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Lapo Gianni: la fragile gioia

di Andrea Galgano 23 aprile 2019

leggi in pdf LAPO GIANNI. LA FRAGILE GIOIA

La figura di Lapo Gianni (XIII-XIV sec., morto dopo il 1328) è stata contornata, nei secoli, da poca chiarezza. Non solo per le ipotesi e i dubbi sul suo riconoscimento in Ser Lapo Gianni Ricevuti, fiorentino, «imperiali auctoritate iudex ordinarius et notarius publicus» («per autorità imperiale giudice ordinario e pubblico notaio», come firmò in una pergamena del 2 febbraio 1300), che rogò atti dal 1298 al 1328 tra Firenze, Bologna, Cortona, nel Casentino e a Venezia, e intrattenendo importanti relazioni d’affari col poeta e notaio Francesco da Barberino, autore dei Documenti d’Amore e del Reggimento e costumi di donna,  quanto, come afferma Roberto Rea, nella recente edizione critica delle Rime[1] di Lapo, edita da Salerno, «per l’incerto statuto della sua lirica, collocata dagli studiosi ora al di qua ora al di là della novità del dolce stile, e gravata, inoltre, dalla diffidenza espressa dagli amici di un tempo nei sonetti Se vedi Amore e Amore e monna Lagia[2]».

L’orbita cavalcantiana e l’influsso dantesco, come già espresso da Contini[3], percepito in reciprocità, il possibile amore di lui per una monna Lagia (o Alagia ossia Adelasia) consentono di soffermarci sull’intensità di quel movimento lirico fiorentino chiamato Stilnovo, realtà storica viva e «nodo critico e decisivo della nostra storia letteraria[4]», come sostiene Mario Marti.

Il sodalizio con Guido Cavalcanti, per la verità più nascosto e onirico, e Dante si esprime nel sonetto Guido, i’ vorrei, in cui quest’ultimo, come afferma Roberto Rea,

«colloca Lapo sul medesimo piano del primo amico, rinunciando a qualsiasi gerarchia, affettiva e intellettuale. Benché il destinatario non possa essere che Guido, il sogno dantesco di evasione presuppone, come prescritto dall’ideale classico dell’amicitia intesa come idem velle, la piena corrispondenza ed eguaglianza tra i tre poeti, di cui è emblematico il corale noi collocato a sigillo dell’ultimo verso». Nel De Vulgari Eloquentia (I, 13), inoltre, pur senza qualche controversia di attribuzione, viene citato tra coloro che «vulgaris excellentiam cognovisse sentimus».

In tale eccellenza, se da una parte convergono i topoi cari alla figuralità stilnovistica, dall’altro si evidenziano come questi temi possano essere sottoposti a una sorta di alleggerimento attenuato e di una sovraesposizione meno marcata. Le 17 poesie (11 ballate, 3 canzoni, 2 stanze di canzone e sonetto doppio caudato) testimoniano la sua vigile predilezione per la ballata, non solo nell’eco dantesca e nell’apprendistato cortese.

L’intercessione di Amore, signore assoluto, presso la donna è un lacerto di gioia. Una sorta di meta ultima, sorta dall’inquietudine e permeata dal perdono. Amore si presenta come lenimento delle pene e dei tormenti e si muove a pietà, intercedendo in favore dell’amante, suo servitore fedele. La donna così concede la propria benevolenza, liberando l’amato dai vincoli angusti del dolore e degli occhi coperti, con cortesia affabile e giustizia. Il cuore sarà riportato. Rimanga saldo l’amore buono e puro e degno di lode:

«Eo sono Amor, che per mia libertate / venuto sono a voi, donna piagente, / ch’al meo leal servente / sue greve pene deggiate lenare. / Madonna, e’ no mi manda, e questo è certo; / ma io, vedendo ’l su’ forte penare / e l’angosciar che ’l tene in malenanza, / mi mossi con pietanza a voi vegnendo: / ché sempr’e’ tene lo viso coverto, / e gli occhi suoi non finan di plorare / e lamentar di sua debol possanza, / merzede a la su’ amanza e me cherendo. / Per voi non mora, po’ ch’io lo difendo; / mostrate inver’ di lui vostr’allegranza, / sì ch’aggia beninanza. / Merzé: se ’l fate, ancor poria campare».

Il ringraziamento per l’intercessione si cadenza nel battito delle rime, che seguono l’alternarsi di allegranza e benenanza, asservite al dio benevolo, che dà valore all’innamoramento, che ha permesso di riacquistare il cuore «in perdenza», e attraverso gli appelli verso gli altri amanti che possano, così, condividere il bagliore di questa esperienza.

In Gentil donna cortese e dibonare si assiste a una frattura. Il poeta ha rivelato la sua gioia d’amore, sottraendosi, con colpa, all’obbligo di recare riservatezza e onore all’amata:

«Gentil donna cortese e dibonare, / di cui Amor mi fè primo servente, / mercè, poi che ’a la mente / vi porto pinta per non ublïare. / I’fui si tosto servente di voi / come d’un raggio gentile amoroso / da’ vostri occhi mi venne uno splendore, / lo qual d’Amor sì mi comprese poi, / ch’ avante a voi sempre fui pauroso, / sí∙mmi cerchiava la temenza il core». Si presenta così alla donna, armato di contrizione e richiesta di perdono che viene concesso con intima generosità. Ma vi è ancora ostilità e sdegno, uno strappo che permane come una guerra: «Ora mi fate vista disdegnosa / e guerra nova in parte comenzate, / ond’ i’ prego Pietate / ed Amor che vi deggia umilïare».

Il forte richiamo all’immaginale cavalcantiano segue sbigottimenti e desolazioni. La donna dapprima, spande salvezza, poi, avviene uno stravolgimento delle facoltà psichiche: l’anima e il cuore sembrano fuggire via, in un colpo fulmineo. Lo sconvolgimento dello sguardo è un apice di morte (come il famoso planh, improperium in mortem, della canzone O Morte, della vita privatrice, XIII) e di straniamento. Il cuore, anima sensitiva, è disorientato e spodestato dalla sua sede, in un’autentica afflizione, procurata da Amore.

Spesso l’amore di Lapo è un compendio di gioie improvvise, di abbandoni, laddove la cogitatio amorosa, pur seguendo la struttura trobadorica, ricerca compiutezza, nell’allegrezza e nella gioia. Il sigillo nel libro d’Amore reca conforto, nel luogo in cui la signoria dell’amata si porge in una visione di cortesia e giustizia.

L’anima del poeta unisce dolore e gaudio in un lessico sintomatico che chiede pietà del suo limite, invoca grazia e gentilezza, da cui attingere alimento nel desiderio vago e colpito. La sua sofferenza martoriata assomiglia a un referto di lontananze e leggiadrie sovrannaturali («Angioletta in sembianza / novament’ è apparita, / che·mm’uccide la vita / s’Amor no·lle dimostra sua possanza»), a una epifania celebrata di sogno («Tu vederai la nobile acoglienza / nel cerchio delle braccia ove Pietate / ripara con la gentilezza umana, / e udirai sua dolce intelligenza: / allor conoscerai umilitate negli atti suoi, se non parla villana, / e sembrerà meraviglia sovrana, / com’ formata ’n ‹an›geliche bellezze») e languore («Questa rosa novella, / che fa piacer sua gaia giovanezza, / mostra che gentilezza, / Amor, sia nata per vertú di quella»), che liberano dall’affanno, preghiera, euforia, speranza e nobiltà.

In questa sinossi di gioia, Lapo Gianni incide la sopita vertigine compiaciuta nell’anima, grazie al suo merito di amante che riceve ricompensa e sorriso:

«Appresso le direte che la mente / porto gioiosa del su’ bel piagere, / poi che m’ha fatto degno de l’onore; / e non è vista di cosa piagente / che tanto mi diletti di vedere / quanto lei sposa novella d’Amore; /  e non m’è aviso ch’alcuno amadore, / sia quanto vuol di gentile intelletto, / ch’aia rinchiuso dentro da lo petto / tanta allegrezza ch’apo·mme non moia».

 Amor, nova ed antica vanitate, innervata nella sillabazione contrastiva, è

«un’irriverente requisitoria contro il dio tesa a dimostrare l’irrazionalità e l’illusorietà della passione. È questo il componimento di Lapo piú distante dai modelli e dalla stessa ideologia stilnovista. Considerando inoltre che è impostato come una recusatio della passata esperienza amorosa, con qualche passaggio non del tutto neutrale in prospettiva cavalcantiana e dantesca (l’ingannevole potere di Amore di dare sembianze angeliche all’amata; la sua capacità di ottenebrare la mente e infralire la memoria), viene da chiedersi, come già accennato, se non possa avere qualcosa a che fare con il deterioramento del comune ideale di fedeltà al dio imputato a Lapo nel dantesco Amore e monna Lagia».[5]

I parallelismi, le simmetrie, i vocativi introducono, come afferma Donato Pirovano, «una rappresentazione tradizionale del dio: nudo, angelo, cieco, fanciullo, arciere […][6]».

La sacralità del saluto, simile al saluto dei Magi nella natività di Cristo, la celebrazione (plazer), soave ed enumerata di desideri fantastici e raffinati, di cui Amore si fa garante, raffigurate nel sonetto doppio caudato di Amor, eo chero mia donna in domino, narrano di una sproporzione e di una linea che richiamano i paradigmi cavalcantiani e le linee dantesche, e sembrano virare in un’atmosfera demarcata e fragile:

«Amor, eo chero mia donna in domino, / l’Arno balsamo fino, / le mura di Firenze inargentate, / le rughe di cristallo lastricate, / fortezze alt’ e merlate, / mio fedel fosse ciaschedun latino; / il mondo in pace, securo ’l camino, / no mi noccia vicino, / e l’aira temperata verno e state; mille donne e donzelle adornate / sempre d’amor pregiate / meco cantasser la sera e ’l matino; / e giardin’ fruttüosi di gran giro, / con grande uccellagione, / pien’ di condotti d’acqua e cacciagione; bel mi trovasse come fu Absalone, / S anson‹e› pareggiasse e Salamone, / servaggi di barone, / sonar vïole, chitare e canzone, / poscia dover entrar nel cielo empiro: / giovane, sana, alegra e secura / fosse mia vita fin che ’l mondo dura».

 

[1] Lapo Gianni, Rime, a cura di Roberto Rea, Salerno, Roma 2019.

[2]Rea R., Introduzione, in Lapo Gianni, Rime, cit., p. xiii.

[3] Cfr. Contini G., Poeti, ii p. 570.

[4] Marti M., Storia dello stil nuovo, Milella, Lecce 1973, p.337.

[5] Rea R., cit., p. xxv.

[6] Pirovano D., Il Dolce Stil Novo, Salerno, Roma 2014, p. 324.

Lapo Gianni, Rime, a cura di Roberto Rea, Salerno, Roma 2019, pp. 162, Euro 24.

Lapo Gianni, Rime, a cura di Roberto Rea, Salerno, Roma 2019.

Marti M., Storia dello stil nuovo, Milella, Lecce 1973

Pirovano D., Il Dolce Stil Novo, Salerno, Roma 2014.

 

Pubblicato anche su “Roma – Cronache Lucane”, 8 maggio 2019

Viaggio terrestre e celeste di Madonna Pia

di Vinicio Serino 12 agosto 2017

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Chi era la Pia

Uno degli episodi più belli e fascinosi della Divina Commedia è, sicuramente, quello del Canto V del Purgatorio, quando Dante incontra una misteriosa Pia che, insieme al fanese Jacopo del Cassero, combattente a Campaldino tra le fila dei Guelfi ed a Buonconte da Montefeltro, combattente nella stessa battaglia alla testa delle milizie ghibelline – dove trovò la morte – condivide il secondo balzo dell’Antipurgatorio. Là dove sono confinate le anime dei “negligenti” che perirono per morte violenta e che solo “all’orlo della vita” (Casini, 1892) si pentirono dei propri peccati. “Ricorditi di me che son la Pia”, raccomanda quella donna misteriosa al Poeta, quando ritornerà nel mondo dei vivi. Aggiungendo che “Siena mi fè, disfecemi Maremma”, lo sa bene “colui che ‘nnanellata pria/disposando m’avea con la sua gemma” (Purgatorio, V, 133-136): ossia il suo (ignoto) sposo. Null’altro.

Come è noto i commentatori più antichi furono concordi nell’identificare quella donna misteriosa nella moglie di Nello della Pietra, ossia di Paganello Pannocchieschi, figlio di Inghiramo, signore del Castel di Pietra, Potestà di Volterra e di Lucca e futuro consorte di Margherita Aldobrandeschi, la donna dai molti mariti tra i quali il celebre  – e spietato – Guido di Montfort, vicario di Carlo D’Angiò.

Per Pietro Alighieri, uno dei primi commentatori della Commedia, ”Ista domna Pia de Tholomaeis de Senis fuit uxor domni Nelli de la Petra de Senis qui eam occidit …” Ossia questa donna – nel senso di domina, signora – Pia dei Tolomei da Siena andò sposa a Nello senese signore di Castel di Pietra che la uccise. Si tratterebbe dunque della discendente di una delle più potenti famiglie di Siena, i Tolomei, appunto, mercanti e banchieri. Secondo quanto vuole la tradizione Nello Pannocchieschi, per un imprecisato sentimento di gelosia, ovvero per impalmare Margherita Aldobrandeschi, ultima esponente di una delle famiglie più potenti del centro Italia, avrebbe deliberato l’assassinio della “sua” Pia facendola precipitare dal proprio maniero di Castel di Pietra, nel cuore della Maremma.

A partire dal XIX secolo la critica dantesca ha messo in crisi questa storia. In un recente lavoro, Roberta Mucciarelli, ricercatrice dell’Università di Siena, rifacendosi a quanto sostenuto da alcuni studiosi ed eruditi dello scorso secolo – Decimo Mori, Alessandro Lisini e Giulio Bianchi Bandinelli – riconosce la Pia in una nobildonna discendente dal lignaggio dei Malavolti che avrebbe sposato, tra il 1282 ed il 1283, un Pannocchieschi. Non Nello, ma Tollo, dei signori di Prata, nei pressi di Massa Marittima il quale, il 19 Aprile del 1282,  aveva sottoscritto un atto di sottomissione a Siena e che, nel 1283, impalmava la sua Pia, appunto dei Malavolti. Appena due anni dopo, nel 1285, Tollo veniva ucciso per mano dei tre nipoti, scatenando quindi la reazione dei senesi che solo nel 1289 avrebbero ripreso il suo castello. Nessuna traccia della Pia (dei Malavolti), però (cfr. Mucciarelli, 2011). Sì che il mistero rimane ancora …

Dubbi e nuove strade

Per cercare di ricostruire la vicenda terrena della Pia dantesca occorre quindi fare (saldamente) ricorso ad una (sana) categoria, il dubbio. Dubbio sulla sua identità; dubbio sull’atto commesso e configurato come peccato, e che Dante condanna come negligenza; dubbio sulle modalità della sua morte che, sempre attingendo alla Commedia dantesca, sarebbe avvenuta per atto violento (cfr. per tutti Mucciarelli, 2011). D’altra parte, come diceva un grande magister, Abelardo, con buona pace di San Bernardo e della sua mistica, “dal dubbio ci muoviamo alla ricerca, e attraverso la ricerca percepiamo alla verità”.

Visti i risultati, quanto meno non esaurienti, ottenuti dai medievisti moderni e dagli eruditi del passato che, nei secoli, si sono cimentati nel tentativo di dissolvere questi tre dubbi, proviamo a seguire una strada diversa da quella della ricerca storica. Seguiamo le tracce – e le suggestioni – dell’immaginario collettivo, ossia quello straordinario contenitore di rappresentazioni, di simboli, di ideologie che, ci dice J. Le Goff citando il padre Chenu, appartengono alla storia della coscienza di un popolo (Le Goff, 1988).

Proviamo dunque con una indagine intorno alla mentalità diffusa in un tempo – il Medioevo – ed uno spazio, quello di una delle più dinamiche città stato dell’epoca e del suo territorio, Siena. Una ricostruzione non erudita eppure “reale” di quello che lo stesso Le Goff definisce Umanesimo medievale, fatto di “imprese economiche”, di “alte creazioni culturali e spirituali”, configurate in un corpus capace di far emergere le “immagini profonde, più o meno sofisticate secondo la condizione sociale e il livello di cultura dell’universo mentale degli uomini e delle donne dell’Occidente medievale” (Le Goff, 1988).

Per comprendere bene questo invito a seguire la via dell’immaginario basta pensare alla cattedrale gotica, alla congerie di messaggi veicolati attraverso la sua pietra.”La cattedrale”, dice G. Duby, “… è proclama pubblico, discorso muto che si rivolge alla autorità del popolo fedele , e innanzitutto dimostrazione di autorità”, l’autorità dei due poteri associati, quello laico del principe, o della città; quello del vescovo espressione della Chiesa universale (Duby, 1987). Una lingua “chiara e sublime”, in grado di “parlare all’anima dei più umili come a quella dei più colti” (Fulcanelli, 1972). Una dimensione entro la quale si sono “accatastati” modelli culturali molto diversi, ed alla apparenza persino inconciliabili, dove si incontrano rappresentazioni, simboli, allegorie del mondo cristiano con quello “pagano”.

Cattedrale di Siena, straordinario liber mutus che parla attraverso il messaggio del simbolo

Cerchiamo allora di penetrare il “mistero della Pia” col ricorso all’immaginario, ed in particolare ad un immaginario per così dire arturiano, fatto di molte citazioni, dirette ed indirette, al mondo della cavalleria medievale e del c.d. amor cortese. Un mondo al quale, forse, qualche manifestazione archetipica, non è del tutto estranea.

Sulle orme della Pia

Usiamo allora i canoni dell’immaginario ripercorrendo il viaggio della Pia, attraverso due dimensioni spaziali antitetiche, Siena che la “fece” e la Maremma che la “disfece”. Ed è nel mezzo di questi due estremi che occorre ricercare battendo, appunto, la strada dell’immaginario. E’ teoricamente possibile ricostruire questa strada che la Pia ha preso per raggiungere, secondo la tradizione, Nello Pannocchieschi, suo sposo, in quel di Castel di Pietra. Una via ancora esistente – e quindi rintracciabile – che si sviluppa attraverso luoghi, scenari, contrade di grande significato: un autentico spazio dell’immaginario, capace di creare straordinarie suggestioni …

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Ambrogio Lorenzetti, particolare da Effetti del Buon Governo in città

Il viaggio inizia da Siena, dal Palazzo Tolomei, probabilmente, presso il punto dovesi toccavano i termini dei tre Terzi … poco lungi dalla Croce del Travaglio presso alla gran piazza del campo , celebre per la svelta altissima torre detta del Mangia , per il palazzo pubblico e per il gioco più popolare e più allegro di quanti contar ne può tutta Italia; e costà dove i due poggi riuniti tornano a biforcare in due rami, uno de’ quali dirigesi a scirocco verso la Porta Romana, mentre l’altro verso libeccio sale al Duomo , al Castel vecchio, e di là sino alla Porta S. Marco , donde esce la strada regia Grossetana”(Repetti, 1833). Così il Repetti nel suo celebreDizionario Geografico Fisico e Storico della Toscana”.

Da qui, Costa Fabbri  al di sotto del monastero di Sant’Eugenio, già  Abbazia di S. Eugenio in  Pilosiano : ”forse … la più antica Abazia della Toscana Granducale, avvegnachè la sua fondazione risale all’anno 730 per opera del Longobardo Warnifredo castaldo regio di Siena, che generosamente la dotò” (Repetti, 1833). Di ascendenza longobarda era la famiglia di Nello …

Il percorso della Pia si sviluppa quindi da Certano, antico possesso di S. Eugenio, alla Fonte al pino (costeggiando le tombe etrusche), per il Ferratore, fino a Ponte al Rigo e Palazzaccio (Proprietà Bonsignori). Finalmente Ponte allo Spino  in prossimità del castello di  Sovicille. Qui si erge la pieve di Ponte allo Spino, vero e proprio (piccolo) libro di pietra dove si consuma, attraverso immagini di forte valore simbolico, una contaminazione culturale tra il cristianesimo e gli antichi culti delle prime popolazioni abitanti il territorio, etruschi e romani …

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Pieve romanica di Ponte allo Spino, Sovicille (SI)

Ed ecco, dopo la località di Malignano, dove è stata rinvenuta una piccola necropoli etrusca, costeggiando il padule di Rosia – oggi non più esistente – che si giunge al castello di Rosia. “Fu il castel di Rosìa insieme con altri vicini castelletti di Brenna, di Stigliano, di Orgia ecc. signoreggiato dai conti dell’Ardenghesca finché con lodo del 27 maggio 1202 quei conti dovettero dichiararsi tributarj del Comune di Siena insieme con i vassalli ad essi soggetti … “ (Repetti, 1833). Di qui, a circa un miglio, il fatidico ponte, ora detto della Pia, ma fino agli anni ’30 più noto come ponte di Santa Lucia.

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Il ponte della Pia

Un ponte a schiena d’asino, probabilmente ricostruito nel Medioevo là dove insisteva un precedente manufatto romano. L’opera, che sembra risalga all’ XI secolo, consentiva di raggiungere il vicino eremo di Santa Lucia, collocato entro una suggestiva vallata. Quella strada è denominata “Strada Manliana“ e, sulla fede del Repetti, sappiamo che doveva esistere, nei pressi di Gavorrano, ossia nell’area di Castel di Pietra, “l’antica mansione di Maniliana, ossia Manliana, per ragione che essa vedesi segnata nella tavola Teodosiana fra Populonia e la Bruna, con tutto ciò sino al secolo XII …” (Repetti, 1833)

Il ponte possiede una straordinaria valenza simbolica, è un intermedio che, come sapeva bene il ”Pontifex maximus” e come sa la Chiesa Cattolica, mette in comunicazione due dimensioni diverse, due mondi diversi, la terra col cielo: in questo caso il passato, Siena e il futuro, la Maremma. La tradizione vuole che Madonna Pia, nell’attraversarlo, abbia avuto come una premonizione e che, sospirando, si sarebbe girata (per l’ultima volta) in direzione della sua amata città. Al “simbolismo del passaggio” si affianca “il carattere frequentemente pericoloso di questo passaggio”(Chevalier, Gheerbrant, 1989) a designare l’ignoranza che il viaggiatore ha del suo approdo.

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Notturno sul Rosia

A sottolineare la forte valenza simbolica che il ponte ha in questa storia basterà citare una diffusissima credenza: si vuole che  qui, nelle notti senza luna, compaia una bianca figura di donna, vestita di bianco, con la testa coperta da un velo e  circondata da una soffusa luce bianca. E’ il fantasma della Pia, ormai consapevole della fatale scelta che ha compiuto quando è transitata su quell’antico passaggio. Una manifestazione che avrebbe sicuramente suscitato l’interesse di Jung, convinto come era che quelle forme eteree ed impalpabili andavano intese quali esteriorizzazioni della grande mole di materiale arcaico contenuto, ab origine, nell’inconscio collettivo … Ma c’è di più …

Assonanze arturiane

Rileva, dal punto vista dell’immaginario, il riferimento ad un’altra dama bianca, sicuramente molto più nota della Pia, Ginevra, la consorte di Artù. Il suo nome rimanda, con molta verosimiglianza all’antico gallese, l’impronunciabile Gwenhwyvar che, appunto, significa bianco spettro, spirito bianco. Ma le somiglianze non finiscono qui: Ginevra è rapita da un cavaliere straniero, il malvagio Meleagant, che la rinchiude nel suo castello.

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Archivolto della Porta della Pescheria, Winlogee (Ginevra) prigioniera di Mardoc, Cattedrale di Modena

Solo un cavaliere valoroso come Lancillotto, racconta Chrétien de Troyes nel suo “Il cavaliere della carretta”, saprà liberarla: ma, per compiere l’impresa, sarà costretto a salire sulla carretta, infamante, dei malfattori, perché, come gli rivela il nano che la guida, è il solo modo per giungere alla diletta dama.

Ginevra, anche in virtù dell’ impresa di Lancillotto, consumerà l’adulterio col più valoroso dei cavalieri: colpevole – come la Pia dantesca ?- del tradimento del proprio consorte, Artù, da arkto, orso. Intrigante la possibile etimologia del nome Lancillotto che non avrebbe radici celtiche evidenti: forse  Lance ap Lot (“Lance, figlio di Lot“). O forse dall’ebraico “Aziloth” (ovvero “Nobile”) che diventando “L’Aziloth“ esprime l’animo del Cavaliere, “Il Nobile”. Il che apre ad una serie teoricamente infinita sui rapporti tra modelli culturali molto diversi … eppure coesistenti …

La vicenda, narrata da Chrétien de Troyes –  autore anche del Perceval, il primo dei romanzi del Graal – viene ricostruita tra il 1170 ed il 1180 su richiesta di Maria, contessa di Champagne, figlia di Eleonora d’Aquitania. Dunque in una dimensione molto evocativa sul versante dell’immaginario, perché riferibile al contesto del così detto amor cortese, uno straordinario movimento culturale in lingua d’oc e d’oil, che si sviluppa nella seconda metà del XI secolo nelle corti dell’Aquitania e della Provenza, ad opera dei trovatori, trobadours e dei trovieri, trouvères, dal verbo trobar (trovare), da riconnettere a sua volta al tardo latino tropare (sinonimo di invenire).  Si tratta di poeti che compongono  liriche piene di passione, portatori di una idea dell’amore – molto diversa da quella, castigata, dell’Alto Medioevo – ispirata, in parte, alla Ars amandi di Ovidio. E che disciplinava, in una maniera assolutamente nuova, il rapporto d’amore tra la dama e il cavaliere, il “tema dell’amore per una dama superiore ed irraggiungibile, destinataria dell’omaggio e del canto di un io lirico che ama” (Meliga,1991).

Nel “Cavaliere della carretta” ritroviamo due singolari assonanze con la vicenda della Pia dantesca. Il rapitore di Ginevra è il malvagio cavaliere Meleagant – che sarà poi ucciso da Lancillotto – il cui nome assomiglia tanto – ovviamente è solo una suggestione – a quel “Magliata da Piombino” che, secondo l’anonimo chiosatore del Codice Laurenziano XL 7 (risalente al secolo XIV), sarebbe il sicario di cui si servì Nello Pannocchieschi per liberarsi della sua sposa, facendola precipitare dal Castel di Pietra.

Un’altra singolare assonanza, quella del ponte con tutta la sua forte valenza simbolica. Il ponte, “tagliente come una spada”, grazie al quale Lancillotto raggiunge il castello nel quale è rinchiusa la sua dama. Lo stesso che Parzival attraversa per ritornare  al castello del Graal.

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Il ponte-spada di Lancillotto, miniatura del XV secolo

Anche Galgano, il santo che infigge la spada nella pietra di Montesiepi, inizia la sua vicenda “visionaria” superando, sotto la guida dell’Arcangelo Michele, patrono della Cavalleria, un ponte “che non poteva attraversare per eccessiva difficoltà” e al di sotto del quale“un mulino con una ruota che girava, sembrava gridare”.

Superato il ponte sul Rosia madonna Pia raggiungerà, dopo un breve tragitto sulla via Manliana, l’eremo di Santa Lucia. Ai suoi inizi un semplice romitorio che si vuole fondato, alla fine del XII secolo, dall’eremita Bonaccorso, il quale, unitamente ad un gruppo di asceti che si erano uniti a lui, avrebbe iniziato la costruzione del suggestivo edificio, anche grazie al patrocinio ed al sostegno degli Spannocchi, proprietari del luogo. La chiesa, dedicata a Santa Lucia la santa protettrice degli occhi e della vista, dovrebbe risalire al 1252 e la sua consacrazione al 1267. Per tutto il medioevo il complesso fu importante punto di riferimento per viaggiatori e pellegrini che da Siena si recavano verso le Colline Metallifere e la Maremma.

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Eremo di Santa Lucia, Montagnola senese

Santa Lucia è la fanciulla di Siracusa, vissuta alla fine del III secolo che, ottenuta per intercessione di Sant’Agata la guarigione della madre, decise di mantenere la propria verginità consacrandosi al Signore. Denunciata dal promesso sposo come cristiana, e mentre il carnefice la sottoponeva al supplizio dell’accecamento, dichiarò che il suo sacrificio avrebbe tolto i non credenti dal buio in cui li aveva costretti la loro superbia. Forse, grazie a lei, simbolo per Dante della Grazia illuminante, Madonna Pia potè “vedere” la triste sorte che l’attendeva.

Dianzi, ne l’alba che procede al giorno,
quando l’anima tua dentro dormia,
sovra li fiori ond’è là giù addorno
venne una donna, e disse: “I’ son Lucia;
lasciatemi pigliar costui che dorme;
sì l’agevolerò per la sua via“ (Purgatorio, IX, 52-57).

Così Virgilio al risveglio del poeta gli rivela che, mentre era addormentato, una “donna” è venuta per aiutarlo a trovare la sua via …

Con la forza della sua luce la santa è in grado di risvegliare, ossia di “aprire gli occhi” degli uomini altrimenti accecati dall’orgoglio e della passioni …

Nei romanzi del Graal, poi, la figura dell’eremita compare spesso per consigliare i cavalieri dubbiosi sulla loro missione, indirizzandoli sulla via della virtù e della saggezza, come fa Trevrizent con Parsifal, suo nipote che, nel racconto di Wolfram von Eschenbach, ammonisce rammentandogli che la sua gioventù potrebbe indurlo “a mancare alla virtù della rinuncia”.  Proprio questa capacità di rinunziare al “mondo” ed alle sue lusinghe consente agli eremiti di condurre una vita ascetica – da ascesis, esercizio – che li prepara alla unione mistica con Dio rendendoli degni, attraverso il distacco delle cose terrene, della sua illuminazione.

Anche madonna Pia, transitando lungo l’eremo di Santa Lucia, avrà incontrato questi uomini solitari, che cercano – e trovano – la propria strada nella solitudine, nella foresta come quella che si stende lungo il corso del Rosia . Un luogo, la foresta che, nell’immaginario  è, al tempo stesso, deserto ed rifugio.  Un luogo inospitale, una terra desolata, popolata di esseri ostili e, soprattutto,di demoni tentatori. Gli eremiti vi si ritirano per contrastare e dominare, in quel mondo carico di oscure minacce, la forza delle proprie passioni. E’,dunque, il loro campo di battaglia, dal quale possono uscire sconfitti o radiosi vincitori. E se vi riescono aprono davvero la vista a coloro che incontrano,(Le Goff, 2007), magari interpretandone il linguaggio oscuro dei sogni, o manifestando  una straordinaria capacità profetica  Alvar, 1998).

Castelli e castellani

Dopo l’eremo di S. Lucia, ecco Spannocchia in Val di Merse, “Villa signorile, già Castello o casa torrita, con fattoria omonima della nobile famigli senese de’conti Spannocchi nella parrocchia di S. Maria ai Monti di Malcavolo, ora a Frosini, Comunità Giurisdizione e circa 9 miglia toscane a libeccio di Chiusdino, Diocesi di Volterra, Compartimento di Siena. La tenuta di Spannocchia fa parte della Montagnola posta alla destra del torrente Rosia e della strada che viene da Chiusdino, poco al di sotto di Castiglion Balzetti, ch’è al suo libeccio nel popolo di Brenna, mentre esiste al suo grecale dentro la tenuta medesima la chiesa profanata degli Eremiti Agostiniani di S. Lucia a Rosia con annesso claustro attualmente ridotto ad uso di casa colonica” (Repetti, 1833). La famiglia degli Spannocchi, destinati a diventare grandi banchieri, possedeva quella tenuta già nel XIII secolo, dunque al tempo della Pia. Il riferimento a Castiglion Balzetti, ossia Castiglion che Dio sol sa per la difficoltà che si ha nell’individuarlo, rimanda a tenebrose credenze popolari che vuole quello come il luogo dove “si marchiavano” le streghe  che poi volavano alla volta di Siena (Biliorsi, 1995). Forse un rito di iniziazione alla pubertà femminile che si teneva nel fitto impenetrabile di quei boschi.

Madonna Pia dovette quindi giungere a Pentolina, “Casale con chiesa plebana (S. Bartolommeo) nella vicaria foranea di Rosia, Comunità e 6 miglia toscane a grecale di Chiusdino …”

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Casale di Pentolina, Montagnola senese

Qui “ebbero signoria i conti Pannocchieschi fino dal principio del secolo XIV almeno, stantechè il potente milite Nello d’Inghiramo signor del castel di Pietra in Maremma con testamento del 21 febbrajo 1321 lasciò allo spedale di S. Maria della Scala di Siena un legato di mille lire compresi tutti i suoi diritti e beni che possedeva nel castello e corte di Tatti a condizione fra le altre cose di doversi erigere nella villa di Pentolina un sufficiente spedalelto per i poveri” (Repetti, 1833).

Il riferimento alla generosità post mortem di Nello, evocata dal Repetti,  quel Nello che la credenza vuole abbia fatto uccidere la Pia, sua sposa, è molto interessante. Dal suo testamento, vergato in Gavorrano, avanti al notaro Francesco di Bizzino da Massa Marittima, si apprendono, con ricchezza di particolari “le … malefatte. Il maltolto e le usure, le violenze e le rapine, le relazioni illecite … (Mucciarelli, 2011). Nello, consapevole dei suoi delitti – tra i quali la soppressione della Pia ? – aspirava evidentemente ad una collocazione benevola nell’al di là. Difficilmente il Paradiso, per quante ne aveva fatte, ma con buone probabilità di approdare al Purgatorio, il luogo di purgazione delle anime penitenti, scoperto, o inventato come dice Le Goff, dalla Chiesa solo nella seconda metà del ‘200.

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Domenico di Michelino, Il Purgatorio, particolare da “Dante e il suo poema”

Più facile se la penitenza comportava sostanziosi lasciti a chi aveva il potere del lasciapassare per questa dimensione intermedia, e provvisoria, tra Inferno e Paradiso. Una dimensione dell’immaginario religioso che ironiche considerazioni aveva indotto in quella mala penna di Giovanni Boccaccio.

Chissà se la Pia, transitando per il castello di Pentolina, di proprietà Pannocchieschi, avrà incontrato il serpente dalla testa di Uomo che, secondo la tradizione popolare, avrebbe abitato nelle fitte selve che circondavano – e circondano – il castello? Una ibrida creatura che, dice M. Biliorsi, un cercatore di funghi avrebbe visto, in età moderna, penzolare da un albero, mentre mugolava strane parole”  (Biliorsi, 1988). Una evidente citazione del “cifero serpente” nella versione che, ad esempio, ne dà Michelangelo nell’episodio della tentazione dei nostri (dissennati) antenati.

Da qui la Pia deve aver raggiunto Mulinaccio e poi, percorrendo l’ antica strada maremmana, costeggiato l’ Abbazia di San Galgano, costruita ai piedi di Montesiepi, là dove è conservata la spada nella roccia legata alla vicenda di un cavaliere la cui storia presenta un’ impressionante consonanza con quelle dei romanzi del Graal, di Artù e dei suoi cavalieri: aprendo quindi una serie di importanti quesiti quali, tra i tanti, il fatto che il primo di questi romanzi, il Perceval di Chrétien de Troyes è stato composto sicuramente dopo il 1181, data della morte di Galgano. Come era stato possibile?

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Abbazia di S. Galgano

Nella fraternità guglielmita

Il percorso della Pia si snoda quindi lungo il Piano di Campora (antica area etrusca); passa per la  Pieve di Luriano, dove si fermò il cavallo di Galgano, inducendone la conversione nel giorno del solstizio d’inverno del 1180; raggiunge le Osterie delle macchie e il paese di Torniella, “villaggio che fu Castello, con chiesa plebana (S. Gio. Battista) … dominato un tempo da una consorteria di nobili detti i signori di Torniella e di Sticciano …” (Repetti, 1833). Da qui al bivio ora di Sassofortino (valle del torrente Bai) e, finalmente, all’antica abbazia di Giugnano …

“GIUGNANO (BADIA DI) nella Valle della Bruna in Maremma. Quest’antico monastero di monaci eremiti”, dice il Repetti, “era situato in mezzo ai boschi sul fosso delle Venaje, tributario del fiume Bruna, fra Monte Lattaja, Monte Massi e Roccastrada, in luogo detto attualmente le Casaccie, nella Comunità Giurisdizione e circa 4 miglia toscane a libeccio di Roccastrada  … Poche notizie di questa badia restano fra le carte degli Eremiti Agostiniani di Siena, ai quali furono riuniti gli eremi di Val d’Aspra, dell’Ardenghesca, e di Val di Rosia de’Pannocchieschi, che sino dal secolo XIII possedevano la badia di Giugnano con le sue foreste.  … Era una piccola badìa dei Cisterciensi di S. Galgano concessa loro dal Pontefice Innocenzo IV, e quindi ai medesimi confermata dall’Imperatore Ottone IV con privilegio spedito all’abate di S. Galgano lì 31 ottobre 1209” (Repetti, 1833).

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Cripta dell’abbazia di Giugnano

Cripta dell’abbazia di Giugnano

La vicenda della abbazia di Giugnano è complessa. Verosimilmente  la sua fondazione si deve ai Benedettini, e solo agli inizi del 1200 passerà sotto i cistercensi di S. Galgano ma … Per un breve indeterminato periodo quel luogo fu appannaggio dei Guglielmiti, uno straordinario ordine monastico di forte connotazione cavalleresca che si fa risalire a Guglielmo della Malavalle e, soprattutto, al suo discepolo Alberto, che ne raccolse gli insegnamenti nella “Regula” . E’ con molta verosimiglianza che  qui fosse “accolto … in un collegio di circonvicina fraternità di servi di Dio e di chierici”, dopo essere stato inizialmente respinto, Galgano, da cavaliere divenuto eremita.

E’ forse nella vicenda di Guglielmo la chiave per comprendere il peccato di negligenza commesso, secondo Dante, dalla Pia. Guglielmo proviene dall’Aquitania. In talune circostanze é definito persino Duca d’Aquitania.

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Mattia Preti, San Guglielmo di Malavalle in meditazione

E nel periodo della sua esistenza terrena,ossia nella prima metà del XII secolo, l’Aquitania ha avuto come Duca un Guglielmo, Guglielmo IX – che naturalmente non é il santo di Malavalle – un importante, se non il più importante dei Trovatori provenzali, autore di composizioni cortesi che esaltano la dottrina d’amore, dell’amore cortese.

immagine15La donna, la Dama diventa un simbolo, l’idea stessa di un mondo che é quello delle corti provenzali. Molto libere, molto affascinate da dottrine anche eretiche, come quelle catare, forse non aliene dalla conoscenza delle antiche culture precristiane – e quindi pagane – dei luoghi …

E’ forse attraverso personaggi come Guglielmo di Malavalle che il fantastico mondo dell’amor cortese è giunto in questa parte di Toscana?

Amor cortese e servizio d’amore

Cosa c’entrano i Trovatori con la Pia? Forse la Pia non potrebbe essere stata la Dama corteggiata – ancorchè più o meno felicemente maritata – da qualche fascinoso nobile cavaliere  secondo i principi e le modalità dell’amor cortese, di cui i trovatori sono, con le loro canzoni, gli incontrastati produttori? Circostanza che allora giustificherebbe la “gelosia” di Nello. Amor cortese significa servizio d’amore e culto della dama da parte del suo cavaliere: il legame che li unisce non ha un valore carnale, ma costituisce una sorta di visione, nella quale l’amante pensa all’amato “come il mistico a Dio, fa tutto per lei e per mezzo di lei; dall’amore nascono tutte le virtù, esso è fonte di ogni ricchezza interiore e progresso morale. La femminilità è esaltata dunque come forza morale, spirituale e nobilitante. L’idea centrale è che questo rapporto d’amore è il principio motore che muove e attiva tutte le forze spirituali portando al compimento di atti meritevoli …” (Orlando,S.I.D.).

Dunque un gioco, forse ambiguo, dove non prevale – ovvero non dovrebbe prevalere – la sensualità ma un desiderio inestinguibile di crescita spirituale, una sorta di iniziazione all’Amore  “che muove il sole e l’altre stelle”, dove il rapporto tra l’amata e l’amante è lo stesso che corre tra il Signore – l’amata – e il vassallo, l’amante. Esemplare la storia attribuita al trovatore Jaufré Rudel perdutamente innamorato della contessa di Tripoli (forse Melisenda, figlia del re Baldovino II di Gerusalemme), della quale avrebbe sentito parlare da alcuni pellegrini di Antiochia senza averla mai vista e per la quale si fece Crociato. La storia vuole che si ammalasse proprio a Tripoli e che fosse spirato tra le braccia della contessa vista per la prima ed ultima volta .

immagine16Jaufré  Rudel, uno dei più noto trovatori, nel suo “ Amore di terra lontana”, così descrive la sua infelice passione.

“ … Triste e gioioso me ne partirò,
dopo averlo visto, l’amore lontano:
ma non so quando la vedrò,
perché le nostre terre sono troppo lontane :
vi sono molti valichi e strade,
e perciò non posso indovinare quando la vedrò:
ma sia tutto secondo la volontà di Dio!

… Dice il vero chi mi chiama ghiotto
e desideroso dell’amor lontano,
che null’altra gioia tanto mi piace
come il godere dell’amor lontano.
Ma ciò che voglio mi è negato,
che così mi dette in sorte il mio padrino,
che io amassi e non fossi amato.
Ma ciò che voglio mi è negato.
Sia sempre maledetto il mio padrino,
che mi ha dato la sorte di non essere amato …”

Il  modello ispirativo di questo “gioco” è il De Amore, un  trattato in tre libri ad opera di Andrea Cappellano (1150-1220), vera  summa dei precetti dell’amor cortese, composto in latino attorno al 1185, verosimilmente presso la corte di Maria di Champagne, protettrice di  Chrétien de Troyes  e nipote di Guglielmo IX di Aquitania, nonché figlia di Eleonora di Aquitania, la madre di Riccardo cuor di leone.. Un gioco che è anche culto per l’amata, nella consapevolezza che quel sentimento resterà inappagato, nonostante la sua sensualità che lo distingue dal c.d. amor platonico.  Di qui la sofferenza del cavaliere consapevole di non poter giungere al possesso dell’amata.

 “Amor, ch’a nullo amato amar perdona,/mi prese del costui piacer sì forte, che, come vedi, ancor non m’abbandona”… fa dire Dante a Francesca da Polenta nel Canto V dell’Inferno. E’ la storia d’amore impossibile tra la dama ed il cognato, Paolo Malatesta, detto il bello, giovane aitante, già Capitano del popolo a Firenze nel 1282, quando Dante era un giovinetto. L’attrazione erotica si consuma mentre i due stanno leggendo, “per diletto, /di Lancellotto, come amor lo strinse”. E’ allora, dice Francesca, “quando leggemmo il disiato riso/esser baciato da cotanto amante, / questi, che mai da me non fia diviso,/la bocca mi baciò tutto tremante” (Inferno, Canto V,127-128 e 133-136).

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Alexandre Cabanel, Morte di Francesca da Rimini e di Paolo Malatesta

Quel libro fu Galeotto, e Galehaut, galeotto appunto, era il siniscalco di Ginevra che ne aveva favorito l’amore adulterino

Forse madonna Pia potrebbe aver partecipato ad un gioco d’amore con qualche ignoto cavaliere, ma senza cadere preda della passione per il piaceri carnali; come quelli provati da Paolo e Francesca che scontano per l’eternità il loro peccato travolti dal vento impetuoso ed inarrestabile che tormenta le anime dei lussuriosi. Forse questo “gioco” potrebbe spiegare, con riferimento all’immaginario dell’epoca, la gelosia di Nello e, quindi, al di là del suo desiderio di impalmare Margherita Aldobrandeschi, la volontà omicida. Non lo sapremo mai …

E forse la condanna di Dante, l’attribuzione del peccato di negligenza, potrebbe essere dovuta al suo modo di intendere il “dolce stil novo”, quello espresso dallo stesso Dante con la celeberrima Canzone “Donne, ch’avete intelletto d’Amore”, la prima della “Vita nova”. Non più l’amore inteso, alla maniera dei provenzali e dei siciliani, come sudditanza feudale dell’uomo alla donna, ma come straordinaria tensione dell’animo. Un desiderio, inarrestabile ed infinito, per una Donna che non è più reale ma, come Beatrice, angelicata, vero tramite, che nulla possiede di terreno, tra Dio e l’Uomo.  “Beatrice tutta ne l’etterne rote/fissa con li occhi stava; e io in lei le luci fissi, di là sù rimote … Trasumanar significar per verba/non si poria; però l’essemplo basti/a cui esperienza grazia serba” (Paradiso, I, 64-66 e 70-72)

Il peccato della Pia

Allora, in una prospettiva di immaginario medievale, la colpa di Pia può essere stata quella di essersi dimostrata negligente nei doveri coniugali perché presa dal gioco d’amore dei trovatori provenzali, giunti anche in questa parte di Toscana come sembrerebbe autorizzare la vicenda di Guglielmo di Malavalle, prima della sua conversio. Dal castellare di Lattaia, sulla piana di Maremma, passando da Pian del Bichi (Palazzo della Dogana), attraverso la valle del Bruna, madonna Pia, superata Casa di Pietra, giungeva infine a quel Castel di Pietra dove, secondo la tradizione, si sarebbe consumata la tragedia. “Rocca rovinata resa celebre dall’Alighieri per la tragica fine della Pia moglie di Nello Pannocchieschi signore di cotesta prigione” diceva ai suoi tempi il Repetti.

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Castel di Pietra (GR), veduta aerea

Da qui la Pia aveva iniziato il suo viaggio celeste,

“… Contessa, che è mai la vita?

E’ l’ombra d’un sogno fuggente.

La favola breve è finita,

il vero immortale è l’amor…”

(G. Carducci, Jaufré Rudel)

Ringraziamento: un sentito ringraziamento all’architetto Andrea Brogi per la competente assistenza prestata nella ricostruzione del percorso di madonna Pia.

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È l’amore uno strano uccello…(un oiseau rebelle)

A proposito di Vera Slepoj, La psicologia dell’amore, Milano, Mondadori, 2015

di Giuseppe Panella 15 giugno 2016

leggi in pdf Giuseppe Panella – è l’amore uno strano uccello… (on oiseau rebelle)

2962915Amor, ch’a nullo amato amar perdona / mi prese del costui piacer sì forte / che, come vedi, ancor non m’abbandona. // […] Nessun maggior dolore / che ricordarsi del tempo felice / ne la miseria; e ciò sa ‘l tuo dottore. //  Ma s’a conoscer la prima radice / del nostro amor tu hai cotanto affetto, / dirò come colui che piange e dice. // Noi leggiavamo un giorno per diletto / di Lancialotto come amor lo strinse; / soli eravamo e sanza alcun sospetto. // Per più fïate li occhi ci sospinse /
quella lettura, e scolorocci il viso; /  ma solo un punto fu quel che ci vinse. //  Quando leggemmo il disïato riso /  esser basciato da cotanto amante, / questi, che mai da me non fia diviso, // la bocca mi basciò tutto tremante. / Galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse: /quel giorno più non vi leggemmo avante
– sono forse i versi più celebri dell’Inferno dantesco (pari soltanto per risonanzae potenza a quelli del canto di Ulisse)… Quella di Dante è una fenomenologia del desiderio amoroso e contemporaneamente la sua analisi (psicologica) più fine perché individua in un terzo elemento (il libro che racconta la vicenda tragica di Lancialotto e Ginevra e del loro amore impossibile) la dimensione più profonda del suo emergere: il desiderio amoroso, infatti, come spiega splendidamente René Girard nel suo Menzogna romantica e verità romanzesca, è triangolare e prevede un riferimento ad un Altro che costituisce il suo punto di riferimento. Come accade, ad esempio, nella Nouvelle Héloïse di Jean-Jacques Rousseau dove alla vicenda di Julie d’Étanges e Saint-Preux, precettore dei suoi figli, si sovrappone il ricordo e l’imitazione “virtuosa” delle celebri vicende di Eloisa e Pietro Abelardo, la storia d’amore per eccellenza della cultura francese.

Dunque, l’amore è un percorso nella storia dell’umanità che ogni coppia di qualsiasi tendenza sia in realtà ricapitola nel corso della propria evoluzione emotiva e culturale.

Il testo letterario che forse è riuscito a ricapitolare in poche pagine la storia dei sentimenti amorosi in terra d’Europa è stato quel libro bellissimo (quanto sfortunato all’epoca sua) che è il De l’amour di Stendhal, vera e propria epitome delle modalità in cui l’innamoramento nasce, si rafforza e diventa amore come rapporto pro-duttivo e costitutivo della vita di una coppia (ovviamente, il saggio di Stendhal va molto al di là della pura e semplice psicologia dell’innamoramento come dimostreranno le sue “applicazioni” ai romanzi successivi del grande scrittore di Grenoble, Il rosso e il nero e La Certosa di Parma). Allo stesso modo, nel suo saggio più riuscito di sociologia dell’amore, Amore come passione del 1987, il mio vecchio maestro Niklas Luhmann è stato capace di riannodare le fila del discorso amoroso in chiave sistemica e ritrovare in determinati autori fondamentali al riguardo (primo tra tutti Rousseau) lo snodo fodamentale, il momento di svolta nella costruzione di un progetto di soggettività primario legato alla vicenda amorosa nella Modernità. Analogo obiettivo è quello di La psicologia dell’amore.

Il libro di Vera Slepoj parte, infatti, come una sorta di ricapitolazione della vicenda dell’Amore in Occidente (il celebre libro del 1939 di Denis de Rougemont) e attraversa prima la cultura greca con la sua celebre tripartizione tra eros (l’amore sensuale come attrazione reciproca), filía (come affetto e appartenenza reciproca tra membri della stessa famiglia o soprattutto tra amici) e agape (la condivisione del banchetto come forma di aiuto tra simili, un concetto poi ripreso dalla culltura cristiana per il tramite di San Paolo di Tarso), poi quella cristiana con la santificazione dell’accoppiamento tramite il sacramento del matrimonio e infine l’amor cortese e la tradizione troubadorica. Nel corso di una trattazione sintetica ma esauriente, la psicanalista milanese esamina con attenzione i diversi snodi storici della concezione dell’amore – dall’amour-passion dei Romantici (esemplari le pagine su Enrichetta Di Lorenzo, la compagna dell’eroe risorgimentale Carlo Pisacane e i rapidi accenni a colonne portanti della letteratura amorosa come I Dolori del giovane Werther di Goethe o Ultime lettere di Jacopo Ortis di Ugo Foscolo) all’evoluzione della concezione di questo sentimento dalla sua “sacralizzazione” all’attuale verifica delle sue potenzialità conoscitive-ermeneutiche nel percorso della psicoanalisi da Freud a Donald W.Winnicott e  Melanie Klein passando attraverso Jung e la sua teoria della libido fino ai suoi ultimi sviluppi sistematici.

Soprattutto su Winnicott la Slepoj ha intuizioni particolarmente rilevanti, in particolare riguardo al rapporto tra solitudine come costruzione di angoscia e l’”essere solo” come condizione di maturità esistenziale:

«La capacità di essere solo, che si basa su cure materne sufficientemente buone, è “uno dei segni più importanti di maturità nello sviluppo emotivo”. Questa capacità di essere soli è l’elemento fondante che, in una situazione di relazione amorosa, permette una valida strutturazione della relazione stessa, una relazione, cioè, in cui il legame d’amore non sia costituito dalla necessità di una ricerca angosciante (e spesso inconsapevole) di felicità e protezione da parte del partner. Spesso, onde evitare un’insostenibile solitudine, vengono fatte scelte azzqardate di partner distruttivi, o si costruiscono situazioni illusorie da “Mulino Bianco”, o, ancora, si trasforma la propria vita in una costante azione frenetica al fine di evitare “il silenzio della solitudine” o la paura di restare soli» (p. 125).

Questa paura della solitudine come pure il timore di non avere un rapporto fisso e stabile che sia rassicurante per se stessi, incide in misura assai rilevante nello svolgimento di un rapporto amoroso compiutamente gratificante. Questa stessa paura accade nelle storie d’amore che nascono su Internet e i suoi social network dove la virtualità dell’esperienza facilita i rapporti ma, nello stesso tempo, potrebbe renderne più difficile la realizzazione più felice e concreta: il “fantasma nella macchina” colpisce anche in questo caso rendendo più facile i contatti ma contemporaneamente più incerto il risultato duraturo di essi.

Opera volutamente complessiva e intesa alla sintesi, il libro di Vera Slepoj individua nell’amore la cerniera passionale e sentimentale dei rapporti umani e cerca di concretizzarne storia e sviluppi in maniera tale da evitare la tentazione accademica (molto forte in questi casi!) e giungere ad analisi di vicende esemplari (anche se non estreme o destabilizzanti).

Un libro, dunque, intenso – come deve e può essere solo una grande passione d’amore…

 

 

 

 

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Psicodinamica del Sé nelle relazioni interpersonali Ricerca, patologia, intervento, a cura di Irene Battaglini

Recensione di Maria Assunta Parsani

9788854851979

In questo volume sono raccolti i contributi, tratti dalle relazioni degli italiani che hanno partecipato al 16° Congresso Internazionale della World Association for Dynamic Psychiatry, congiuntamente al 19° Simposio Internazionale della Deutschen Akademie fur Psychoanalyse presso l’Ospedale psichiatrico della Ludwig-Maximilians-Universitat a Monaco dal 21 al 25 marzo 2011. 

Ne è scaturita una linea di pensiero frutto di orientamenti terapeutici e teorici diversi quali quello psicoanalitico e cognitivo, psicofisiologico e neuropsicologico, fino alla psicologia analitica attraverso l’espressione di un linguaggio immaginale della Firenze del ‘300, che è andata a comporre un’immagine del Sé variegata e poliedrica, ma soprattutto una espressione della formazione dell’identità individuale data dall’ ”Essere” in movimento nell’universo della psiche.

Si delinea ad apertura della raccolta, nell’intervento di ALFREDO ANANIA, la ricerca dell’identità culturale legata al Sé storico, all’inconscio collettivo contemporaneo, al senso della Polis e allo spirito loci, che rintraccia le origini del Sé individuale non solo nell’origine psico-ontogenetica, dalle sue matrici relazionali, ma anche psico-filogenetica derivante dalle matrici culturali che sono inconsciamente presenti in tutte le persone. La trasmissioni culturale delle proprie produzioni simboliche consente, attraverso l’impulso alla libera interpretazione, di trascendere la realtà materiale ed essere investita dal senso oscuro, ma universalmente significativo, che ci conduce alla ideazione di modelli di ricerca originali e all’incontro e allo studio reciproco tra diverse appartenenze culturali. L’inconscio si configura come una macchina del tempo che, ogni volta dà luogo a un qualcosa di nuovo, mai ripetitivo.

Proprio attraverso l’utilizzo della macchina del tempo IRENE BATTAGLINI ed EZIO BENELLI, tracciano le linee guida dell’esperienza del Sé attraverso il pensiero immaginale, focalizzando il tema centrale dell’ermeneutica delle immagini sulla soggettività che richiama alla centralità autonoma del Sé nel linguaggio dell’arte, in un moto dialettico con il Sé di chi fruisce. La soggettività all’interno dell’intersoggettività diviene un luogo non concluso tra due soggettività e a esse solo appartiene, come la fiamma blu – nera, descritta da Hillman, attira le cose e le consuma, mentre il biancore continua a fiammeggiare al di sopra. Da ciò scaturiscono la relazione profonda e il contatto ctonio con il mondo e il legame con il numinoso, l’opus alchemico che mira all’integrazione, per giungere alla realizzazione del Sé che si manifesta nella meta ideale del percorso ideativo. Il processo circolare di relazione che va dal tutto alle parti e viceversa, conduce a un continuo scambio tra le cose che modificano il complesso del sapere. Si traccia attraverso il pensiero di Jung, la declinazione numinosa del Sé e diviene guida sulle interrogazioni rivolte alle prime immagini che hanno ispirato Giotto di Bondone e Dante Alighieri con la codifica di linguaggi generativi di storia e di civiltà. Gli autori individuano nella ricerca, un viaggio verso gli inferi che deve prevedere sia una mappa, sia un’ipotesi di ritorno e di salvezza. La mente immaginale determina un confronto ed anche una sovrapposizione tra l’immagine originale e la risultante del lavoro immaginale, per cui ne deriva non solo la formazione di un nuovo mosaico, ma molto più probabilmente la ricostruzione di un mosaico danneggiato, che attraverso uno sguardo affinato reca alla luce frammenti dispersi e nascosti. Scaturisce da queste riflessioni il perché della Psicologia e dell’arte insieme. L’arte come strumento per una più diretta connessione con ciò che non conosciamo a livello razionale, in cui si fa spazio la domanda di come l’ermeneutica del mondo immaginale possa essere d’aiuto alla comprensione dell’opera d’arte. Gli autori, seguendo Hillman nella sua apertura al mondo immaginale, tracciano il legame con Firenze e l’Italia, la nascita della prima conferenza di Eranos, il primo commento della favola di Amore e Psiche, in cui la tensione genera una psicologia dell’arte che diventa parola dell’anima. Lo studio psicologico è l’umile tramite tra il mondo interno dell’analizzando e il mondo interno del mondo. E all’anima è assegnata la funzione di “intermedio” di tutte le cose, senza essere né corporea né visibile, essa è dominatrice dei corpi.

Ricorrendo ancora all’arte e alle sue possibilità esplicative, VITTORIO BIOTTI individua nella Trilogia di Bion un progetto teatrale che richiede un confronto sui grandi temi dell’individualità, la sua formazione, le sue dinamiche, cercando risposte nei grandi lavori del periodo classico e nel contrappunto del periodo americano. In Bion, citando F. Di Paola, si ritrova la necessità e l’anticipazione della necessità di porsi di fronte ad una nuova nascita.             

Attraverso l’analisi delle varie teorie ad approccio biologico, evoluzionistico, psicosociale, cognitivo DAVIDE DETTORE evidenzia come alla costituzione dell’identità di genere contribuiscano sia i fattori biologici, ma anche le componenti sociali, culturali e cognitive. Questi fattori insieme concorrono a strutturare un complesso di elementi schematici che sono alla base del concetto di identità di genere, non necessariamente  limitato alle categorie dicotomiche di maschio e femmina. Emerge ancora una volta prepotente il Sistema del Sé, nel modello evolutivo concettualizzato nell’ottica cognitivista di Doorn e coll. in cui i concetti di identità di genere sarebbero compresi e più validamente comprensibili. Secondo tale impostazione, il Sé può essere considerato come un sistema cognitivo di controllo composto da un sistema dominante  (“master self”) che si mantiene in relazione e in comunicazione con una serie di sottosistemi subordinati, operanti ciascuno in parallelo rispetto agli altri e quindi autonomi, indipendenti e influenzati dal sistema del Sé che a sua volta li influenza. L’espressione dell’identità di genere di un individuo sarebbe in stretta connessione con la predominanza dell’uno o dell’altro sistema, ma anche con l’intensità, con la frequenza e con le occasioni in cui l’uno o l’altro si esprime. Si costituisce una visione del Sé relazionale, multiplo e discontinuo, organizzato differentemente dalla versione del Sé dominate. Il complesso modello è paragonato dall’autore alla teoria di Liben e Bigler, evidenziando le differenze individuali strettamente connesse al “modello di vita personale” e alla storia dell’individuo, nella costituzione dello specifico dell’identità di genere che amplia lo stereotipo culturale.

Partendo dalla considerazione che la psicoterapia rappresenta un trattamento di prima scelta per i disturbi mentali gravi, inclusi i disturbi di personalità, ROBERTO DI RUBBO, ELENA SOGARO e SEFANO PALLANTI presentano un case report relativo alla Psicoterapia psicodinamica Comunicativa Evolutiva di Gruppo (PPCE-G) in cui viene illustrato il Modello Comunicativo Evolutivo, basato sulla teoria della complessità per la terapia di pazienti con disturbo mentale grave in un setting ambulatoriale. La Psicoterapia illustrata mantiene al centro dell’impostazione le libere associazioni e le dinamiche mentali inconsce, mentre i terapeuti focalizzano l’attenzione su tutti i processi connessi con l’esperienza delle difficoltà nelle relazioni e nelle patologie di personalità del paziente. Nell’analisi dell’iter terapeutico si evidenzia come il cambiamento dei sintomi sia strettamente legato ai cambiamenti del senso dell’identità personale e delle dinamiche interpersonali dell’identità, ponendo l’accento sulla funzione della struttura inconscia della “Frontiera Personale” che deriva dall’acquisizione dei principi relazionali di organizzazione più adattivi. Quest’ultima essendo inconscia cattura l’attenzione del terapeuta, il quale a sua volta si esprime attraverso un comportamento inconscio e l’approccio comunicativo evolutivo stimola il terapeuta a prestare attenzione alla narrazione dei pazienti e a rimanere nella posizione di Condizione Necessaria e non usurpare la posizione dei protagonisti. Ciò stimola la creazione di compliance. Il PPCE-G sembra fornire nel feed back interpersonale benefici sia per l’alleanza terapeutica sia per il senso d’identità personale.

MARIA FEDI sceglie, invece, di seguire il percorso degli eroi Edipo e Ulisse, nei quali s’intravede la ricerca del Sé che ci appartiene perché, afferma Freud: ” Deve esistere nel nostro intimo una voce pronta a riconoscere la forza coattiva del destino di Edipo ”e attraverso un parallelismo che conduce tramite il mito all’archetipo e alla forza dell’anima disvela, come nelle parole di Hillman la nostra psicologia del profondo in vesti antiche. Nel viaggio psicoanalitico, attraverso il metodo l’uomo si rivela, racconta la propria storia e attraverso l’incontro con l’anima e nel fare anima consente al molteplice di divenire materia psichica, di entrare nell’universo personale dove è possibile la formazione del simbolo. L’incontro con l’anima, afferma l’autrice, come avvenne per gli antichi eroi, ci guida alla scoperta di una dimensione interiore, riconoscendo la storia dei molti e dei molti nella nostra storia.

Come in un’oasi poetica che tanto si addice al fare anima, ANDREA GALGANO, traccia alcune linee del divenire nella poesia di Eugenio Montale: la morte della sorella Marianna, l’incontro con Anna degli Uberti e successivamente a Firenze Drusilla Tanzi che diverrà sua moglie. In queste figure femminili descritte nei versi del poeta, l’autore ravvisa la luminosità della memoria, il suo riflesso nel tempo. E ancora, dopo l’incontro con Irma Brandeis il divenire prigioniero del complesso di Edipo, rende il poeta “vile e contraddittorio”, mentre nei versi a lei dedicati trasluce la miracolosità dell’istante e sulle tracce del mito Ovidiano si intravede la figura di Clizia, la quale persa la speranza di poter riconquistare l’amore si trasformò in girasole. Fino a giungere all’incontro con Maria Luisa Spaziani, anch’essa sua ispiratrice che conduce Montale a vivere nel limbo di ciò che è a-sessuato, nella paura del vissuto. L’amore platonico che contraddistingue il rapporto del poeta con Laura Papi connota la stagione di buio di un individuo, che afferma l’autore, non si innesta nel vivere. Si dipingono così la ricerca dell’eros nell’eterno femminino e l’impossibilità di sublimarlo.             

Di eros si occupa anche LINA ISARDI, partendo dalle origini della sessuologia, con i suoi autori, fino alla storia più recente in cui la salute sessuale è vista come un’integrazione di aspetti somatici, intellettivi, motivazionali e sociali. Il formarsi dell’”identità sessuale”, costrutto multidimensionale composto dal sesso biologico, dall’identità di genere, dal ruolo di genere e dall’orientamento sessuale è un processo nel quale il sesso biologico, i valori culturali e quelli personali annessi alla sessualità influenzano la percezione di sé e i comportamenti del bambino, che come individuo prende coscienza della propria identità sessuale tra i diciotto mesi e i tre anni. L’autrice evidenzia la sessualità come elemento fondamentale della vita i cui disturbi coinvolgono tre aspetti: l’atto sessuale, l’identità che ci riconosciamo, le nostre fantasie sessuali e il viverla in modo soddisfacente è essenziale per mantenere una buona salute mentale. I disturbi sessuali sono fonte di sofferenza, ma esiste la possibilità di curarli. L’autrice presenta un caso clinico che partendo da un presunto conflitto d’identità risulta essere, dopo il trattamento, ansia da prestazione e si risolve positivamente.

La tesi centrale di ANNA MARIA LOIACONO tende a sottrarre il concetto di personalità “come se” alla psicopatologia, nell’ambito della quale H. Deutsch lo sviluppa, portandolo nell’ambito della normalità e sulla scia concettualmente di Paul Roazen, arriva nel cuore del lavoro analitico. Ivi scorge analisti esperti spesso portatori di valori conformisti e si domanda: “In che misura il conformismo psicoanalitico è “il come sé” collettivo del nostro mestiere?” Non possedendo una risposta, sulle orme di Fromm, dichiara che pur non sapendo cosa fare ha molte certezze su quello che la nostra storia ci ha insegnato a non fare, per non riprodurre storie senza memoria.

VOLFANGO LUSETTI esamina l’uomo e l’utilizzo di tre forze fondamentali: la nutrizione-predazione, la socialità- comunicazione e infine la riproduzione di tipo sessuato. La predazione è neutralizzata dapprima dalla sessualità e poi dalla socialità e sembra svolgere un ruolo di motore sociale. Tre aspetti sono individuati circa le radici biologiche della violenza umana: il primo tema riguarda il conflitto morale e insanabile, che sembra intercorrere tra le generazioni e in particolare tra padri e figli. Un secondo tema sulla radice della violenza è quello inerente alla natura degli strumenti antipredatori (la sessualità perenne e i codici simbolici di base). Il terzo tema ha per oggetto il fallimento degli strumenti antipredatori che come un campanello d’allarme, afferma l’autore, richiama l’attenzione all’albero della vita da cui proveniamo, cioè alle radici del male cannibalico-predatorio che ci tormenta perché proprio esso è ciò che ha formato la nostra vita.

L’analisi della costruzione della realtà, a partire da William James, per proseguire con C.H. Cooley, G.H. Mead, fino a Fromm è analizzata da CATERINA MARTELLI E LORENZA TOSARELLI, sottolineando in quest’ultimo la convergenza tra il sociale e lo psicologico, descrivendone le interazioni che sono alla base della costruzione della personalità. Passando da Matte Blanco e il suo inconscio strutturale, fino all’inconscio implicito, agente attivo nella formazione dell’Identità, si delinea la presenza di strutture inconsce nella nostra mente non conciliabili, ma responsabili della vita emotiva. La psicoterapia, affermano le autrici, è in grado di modificare il substrato neurobiologico e attraverso interrogativi, quale la modalità di contattare l’inconscio implicito e il ruolo del Corpo nel processo di cura, cercano nella modalità terapeutica l’essenza della conoscenza implicita, dirigendo la loro attenzione sull’Expression Primitive, che propone una semplicità espressiva in relazione con l’altro. Si apre in tal modo uno spazio vitale dell’Identità, non bloccato dall’angoscia e dai sentimenti di disregolazione, che consente una maggiore espressione di Sé.

GIOVANNA NICASO, esamina la problematica concernente, i pazienti affetti da DP e in particolare evidenzia la prevalenza di DBP nelle persone giovani e la dis-regolazione emotiva che produrrebbe le difficoltà manifestate nel funzionamento interpersonale e nello sviluppo di uno stabile senso di sé. In quest’ambito di osservazione clinica riporta l’esperienza di ricerca-azione nell’ambito dell’ASL di Grosseto, che ha proposto la realizzazione di un gruppo di supervisione sistematica dei casi clinici in trattamento esaminando venticinque casi di DBP, di cui tre casi sono stati dei drop-out, tre casi hanno avuto un esito negativo, non ci sono stati casi di suicidio. In conclusione i 4/5 dei risultati del campione non sono ritenuti disprezzabile  e ciò apre le porte alla speranza di poter realizzare l’estensione del modello ad altri  soggetti in trattamento.

Con un taglio decisamente spirituale IRENE NOTARBARTOLO, richiama l’esigenza di approfondire una nuova dimensione nelle relazioni interpersonali vissute dall’uomo nel formarsi dell’identità. Considera la dimensione spirituale altrettanto sostanziale rispetto ad altre quali quelle corporee, fisiche e mentali, rilevando come la psiconeuroendocrinologia (PNEI), abbia recentemente rivolto a tale dimensione la sua attenzione e nel parallelismo con il network evidenzi nel sistema uomo la possibilità di azione terapeutica tramite tecniche spirituali.  L’autrice integra il pensiero di Fromm indicando come più proficuo un modello di uomo in quattro dimensioni (corporea, psichica, intellettiva e infine spirituale), attraverso di esso sarebbe infatti possibile una migliore comprensione delle relazioni, che spesso frenata da interpretazioni riduttive attua una vera e propria “fuga dalla libertà” del pensiero contemporaneo.

GIUSEPPE ROMBOLA’ CORSINI e ALESSIO BARABUFFI pongono l’accento sula necessità che lo psicologo dello sport non debba necessariamente essere uno psicoanalista, bensì un esperto in psicologia dinamica. Attraverso l’analisi della domanda, gli autori evidenziano la richiesta iniziale di un intervento focale dettato dall’esigenza dello sportivo di ottenere una produttività immediata, che talvolta muta in richiesta d’intervento analitico, tramite cui emerge il formarsi della pratica dello sport come forma privilegiata del manifestarsi del mondo interno. Queste osservazioni sono utilizzate al fine di ricostruire la storia e l’elaborazione dell’agire sportivo collettivo, rintracciando in esso l’elaborazione del conflitto psichico a partire dalle origini mitico-rituali e sacro-sacrificali. L’evoluzione di questo passaggio è tracciata dall’esperienza traumatica originaria sublimata nello sport, in cui gli oggetti-meta delle pulsioni aggressive, sono sostituiti con oggetti-meta socialmente accettati e di conseguenza conducendo all’elaborazione del trauma. Mentre l’aggressivo cerca la vendetta rispetto al proprio passato insoddisfacente, il combattente lotta per il futuro e il vero sportivo allontana l’aggressività volendo essere un combattente. Percorrendo un lungo tragitto, l’atleta neutralizza, tramite le regole, gli impulsi aggressivi e giunge attraverso un processo dinamico a una sublimazione che si plasma nell’interazione con l’ambiente. Si esalta l’importanza dello sport per l’elaborazione del conflitto psichico mettendo in luce il valore delle conoscenze di psicologia dinamica per chi opera all’interno di questo contesto.    

Il caso clinico presentato da DANIELA ROSSETTI esamina il percorso compiuto da una donna, che dopo aver perso, la madre attraversa una fase di congelamento e di coartazione affettiva. Lo scongelamento che nel processo terapeutico avviene, consente la ripresa di un cammino alla ricerca della propria identità personale. Partendo dalla premessa che non è possibile in  alcun  modo cambiare il nostro passato, l’autrice ci indica la strada compiuta per un cambiamento di noi stessi, per “riparare i guasti” e riacquisire la nostra integrità perduta. Con lo sguardo che conduce alla conoscenza ravvicinata del nostro passato memorizzato nel nostro corpo, avviene l’accostamento alla coscienza. Al fine di avviare la trasformazione che muta le vittime inconsapevoli in individui responsabili e la conoscenza della propria storia guida alla convivenza con essa.

L’importanza del nesso tra emozione e memoria è evidenziata da MARIA PIA VIGGIANO, TESSA MARZI e STEFANIA RIGHI. Attraverso una migliore comprensione dei fenomeni che legano le emozioni ai processi di codifica della memoria, le autrici evidenziano la possibilità di una miglior comprensione di disturbi quali l’ansia, la depressione, e il disturbo post traumatico da stress, in cui un’eccessiva sensibilità dell’amigdala crea uno squilibrio nella regolazione  delle emozioni. Il lavoro approfondisce la definizione a livello temporale dei processi sottostanti al riconoscimento di un volto che durate la fase di codifica della memoria, manifesta una determinata emozione. L’interazione tra emozione, percezione e memoria è sottolineata al fine di porre in risalto quando le emozioni rese manifeste dalle espressioni hanno un ruolo chiave nei processi cognitivi, per giungere alla comprensione dell’esatto decorso del processo temporale utilizzato dai processi di codifica delle emozioni e alle implicazioni nell’ambito della sfera emozionale affettiva. L’utilizzo della tecnica degli ERP pone in risalto in che misura il processo di memoria possa essere influenzato dall’emotività espressa dal volto ed esamina come la particolare espressione emotiva influenza i processi di recupero, a partire dagli stati più precoci dell’elaborazione, nella ricerca che alcuni stimoli hanno nell’adattamento all’ambiente. I volti che esprimono paura elicitano risposte elettrofisiologiche più ampie e più rapide. Il significato funzionale di questa differenza potrebbe essere rintracciato, secondo le autrici, nel fatto che una situazione di pericolo richiede una risposta più immediata.

Come afferma Irene Battaglini: ”La posizione centrale del Sé in tutta la psicologia trova in questo volume lo spazio per un respiro ampio che intende sfiorare il tempo di un Umanesimo mai estinto”.

Maria Assunta Parsani

AA.VV. Psicodinamica   del  Sé nelle  relazioni  interpersonali

Ricerca, patologia, intervento

Atti del XVI Congresso mondiale di Psichiatria Dinamica (Monaco di Baviera, 21-25 marzo 2011)

A cura di Irene Battaglini, Aracne, Roma 2012.