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Il mito di Facebook. Rapporti tra psicologia, dipendenza e tecnologia

XVII Congresso Mondiale di Psichiatria Dinamica, San Pietroburgo 2014

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Professor Ezio Benelli (Florence, 1947) is Chairman of the Italian Branch for the 17th World Congress of the World Association for Dynamic Psychiatry WADP – XXXth International Symposium of the German Academy for Psychoanalysis (DAP) eV; degree in psychology at the University of Padua and then in Florence who specialized in psychotherapy at the Institute of Psychotherapy HS Sullivan, is actually Psychoanalyst in neo-Freudian, interpersonal and humanistic paradigm. He is currently Director of the School of Psychotherapy Erich Fromm di Prato (recognized by the Italian Ministry of University and Research), for which he is supervisor training analyst; and Professor of Clinical Psychology and Psychoanalysis Theory and Techniques of individual and group. He is President of the International Erich Fromm Foundation, scientific and cultural institution based in Palazzo Vecchio in Florence, and director of the editorial series “L’Immaginale”, for publishing Aracne, Rome. Judge at the Court of Florence for children, and vice president of the Order of Psychologists of Tuscany Region, has now been re-elected councilor of the Order of Psychologists of Tuscany, and regional contact for the Penitentiary Psychology and Criminology. Ezio Benelli is also coordinator of the Center for Mediation and Family Resources at the Polo Psicodinamiche- Training Agency accredited by the Region of Tuscany, site in Prato.

Italian Branch
Chairman Doctor Ezio Benelli, International Foundation Erich Fromm, Florence

Abstract

The article deals the issue of new dependencies: in particular those from Internet and social networks. Having distinguished between “dependent” (dependence from substances) and “addicted” (psychological dependence), the article refers to some neuroscience researches that confirm the empirical data. Then, it is stated how psychodrama, as it is practiced at the Pole Psychodynamics of Prato in Italy, can be an effective and powerful tool also for the treatment of new dependencies and reasons of it are explained. At last, after providing a brief history about the birth of psychodrama and its inventor, J.L. Moreno, the article describes building blocks, basic steps and different ways of interaction of psychodramatic practice.

Summary

The article, first, distinguishes between the concepts and terms of English language “dependent” and “addicted”: in the first case it is an addiction to substances such as alcohol, drugs or tobacco; in the second, addiction is psychological and the subject depends on behaviors, practices and situations, it is the case of the dependence on new technologies and on Internet. Erich Fromm, in his book Escape from freedom, he highlighted how the human beings become slaves to addictions because they can not accept the emptiness, that feeling of “not being”, which lead them to give up the freedom and to isolate more and more from society. Fromm had somehow foreseen practices and effects of new dependencies, those from excessive exposure to Internet and to social networks. And then in the article it is stated that Psychodrama analytical, as is practiced at the Polo Psychodynamic of Prato in Italy, may represent an innovative approach in the treatment of addictions from new technologies. For its being a cure through the action, the dramatic action (and not just through words), for being a group therapy and for being very close to the patient’s daily life, psychodrama, more than others care systems, can achieve stable and lasting outcomes. Subsequently, the article recounts the experience, made in person by the writer in the summer 2013 at the Hotel Byron in Forte dei Marmi (Lucca) in Italy, that is the use of psychodrama in the treatment of psychological dependency. Empirical data and conclusions of this experience are similar to those which have come neuroscientific studies on new dependencies. And in the article are cited two of these studies: that one of Diana Tamir and Jason Mitchell of Harvard University and that one of Dar Meshi at the Freie Institut of Berlin. Then the discourse moves on to analyzing from a historical point of view the birth of psychodrama: its being rooted in some phenomena of the history of theatre and the human and cultural formation of its inventor, Jakob Levi Moreno, an eclectic and complex figure, which has been able to put together and summarized ideas, suggestions, contributions coming from different fields. Then briefly it is mentioned some reworkings of psychodrama practice occurred in the twentieth century and it is underlined that psychodrama has assumed over time not only a therapeutic value, but also educational and social. Finally, it is described basic components of psychodramatic practice: the four key characters (therapist, patient or protagonist, auxiliary-ego, group), the three different steps in which is subdivided the dynamics (warm-up, scene or action, return) and main modalities of interaction (the double, the mirror and the role reversal).

leggi in pdf The Myth of Facebook. Relationship between Psychology, Addiction and Technology

Non sarò io a vincere ma il discorso di cui sono servo.
J. LACAN

Per gli inglesi il termine dipendenza si traduce in due modi. Nel primo: “Dependent”, il soggetto è fisiologicamente dipendente, come avviene per sostanze quali alcool, droga, tabacco; nel secondo: “Addicted”, la dipendenza è psicologica.
Addicted viene dal latino addictio, addicere che vuol dire “rendere schiavo a causa di un debito”.
Quale debito devono pagare i nuovi “dipendenti“? O meglio: quale condizione di inferiorità li porta ad essere dipendenti?
I debiti, va da sé, hanno da sempre condizionato l’essere umano a vivere una condizione d’inferiorità rispetto al proprio debitore, il quale può essere, di volta in volta, rappresentato da una persona, un oggetto, un ideale di comportamento ecc.
Secondo Erich Fromm, il vero problema della società moderna è la mancanza di autonomia: l’uomo dipende patologicamente da un’entità considerata superiore, che lo condiziona ad essere uno schiavo; è un essere mancante che, non potendo accettare la condizione di “assenza” e condividerla con gli altri, ricerca disperatamente qualcosa che possa compensare il proprio vuoto.
Fromm è morto negli anni ’80, quando le nuove dipendenze iniziavano ad essere visibili solo negli USA, ma in questi ultimi anni il fenomeno si è diffuso rapidamente in tutte le nazioni, influenzando velocemente ogni strato sociale, dai giovani agli anziani, dai ricchi ai più poveri.
Nel suo libro Fuga dalla libertà, Fromm evidenziava come il fuggire da se stessi e dagli altri, sentirsi completamente isolati e solitari, porta alla disgregazione mentale.

La questione del “non essere”, del non sentire di avere un’identità, quindi, sfocia e si risolve nell’evasione, nella fuga dalla realtà.
Pensiamo all’isolamento dei dipendenti da internet e dai social network, pensiamo agli acquisti solitari dei compulsive buyer, al giocatore d’azzardo che incatena lo sguardo solo sul risultato del suo gioco.
Questo è quello che appare, ma se approfondiamo il “dipendere da chi e da cosa”, la realtà cambia.
Le new addictions portano le persone ad essere dipendenti da esperienze e situazioni che possono in qualche modo modificare l’umore e le sensazioni; quelle stesse esperienze e situazioni sono costantemente create e favorite dalla nostra società, in quanto sottostanno alle leggi economiche del guadagno ma, rispetto alle dipendenze da sostanze, possiedono, paradossalmente, una caratteristica: rispondono illusoriamente al bisogno profondo di essere parte di… considerati da…
Quando il dipendente accetta di curarsi, accetta anche di riconoscere l’impossibilità di essere ciò che Lacan chiamava “essere il desiderio dell’altro”1, accetta l’angoscia della sua condizione infantile e subordinata, sperimenta il buio, privo di false certezze, di chi non riceve l’approvazione necessaria per sentirsi “necessario”.
Lo Psicodramma Analitico, svolto abitualmente al Polo Psicodinamiche di Prato e praticato anche durante l’estate 2013 presso l’Hotel Byron di Forte dei Marmi, è stato da noi sperimentato anche nelle dipendenze psicologiche, offrendo un innovativo approccio per le new addictions.
Ma che cosa è lo psicodramma? E perché proprio lo psicodramma per la cura delle dipendenze da Internet?
La parola “psicodramma”, formata dal greco antico psiche, cioè anima, e drama, a sua volta proveniente dal verbo drao, draomai che vuol dire agire e rappresentare sulla scena, significa dunque “l’azione della psiche”, o se volete “il teatro della psiche”.
Si può dire che se la psicanalisi di Freud fu definita “la cura attraverso la parola”, lo psicodramma può essere definito come “la cura attraverso l’azione”, l’azione scenica e teatrale.
E con questo ho già dato una definizione di massima dello psicodramma: si tratta essenzialmente di un metodo di cura, una tecnica terapeutica, un sistema per curare i disturbi e i disagi psicologici ed emotivi. Tuttavia lo psicodramma può avere valenze ed utilità non solo terapeutiche, ma anche educative, formative, istruttive, sociali ecc.
Per rimanere nel nostro ambito, lo psicodramma è dunque un metodo di cura che si serve essenzialmente del Teatro per raggiungere i suoi scopi, cioè consiste nella messa in scena diretta, nella rappresentazione, per così dire, “dal vivo” dei conflitti e dei problemi psichici del paziente, al fine di fargli prendere consapevolezza di essi e il più possibile liberarlo dai loro effetti negativi. Nello psicodramma non si parla dei problemi del paziente, ma si agiscono quei problemi, si rappresentano, si dà vita sulla scena all’interiorità del paziente, si conferisce spazio, tempo, corpo, parola e suono reali e materiali a ciò che altrimenti rimarrebbe confinato e rinchiuso dentro la psiche del paziente. In breve: con lo psicodramma si cerca di dare il massimo di oggettività alla soggettività. Il paziente tira fuori da se stesso i suoi vissuti e, con l’aiuto del Terapeuta e del Gruppo, li mette sul palcoscenico e così li rende oggetti, cioè qualcosa fuori da sé, li pone a distanza da se stesso, cominciando quel lavoro di presa di coscienza che è l’inizio di una liberazione.
Altra caratteristica importante: lo psicodramma è una tecnica terapeutica di gruppo. Ed è già molto significativo, a mio avviso, che per combattere l’Io solitario, isolato, solipsistico, disperso, decostruito e frammentato di coloro che sono dipendenti da internet, possa essere utile quella tecnica terapeutica che è una delle più “sociali” che esista, lo psicodramma, appunto. Sociale come lo era e lo è ancora a volte il Teatro. Sociale perché lo psicodramma è possibile solo se esiste un gruppo, una comunità di persone che fa da testimone, da contenitore e da contenuto alla scena psicodrammatica.
A questo punto occorre una precisazione: il teatro che vediamo nello psicodramma non è quello che nella maggior parte dei casi vediamo sui palcoscenici dei teatri: è teatro d’improvvisazione, o se volete il teatro della spontaneità, un teatro, cioè, creato e inventato lì per lì, all’impronta. Nello psicodramma non ci sono copioni scritti da memorizzare e recitare, ma tutto succede momento per momento e tutto può cambiare da un momento all’altro: nello psicodramma si lavora su quello che emerge via via, attimo dopo attimo.
Come è noto, lo psicodramma, nella sua prima forma, è stato messo a punto da Jacob Levi Moreno, medico, psichiatra, sociologo, filosofo, studioso di matematica… una straordinaria figura che ha messo in relazione, con la sua concreta ricerca, discipline e idee diverse e lontane fra loro. Rumeno di nascita, ma proveniente da una famiglia di origine ebraica, Moreno si formò in gioventù nella Vienna di inizio Novecento, una realtà multietnica e multilinguistica, un ambito culturale e artistico vivo e vitalissimo che, si può dire, è alla base della nostra cultura contemporanea. Moreno conobbe Freud, Adler e Schnitzler. Studiò Bergson, Rousseau, Pestalozzi, Nietzsche, Kierkegaard e Marx. E in quegli anni inventò “Il Teatro della Spontaneità” e “Il Giornale Vivente”, forme di teatro di improvvisazione, in cui gli stessi spettatori venivano chiamati a partecipare alla messinscena come personaggi.
Uno dei meriti di Moreno fu anche quello di raccogliere e fare sintesi di una serie di elementi tratti dalla tradizione teatrale, per costruire la sua grande invenzione. Se si guarda, infatti, alla storia del teatro occidentale, molti sono gli elementi che hanno favorito la nascita dello psicodramma. Accenno molto brevemente qui di seguito ad alcuni:

• il concetto di catarsi, cioè l’effetto che, secondo i greci antichi e Aristotele, doveva avere la rappresentazione teatrale sugli spettatori. Catarsi vuol dire purificazione, vale a dire in sostanza la liberazione dalle passioni e dalle emozioni negative;

• il cosiddetto Teatro nel Teatro (chiamato anche Metateatro), cioè quell’artificio drammaturgico che si afferma nel teatro del Rinascimento e che consiste nel dare vita a una rappresentazione teatrale dentro un’altra rappresentazione teatrale. Così, in questa modalità, i personaggi di una commedia o di una tragedia si trovano a essere a loro volta spettatori di un’altra e diversa rappresentazione, e quindi si trovano ad identificarsi più o meno con la rappresentazione a cui assistono, un po’ come succede, appunto, al gruppo nello psicodramma. Un genere di teatro, quello del teatro nel teatro, che ha avuto molta fortuna nel corso dei secolo: pensiamo all’Amleto di Shakespeare fino ai Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello…
• la Commedia dell’Arte, con il suo essere un genere di teatro di improvvisazione, costruito su una struttura di ruoli fissi (le Maschere), può essere considerata un illustre precedente dello psicodramma;
• lo stesso sistema stanislavskijano per la recitazione, perché no? con il suo fare appello alla introspezione psicologica, alla reviviscenza delle emozioni, all’autenticità dell’arte dell’attore, può essere considerato un elemento che ha favorito la nascita dello psicodramma.

Alla metà degli anni Venti Moreno emigra negli Stati Uniti ed è là che mette a punto la sua grande intuizione: la fa diventare una tecnica tearapeutica, una scuola, un apparato teorico, una modalità di ricerca sociale, un metodo formativo ed educativo.
Nel corso del Ventesimo Secolo la tecnica psicodrammatica ha incontrato altri orientamenti e approcci teorico-pratici, dando vita a tanti e diversi modi di praticare e utilizzare l’invenzione moreniana. Particolarmente fecondo è stato l’incontro con la psicoanalisi, e soprattutto con la psicoanalisi neofreudiana che discende da Erich Fromm…

A questo punto una domanda è rimasta sullo sfondo: perché proprio lo psicodramma? Ci sono molte buone ragioni. Per non dilungarmi troppo, mi limito ad indicarne tre:

a) Perché lo psicodramma è un metodo esperienziale, che si basa, cioè, sull’esperienza, sull’azione agita e vissuta. Nello psicodramma l’insight, l’apprendimento, il progresso terapeutico possono avvenire solo se si è agito e rappresentato le dinamiche, i conflitti e i problemi del paziente. Ed è ormai risaputo che l’apprendimento e la consapevolezza attraverso il “fare” sono più durevoli e stabili di quelli attraverso semplicemente il “dire”.

b) Perché lo psicodramma è la tecnica terapeutica che più si avvicina alla cosiddetta vita reale; lo psicodramma è straordinariamente prossimo e affine alle situazioni, alle relazioni, alle dinamiche del paziente nella sua vita di ogni giorno. E quindi più facilmente e direttamente può incidere su di esse.

c) Lo psicodramma è “specchio di vita” non solo per il singolo paziente che mette in scena le sue dinamiche emotive, ma anche per tutto il gruppo partecipante, che può identificarsi in parte o del tutto con le dinamiche del singolo paziente. Il gruppo può mettere in comune esperienze, ricordi, racconti, emozioni che abbiano a che fare con quanto vissuto dal singolo paziente. O per meglio dire: il gruppo entra in risonanza emotiva con il singolo e il singolo, a sua volta, con il gruppo.

Ma torniamo al racconto di quanto abbiamo fatto nell’estate del 2013 all’Hotel Byron di Forte dei Marmi…

I partecipanti venivano sottoposti ad un test di entrata, composto dalle seguenti domande:

1. Vi ritrovate su Facebook più a lungo e più spesso di quanto previsto?
2. Avete rinunciato o ridotto il vostro coinvolgimento in attività sociali, lavorative o ricreative a causa di Facebook?
3. Avete trascurato la famiglia?

4. Avete fatto uno sforzo cosciente, ma senza successo per ridurre l’uso di Facebook?

Attraverso il test volevamo indagare su questa nuova dipendenza, non più su chi usa sostanze quali alcool, eroina o cocaina. Ciò ha creato non pochi problemi sull’efficacia dei criteri diagnostici abitualmente usati per chi fa uso di sostanze: tali criteri, infatti, sono risultati difficilmente adattabili alla dipendenza da un sito di social media.
Interessante fu vedere la trasformazione dell’ “affect facial expression” dei partecipanti quando spiegavano e raccontavano di quanto la funzione “mi piace” sui post pubblicati poteva renderli irritati e ansiosi, se non otteneva il successo auspicato, oppure appagati e soddisfatti se i post ottenevano consensi. Abbiamo notato nei soggetti che partecipavano al gruppo di studio un aumento dell’ansia al pensiero di non poter attuare il web feed.
Abbiamo notato, invece, piacere e gratificazione nei partecipanti al pensiero di parlare di se stessi, di pubblicare proprie foto e nel comunicare i propri pensieri. La nostra indagine empirica ha confermato alcuni studi fatti da ricercatori che hanno utilizzato metodi neuroscientifici.

Diana Tamir e Jason Mitchell ad Harvard,2 hanno sottoposto ad un esperimento di neuroscienze alcuni abituali utilizzatori di Facebook. In una pagina programmata hanno proposto loro tre opzioni: (1) parlare delle proprie opinioni e atteggiamenti; (2) giudicare l’atteggiamento di un’altra persona; (3) rispondere a domande frivole. Durante l’esperimento hanno misurato l’attività cerebrale dei partecipanti. Ogni scelta è stata associata ad un payoff monetario; ciò ha permesso agli scienziati di testare se gli individui sono stati sostanzialmente disposti a dare i soldi per parlare di sé.
In media, i partecipanti hanno perso una media del 17% dei potenziali guadagni per parlare di se stessi! Perché qualcuno dovrebbe rinunciare a dei soldi per fare questo? Ciò non è dissimile dal comportamento di quelle persone che rinunciano alle proprie responsabilità lavorative e familiari, a causa della dipendenza da droga e da gioco. Durante la self-disclosure, questi partecipanti hanno attivato il nucleo accumbens. Il nucleo accumbens è integrato nelle vie del sistema limbico e riceve afferenze dalla corteccia prefrontale e dai neuroni dopamminergici dell’area tegmentale ventrale (regione mediobasale del mesencefalo). Svolge un ruolo di rilievo nei circuiti di rinforzo, legati all’assunzione di sostanze d’abuso, che provocano un aumento della concentrazione di dopammina nella parte esterna del nucleo accumbens; quest’area è coinvolta anche nell’effetto e nella percezione gustativa.
In un secondo studio fatto da Dar Meshi e colleghi presso l’Istituto Freie di Berlino3 si è misurato l’attività cerebrale dei volontari mentre hanno ricevuto molti feedback positivi. La ricerca, simile allo studio di Harvard, ha anche rilevato che in alcuni individui il nucleo accumbens è diventato più attivo quando hanno ricevuto feedback gratificanti. I ricercatori inoltre hanno fatto compilare ai partecipanti un questionario che ha determinato un punteggio “Facebook intensità”, che includeva il numero di amici di Facebook e la quantità di tempo al giorno che si passa su Facebook. (Il punteggio max in questo caso era > 3 ore per giorno). Quando il tempo passato su FB era correlato con un attività piacevole e gratificante, il nucleo accumbens era intensamente più attivo. Da ciò si deduce che le due variabili, tempo passato su FB e attività gratificante, rende il nucleo accumbens intensamente più attivo.

Tutto questo dal punto di vista delle neuroscienze. Ma se riprendiamo il tema del “dipendere da chi e da che cosa”, scopriamo qualcosa di più…
Nessun dipendente da sostanze ritiene che soddisfacendo le proprie necessità sarà più integrato nella società, mentre il “nuovo dipendente”, quando eccede nel comprare, nel lavorare, nel comunicare sul web, etc., pur con un senso di disagio e di colpa per il suo comportamento, spera che “l’altro” possa riconoscerlo proprio nel suo essere come “l’altro”, anche se questo può avvenire attraverso azioni solitarie e compulsioni nascoste. Spera di essere visto diversamente da come lui stesso si vede, spera infine di essere considerato per quello che vorrebbe essere e non per quello che realmente è.
La risposta può arrivare dal computer, dagli oggetti acquistati ed ammirati dal contesto sociale, oppure dalla falsa certezza di vincere ed essere ammirati.
La differenza tra le vecchie e le nuove dipendenze, dunque, si esprime attraverso due poli: l’individuale ed il sociale. L’assunzione di sostanze deve arrecare benessere alla persona, meglio se nessuno vede; le new addictions sottendono alla realizzazione di quel sogno che ci accompagna fin dalla nascita, il già citato lacaniano “essere il desiderio dell’altro”.
Nel gioco psicodrammatico la visione diventa l’elemento fondamentale: il soggetto parlante, cioè il partecipante che esprime se stesso, guarda e viene guardato in una dimensione di verità e di riconoscimento. Il nuovo dipendente, così desideroso di una conferma sociale, si rende conto del suo “non sé”, cioè del non poter diventare qualcosa per qualcuno, attraverso comportamenti distruttivi ed alienanti.
Il gruppo diventa così il contesto nel quale è possibile analizzare le relazioni e le loro implicazioni, le dinamiche e le conseguenti reazioni.
In Francia, Kaes e Anzieu, riprendendo alcuni concetti espressi da K. Lewin e sviluppando le teorie espresse precedentemente dagli altri studiosi che si erano serviti di loro come supporto pedagogico, svolsero un accurato lavoro analitico e proseguirono l’opera di cambiamento della psicoterapia di gruppo. Essi si concentrarono sugli atteggiamenti interni più profondi, sulle istanze inconsce.

Quanto sopra descritto consente di comprendere meglio la funzione che lo psicodramma analitico esercita sui partecipanti. Lo psicodramma contiene in sé due funzioni: una sociopedagogica e l’altra analitica.
Le ragioni che promuovono questa duplicità vengono evidenziate nella collocazione spaziale e nella azione che si svolge nel setting dello psicodramma.
La tecnica utilizzata nello psicodramma è quella di Moreno, pertanto l’azione o il gioco acquistano un valore significativo all’interno della seduta analitica.
Il gioco “diretto”, ossia immediato e guidato dal terapeuta, mette in luce le pulsioni individuali del “qui e ora”, riferite a un contesto e ad una situazione già vissuta nel “là ed allora”.
Lo psicodramma diventa, quindi, il gioco del disvelamento, dove ogni partecipante si riconosce come soggetto non più nascosto, ed il gruppo, inteso come entità altra, rivela continuamente l’inganno di ognuno.
Sempre nello psicodramma avviene la messa in gioco di un accadimento o di una situazione concreta che il soggetto evidenzia durante la seduta.
Per comprendere cosa e come avviene nello psicodramma, conviene ricordare le componenti, la struttura e le modalità fondamentali della tecnica psicodrammatica. Innanzitutto quattro sono i personaggi fondamentali:

Il Direttore o Regista o Psicodrammatista o più semplicemente Terapeuta: cioè colui che conduce il gioco psicodrammatico, colui che consente ai materiali e ai vissuti emotivi dei componenti del gruppo di uscire fuori, colui che cura la messa in scena di quei contenuti emotivi e delle situazioni concrete a essi legati.

Il Paziente o Protagonista: la persona che in un determinato momento è al centro della scena psicodrammatica, la persona che racconta e descrive conflitti e problemi emotivi e di cui si mette in scena una situazione, un evento o un ricordo che è la rappresentazione concreta di quei contenuti emotivi.

L’Io ausiliario: possono essere anche più di uno e sono quei componenti del gruppo chiamati a incarnare sulla scena psicodrammatica i personaggi fondamentali della scena del Protagonista: possono impersonare di volta in volta genitori, mogli, mariti, amanti, figli, colleghi e datori di lavoro, personaggi immaginari ecc.

Il Gruppo: il resto del gruppo che assiste allo psicodramma. Ha le funzioni di testimonianza, accoglienza e sostegno delle emozioni del Protagonista; può identificarsi più o meno con la scena del Protagonista e al finale può condividere le proprie esperienze con quelle del Protagonista.

Lo psicodramma si articola e si svolge in 3 fasi successive:

Riscaldamento: in essa dapprima il Protagonista racconta e descrive liberamente il suo vissuto emotivo, poi, con l’aiuto del Terapeuta e del Gruppo individua un tema, particolarmente importante per il Protagonista, e una situazione concreta legata al tema, che sarà poi oggetto della Scena.

Scena o Azione: consiste nella rappresentazione della situazione concreta precedentemente scelta. E’ interpretata dal Protagonista nel ruolo di se stesso e dai diversi Io Ausiliari che incarnano gli altri personaggi fondamentali della scena.

Discussione o Dibattito o Restituzione: è la fase in cui si interpreta ciò che è venuto fuori in precedenza, è la fase in cui il Gruppo esprime quanto e come è stato coinvolto nella scena del Protagonista, attraverso il racconto di pensieri, emozioni, ricordi, sogni, eventi legati più o meno a quella stessa Scena.

E infine nel corso dello psicodramma possono essere utilizzate le seguenti tre modalità di azione o interazione:

Il Doppio: è quella modalità che consente a un qualunque componente del Gruppo, anche un Io Ausiliario, di dar voce e corpo a emozioni e sentimenti che il Protagonista immagina e prova e che però non riesce ad esprimere. Ha dunque una funzione di chiarificazione e di sostegno.

Lo Specchio: è quella modalità per cui, nel caso il Protagonista abbia difficoltà ad autopresentarsi, un Io Ausiliario può “imitare” lo stesso Protagonista. Egli dunque può vedersi riflesso, come in uno specchio, come gli altri lo vedono.

L’Inversione di ruolo: si può attuare quando il Protagonista è profondamente implicato in una relazione duale. Allora il Protagonista assume il ruolo, la funzione e il posto dell’Altro, si mette “nei panni dell’altro”, calandosi in una nuova realtà e scoprendo emozioni, sentimenti e punti di vista del soggetto con cui è in conflitto e in relazione.

È quasi inutile aggiungere che il tutto avviene in un clima di grande partecipazione emotiva…

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1 J. LACAN: «Il desiderio è sempre il desiderio dell’altro». In Il seminario, vol. I, in Gli scritti tecnici di Freud (1953-1954), traduzione di Giacomo Contri, Einaudi 1978).

2 D. TAMIR and J.P. MITCHELL, Disclosing information about the self is intrinsically rewarding. Department of Psychology, Harvard University, Cambridge, MA, 2012. http://www.pnas.org/content/109/21/8038.full.pdf

3 D. MESHI, C. MORAWETZ, and H. HEEKEREN: Nucleus accumbens response to gains in reputation for the self relative to gains for others predicts social media use, in: Frontiers in Human Neurosience, DOI: 10.3389/fnhum.2013.00439.

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Ezio Benelli, 2014 ezio.benelli@gmail.com

I contenuti di questo articolo sono parte integrante e sono pubblicati in versione tradotta sul Dynamic Psychiatry Intl. Journal, Pinel Verlag Human Psychiatrie, Berlin.
Per gentile concessione della Prof.ssa Maria Ammon, Dap, Berlino, sono stati pubblicati on line in:
Frontiera di Pagine, Prato www.polimniaprofessioni.com/rivista/ e Psicoanalisi Neofreudiana, Prato www.ifefromm.it/rivista.php

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Psicodinamica del Sé nelle relazioni interpersonali Ricerca, patologia, intervento, a cura di Irene Battaglini

Recensione di Maria Assunta Parsani

9788854851979

In questo volume sono raccolti i contributi, tratti dalle relazioni degli italiani che hanno partecipato al 16° Congresso Internazionale della World Association for Dynamic Psychiatry, congiuntamente al 19° Simposio Internazionale della Deutschen Akademie fur Psychoanalyse presso l’Ospedale psichiatrico della Ludwig-Maximilians-Universitat a Monaco dal 21 al 25 marzo 2011. 

Ne è scaturita una linea di pensiero frutto di orientamenti terapeutici e teorici diversi quali quello psicoanalitico e cognitivo, psicofisiologico e neuropsicologico, fino alla psicologia analitica attraverso l’espressione di un linguaggio immaginale della Firenze del ‘300, che è andata a comporre un’immagine del Sé variegata e poliedrica, ma soprattutto una espressione della formazione dell’identità individuale data dall’ ”Essere” in movimento nell’universo della psiche.

Si delinea ad apertura della raccolta, nell’intervento di ALFREDO ANANIA, la ricerca dell’identità culturale legata al Sé storico, all’inconscio collettivo contemporaneo, al senso della Polis e allo spirito loci, che rintraccia le origini del Sé individuale non solo nell’origine psico-ontogenetica, dalle sue matrici relazionali, ma anche psico-filogenetica derivante dalle matrici culturali che sono inconsciamente presenti in tutte le persone. La trasmissioni culturale delle proprie produzioni simboliche consente, attraverso l’impulso alla libera interpretazione, di trascendere la realtà materiale ed essere investita dal senso oscuro, ma universalmente significativo, che ci conduce alla ideazione di modelli di ricerca originali e all’incontro e allo studio reciproco tra diverse appartenenze culturali. L’inconscio si configura come una macchina del tempo che, ogni volta dà luogo a un qualcosa di nuovo, mai ripetitivo.

Proprio attraverso l’utilizzo della macchina del tempo IRENE BATTAGLINI ed EZIO BENELLI, tracciano le linee guida dell’esperienza del Sé attraverso il pensiero immaginale, focalizzando il tema centrale dell’ermeneutica delle immagini sulla soggettività che richiama alla centralità autonoma del Sé nel linguaggio dell’arte, in un moto dialettico con il Sé di chi fruisce. La soggettività all’interno dell’intersoggettività diviene un luogo non concluso tra due soggettività e a esse solo appartiene, come la fiamma blu – nera, descritta da Hillman, attira le cose e le consuma, mentre il biancore continua a fiammeggiare al di sopra. Da ciò scaturiscono la relazione profonda e il contatto ctonio con il mondo e il legame con il numinoso, l’opus alchemico che mira all’integrazione, per giungere alla realizzazione del Sé che si manifesta nella meta ideale del percorso ideativo. Il processo circolare di relazione che va dal tutto alle parti e viceversa, conduce a un continuo scambio tra le cose che modificano il complesso del sapere. Si traccia attraverso il pensiero di Jung, la declinazione numinosa del Sé e diviene guida sulle interrogazioni rivolte alle prime immagini che hanno ispirato Giotto di Bondone e Dante Alighieri con la codifica di linguaggi generativi di storia e di civiltà. Gli autori individuano nella ricerca, un viaggio verso gli inferi che deve prevedere sia una mappa, sia un’ipotesi di ritorno e di salvezza. La mente immaginale determina un confronto ed anche una sovrapposizione tra l’immagine originale e la risultante del lavoro immaginale, per cui ne deriva non solo la formazione di un nuovo mosaico, ma molto più probabilmente la ricostruzione di un mosaico danneggiato, che attraverso uno sguardo affinato reca alla luce frammenti dispersi e nascosti. Scaturisce da queste riflessioni il perché della Psicologia e dell’arte insieme. L’arte come strumento per una più diretta connessione con ciò che non conosciamo a livello razionale, in cui si fa spazio la domanda di come l’ermeneutica del mondo immaginale possa essere d’aiuto alla comprensione dell’opera d’arte. Gli autori, seguendo Hillman nella sua apertura al mondo immaginale, tracciano il legame con Firenze e l’Italia, la nascita della prima conferenza di Eranos, il primo commento della favola di Amore e Psiche, in cui la tensione genera una psicologia dell’arte che diventa parola dell’anima. Lo studio psicologico è l’umile tramite tra il mondo interno dell’analizzando e il mondo interno del mondo. E all’anima è assegnata la funzione di “intermedio” di tutte le cose, senza essere né corporea né visibile, essa è dominatrice dei corpi.

Ricorrendo ancora all’arte e alle sue possibilità esplicative, VITTORIO BIOTTI individua nella Trilogia di Bion un progetto teatrale che richiede un confronto sui grandi temi dell’individualità, la sua formazione, le sue dinamiche, cercando risposte nei grandi lavori del periodo classico e nel contrappunto del periodo americano. In Bion, citando F. Di Paola, si ritrova la necessità e l’anticipazione della necessità di porsi di fronte ad una nuova nascita.             

Attraverso l’analisi delle varie teorie ad approccio biologico, evoluzionistico, psicosociale, cognitivo DAVIDE DETTORE evidenzia come alla costituzione dell’identità di genere contribuiscano sia i fattori biologici, ma anche le componenti sociali, culturali e cognitive. Questi fattori insieme concorrono a strutturare un complesso di elementi schematici che sono alla base del concetto di identità di genere, non necessariamente  limitato alle categorie dicotomiche di maschio e femmina. Emerge ancora una volta prepotente il Sistema del Sé, nel modello evolutivo concettualizzato nell’ottica cognitivista di Doorn e coll. in cui i concetti di identità di genere sarebbero compresi e più validamente comprensibili. Secondo tale impostazione, il Sé può essere considerato come un sistema cognitivo di controllo composto da un sistema dominante  (“master self”) che si mantiene in relazione e in comunicazione con una serie di sottosistemi subordinati, operanti ciascuno in parallelo rispetto agli altri e quindi autonomi, indipendenti e influenzati dal sistema del Sé che a sua volta li influenza. L’espressione dell’identità di genere di un individuo sarebbe in stretta connessione con la predominanza dell’uno o dell’altro sistema, ma anche con l’intensità, con la frequenza e con le occasioni in cui l’uno o l’altro si esprime. Si costituisce una visione del Sé relazionale, multiplo e discontinuo, organizzato differentemente dalla versione del Sé dominate. Il complesso modello è paragonato dall’autore alla teoria di Liben e Bigler, evidenziando le differenze individuali strettamente connesse al “modello di vita personale” e alla storia dell’individuo, nella costituzione dello specifico dell’identità di genere che amplia lo stereotipo culturale.

Partendo dalla considerazione che la psicoterapia rappresenta un trattamento di prima scelta per i disturbi mentali gravi, inclusi i disturbi di personalità, ROBERTO DI RUBBO, ELENA SOGARO e SEFANO PALLANTI presentano un case report relativo alla Psicoterapia psicodinamica Comunicativa Evolutiva di Gruppo (PPCE-G) in cui viene illustrato il Modello Comunicativo Evolutivo, basato sulla teoria della complessità per la terapia di pazienti con disturbo mentale grave in un setting ambulatoriale. La Psicoterapia illustrata mantiene al centro dell’impostazione le libere associazioni e le dinamiche mentali inconsce, mentre i terapeuti focalizzano l’attenzione su tutti i processi connessi con l’esperienza delle difficoltà nelle relazioni e nelle patologie di personalità del paziente. Nell’analisi dell’iter terapeutico si evidenzia come il cambiamento dei sintomi sia strettamente legato ai cambiamenti del senso dell’identità personale e delle dinamiche interpersonali dell’identità, ponendo l’accento sulla funzione della struttura inconscia della “Frontiera Personale” che deriva dall’acquisizione dei principi relazionali di organizzazione più adattivi. Quest’ultima essendo inconscia cattura l’attenzione del terapeuta, il quale a sua volta si esprime attraverso un comportamento inconscio e l’approccio comunicativo evolutivo stimola il terapeuta a prestare attenzione alla narrazione dei pazienti e a rimanere nella posizione di Condizione Necessaria e non usurpare la posizione dei protagonisti. Ciò stimola la creazione di compliance. Il PPCE-G sembra fornire nel feed back interpersonale benefici sia per l’alleanza terapeutica sia per il senso d’identità personale.

MARIA FEDI sceglie, invece, di seguire il percorso degli eroi Edipo e Ulisse, nei quali s’intravede la ricerca del Sé che ci appartiene perché, afferma Freud: ” Deve esistere nel nostro intimo una voce pronta a riconoscere la forza coattiva del destino di Edipo ”e attraverso un parallelismo che conduce tramite il mito all’archetipo e alla forza dell’anima disvela, come nelle parole di Hillman la nostra psicologia del profondo in vesti antiche. Nel viaggio psicoanalitico, attraverso il metodo l’uomo si rivela, racconta la propria storia e attraverso l’incontro con l’anima e nel fare anima consente al molteplice di divenire materia psichica, di entrare nell’universo personale dove è possibile la formazione del simbolo. L’incontro con l’anima, afferma l’autrice, come avvenne per gli antichi eroi, ci guida alla scoperta di una dimensione interiore, riconoscendo la storia dei molti e dei molti nella nostra storia.

Come in un’oasi poetica che tanto si addice al fare anima, ANDREA GALGANO, traccia alcune linee del divenire nella poesia di Eugenio Montale: la morte della sorella Marianna, l’incontro con Anna degli Uberti e successivamente a Firenze Drusilla Tanzi che diverrà sua moglie. In queste figure femminili descritte nei versi del poeta, l’autore ravvisa la luminosità della memoria, il suo riflesso nel tempo. E ancora, dopo l’incontro con Irma Brandeis il divenire prigioniero del complesso di Edipo, rende il poeta “vile e contraddittorio”, mentre nei versi a lei dedicati trasluce la miracolosità dell’istante e sulle tracce del mito Ovidiano si intravede la figura di Clizia, la quale persa la speranza di poter riconquistare l’amore si trasformò in girasole. Fino a giungere all’incontro con Maria Luisa Spaziani, anch’essa sua ispiratrice che conduce Montale a vivere nel limbo di ciò che è a-sessuato, nella paura del vissuto. L’amore platonico che contraddistingue il rapporto del poeta con Laura Papi connota la stagione di buio di un individuo, che afferma l’autore, non si innesta nel vivere. Si dipingono così la ricerca dell’eros nell’eterno femminino e l’impossibilità di sublimarlo.             

Di eros si occupa anche LINA ISARDI, partendo dalle origini della sessuologia, con i suoi autori, fino alla storia più recente in cui la salute sessuale è vista come un’integrazione di aspetti somatici, intellettivi, motivazionali e sociali. Il formarsi dell’”identità sessuale”, costrutto multidimensionale composto dal sesso biologico, dall’identità di genere, dal ruolo di genere e dall’orientamento sessuale è un processo nel quale il sesso biologico, i valori culturali e quelli personali annessi alla sessualità influenzano la percezione di sé e i comportamenti del bambino, che come individuo prende coscienza della propria identità sessuale tra i diciotto mesi e i tre anni. L’autrice evidenzia la sessualità come elemento fondamentale della vita i cui disturbi coinvolgono tre aspetti: l’atto sessuale, l’identità che ci riconosciamo, le nostre fantasie sessuali e il viverla in modo soddisfacente è essenziale per mantenere una buona salute mentale. I disturbi sessuali sono fonte di sofferenza, ma esiste la possibilità di curarli. L’autrice presenta un caso clinico che partendo da un presunto conflitto d’identità risulta essere, dopo il trattamento, ansia da prestazione e si risolve positivamente.

La tesi centrale di ANNA MARIA LOIACONO tende a sottrarre il concetto di personalità “come se” alla psicopatologia, nell’ambito della quale H. Deutsch lo sviluppa, portandolo nell’ambito della normalità e sulla scia concettualmente di Paul Roazen, arriva nel cuore del lavoro analitico. Ivi scorge analisti esperti spesso portatori di valori conformisti e si domanda: “In che misura il conformismo psicoanalitico è “il come sé” collettivo del nostro mestiere?” Non possedendo una risposta, sulle orme di Fromm, dichiara che pur non sapendo cosa fare ha molte certezze su quello che la nostra storia ci ha insegnato a non fare, per non riprodurre storie senza memoria.

VOLFANGO LUSETTI esamina l’uomo e l’utilizzo di tre forze fondamentali: la nutrizione-predazione, la socialità- comunicazione e infine la riproduzione di tipo sessuato. La predazione è neutralizzata dapprima dalla sessualità e poi dalla socialità e sembra svolgere un ruolo di motore sociale. Tre aspetti sono individuati circa le radici biologiche della violenza umana: il primo tema riguarda il conflitto morale e insanabile, che sembra intercorrere tra le generazioni e in particolare tra padri e figli. Un secondo tema sulla radice della violenza è quello inerente alla natura degli strumenti antipredatori (la sessualità perenne e i codici simbolici di base). Il terzo tema ha per oggetto il fallimento degli strumenti antipredatori che come un campanello d’allarme, afferma l’autore, richiama l’attenzione all’albero della vita da cui proveniamo, cioè alle radici del male cannibalico-predatorio che ci tormenta perché proprio esso è ciò che ha formato la nostra vita.

L’analisi della costruzione della realtà, a partire da William James, per proseguire con C.H. Cooley, G.H. Mead, fino a Fromm è analizzata da CATERINA MARTELLI E LORENZA TOSARELLI, sottolineando in quest’ultimo la convergenza tra il sociale e lo psicologico, descrivendone le interazioni che sono alla base della costruzione della personalità. Passando da Matte Blanco e il suo inconscio strutturale, fino all’inconscio implicito, agente attivo nella formazione dell’Identità, si delinea la presenza di strutture inconsce nella nostra mente non conciliabili, ma responsabili della vita emotiva. La psicoterapia, affermano le autrici, è in grado di modificare il substrato neurobiologico e attraverso interrogativi, quale la modalità di contattare l’inconscio implicito e il ruolo del Corpo nel processo di cura, cercano nella modalità terapeutica l’essenza della conoscenza implicita, dirigendo la loro attenzione sull’Expression Primitive, che propone una semplicità espressiva in relazione con l’altro. Si apre in tal modo uno spazio vitale dell’Identità, non bloccato dall’angoscia e dai sentimenti di disregolazione, che consente una maggiore espressione di Sé.

GIOVANNA NICASO, esamina la problematica concernente, i pazienti affetti da DP e in particolare evidenzia la prevalenza di DBP nelle persone giovani e la dis-regolazione emotiva che produrrebbe le difficoltà manifestate nel funzionamento interpersonale e nello sviluppo di uno stabile senso di sé. In quest’ambito di osservazione clinica riporta l’esperienza di ricerca-azione nell’ambito dell’ASL di Grosseto, che ha proposto la realizzazione di un gruppo di supervisione sistematica dei casi clinici in trattamento esaminando venticinque casi di DBP, di cui tre casi sono stati dei drop-out, tre casi hanno avuto un esito negativo, non ci sono stati casi di suicidio. In conclusione i 4/5 dei risultati del campione non sono ritenuti disprezzabile  e ciò apre le porte alla speranza di poter realizzare l’estensione del modello ad altri  soggetti in trattamento.

Con un taglio decisamente spirituale IRENE NOTARBARTOLO, richiama l’esigenza di approfondire una nuova dimensione nelle relazioni interpersonali vissute dall’uomo nel formarsi dell’identità. Considera la dimensione spirituale altrettanto sostanziale rispetto ad altre quali quelle corporee, fisiche e mentali, rilevando come la psiconeuroendocrinologia (PNEI), abbia recentemente rivolto a tale dimensione la sua attenzione e nel parallelismo con il network evidenzi nel sistema uomo la possibilità di azione terapeutica tramite tecniche spirituali.  L’autrice integra il pensiero di Fromm indicando come più proficuo un modello di uomo in quattro dimensioni (corporea, psichica, intellettiva e infine spirituale), attraverso di esso sarebbe infatti possibile una migliore comprensione delle relazioni, che spesso frenata da interpretazioni riduttive attua una vera e propria “fuga dalla libertà” del pensiero contemporaneo.

GIUSEPPE ROMBOLA’ CORSINI e ALESSIO BARABUFFI pongono l’accento sula necessità che lo psicologo dello sport non debba necessariamente essere uno psicoanalista, bensì un esperto in psicologia dinamica. Attraverso l’analisi della domanda, gli autori evidenziano la richiesta iniziale di un intervento focale dettato dall’esigenza dello sportivo di ottenere una produttività immediata, che talvolta muta in richiesta d’intervento analitico, tramite cui emerge il formarsi della pratica dello sport come forma privilegiata del manifestarsi del mondo interno. Queste osservazioni sono utilizzate al fine di ricostruire la storia e l’elaborazione dell’agire sportivo collettivo, rintracciando in esso l’elaborazione del conflitto psichico a partire dalle origini mitico-rituali e sacro-sacrificali. L’evoluzione di questo passaggio è tracciata dall’esperienza traumatica originaria sublimata nello sport, in cui gli oggetti-meta delle pulsioni aggressive, sono sostituiti con oggetti-meta socialmente accettati e di conseguenza conducendo all’elaborazione del trauma. Mentre l’aggressivo cerca la vendetta rispetto al proprio passato insoddisfacente, il combattente lotta per il futuro e il vero sportivo allontana l’aggressività volendo essere un combattente. Percorrendo un lungo tragitto, l’atleta neutralizza, tramite le regole, gli impulsi aggressivi e giunge attraverso un processo dinamico a una sublimazione che si plasma nell’interazione con l’ambiente. Si esalta l’importanza dello sport per l’elaborazione del conflitto psichico mettendo in luce il valore delle conoscenze di psicologia dinamica per chi opera all’interno di questo contesto.    

Il caso clinico presentato da DANIELA ROSSETTI esamina il percorso compiuto da una donna, che dopo aver perso, la madre attraversa una fase di congelamento e di coartazione affettiva. Lo scongelamento che nel processo terapeutico avviene, consente la ripresa di un cammino alla ricerca della propria identità personale. Partendo dalla premessa che non è possibile in  alcun  modo cambiare il nostro passato, l’autrice ci indica la strada compiuta per un cambiamento di noi stessi, per “riparare i guasti” e riacquisire la nostra integrità perduta. Con lo sguardo che conduce alla conoscenza ravvicinata del nostro passato memorizzato nel nostro corpo, avviene l’accostamento alla coscienza. Al fine di avviare la trasformazione che muta le vittime inconsapevoli in individui responsabili e la conoscenza della propria storia guida alla convivenza con essa.

L’importanza del nesso tra emozione e memoria è evidenziata da MARIA PIA VIGGIANO, TESSA MARZI e STEFANIA RIGHI. Attraverso una migliore comprensione dei fenomeni che legano le emozioni ai processi di codifica della memoria, le autrici evidenziano la possibilità di una miglior comprensione di disturbi quali l’ansia, la depressione, e il disturbo post traumatico da stress, in cui un’eccessiva sensibilità dell’amigdala crea uno squilibrio nella regolazione  delle emozioni. Il lavoro approfondisce la definizione a livello temporale dei processi sottostanti al riconoscimento di un volto che durate la fase di codifica della memoria, manifesta una determinata emozione. L’interazione tra emozione, percezione e memoria è sottolineata al fine di porre in risalto quando le emozioni rese manifeste dalle espressioni hanno un ruolo chiave nei processi cognitivi, per giungere alla comprensione dell’esatto decorso del processo temporale utilizzato dai processi di codifica delle emozioni e alle implicazioni nell’ambito della sfera emozionale affettiva. L’utilizzo della tecnica degli ERP pone in risalto in che misura il processo di memoria possa essere influenzato dall’emotività espressa dal volto ed esamina come la particolare espressione emotiva influenza i processi di recupero, a partire dagli stati più precoci dell’elaborazione, nella ricerca che alcuni stimoli hanno nell’adattamento all’ambiente. I volti che esprimono paura elicitano risposte elettrofisiologiche più ampie e più rapide. Il significato funzionale di questa differenza potrebbe essere rintracciato, secondo le autrici, nel fatto che una situazione di pericolo richiede una risposta più immediata.

Come afferma Irene Battaglini: ”La posizione centrale del Sé in tutta la psicologia trova in questo volume lo spazio per un respiro ampio che intende sfiorare il tempo di un Umanesimo mai estinto”.

Maria Assunta Parsani

AA.VV. Psicodinamica   del  Sé nelle  relazioni  interpersonali

Ricerca, patologia, intervento

Atti del XVI Congresso mondiale di Psichiatria Dinamica (Monaco di Baviera, 21-25 marzo 2011)

A cura di Irene Battaglini, Aracne, Roma 2012.

Dante Gabriel Rossetti, il Preraffaellita poeta-pittore dell’abisso estetico

di Nicola di Battista                                                                                Prato, 17 febbraio 2013

IL PENSIERO IMMAGINALE

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rossetti - La Ghirlandata  1873  Oil on canvas  115 5 cm (45 47 in ) x 88 cm (34 65 in )  Guildhall Art Gallery London (England) Rossetti_selbstDante Gabriel Rossetti, secondogenito di quattro figli, nacque a Londra il 12 maggio 1828 da Gabriele Rossetti (Vasto, 18 febbraio 1783 – Londra, 16 aprile 1854), un poeta e critico letterario italiano originario di Vasto (in provincia di Chieti) il quale per il suo appoggio agli insorti dei moti liberali del 1820 fu costretto all’esilio – fu a Malta nel 1821, dove si legò d’amicizia con i fratelli Gabriele e Domenico Abatemarco, e da qui si spostò a Londra (1824), dove trascorse il resto della sua vita e divenne professore di lingua e letteratura italiana presso il King’s College di Londra (1831) e mantenne l’incarico fino al 1847 – e da Frances Polidori, una benestante dama britannica figlia di Gaetano Polidori (uno scrittore ed editore italiano originario di Bientina, attualmente in provincia di Pisa) e di Anna Maria Pierce (una governante inglese). Nonostante la sua famiglia e i suoi amici più stretti lo chiamassero “Gabriel”, adottò ben presto il nome pubblico di “Dante Gabriel”, desiderando un accento maggiormente letterario al proprio nome dati i suoi interessi nella poesia.

Fratello della poetessa Christina Rossetti e del critico William Michael Rossetti, si dedicò alla letteratura sin dalla tenera età, in particolare alla poesia. Tuttavia, il suo interesse per il Medioevo italiano lo spinse ben presto anche verso l’arte e la pittura: studiò presso la Ford Madox Brown e divenne anche amico di William Holman Hunt in seguito all’esposizione del suo dipinto “La vigilia di Sant’Agnese”, molto ammirato da Rossetti. Il dipinto illustrava alcuni versi di una poesia dell’allora giovanissimo John Keats, che Rossetti imitò con il suo “The Blessed Damozel” (La damigella benedetta).
Negli anni successivi, l’Italo-britannico Dante Gabriel Rossetti sviluppò insieme ad Hunt la filosofia della Confraternita dei Preraffaelliti, occupandosi in particolar modo dei lati più medievaleggianti. Pubblicò traduzioni di Dante ed altri poeti italiani medievali e iniziò una serie di dipinti con lo stile e le tecniche proprie dei pittori italiani prima di Raffaello, da cui il nome del movimento.

I suoi dipinti “Girlhood of Mary”, “Virgin” (Infanzia di Maria Vergine) e “Ecce Ancilla Domini” (Ecco l’ancella del Signore) rappresentavano entrambi Maria come una giovane emaciata e repressa, mentre la sua opera poetica incompleta “Found” (Ritrovato) è il suo unico dipinto con un soggetto moderno ovvero una prostituta riscattata da un possidente terriero che riconosce in lei il suo antico amore. Tuttavia, Rossetti fece evolvere la propria poetica e la propria pittura verso temi sempre più intrisi di simbologia e mitologia, tralasciando il realismo. La sua maggiore opera poetica è, oltre a “The Blessed Damozel” (1850), la collezione di sonetti chiamata “The House of Life” (1870-81). Pur avendo ottenuto il supporto del critico John Ruskin, l’accoglienza fredda ai suoi dipinti da parte del pubblico lo indusse a ritirarsi progressivamente dalle esposizioni pubbliche e a dedicarsi a pitture ad acquerello, che vendeva privatamente. Per questi lavori, intorno al 1850, trasse principalmente ispirazione dalla Vita Nova di Dante Alighieri, che Rossetti aveva tradotto in inglese, e dalla Mort d’Arthurdi Sir Thomas Malory. La sua particolare interpretazione del ciclo arturiano e dell’arte medievale ebbe particolare influenza anche su alcuni suoi amici dell’epoca, quali William Morris e Edward Burne-Jones, oltre ad essere ben accolta dalla committenza privata.
La sua vita subì una svolta terribile con la morte della moglie Elizabeth Siddal, che era stata in precedenza sua modella, morta suicida per una overdose di laudano, causata da una forte depressione; dopo aver dato alla luce un figlio morto. Rossetti seppellì un plico con le sue opere poetiche incompiute insieme al suo corpo e cadde in depressione: in questo periodo, avvertendo affinità con la propria vicenda, si dedicò soprattutto alle opere dantesche e al tema della morte di Beatrice. Risalgono a questo periodo opere come “Beata Beatrix”, pietra miliare del Simbolismo.
È questa la prima fase di un lungo percorso di idealizzazione della donna che interesserà l’intero movimento fino a John William Waterhouse: la sua successiva amante, Fanny Cornforth, venne quindi rappresentata come la personificazione dell’erotismo carnale, mentre un’altra delle sue amate, la moglie del pittore William Morris Jane Burden, venne esaltata quale Venere celeste.
Parallelamente a questo percorso sulla figura femminile, Rossetti iniziò ad interessarsi di animali esotici facendone in breve una vera e propria ossessione; in particolare il vombato attirò a tal punto la sua attenzione da fare della gabbia che ospitava tale animale allo zoo di Londra, in Regent’s Park, un luogo di incontro con gli amici. Nel settembre del 1869 acquistò il primo di due cuccioli di vombato, chiamato Top, cui il pittore si affezionò a tal punto da lasciarlo dormire sulla tavola durante le cene con gli amici. Pare che proprio il vombato di Rossetti abbia ispirato Lewis Carroll per il dormouse di “Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie”.

Durante questo periodo, gli amici di Rossetti lo convinsero a riesumare il plico di poesie dalla tomba della moglie, che egli pubblicò poi nel 1871. I versi, carichi di erotismo e sensualità, offesero l’opinione pubblica; in particolare uno dei poemi, “Nuptial Sleep” (Sonno nuziale), che descriveva il sonno di una coppia dopo un rapporto sessuale, venne stigmatizzato per un avvertito cattivo gusto da parte del gusto puritano britannico. A queste critiche fece seguito l’opera “The House of Life”, una serie di poemi che analizzavano lo sviluppo fisico e psicologico di una relazione amorosa. Successivamente, Rossetti si dedicò ad alcuni versi per i propri dipinti, come “Astarte Syriaca”, e lavorò con William Morris ad alcuni disegni per la loro manifattura (in particolare a motivi per vetrate e carta da parati). Verso la fine della propria vita, Rossetti cadde in uno stato di indolenza probabilmente a causa delle droghe di cui faceva uso: visse gli ultimi anni in solitudine e morì a Birchington-on-Sea (il 10 aprile 1882) nel Kent (contea dell’Inghilterra, a sud-est di Londra). Nelle opere di Dante Gabriel Rossetti è possibile osservare due opposte posizioni, che rendono le sue opere al tempo stesso trasparenti e opache, semplici e sfuggenti. Da un lato ogni suo dipinto discende da una attenta costruzione razionale, da una progettazione in cui, con minuziosità ossessiva, si intessono elementi ben precisi. Sono cosi presenti simboli ben studiati quali colori, stoffe, fiori e vasi, cosi come per gli scenari, le pose, i gesti, senza contare il rinvio a temi letterari, storici e mitologici (dalle saghe arturiane alle opere dantesche, dai miti classici fino ai sonetti dello stesso Rossetti). Tuttavia, dall’altro lato, su questo stesso telaio di significati, che sembra non dare spazio a nulla di istintivo, si colloca una sensualità carnale e appassionate, dove più niente è riflessione, dove tutto è tormentata e irrisolta emozione: è questo il doppio volto rossettiano, in cui vi è il procedere parallelo, reciprocamente non dialogante, tra percezioni vissute come “sensazione” e percezioni sperimentate come “sentimento”. Nelle opere pittoriche del Rossetti la pura sensazione sembra seguire una bellezza il più possibile incontaminata, laddove il sentimento riemerge elusivo ma penetrante, temuto quanto trionfante, melanconicamente perturbante, in cui armonia e difformità, luce ed ombra, equilibrio e caos, coesistono, pur allontanandosi grazie alle loro caratteristiche dicotomiche.

L’arte di Rossetti leviga infinite immagini di un eterno femminino che non è mai soltanto nitido e visibile, idealizzato, perché è anche il suo “doppio” apparentemente cancellato. Il periodo finale dell’ arte pittorica e poetiche di Rossetti lasciano intravedere in maniera netta questo doppio.
Il critico e saggista Walter Pater, amico dei preraffaeliti, nello scritto “Dante Gabriel Rossetti” (1883), poi inserito in “Aprecitions” (1889), afferma che questo artista “Non conosce alcuna ragione dello spirito che non sia anche sensuale, o materiale” e d’altronde lo sapeva convinto che “L’amore umano, legato alla bellezza fisica, rappresentasse la grande e innegabile realtà delle cose, l’unica a offrire istanti di solida consistenza a un esistenza altrimenti informe”.
L’immagine della donna è nell’arte di Rossetti, nonostante la staticità apparente, un nucleo nel quale confluisce un gioco interno di tensioni. La donna è da un lato la specifica modella di volta in volta in causa, con la quale spesso l’artista intratteneva o aveva intrattenuto una relazione sentimentale, dall’altro Rossetti intuiva nella condizione femminile anche la parte più in ombra, come la prostituzione o il delitto passionale, questioni scandalose per il vittorianesimo ma caratteristici di quella età. Nella serie di sonetti, composti tra il 1870 e il 1881, intitolati “The hause of life” – oggi considerati il capolavoro letterario di Rossetti – l’amata viene sovrapposta alla figura di Cristo, e descritta come “Il significato di ogni cosa esistente”. Diventa qui evidente quanto l’artista ricerchi nell’amore e nell’amata, ma in realtà entro se stesso, emozioni in grado di arginare una caotica instabilità.
Anche i dipinti sono essi stessi strumenti per ricercare interattivamente un’ affettività e una passione romantica e cavalleresca per la donna amata.

Il tema del tempo, insieme a quello dell’amore, è un altro fulcro dell’estetica di questo artista: pur se sembrano articolarsi con maggiore compiutezza nel versante letterario, raggiunge massime profondità nell’atto del dipingere. Accade che, riprendendo quando Lacan afferma nel “Seminario VII” (1959 – 1960) a proposito dell’amore cortese, che la donne ritratta da Rossetti sotto sembianze ideali diventi “inumana”, un’oggetto “spaventoso”, indicando come il vero fulcro attorno a cui ruota la rappresentazione, e con essa l’esistenza dell’autore, sia un’inconcepibilità fondamentale, assai prossima al mistero della morte. Secondo Salvator Dalì, nel 1936, le suntuose fattezze delle figurazioni femminili preraffaelite non inviterebbero affatto a un superficiale e luminoso godimento percettivo, ma esse ci invitano a osservare le nostre profondità viscerali dell’anima estetica. Da questo punto di vista è la produzione pittorica l’ambito in cui si vede meglio l’inconsapevole affiorare di un’affettività aleggiante, sempre attraverso il complesso rapporto che questo autore intrattiene con il comporre poesie. L’ autori oscilla tra la pittura e la poesia, non ponendo tra di esse particolari barriere. Sono innumerevoli i casi in cui il titolo e il tema di un dipinto sono gli stessi di un correlato sonetto, in quale poi andava spesso a inserirsi nel quadro, trascritto in qualche area della tela o nella sua cornice. Altre volte i sonetti sono ispirati a dipinti di altri pittori, mentre le tele, i disegni o le incisioni attingono a loro volta a opere letterarie.
Rossetti operava abitualmente in due regioni artistiche: in quella pittorica e in quella verbale, le quali gli permettevano di vivere all’interno e attraverso due forme di linguaggio. Ciò ha fatto definire l’artista dalla critica come un «Autore di una doppia opera d’arte». Tale ultima affermazione è possibile costatarla attraverso l’analisi della sua corrispondenza, in cui l’artista racconta nei minimi particolari molti dipinti, li riveste di parole, li spiega e li illustra con puntigliosa precisione. Ne deriva l’impressione di un impulso a intrappolare e dominare la spontaneità del linguaggio dentro ad una rete precostituita di significati. Eppure l’operazione compiuta da Rossetti è un’ altra: accade come se lui agisse un irrefrenabile tendenza a porre in forma scenica, e allo stesso tempo narrativa, ogni suo stato d’animo, quasi ne costruisse una drammatizzazione del tutto simile a quella del teatro, mediante una figurazione dove ogni oggetto o personaggio si interconnette e si armonizza per comporre un sentimento. Tale operazione oscilla tra due poli opposti: un eccessivo controllo razionale, che quasi sterilizza ogni emozione soffocandola al di sotto di uno stile ornamentale, e una prepotente intensità affettiva, grazie alla quale il mondo interno dell’artista traluce con massima e con magico splendore dall’intera drammatizzazione. Il comune denominatore tra il dipingere e il poetare sia in Rossetti la pulsione a disporre la propria affettività in forma di narrazioni drammaturgiche, animate a loro volta da un estetismo attento e raffinato e da in realtà evanescente – come accade, sostanzialmente, nel teatro o nei sogni. Rossetti affermava che essere più poeta che pittore, e il suo dipingere era sostanzialmente un atto per ottenere un guadagno. Intendeva nascondere a se stesso la maggiore evidenza affettiva che il colore, il segno, e altro ancora lasciano nei suoi dipinti, più che nelle poesie. Questa nascosta preminenza affettiva del dipingere trapela da una frase di Rossetti: «Se un uomo ha in sé della poesia dovrebbe dipingere, perché tutto è stato detto e cantato, ma lo si è appena cominciato a dipingere». L’idea che l’abuso di cloralio (un farmaco ipnotico), le cui avvisaglie risalgono al 1867, sia stato la causa primaria dei disturbi psicopatologici dell’ artista, dei deliri di persecuzione, del tentativo di suicidio (1872), della allucinazioni uditive, nasconde la realtà di una tossicodipendenza inconsapevolmente cercata, inconsapevole tentativo di curare in antecedente squilibrio, ma senza mai fermare l’artista fin all’ultimo giorno della sua vita.