti, e degli strani sensi di angoscia che a momenti sopraffanno i bambini. Bisogna essere molto onesti e molto umili per scrivere per i bambini».

La scenografia rada delle battute, in un linguaggio che tocca la solitudine frustrata degli uomini, conquista la parabola dei rapporti nomadi tra George Milton e il gigante Small ritardato mentale. Entrambi sognano un luogo che non sia viaggio nomade di braccianti: un ranch dove poter allevare conigli.

È un luogo-sogno che diventa quasi rattrappito, nell’immagine di un destino sostanzialmente negativo che proclama la sua irrealizzabile tensione alla felicità. Quando scoppia la tragedia (il gigante Small uccide la moglie di un suo compagno di lavoro) e George, per salvarlo lo uccide:

«La violenza di queste morti fa risultare ironico l’ambiente pastorale del libro e suggerisce anche l’ immagine della “violenza che nasce dalla violenza” esplosa nelle coscienze molti decenni dopo e proposta qui con grande anticipo sui tempi. Il suo contenuto e il suo linguaggio erano già innovativi in America […] Il fascino era alimentato anche dal populismo insito nel New Deal del presidente Roosevelt che ispirava le denunce di ingiustizie sociali e invece esaltava la vita semplice, l’ansia per un’esistenza libera fino a essere nomade, le speranze nate con i primi scioperi. Gli scrittori americani del clima di Roosevelt costituivano dunque l’ antitesi alla nostra autarchia culturale e alla nostra cultura ufficiale; a volte i nostri giovani cercavano ingenuamente in quegli scrittori gli aspetti di un’ energia «primitiva» tale da evadere da una civiltà corrotta, tale da proporre un ritorno all’ innocenza» (Fernanda Pivano).

La solitudine, l’incomunicabilità, la legge del più forte caratterizzano un ambiente che non ha la pietas, come cardine di vita, come sostiene giustamente Massimo Migliorati. La violenza che richiama la violenza ha la scintilla del contatto fisico, che provoca una sorta di reazione a catena.

L’introduzione del male nella scena, scrive Massimo Migliorati: «viene sottilmente introdotto dall’autore anche attraverso la presenza, debolmente occultata, di un animale, il serpente, icona classica dei valori negativi di chiara provenienza giudaico-biblica. Sia nella prima che nella sesta parte infatti una biscia scivola nell’acqua dell’ansa del fiume. Il male è dunque intorno a noi, celato anche nell’ingenuità apparente della natura. Anche questo sembra essere un messaggio codificato dall’autore».

La tendenza di Steinbeck alla simbologia archetipica, dapprima il ciclo arturiano, poi le coincidenze religiose (una accennata insistenza sulla vita di Cristo come sfondo simbolico dei personaggi) e bibliche (Al Dio sconosciuto), come afferma Peter Lisca, sottolineando delle forti coincidenze, in Furore, tra la vicenda dei Joad e l’esodo ebreo in Egitto.

John Fontenrose approfondisce questi passaggi rapportando le vicende narrate nel romanzo con gli echi dell’Antico e del Nuovo Testamento e con le vicende dell’Esodo, e persino La valle dell’Eden presenterebbe lo scontro tra due fratelli, sul calco di Caino e Abele, reinterpretato psicoanaliticamente:

«The Oklahoma land company is at once monster, Leviathan, and Pharaoh oppressing the tenant farmers, who are equally monster’s prey and Israelites. The California land companies are Canaanites, Pharisees, Roman government, and the dominant organism of an ecological community. The family organism are forced to join together into a larger collective organism; the Hebrews’ immigration and sufferings weld them into a united nation; the poor and oppressed receive a Messiah, who teaches them a unity in the Oversoul. The Joads are equally a family unit, the twelve tribes of Israel, and the twelve disciples. Casy and Tom are both Moses and Jesus as leaders of the people and guiding organs in the new collective organism».

The Grapes of Wrath (1939) tradotto in italiano con Furore, ma letteralmente I grappoli dell’ira o forse I frutti dell’ira, rappresenta, nella scrittura di Steinbeck, una dilatata prospettiva a cogliere la vita, gli usi e i costumi della California rurale, quella che egli ha vissuto e toccato sin dalla sua infanzia a Salinas e Monterrey.

La terribile e dolorosa migrazione dei cosiddetti “Okies”, i contadini dell’Oklahoma, i quali vengono cacciati dalle loro terre e dalle forze unite alla crisi, come le banche, la siccità e l’agricoltura divenuta meccanizzata: le trattrici sostituiscono il lavoro dell’uomo, la miseria viene sfruttata poi dalle banche che non concedono prestiti e confiscano i terreni:

«Queste cose andarono perdute, e i raccolti cominciarono a venire valutati in termini di dollari, e la terra in termini di capitale più interessi. E i prodotti cominciarono a essere comprati e venduti prima delle semine. E allora le annate cattive, la siccità, le inondazioni, non furono più considerate come catastrofe, ma semplicemente come diminuzioni di profitto. E l’amore di quegli esseri umani risultò come intisichito dalla febbre del denaro, e la fierezza della stirpe si disintegrò in interessi; così che tutta quella popolazione risultò di individui che non erano più coloni, ma piccoli commercianti, o piccoli industriali, obbligati a vendere prima di produrre. E quelli fra essi che non si rivelarono bravi commercianti, perdettero i loro poderi che vennero assorbiti da chi invece si rivelò bravo commerciante. Per quanto bravo coltivatore, per quanto affezionato al suo campo, chi non era bravo commerciante non poteva mantenere le proprie posizioni. Così, col passare del tempo, i poderi passarono tutti in mano ad uomini d’affari, e andarono aumentando sempre di proporzioni, ma diminuendo di numero».

La Route 66 diviene, pertanto, la traccia di un avvicinamento frastagliato di carovane verso il «il paese del latte e del miele» in cerca non solo di vita, ma di un modo per vivere, e dove si narra di distese infinite di piante da frutto rigogliose e possibilità di lavoro, come un miraggio e un confine di oasi: «E finalmente apparvero all’orizzonte le guglie frastagliate del muro occidentale dell’ Arizona […] e quando venne il giorno, i Joad videro finalmente, nella sottostante pianura, il fiume Colorado […] Il babbo esclamò: “Eccoci! Ci siamo! Siamo in California!”. Tutti si voltarono indietro per guardare i maestosi bastioni dell’Arizona che si lasciavano alle spalle».

La tensione dinamica della famiglia non conosce stasi. Anzi è percorsa da un incessante nomadismo, un vagabondaggio ai margini, dalle disgrazie e dagli incidenti, quali, dapprima, la scomparsa dei nonni assorbiti dalla stanchezza e dall’amarezza, poi dal babbo e dall’apatico sbruffone John.

Ma anche su Al, fratello di Tom, Rosa Tea incinta e in viaggio con il marito inaffidabile Connie e i due bambini pestiferi, Ruth e Winfield, la storia sconvolgerà i segni, sorretti solo dal calore-quercia della madre.

L’unione del sangue accompagna la lealtà e la solidarietà verso gli altri migranti. L’indizio dell’esistenza familiare, permeato dalla impotenza e dal disprezzo degli uomini del posto, trova salvezza solo nella condizione evoluta di una famiglia umana allargata, segnata da rabbia, rassegnazione e furore, e costituita da una profonda e radicata forza morale e dalla dignità.

La sconfitta di una famiglia non conclude una rinascita. La coscienza del libro è nella amicizia dello scrittore con Tom Collins, l’uomo che gli aveva rivelato la sottotraccia del mondo agricolo, con i braccianti lavoratori a giornata, organizzati dalla Resettlement Administration.

Scriverà Steinbeck, che «senza Tom, non avrei potuto cogliere tutti i particolari, e i particolari sono tutto» e senza sua moglie Carol che ne diteggerà le battute, il romanzo sarebbe stato impossibile.

Il pensiero non teleologico (is-thinking) che si dipana nelle domande «come?» o «cosa?» e non «perché?» non sfocia nel nonsense, ma svapora l’onniscienza per celebrare dialoghi minimi, ridurre differenze e spostare le rotte:«Mamma non hai dei brutti presentimenti? Non ti fa paura, andare in un posto che non conosci?” Gli occhi della mamma si fecero pensosi ma dolci. “Paura? Un poco. Ma poco. Non voglio pensare, preferisco aspettare. Quel che ci sarà da fare lo farò”».

Se i paisanos di Pian della Tortilla (1935) e di Vicolo Cannery (1945) hanno conosciuto il ritmo picaresco e drammatico delle loro azioni («La parola è un simbolo e un piacere che succhia uomini e scene, piante, fabbriche e cani pechinesi. Allora la Cosa diventa la Parola e poi ritorna la Cosa, ma ordita e intessuta fino a formare un fantastico disegno. La Parola succhia il Vicolo Cannery, lo digerisce e lo espelle, e il Vicolo ha assunto lo scintillio del verde mondo e dei mari che riflettono il cielo»), come sagome estreme, l’odissea raminga della famiglia Joad, su un camion sgangherato alla ricerca di uno spazio, un gancio o un appiglio dove poter vivere, rappresenta la ripetizione delle antiche migrazioni dei pionieri verso i territori della frontiera.

Lo sgretolamento familiare che man mano si volge allo «sfacelo» concorre al dispiegamento del paesaggio, muto e desolato, degli scorci.

Furore è una tragica scena teatrale, dove i tendaggi del sipario, offerti dai passaggi di stato (Arkansas, Texas, New Mexico, Arizona), servono a introdurre, solcare e, infine, scavare l’atmosfera fragile dei personaggi, come ha sostenuto la studiosa francese Claude-Edmonde Magny, avvalorando l’ipotesi di uno stretto avvicinamento della pagina alla macchina da presa.

I personaggi emergono nella loro dura fertilità epica e vengono messi a fuoco da Steinbeck, come catalizzatori di una tensione di lotta (I pascoli del cielo) in cui la polifonica coralità acquista segno e vigore. L’esilio nomade segna la vita anche quando la felicità viene sfiorata, anche quando il suo progressivo avvenimento pare collocarsi nelle vicende umane.

L’epilogo del romanzo  è drammatico: la meta agognata e brulicante, il sogno, pieno di riscatto, di una vita migliore, si infrange senza requie: Tom uccide, durante uno sciopero, il poliziotto che aveva ucciso Casy, un’inondazione inghiotte ogni cosa e infine, Rosa Tea, abbandonata dal marito, partorisce un bimbo morto, finendo per allattare, dopo il parto, un uomo sfinito dalla fame: «Per un minuto Rosa Tea continuò a sedere nel silenzio frusciante del fienile. Poi si alzò faticosamente in piedi aggiustandosi la coperta attorno al corpo, si diresse a passi lenti verso l’angolo e stette qualche secondo a contemplare la faccia smunta e gli occhi fissi, allucinati. Poi lentamente si sdraiò accanto a lui. L’uomo scosse lentamente la testa in segno di rifiuto. Rosa Tea sollevò un lembo della coperta e si denudò il petto. “Su, prendete” disse. Gli si fece più vicino e gli passò una mano sotto la testa. “Qui, qui, così”. Con la mano gli sosteneva la testa e le sue dita lo carezzavano delicatamente tra i capelli. Ella si guardava attorno, e le sue labbra sorridevano, misteriosamente».

La fuga è il giaciglio di occhi stanchi, la deriva che pur avendo una meta precisa, e densa di attese, cade nella miseria, ma non pone fine a un cerchio inconcludente, bensì, come la linea retta della Route 66, compie il suo sforzo fino all’ultimo.

Nel suo romanzo Steinbeck dà voce al disorientamento e alla sfiducia che segnarono profondamente la coscienza americana dopo la Crisi del ‘29: la fine dell’ “american dream”, del cieco ottimismo nel futuro e nell’opportunità per chiunque di raggiungere il benessere e la felicità.

Lo scontento totale ed estremo che permea ogni personaggio di Steinbeck, non ha però linee di nichilismo o rassegnata solidificazione del nulla.

La narrativa militante,come specchio della sua produzione, scritta nel pieno dell’epoca del New Deal, non ha nella propaganda il suo punto di forza, ma solo nel valore lucente della dignità, nella lotta per il bene comune, essa riluce.

Quando scriverà L’inverno del nostro scontento (1961), la nitidezza limpida di Ethan Allen Hawley, uomo del Long Island, che cerca di vivere con l’altezza dei suoi valori, finendo poi per soccombere alle pressioni esterne, fino a compiere dei reati, in nome del guadagno, soggiace all’estremità di una disumanità opulenta.

I raggiri, le trame nascoste e le deviazioni umane per impossessarsi di un terreno, secondo il nuovo piano urbanistico, e accrescere le sue ricchezze, sono portati al massimo.

Il degrado morale, l’estremizzazione del capitalismo, rappresentato da un commesso che cerca di impossessarsi della terra, sconvolge la lucidità che era stata di Furore, accompagnando la discesa verso un dis-valore che diventa connotativo. L’onestà e la pace di un commesso vengono sconvolte da un elemento perturbatore che induce a un edonistico soddisfacimento, come accade in questo brusco passaggio de I Pascoli del Cielo: «Una lunga valle si stendeva entro un anello di colline che la proteggevano dalla nebbia e dai venti. Disseminata di querce, era coperta di verde pastura e formicolava di cervi. Al cospetto di tanta bellezza il caporale si sentì commosso […] “Madre di Dio!” mormorò. “Questi sono i verdi pascoli del Cielo ai quali il Signore ci conduce!” Poco dopo, vicino alle venti famiglie con dieci piccole fattorie, che vivevano in pace, si trovava la fattoria Battle, disgraziata e incolta e sulla quale pareva esserci una sorta di maledizione «dicevano che la fattoria Battle era maledetta e i loro bambini dicevano che era stregata».

Storie di fattorie stregate e di bambini che vogliono distruggerle, di famiglie che tentano di abitarle, fronteggiando ogni maledizione, per rivivere e rigenerasi assieme, come impastati dall’arsura dei luoghi, di sacerdoti che sognano una casa nella Valle e di polvere sui mercanti bricconi, come Edward Wicks detto lo Scroccone, mandati finalmente a vivere dignitosamente altrove, dopo aver portato il peso e lo spavento di una figlia bellissima e tragica.

La diversità che compone il mosaico di un sogno infranto, l’anima di una terra senza frutto, il sentiero di un grumo di ossessione di sopravvivenza, vivono l’acuto sentimento perenne di un solco umbratile che impone la vita: «Nell’Ovest, se una famiglia è vissuta per due generazioni in una casa, viene considerata come una famiglia di pionieri. Al rispetto che si ha per essa si accompagna un certo disprezzo per la vecchia casa. Ma poche case vecchie esistono nell’Ovest. Gli americani non riescono a star fermi molto a lungo in un posto. Presto o tardi bisogna bene che cambino».

Il piccolo Tularecito, ritrovato tra i cespugli da Pancho, bracciante di Franklin Gomez, dopo le sbronze di Monterey, che è solito disegnare figure di animali sull’arenaria, da tutti considerato un piccolo diavolo, impossibilitato a integrarsi a scuola e nel tessuto sociale, finirà per essere consegnato al manicomio criminale di Napa, o, ancora, la storia di donne belle e tragiche come Helen van Deventer, orfana a quindici anni, vedova a venticinque, madre di una figlia ribelle, la cui vita «si svolgeva sotto il peso di un sentimento acuto e perenne di tragedia.[…] Sembrava ch’essa avesse bisogno di tragedia per vivere e il destino non la lasciava insoddisfatta, gliene procurava».

Figure come Junius Maltby e di suo figlio Robert Louis, detto Robbie, i quali vivono in una sorta di imperturbabile universo, salvo poi fuggire da San Francisco e dalla vita impiegatizia per ritrovare la pace nei Pascoli, nonostante il suo matrimonio poco felice, l’ozio e la crescita, sotto l’ossessione di Stevenson, del suo bambino.

Uomini in fuga, scontenti e affranti, vittime della loro diversità, scolpita nelle porte del tempo, della loro terra promessa di sogno e giustizia, della loro pace sconvolta dall’esilio, dal randagismo, dall’anima inquieta della loro vita.

Il realismo epico di Steinbeck soggiorna in questa quotidianità vissuta e sofferta, penetrata nella piccolezza immensa dell’uomo, in un repertorio in cui anche il più minuto dettaglio contribuisce alla storia universale. L’umanità oppressa, marginale e sconfitta, trova attenzione in un appassionante affresco, con le vene delle mani, aperte.

 

steinbeck j., Furore, Bompiani, Milano 2001.

id., Uomini e topi, Bompiani, Milano 2012.

id., L’inverno del nostro scontento, Bompiani, Milano 2011.

id., I pascoli del cielo, Bompiani, Milano 2011.

id., Al Dio sconosciuto, Bompiani, Milano 2011.

id., Vicolo Cannery, Bompiani, Milano 2012.

fontenrose j., John Steinbeck. An introduction and interpretation, Holt Rinehart and Wiston, New York 1963.

garnero f., Invito alla lettura di Steinbeck, Mursia, Milano 1999. 

magny c.e., Steinbeck, or the Limits of the Impersonal Novel, Ungar, New York 1972.

migliorati m., “Uomini e topi” di John Steinbeck o dell’impossibile redenzione, in piras t. (a cura di), Gli scrittori italiani e la Bibbia. Atti del convegno di Portogruaro, 21-22 ottobre 2009, EUT Edizioni Università di Trieste, Trieste 2011, pp. 231-241.

 

Psicodinamica del Sé nelle relazioni interpersonali Ricerca, patologia, intervento, a cura di Irene Battaglini

Recensione di Maria Assunta Parsani

9788854851979

In questo volume sono raccolti i contributi, tratti dalle relazioni degli italiani che hanno partecipato al 16° Congresso Internazionale della World Association for Dynamic Psychiatry, congiuntamente al 19° Simposio Internazionale della Deutschen Akademie fur Psychoanalyse presso l’Ospedale psichiatrico della Ludwig-Maximilians-Universitat a Monaco dal 21 al 25 marzo 2011. 

Ne è scaturita una linea di pensiero frutto di orientamenti terapeutici e teorici diversi quali quello psicoanalitico e cognitivo, psicofisiologico e neuropsicologico, fino alla psicologia analitica attraverso l’espressione di un linguaggio immaginale della Firenze del ‘300, che è andata a comporre un’immagine del Sé variegata e poliedrica, ma soprattutto una espressione della formazione dell’identità individuale data dall’ ”Essere” in movimento nell’universo della psiche.

Si delinea ad apertura della raccolta, nell’intervento di ALFREDO ANANIA, la ricerca dell’identità culturale legata al Sé storico, all’inconscio collettivo contemporaneo, al senso della Polis e allo spirito loci, che rintraccia le origini del Sé individuale non solo nell’origine psico-ontogenetica, dalle sue matrici relazionali, ma anche psico-filogenetica derivante dalle matrici culturali che sono inconsciamente presenti in tutte le persone. La trasmissioni culturale delle proprie produzioni simboliche consente, attraverso l’impulso alla libera interpretazione, di trascendere la realtà materiale ed essere investita dal senso oscuro, ma universalmente significativo, che ci conduce alla ideazione di modelli di ricerca originali e all’incontro e allo studio reciproco tra diverse appartenenze culturali. L’inconscio si configura come una macchina del tempo che, ogni volta dà luogo a un qualcosa di nuovo, mai ripetitivo.

Proprio attraverso l’utilizzo della macchina del tempo IRENE BATTAGLINI ed EZIO BENELLI, tracciano le linee guida dell’esperienza del Sé attraverso il pensiero immaginale, focalizzando il tema centrale dell’ermeneutica delle immagini sulla soggettività che richiama alla centralità autonoma del Sé nel linguaggio dell’arte, in un moto dialettico con il Sé di chi fruisce. La soggettività all’interno dell’intersoggettività diviene un luogo non concluso tra due soggettività e a esse solo appartiene, come la fiamma blu – nera, descritta da Hillman, attira le cose e le consuma, mentre il biancore continua a fiammeggiare al di sopra. Da ciò scaturiscono la relazione profonda e il contatto ctonio con il mondo e il legame con il numinoso, l’opus alchemico che mira all’integrazione, per giungere alla realizzazione del Sé che si manifesta nella meta ideale del percorso ideativo. Il processo circolare di relazione che va dal tutto alle parti e viceversa, conduce a un continuo scambio tra le cose che modificano il complesso del sapere. Si traccia attraverso il pensiero di Jung, la declinazione numinosa del Sé e diviene guida sulle interrogazioni rivolte alle prime immagini che hanno ispirato Giotto di Bondone e Dante Alighieri con la codifica di linguaggi generativi di storia e di civiltà. Gli autori individuano nella ricerca, un viaggio verso gli inferi che deve prevedere sia una mappa, sia un’ipotesi di ritorno e di salvezza. La mente immaginale determina un confronto ed anche una sovrapposizione tra l’immagine originale e la risultante del lavoro immaginale, per cui ne deriva non solo la formazione di un nuovo mosaico, ma molto più probabilmente la ricostruzione di un mosaico danneggiato, che attraverso uno sguardo affinato reca alla luce frammenti dispersi e nascosti. Scaturisce da queste riflessioni il perché della Psicologia e dell’arte insieme. L’arte come strumento per una più diretta connessione con ciò che non conosciamo a livello razionale, in cui si fa spazio la domanda di come l’ermeneutica del mondo immaginale possa essere d’aiuto alla comprensione dell’opera d’arte. Gli autori, seguendo Hillman nella sua apertura al mondo immaginale, tracciano il legame con Firenze e l’Italia, la nascita della prima conferenza di Eranos, il primo commento della favola di Amore e Psiche, in cui la tensione genera una psicologia dell’arte che diventa parola dell’anima. Lo studio psicologico è l’umile tramite tra il mondo interno dell’analizzando e il mondo interno del mondo. E all’anima è assegnata la funzione di “intermedio” di tutte le cose, senza essere né corporea né visibile, essa è dominatrice dei corpi.

Ricorrendo ancora all’arte e alle sue possibilità esplicative, VITTORIO BIOTTI individua nella Trilogia di Bion un progetto teatrale che richiede un confronto sui grandi temi dell’individualità, la sua formazione, le sue dinamiche, cercando risposte nei grandi lavori del periodo classico e nel contrappunto del periodo americano. In Bion, citando F. Di Paola, si ritrova la necessità e l’anticipazione della necessità di porsi di fronte ad una nuova nascita.             

Attraverso l’analisi delle varie teorie ad approccio biologico, evoluzionistico, psicosociale, cognitivo DAVIDE DETTORE evidenzia come alla costituzione dell’identità di genere contribuiscano sia i fattori biologici, ma anche le componenti sociali, culturali e cognitive. Questi fattori insieme concorrono a strutturare un complesso di elementi schematici che sono alla base del concetto di identità di genere, non necessariamente  limitato alle categorie dicotomiche di maschio e femmina. Emerge ancora una volta prepotente il Sistema del Sé, nel modello evolutivo concettualizzato nell’ottica cognitivista di Doorn e coll. in cui i concetti di identità di genere sarebbero compresi e più validamente comprensibili. Secondo tale impostazione, il Sé può essere considerato come un sistema cognitivo di controllo composto da un sistema dominante  (“master self”) che si mantiene in relazione e in comunicazione con una serie di sottosistemi subordinati, operanti ciascuno in parallelo rispetto agli altri e quindi autonomi, indipendenti e influenzati dal sistema del Sé che a sua volta li influenza. L’espressione dell’identità di genere di un individuo sarebbe in stretta connessione con la predominanza dell’uno o dell’altro sistema, ma anche con l’intensità, con la frequenza e con le occasioni in cui l’uno o l’altro si esprime. Si costituisce una visione del Sé relazionale, multiplo e discontinuo, organizzato differentemente dalla versione del Sé dominate. Il complesso modello è paragonato dall’autore alla teoria di Liben e Bigler, evidenziando le differenze individuali strettamente connesse al “modello di vita personale” e alla storia dell’individuo, nella costituzione dello specifico dell’identità di genere che amplia lo stereotipo culturale.

Partendo dalla considerazione che la psicoterapia rappresenta un trattamento di prima scelta per i disturbi mentali gravi, inclusi i disturbi di personalità, ROBERTO DI RUBBO, ELENA SOGARO e SEFANO PALLANTI presentano un case report relativo alla Psicoterapia psicodinamica Comunicativa Evolutiva di Gruppo (PPCE-G) in cui viene illustrato il Modello Comunicativo Evolutivo, basato sulla teoria della complessità per la terapia di pazienti con disturbo mentale grave in un setting ambulatoriale. La Psicoterapia illustrata mantiene al centro dell’impostazione le libere associazioni e le dinamiche mentali inconsce, mentre i terapeuti focalizzano l’attenzione su tutti i processi connessi con l’esperienza delle difficoltà nelle relazioni e nelle patologie di personalità del paziente. Nell’analisi dell’iter terapeutico si evidenzia come il cambiamento dei sintomi sia strettamente legato ai cambiamenti del senso dell’identità personale e delle dinamiche interpersonali dell’identità, ponendo l’accento sulla funzione della struttura inconscia della “Frontiera Personale” che deriva dall’acquisizione dei principi relazionali di organizzazione più adattivi. Quest’ultima essendo inconscia cattura l’attenzione del terapeuta, il quale a sua volta si esprime attraverso un comportamento inconscio e l’approccio comunicativo evolutivo stimola il terapeuta a prestare attenzione alla narrazione dei pazienti e a rimanere nella posizione di Condizione Necessaria e non usurpare la posizione dei protagonisti. Ciò stimola la creazione di compliance. Il PPCE-G sembra fornire nel feed back interpersonale benefici sia per l’alleanza terapeutica sia per il senso d’identità personale.

MARIA FEDI sceglie, invece, di seguire il percorso degli eroi Edipo e Ulisse, nei quali s’intravede la ricerca del Sé che ci appartiene perché, afferma Freud: ” Deve esistere nel nostro intimo una voce pronta a riconoscere la forza coattiva del destino di Edipo ”e attraverso un parallelismo che conduce tramite il mito all’archetipo e alla forza dell’anima disvela, come nelle parole di Hillman la nostra psicologia del profondo in vesti antiche. Nel viaggio psicoanalitico, attraverso il metodo l’uomo si rivela, racconta la propria storia e attraverso l’incontro con l’anima e nel fare anima consente al molteplice di divenire materia psichica, di entrare nell’universo personale dove è possibile la formazione del simbolo. L’incontro con l’anima, afferma l’autrice, come avvenne per gli antichi eroi, ci guida alla scoperta di una dimensione interiore, riconoscendo la storia dei molti e dei molti nella nostra storia.

Come in un’oasi poetica che tanto si addice al fare anima, ANDREA GALGANO, traccia alcune linee del divenire nella poesia di Eugenio Montale: la morte della sorella Marianna, l’incontro con Anna degli Uberti e successivamente a Firenze Drusilla Tanzi che diverrà sua moglie. In queste figure femminili descritte nei versi del poeta, l’autore ravvisa la luminosità della memoria, il suo riflesso nel tempo. E ancora, dopo l’incontro con Irma Brandeis il divenire prigioniero del complesso di Edipo, rende il poeta “vile e contraddittorio”, mentre nei versi a lei dedicati trasluce la miracolosità dell’istante e sulle tracce del mito Ovidiano si intravede la figura di Clizia, la quale persa la speranza di poter riconquistare l’amore si trasformò in girasole. Fino a giungere all’incontro con Maria Luisa Spaziani, anch’essa sua ispiratrice che conduce Montale a vivere nel limbo di ciò che è a-sessuato, nella paura del vissuto. L’amore platonico che contraddistingue il rapporto del poeta con Laura Papi connota la stagione di buio di un individuo, che afferma l’autore, non si innesta nel vivere. Si dipingono così la ricerca dell’eros nell’eterno femminino e l’impossibilità di sublimarlo.             

Di eros si occupa anche LINA ISARDI, partendo dalle origini della sessuologia, con i suoi autori, fino alla storia più recente in cui la salute sessuale è vista come un’integrazione di aspetti somatici, intellettivi, motivazionali e sociali. Il formarsi dell’”identità sessuale”, costrutto multidimensionale composto dal sesso biologico, dall’identità di genere, dal ruolo di genere e dall’orientamento sessuale è un processo nel quale il sesso biologico, i valori culturali e quelli personali annessi alla sessualità influenzano la percezione di sé e i comportamenti del bambino, che come individuo prende coscienza della propria identità sessuale tra i diciotto mesi e i tre anni. L’autrice evidenzia la sessualità come elemento fondamentale della vita i cui disturbi coinvolgono tre aspetti: l’atto sessuale, l’identità che ci riconosciamo, le nostre fantasie sessuali e il viverla in modo soddisfacente è essenziale per mantenere una buona salute mentale. I disturbi sessuali sono fonte di sofferenza, ma esiste la possibilità di curarli. L’autrice presenta un caso clinico che partendo da un presunto conflitto d’identità risulta essere, dopo il trattamento, ansia da prestazione e si risolve positivamente.

La tesi centrale di ANNA MARIA LOIACONO tende a sottrarre il concetto di personalità “come se” alla psicopatologia, nell’ambito della quale H. Deutsch lo sviluppa, portandolo nell’ambito della normalità e sulla scia concettualmente di Paul Roazen, arriva nel cuore del lavoro analitico. Ivi scorge analisti esperti spesso portatori di valori conformisti e si domanda: “In che misura il conformismo psicoanalitico è “il come sé” collettivo del nostro mestiere?” Non possedendo una risposta, sulle orme di Fromm, dichiara che pur non sapendo cosa fare ha molte certezze su quello che la nostra storia ci ha insegnato a non fare, per non riprodurre storie senza memoria.

VOLFANGO LUSETTI esamina l’uomo e l’utilizzo di tre forze fondamentali: la nutrizione-predazione, la socialità- comunicazione e infine la riproduzione di tipo sessuato. La predazione è neutralizzata dapprima dalla sessualità e poi dalla socialità e sembra svolgere un ruolo di motore sociale. Tre aspetti sono individuati circa le radici biologiche della violenza umana: il primo tema riguarda il conflitto morale e insanabile, che sembra intercorrere tra le generazioni e in particolare tra padri e figli. Un secondo tema sulla radice della violenza è quello inerente alla natura degli strumenti antipredatori (la sessualità perenne e i codici simbolici di base). Il terzo tema ha per oggetto il fallimento degli strumenti antipredatori che come un campanello d’allarme, afferma l’autore, richiama l’attenzione all’albero della vita da cui proveniamo, cioè alle radici del male cannibalico-predatorio che ci tormenta perché proprio esso è ciò che ha formato la nostra vita.

L’analisi della costruzione della realtà, a partire da William James, per proseguire con C.H. Cooley, G.H. Mead, fino a Fromm è analizzata da CATERINA MARTELLI E LORENZA TOSARELLI, sottolineando in quest’ultimo la convergenza tra il sociale e lo psicologico, descrivendone le interazioni che sono alla base della costruzione della personalità. Passando da Matte Blanco e il suo inconscio strutturale, fino all’inconscio implicito, agente attivo nella formazione dell’Identità, si delinea la presenza di strutture inconsce nella nostra mente non conciliabili, ma responsabili della vita emotiva. La psicoterapia, affermano le autrici, è in grado di modificare il substrato neurobiologico e attraverso interrogativi, quale la modalità di contattare l’inconscio implicito e il ruolo del Corpo nel processo di cura, cercano nella modalità terapeutica l’essenza della conoscenza implicita, dirigendo la loro attenzione sull’Expression Primitive, che propone una semplicità espressiva in relazione con l’altro. Si apre in tal modo uno spazio vitale dell’Identità, non bloccato dall’angoscia e dai sentimenti di disregolazione, che consente una maggiore espressione di Sé.

GIOVANNA NICASO, esamina la problematica concernente, i pazienti affetti da DP e in particolare evidenzia la prevalenza di DBP nelle persone giovani e la dis-regolazione emotiva che produrrebbe le difficoltà manifestate nel funzionamento interpersonale e nello sviluppo di uno stabile senso di sé. In quest’ambito di osservazione clinica riporta l’esperienza di ricerca-azione nell’ambito dell’ASL di Grosseto, che ha proposto la realizzazione di un gruppo di supervisione sistematica dei casi clinici in trattamento esaminando venticinque casi di DBP, di cui tre casi sono stati dei drop-out, tre casi hanno avuto un esito negativo, non ci sono stati casi di suicidio. In conclusione i 4/5 dei risultati del campione non sono ritenuti disprezzabile  e ciò apre le porte alla speranza di poter realizzare l’estensione del modello ad altri  soggetti in trattamento.

Con un taglio decisamente spirituale IRENE NOTARBARTOLO, richiama l’esigenza di approfondire una nuova dimensione nelle relazioni interpersonali vissute dall’uomo nel formarsi dell’identità. Considera la dimensione spirituale altrettanto sostanziale rispetto ad altre quali quelle corporee, fisiche e mentali, rilevando come la psiconeuroendocrinologia (PNEI), abbia recentemente rivolto a tale dimensione la sua attenzione e nel parallelismo con il network evidenzi nel sistema uomo la possibilità di azione terapeutica tramite tecniche spirituali.  L’autrice integra il pensiero di Fromm indicando come più proficuo un modello di uomo in quattro dimensioni (corporea, psichica, intellettiva e infine spirituale), attraverso di esso sarebbe infatti possibile una migliore comprensione delle relazioni, che spesso frenata da interpretazioni riduttive attua una vera e propria “fuga dalla libertà” del pensiero contemporaneo.

GIUSEPPE ROMBOLA’ CORSINI e ALESSIO BARABUFFI pongono l’accento sula necessità che lo psicologo dello sport non debba necessariamente essere uno psicoanalista, bensì un esperto in psicologia dinamica. Attraverso l’analisi della domanda, gli autori evidenziano la richiesta iniziale di un intervento focale dettato dall’esigenza dello sportivo di ottenere una produttività immediata, che talvolta muta in richiesta d’intervento analitico, tramite cui emerge il formarsi della pratica dello sport come forma privilegiata del manifestarsi del mondo interno. Queste osservazioni sono utilizzate al fine di ricostruire la storia e l’elaborazione dell’agire sportivo collettivo, rintracciando in esso l’elaborazione del conflitto psichico a partire dalle origini mitico-rituali e sacro-sacrificali. L’evoluzione di questo passaggio è tracciata dall’esperienza traumatica originaria sublimata nello sport, in cui gli oggetti-meta delle pulsioni aggressive, sono sostituiti con oggetti-meta socialmente accettati e di conseguenza conducendo all’elaborazione del trauma. Mentre l’aggressivo cerca la vendetta rispetto al proprio passato insoddisfacente, il combattente lotta per il futuro e il vero sportivo allontana l’aggressività volendo essere un combattente. Percorrendo un lungo tragitto, l’atleta neutralizza, tramite le regole, gli impulsi aggressivi e giunge attraverso un processo dinamico a una sublimazione che si plasma nell’interazione con l’ambiente. Si esalta l’importanza dello sport per l’elaborazione del conflitto psichico mettendo in luce il valore delle conoscenze di psicologia dinamica per chi opera all’interno di questo contesto.    

Il caso clinico presentato da DANIELA ROSSETTI esamina il percorso compiuto da una donna, che dopo aver perso, la madre attraversa una fase di congelamento e di coartazione affettiva. Lo scongelamento che nel processo terapeutico avviene, consente la ripresa di un cammino alla ricerca della propria identità personale. Partendo dalla premessa che non è possibile in  alcun  modo cambiare il nostro passato, l’autrice ci indica la strada compiuta per un cambiamento di noi stessi, per “riparare i guasti” e riacquisire la nostra integrità perduta. Con lo sguardo che conduce alla conoscenza ravvicinata del nostro passato memorizzato nel nostro corpo, avviene l’accostamento alla coscienza. Al fine di avviare la trasformazione che muta le vittime inconsapevoli in individui responsabili e la conoscenza della propria storia guida alla convivenza con essa.

L’importanza del nesso tra emozione e memoria è evidenziata da MARIA PIA VIGGIANO, TESSA MARZI e STEFANIA RIGHI. Attraverso una migliore comprensione dei fenomeni che legano le emozioni ai processi di codifica della memoria, le autrici evidenziano la possibilità di una miglior comprensione di disturbi quali l’ansia, la depressione, e il disturbo post traumatico da stress, in cui un’eccessiva sensibilità dell’amigdala crea uno squilibrio nella regolazione  delle emozioni. Il lavoro approfondisce la definizione a livello temporale dei processi sottostanti al riconoscimento di un volto che durate la fase di codifica della memoria, manifesta una determinata emozione. L’interazione tra emozione, percezione e memoria è sottolineata al fine di porre in risalto quando le emozioni rese manifeste dalle espressioni hanno un ruolo chiave nei processi cognitivi, per giungere alla comprensione dell’esatto decorso del processo temporale utilizzato dai processi di codifica delle emozioni e alle implicazioni nell’ambito della sfera emozionale affettiva. L’utilizzo della tecnica degli ERP pone in risalto in che misura il processo di memoria possa essere influenzato dall’emotività espressa dal volto ed esamina come la particolare espressione emotiva influenza i processi di recupero, a partire dagli stati più precoci dell’elaborazione, nella ricerca che alcuni stimoli hanno nell’adattamento all’ambiente. I volti che esprimono paura elicitano risposte elettrofisiologiche più ampie e più rapide. Il significato funzionale di questa differenza potrebbe essere rintracciato, secondo le autrici, nel fatto che una situazione di pericolo richiede una risposta più immediata.

Come afferma Irene Battaglini: ”La posizione centrale del Sé in tutta la psicologia trova in questo volume lo spazio per un respiro ampio che intende sfiorare il tempo di un Umanesimo mai estinto”.

Maria Assunta Parsani

AA.VV. Psicodinamica   del  Sé nelle  relazioni  interpersonali

Ricerca, patologia, intervento

Atti del XVI Congresso mondiale di Psichiatria Dinamica (Monaco di Baviera, 21-25 marzo 2011)

A cura di Irene Battaglini, Aracne, Roma 2012.