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Il mito di Facebook. Rapporti tra psicologia, dipendenza e tecnologia

XVII Congresso Mondiale di Psichiatria Dinamica, San Pietroburgo 2014

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Professor Ezio Benelli (Florence, 1947) is Chairman of the Italian Branch for the 17th World Congress of the World Association for Dynamic Psychiatry WADP – XXXth International Symposium of the German Academy for Psychoanalysis (DAP) eV; degree in psychology at the University of Padua and then in Florence who specialized in psychotherapy at the Institute of Psychotherapy HS Sullivan, is actually Psychoanalyst in neo-Freudian, interpersonal and humanistic paradigm. He is currently Director of the School of Psychotherapy Erich Fromm di Prato (recognized by the Italian Ministry of University and Research), for which he is supervisor training analyst; and Professor of Clinical Psychology and Psychoanalysis Theory and Techniques of individual and group. He is President of the International Erich Fromm Foundation, scientific and cultural institution based in Palazzo Vecchio in Florence, and director of the editorial series “L’Immaginale”, for publishing Aracne, Rome. Judge at the Court of Florence for children, and vice president of the Order of Psychologists of Tuscany Region, has now been re-elected councilor of the Order of Psychologists of Tuscany, and regional contact for the Penitentiary Psychology and Criminology. Ezio Benelli is also coordinator of the Center for Mediation and Family Resources at the Polo Psicodinamiche- Training Agency accredited by the Region of Tuscany, site in Prato.

Italian Branch
Chairman Doctor Ezio Benelli, International Foundation Erich Fromm, Florence

Abstract

The article deals the issue of new dependencies: in particular those from Internet and social networks. Having distinguished between “dependent” (dependence from substances) and “addicted” (psychological dependence), the article refers to some neuroscience researches that confirm the empirical data. Then, it is stated how psychodrama, as it is practiced at the Pole Psychodynamics of Prato in Italy, can be an effective and powerful tool also for the treatment of new dependencies and reasons of it are explained. At last, after providing a brief history about the birth of psychodrama and its inventor, J.L. Moreno, the article describes building blocks, basic steps and different ways of interaction of psychodramatic practice.

Summary

The article, first, distinguishes between the concepts and terms of English language “dependent” and “addicted”: in the first case it is an addiction to substances such as alcohol, drugs or tobacco; in the second, addiction is psychological and the subject depends on behaviors, practices and situations, it is the case of the dependence on new technologies and on Internet. Erich Fromm, in his book Escape from freedom, he highlighted how the human beings become slaves to addictions because they can not accept the emptiness, that feeling of “not being”, which lead them to give up the freedom and to isolate more and more from society. Fromm had somehow foreseen practices and effects of new dependencies, those from excessive exposure to Internet and to social networks. And then in the article it is stated that Psychodrama analytical, as is practiced at the Polo Psychodynamic of Prato in Italy, may represent an innovative approach in the treatment of addictions from new technologies. For its being a cure through the action, the dramatic action (and not just through words), for being a group therapy and for being very close to the patient’s daily life, psychodrama, more than others care systems, can achieve stable and lasting outcomes. Subsequently, the article recounts the experience, made in person by the writer in the summer 2013 at the Hotel Byron in Forte dei Marmi (Lucca) in Italy, that is the use of psychodrama in the treatment of psychological dependency. Empirical data and conclusions of this experience are similar to those which have come neuroscientific studies on new dependencies. And in the article are cited two of these studies: that one of Diana Tamir and Jason Mitchell of Harvard University and that one of Dar Meshi at the Freie Institut of Berlin. Then the discourse moves on to analyzing from a historical point of view the birth of psychodrama: its being rooted in some phenomena of the history of theatre and the human and cultural formation of its inventor, Jakob Levi Moreno, an eclectic and complex figure, which has been able to put together and summarized ideas, suggestions, contributions coming from different fields. Then briefly it is mentioned some reworkings of psychodrama practice occurred in the twentieth century and it is underlined that psychodrama has assumed over time not only a therapeutic value, but also educational and social. Finally, it is described basic components of psychodramatic practice: the four key characters (therapist, patient or protagonist, auxiliary-ego, group), the three different steps in which is subdivided the dynamics (warm-up, scene or action, return) and main modalities of interaction (the double, the mirror and the role reversal).

leggi in pdf The Myth of Facebook. Relationship between Psychology, Addiction and Technology

Non sarò io a vincere ma il discorso di cui sono servo.
J. LACAN

Per gli inglesi il termine dipendenza si traduce in due modi. Nel primo: “Dependent”, il soggetto è fisiologicamente dipendente, come avviene per sostanze quali alcool, droga, tabacco; nel secondo: “Addicted”, la dipendenza è psicologica.
Addicted viene dal latino addictio, addicere che vuol dire “rendere schiavo a causa di un debito”.
Quale debito devono pagare i nuovi “dipendenti“? O meglio: quale condizione di inferiorità li porta ad essere dipendenti?
I debiti, va da sé, hanno da sempre condizionato l’essere umano a vivere una condizione d’inferiorità rispetto al proprio debitore, il quale può essere, di volta in volta, rappresentato da una persona, un oggetto, un ideale di comportamento ecc.
Secondo Erich Fromm, il vero problema della società moderna è la mancanza di autonomia: l’uomo dipende patologicamente da un’entità considerata superiore, che lo condiziona ad essere uno schiavo; è un essere mancante che, non potendo accettare la condizione di “assenza” e condividerla con gli altri, ricerca disperatamente qualcosa che possa compensare il proprio vuoto.
Fromm è morto negli anni ’80, quando le nuove dipendenze iniziavano ad essere visibili solo negli USA, ma in questi ultimi anni il fenomeno si è diffuso rapidamente in tutte le nazioni, influenzando velocemente ogni strato sociale, dai giovani agli anziani, dai ricchi ai più poveri.
Nel suo libro Fuga dalla libertà, Fromm evidenziava come il fuggire da se stessi e dagli altri, sentirsi completamente isolati e solitari, porta alla disgregazione mentale.

La questione del “non essere”, del non sentire di avere un’identità, quindi, sfocia e si risolve nell’evasione, nella fuga dalla realtà.
Pensiamo all’isolamento dei dipendenti da internet e dai social network, pensiamo agli acquisti solitari dei compulsive buyer, al giocatore d’azzardo che incatena lo sguardo solo sul risultato del suo gioco.
Questo è quello che appare, ma se approfondiamo il “dipendere da chi e da cosa”, la realtà cambia.
Le new addictions portano le persone ad essere dipendenti da esperienze e situazioni che possono in qualche modo modificare l’umore e le sensazioni; quelle stesse esperienze e situazioni sono costantemente create e favorite dalla nostra società, in quanto sottostanno alle leggi economiche del guadagno ma, rispetto alle dipendenze da sostanze, possiedono, paradossalmente, una caratteristica: rispondono illusoriamente al bisogno profondo di essere parte di… considerati da…
Quando il dipendente accetta di curarsi, accetta anche di riconoscere l’impossibilità di essere ciò che Lacan chiamava “essere il desiderio dell’altro”1, accetta l’angoscia della sua condizione infantile e subordinata, sperimenta il buio, privo di false certezze, di chi non riceve l’approvazione necessaria per sentirsi “necessario”.
Lo Psicodramma Analitico, svolto abitualmente al Polo Psicodinamiche di Prato e praticato anche durante l’estate 2013 presso l’Hotel Byron di Forte dei Marmi, è stato da noi sperimentato anche nelle dipendenze psicologiche, offrendo un innovativo approccio per le new addictions.
Ma che cosa è lo psicodramma? E perché proprio lo psicodramma per la cura delle dipendenze da Internet?
La parola “psicodramma”, formata dal greco antico psiche, cioè anima, e drama, a sua volta proveniente dal verbo drao, draomai che vuol dire agire e rappresentare sulla scena, significa dunque “l’azione della psiche”, o se volete “il teatro della psiche”.
Si può dire che se la psicanalisi di Freud fu definita “la cura attraverso la parola”, lo psicodramma può essere definito come “la cura attraverso l’azione”, l’azione scenica e teatrale.
E con questo ho già dato una definizione di massima dello psicodramma: si tratta essenzialmente di un metodo di cura, una tecnica terapeutica, un sistema per curare i disturbi e i disagi psicologici ed emotivi. Tuttavia lo psicodramma può avere valenze ed utilità non solo terapeutiche, ma anche educative, formative, istruttive, sociali ecc.
Per rimanere nel nostro ambito, lo psicodramma è dunque un metodo di cura che si serve essenzialmente del Teatro per raggiungere i suoi scopi, cioè consiste nella messa in scena diretta, nella rappresentazione, per così dire, “dal vivo” dei conflitti e dei problemi psichici del paziente, al fine di fargli prendere consapevolezza di essi e il più possibile liberarlo dai loro effetti negativi. Nello psicodramma non si parla dei problemi del paziente, ma si agiscono quei problemi, si rappresentano, si dà vita sulla scena all’interiorità del paziente, si conferisce spazio, tempo, corpo, parola e suono reali e materiali a ciò che altrimenti rimarrebbe confinato e rinchiuso dentro la psiche del paziente. In breve: con lo psicodramma si cerca di dare il massimo di oggettività alla soggettività. Il paziente tira fuori da se stesso i suoi vissuti e, con l’aiuto del Terapeuta e del Gruppo, li mette sul palcoscenico e così li rende oggetti, cioè qualcosa fuori da sé, li pone a distanza da se stesso, cominciando quel lavoro di presa di coscienza che è l’inizio di una liberazione.
Altra caratteristica importante: lo psicodramma è una tecnica terapeutica di gruppo. Ed è già molto significativo, a mio avviso, che per combattere l’Io solitario, isolato, solipsistico, disperso, decostruito e frammentato di coloro che sono dipendenti da internet, possa essere utile quella tecnica terapeutica che è una delle più “sociali” che esista, lo psicodramma, appunto. Sociale come lo era e lo è ancora a volte il Teatro. Sociale perché lo psicodramma è possibile solo se esiste un gruppo, una comunità di persone che fa da testimone, da contenitore e da contenuto alla scena psicodrammatica.
A questo punto occorre una precisazione: il teatro che vediamo nello psicodramma non è quello che nella maggior parte dei casi vediamo sui palcoscenici dei teatri: è teatro d’improvvisazione, o se volete il teatro della spontaneità, un teatro, cioè, creato e inventato lì per lì, all’impronta. Nello psicodramma non ci sono copioni scritti da memorizzare e recitare, ma tutto succede momento per momento e tutto può cambiare da un momento all’altro: nello psicodramma si lavora su quello che emerge via via, attimo dopo attimo.
Come è noto, lo psicodramma, nella sua prima forma, è stato messo a punto da Jacob Levi Moreno, medico, psichiatra, sociologo, filosofo, studioso di matematica… una straordinaria figura che ha messo in relazione, con la sua concreta ricerca, discipline e idee diverse e lontane fra loro. Rumeno di nascita, ma proveniente da una famiglia di origine ebraica, Moreno si formò in gioventù nella Vienna di inizio Novecento, una realtà multietnica e multilinguistica, un ambito culturale e artistico vivo e vitalissimo che, si può dire, è alla base della nostra cultura contemporanea. Moreno conobbe Freud, Adler e Schnitzler. Studiò Bergson, Rousseau, Pestalozzi, Nietzsche, Kierkegaard e Marx. E in quegli anni inventò “Il Teatro della Spontaneità” e “Il Giornale Vivente”, forme di teatro di improvvisazione, in cui gli stessi spettatori venivano chiamati a partecipare alla messinscena come personaggi.
Uno dei meriti di Moreno fu anche quello di raccogliere e fare sintesi di una serie di elementi tratti dalla tradizione teatrale, per costruire la sua grande invenzione. Se si guarda, infatti, alla storia del teatro occidentale, molti sono gli elementi che hanno favorito la nascita dello psicodramma. Accenno molto brevemente qui di seguito ad alcuni:

• il concetto di catarsi, cioè l’effetto che, secondo i greci antichi e Aristotele, doveva avere la rappresentazione teatrale sugli spettatori. Catarsi vuol dire purificazione, vale a dire in sostanza la liberazione dalle passioni e dalle emozioni negative;

• il cosiddetto Teatro nel Teatro (chiamato anche Metateatro), cioè quell’artificio drammaturgico che si afferma nel teatro del Rinascimento e che consiste nel dare vita a una rappresentazione teatrale dentro un’altra rappresentazione teatrale. Così, in questa modalità, i personaggi di una commedia o di una tragedia si trovano a essere a loro volta spettatori di un’altra e diversa rappresentazione, e quindi si trovano ad identificarsi più o meno con la rappresentazione a cui assistono, un po’ come succede, appunto, al gruppo nello psicodramma. Un genere di teatro, quello del teatro nel teatro, che ha avuto molta fortuna nel corso dei secolo: pensiamo all’Amleto di Shakespeare fino ai Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello…
• la Commedia dell’Arte, con il suo essere un genere di teatro di improvvisazione, costruito su una struttura di ruoli fissi (le Maschere), può essere considerata un illustre precedente dello psicodramma;
• lo stesso sistema stanislavskijano per la recitazione, perché no? con il suo fare appello alla introspezione psicologica, alla reviviscenza delle emozioni, all’autenticità dell’arte dell’attore, può essere considerato un elemento che ha favorito la nascita dello psicodramma.

Alla metà degli anni Venti Moreno emigra negli Stati Uniti ed è là che mette a punto la sua grande intuizione: la fa diventare una tecnica tearapeutica, una scuola, un apparato teorico, una modalità di ricerca sociale, un metodo formativo ed educativo.
Nel corso del Ventesimo Secolo la tecnica psicodrammatica ha incontrato altri orientamenti e approcci teorico-pratici, dando vita a tanti e diversi modi di praticare e utilizzare l’invenzione moreniana. Particolarmente fecondo è stato l’incontro con la psicoanalisi, e soprattutto con la psicoanalisi neofreudiana che discende da Erich Fromm…

A questo punto una domanda è rimasta sullo sfondo: perché proprio lo psicodramma? Ci sono molte buone ragioni. Per non dilungarmi troppo, mi limito ad indicarne tre:

a) Perché lo psicodramma è un metodo esperienziale, che si basa, cioè, sull’esperienza, sull’azione agita e vissuta. Nello psicodramma l’insight, l’apprendimento, il progresso terapeutico possono avvenire solo se si è agito e rappresentato le dinamiche, i conflitti e i problemi del paziente. Ed è ormai risaputo che l’apprendimento e la consapevolezza attraverso il “fare” sono più durevoli e stabili di quelli attraverso semplicemente il “dire”.

b) Perché lo psicodramma è la tecnica terapeutica che più si avvicina alla cosiddetta vita reale; lo psicodramma è straordinariamente prossimo e affine alle situazioni, alle relazioni, alle dinamiche del paziente nella sua vita di ogni giorno. E quindi più facilmente e direttamente può incidere su di esse.

c) Lo psicodramma è “specchio di vita” non solo per il singolo paziente che mette in scena le sue dinamiche emotive, ma anche per tutto il gruppo partecipante, che può identificarsi in parte o del tutto con le dinamiche del singolo paziente. Il gruppo può mettere in comune esperienze, ricordi, racconti, emozioni che abbiano a che fare con quanto vissuto dal singolo paziente. O per meglio dire: il gruppo entra in risonanza emotiva con il singolo e il singolo, a sua volta, con il gruppo.

Ma torniamo al racconto di quanto abbiamo fatto nell’estate del 2013 all’Hotel Byron di Forte dei Marmi…

I partecipanti venivano sottoposti ad un test di entrata, composto dalle seguenti domande:

1. Vi ritrovate su Facebook più a lungo e più spesso di quanto previsto?
2. Avete rinunciato o ridotto il vostro coinvolgimento in attività sociali, lavorative o ricreative a causa di Facebook?
3. Avete trascurato la famiglia?

4. Avete fatto uno sforzo cosciente, ma senza successo per ridurre l’uso di Facebook?

Attraverso il test volevamo indagare su questa nuova dipendenza, non più su chi usa sostanze quali alcool, eroina o cocaina. Ciò ha creato non pochi problemi sull’efficacia dei criteri diagnostici abitualmente usati per chi fa uso di sostanze: tali criteri, infatti, sono risultati difficilmente adattabili alla dipendenza da un sito di social media.
Interessante fu vedere la trasformazione dell’ “affect facial expression” dei partecipanti quando spiegavano e raccontavano di quanto la funzione “mi piace” sui post pubblicati poteva renderli irritati e ansiosi, se non otteneva il successo auspicato, oppure appagati e soddisfatti se i post ottenevano consensi. Abbiamo notato nei soggetti che partecipavano al gruppo di studio un aumento dell’ansia al pensiero di non poter attuare il web feed.
Abbiamo notato, invece, piacere e gratificazione nei partecipanti al pensiero di parlare di se stessi, di pubblicare proprie foto e nel comunicare i propri pensieri. La nostra indagine empirica ha confermato alcuni studi fatti da ricercatori che hanno utilizzato metodi neuroscientifici.

Diana Tamir e Jason Mitchell ad Harvard,2 hanno sottoposto ad un esperimento di neuroscienze alcuni abituali utilizzatori di Facebook. In una pagina programmata hanno proposto loro tre opzioni: (1) parlare delle proprie opinioni e atteggiamenti; (2) giudicare l’atteggiamento di un’altra persona; (3) rispondere a domande frivole. Durante l’esperimento hanno misurato l’attività cerebrale dei partecipanti. Ogni scelta è stata associata ad un payoff monetario; ciò ha permesso agli scienziati di testare se gli individui sono stati sostanzialmente disposti a dare i soldi per parlare di sé.
In media, i partecipanti hanno perso una media del 17% dei potenziali guadagni per parlare di se stessi! Perché qualcuno dovrebbe rinunciare a dei soldi per fare questo? Ciò non è dissimile dal comportamento di quelle persone che rinunciano alle proprie responsabilità lavorative e familiari, a causa della dipendenza da droga e da gioco. Durante la self-disclosure, questi partecipanti hanno attivato il nucleo accumbens. Il nucleo accumbens è integrato nelle vie del sistema limbico e riceve afferenze dalla corteccia prefrontale e dai neuroni dopamminergici dell’area tegmentale ventrale (regione mediobasale del mesencefalo). Svolge un ruolo di rilievo nei circuiti di rinforzo, legati all’assunzione di sostanze d’abuso, che provocano un aumento della concentrazione di dopammina nella parte esterna del nucleo accumbens; quest’area è coinvolta anche nell’effetto e nella percezione gustativa.
In un secondo studio fatto da Dar Meshi e colleghi presso l’Istituto Freie di Berlino3 si è misurato l’attività cerebrale dei volontari mentre hanno ricevuto molti feedback positivi. La ricerca, simile allo studio di Harvard, ha anche rilevato che in alcuni individui il nucleo accumbens è diventato più attivo quando hanno ricevuto feedback gratificanti. I ricercatori inoltre hanno fatto compilare ai partecipanti un questionario che ha determinato un punteggio “Facebook intensità”, che includeva il numero di amici di Facebook e la quantità di tempo al giorno che si passa su Facebook. (Il punteggio max in questo caso era > 3 ore per giorno). Quando il tempo passato su FB era correlato con un attività piacevole e gratificante, il nucleo accumbens era intensamente più attivo. Da ciò si deduce che le due variabili, tempo passato su FB e attività gratificante, rende il nucleo accumbens intensamente più attivo.

Tutto questo dal punto di vista delle neuroscienze. Ma se riprendiamo il tema del “dipendere da chi e da che cosa”, scopriamo qualcosa di più…
Nessun dipendente da sostanze ritiene che soddisfacendo le proprie necessità sarà più integrato nella società, mentre il “nuovo dipendente”, quando eccede nel comprare, nel lavorare, nel comunicare sul web, etc., pur con un senso di disagio e di colpa per il suo comportamento, spera che “l’altro” possa riconoscerlo proprio nel suo essere come “l’altro”, anche se questo può avvenire attraverso azioni solitarie e compulsioni nascoste. Spera di essere visto diversamente da come lui stesso si vede, spera infine di essere considerato per quello che vorrebbe essere e non per quello che realmente è.
La risposta può arrivare dal computer, dagli oggetti acquistati ed ammirati dal contesto sociale, oppure dalla falsa certezza di vincere ed essere ammirati.
La differenza tra le vecchie e le nuove dipendenze, dunque, si esprime attraverso due poli: l’individuale ed il sociale. L’assunzione di sostanze deve arrecare benessere alla persona, meglio se nessuno vede; le new addictions sottendono alla realizzazione di quel sogno che ci accompagna fin dalla nascita, il già citato lacaniano “essere il desiderio dell’altro”.
Nel gioco psicodrammatico la visione diventa l’elemento fondamentale: il soggetto parlante, cioè il partecipante che esprime se stesso, guarda e viene guardato in una dimensione di verità e di riconoscimento. Il nuovo dipendente, così desideroso di una conferma sociale, si rende conto del suo “non sé”, cioè del non poter diventare qualcosa per qualcuno, attraverso comportamenti distruttivi ed alienanti.
Il gruppo diventa così il contesto nel quale è possibile analizzare le relazioni e le loro implicazioni, le dinamiche e le conseguenti reazioni.
In Francia, Kaes e Anzieu, riprendendo alcuni concetti espressi da K. Lewin e sviluppando le teorie espresse precedentemente dagli altri studiosi che si erano serviti di loro come supporto pedagogico, svolsero un accurato lavoro analitico e proseguirono l’opera di cambiamento della psicoterapia di gruppo. Essi si concentrarono sugli atteggiamenti interni più profondi, sulle istanze inconsce.

Quanto sopra descritto consente di comprendere meglio la funzione che lo psicodramma analitico esercita sui partecipanti. Lo psicodramma contiene in sé due funzioni: una sociopedagogica e l’altra analitica.
Le ragioni che promuovono questa duplicità vengono evidenziate nella collocazione spaziale e nella azione che si svolge nel setting dello psicodramma.
La tecnica utilizzata nello psicodramma è quella di Moreno, pertanto l’azione o il gioco acquistano un valore significativo all’interno della seduta analitica.
Il gioco “diretto”, ossia immediato e guidato dal terapeuta, mette in luce le pulsioni individuali del “qui e ora”, riferite a un contesto e ad una situazione già vissuta nel “là ed allora”.
Lo psicodramma diventa, quindi, il gioco del disvelamento, dove ogni partecipante si riconosce come soggetto non più nascosto, ed il gruppo, inteso come entità altra, rivela continuamente l’inganno di ognuno.
Sempre nello psicodramma avviene la messa in gioco di un accadimento o di una situazione concreta che il soggetto evidenzia durante la seduta.
Per comprendere cosa e come avviene nello psicodramma, conviene ricordare le componenti, la struttura e le modalità fondamentali della tecnica psicodrammatica. Innanzitutto quattro sono i personaggi fondamentali:

Il Direttore o Regista o Psicodrammatista o più semplicemente Terapeuta: cioè colui che conduce il gioco psicodrammatico, colui che consente ai materiali e ai vissuti emotivi dei componenti del gruppo di uscire fuori, colui che cura la messa in scena di quei contenuti emotivi e delle situazioni concrete a essi legati.

Il Paziente o Protagonista: la persona che in un determinato momento è al centro della scena psicodrammatica, la persona che racconta e descrive conflitti e problemi emotivi e di cui si mette in scena una situazione, un evento o un ricordo che è la rappresentazione concreta di quei contenuti emotivi.

L’Io ausiliario: possono essere anche più di uno e sono quei componenti del gruppo chiamati a incarnare sulla scena psicodrammatica i personaggi fondamentali della scena del Protagonista: possono impersonare di volta in volta genitori, mogli, mariti, amanti, figli, colleghi e datori di lavoro, personaggi immaginari ecc.

Il Gruppo: il resto del gruppo che assiste allo psicodramma. Ha le funzioni di testimonianza, accoglienza e sostegno delle emozioni del Protagonista; può identificarsi più o meno con la scena del Protagonista e al finale può condividere le proprie esperienze con quelle del Protagonista.

Lo psicodramma si articola e si svolge in 3 fasi successive:

Riscaldamento: in essa dapprima il Protagonista racconta e descrive liberamente il suo vissuto emotivo, poi, con l’aiuto del Terapeuta e del Gruppo individua un tema, particolarmente importante per il Protagonista, e una situazione concreta legata al tema, che sarà poi oggetto della Scena.

Scena o Azione: consiste nella rappresentazione della situazione concreta precedentemente scelta. E’ interpretata dal Protagonista nel ruolo di se stesso e dai diversi Io Ausiliari che incarnano gli altri personaggi fondamentali della scena.

Discussione o Dibattito o Restituzione: è la fase in cui si interpreta ciò che è venuto fuori in precedenza, è la fase in cui il Gruppo esprime quanto e come è stato coinvolto nella scena del Protagonista, attraverso il racconto di pensieri, emozioni, ricordi, sogni, eventi legati più o meno a quella stessa Scena.

E infine nel corso dello psicodramma possono essere utilizzate le seguenti tre modalità di azione o interazione:

Il Doppio: è quella modalità che consente a un qualunque componente del Gruppo, anche un Io Ausiliario, di dar voce e corpo a emozioni e sentimenti che il Protagonista immagina e prova e che però non riesce ad esprimere. Ha dunque una funzione di chiarificazione e di sostegno.

Lo Specchio: è quella modalità per cui, nel caso il Protagonista abbia difficoltà ad autopresentarsi, un Io Ausiliario può “imitare” lo stesso Protagonista. Egli dunque può vedersi riflesso, come in uno specchio, come gli altri lo vedono.

L’Inversione di ruolo: si può attuare quando il Protagonista è profondamente implicato in una relazione duale. Allora il Protagonista assume il ruolo, la funzione e il posto dell’Altro, si mette “nei panni dell’altro”, calandosi in una nuova realtà e scoprendo emozioni, sentimenti e punti di vista del soggetto con cui è in conflitto e in relazione.

È quasi inutile aggiungere che il tutto avviene in un clima di grande partecipazione emotiva…

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1 J. LACAN: «Il desiderio è sempre il desiderio dell’altro». In Il seminario, vol. I, in Gli scritti tecnici di Freud (1953-1954), traduzione di Giacomo Contri, Einaudi 1978).

2 D. TAMIR and J.P. MITCHELL, Disclosing information about the self is intrinsically rewarding. Department of Psychology, Harvard University, Cambridge, MA, 2012. http://www.pnas.org/content/109/21/8038.full.pdf

3 D. MESHI, C. MORAWETZ, and H. HEEKEREN: Nucleus accumbens response to gains in reputation for the self relative to gains for others predicts social media use, in: Frontiers in Human Neurosience, DOI: 10.3389/fnhum.2013.00439.

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Ezio Benelli, 2014 ezio.benelli@gmail.com

I contenuti di questo articolo sono parte integrante e sono pubblicati in versione tradotta sul Dynamic Psychiatry Intl. Journal, Pinel Verlag Human Psychiatrie, Berlin.
Per gentile concessione della Prof.ssa Maria Ammon, Dap, Berlino, sono stati pubblicati on line in:
Frontiera di Pagine, Prato www.polimniaprofessioni.com/rivista/ e Psicoanalisi Neofreudiana, Prato www.ifefromm.it/rivista.php

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Il narcisismo nell’arte contemporanea. Le implicazioni e le interpretazioni della psicologia dell’arte

XVII Congresso Mondiale di Psichiatria Dinamica, San Pietroburgo 2014

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Doctor Irene Battaglini, graduate degree in organizational psychology at the University of Studies of Florence, CEO & Founder Polo Psicodinamiche & Erich Fromm School of Psychotherapy; International Foundation Erich Fromm (vicepresident); painter and professor of Psychology of Art; Florence. Member of the Order of Psychologists of Tuscany sect. B n. 5305.

Italian Branch
Chairman Doctor Ezio Benelli, International Foundation Erich Fromm, Florence

Abstract

Spreta latet silvis pudibundaque frondibus ora
protegit et solis ex illo vivit in antris;
sed tamen haeret amor crescitque dolore repulsae;
extenuant vigiles corpus miserabile curae
adducitque cutem macies et in aera sucus
corporis omnis abit; vox tantum atque ossa supersunt:
vox manet, ossa ferunt lapidis traxisse figuram.
Inde latet silvis nulloque in monte videtur,
omnibus auditur: sonus est, qui vivit in illa.
Ovidio, Metamorphoseon, book III, vv. 393-401

One of the contributions of the psychology of art lies in illuminating the path that leads to the discovery of the complex dynamics that govern the relationship between Art and Psyche. If the creative process is realized with the presentification tangible or perceptible a work called just “artwork”, by one or more authors, the dynamic psychology does not shirk the task of investigating the links that underlie the psyche of the contemporary authors and their talent. The technique, the need for expression and communication, the body in movement and language, metaphorical thinking and clairvoyance of the artist, are all elements that are included in the largest and most fascinating aesthetic experience, are confronted with the problem of escape of God from the temple: the pursuit of beauty has given way to anxiety over limit, in a pursuit of the artistic act exasperated understood in a phenomenological sense, aesthetic, pragmatic, which inevitably requires the folding of man on himself, plagued by a pervasive feeling vacuum and a serious disqualification of the “Self” in favour of the “Ego”. The psychology of art can make use of “pensiero immaginale”, of the archetypal psychology and of the philosophical investigation to understand the nature social and narcissistic of the contemporary art. Starting from the work of Picasso and Duchamp, passing Cy Twombly, Andy Warhol, Lucio Fontana, we can reflect on how the sharp emotion applied to the coldest contemporary art forms (kinetics art, performance, body art), not is the result of a lust of money, visibility and presenteeism, but the consequence of a certain condition: the narcissistic wound of form in favor of the superegoic and uncontested domain of the mediatic metaphor.

leggi in pdf IL NARCISISMO NELL’ARTE CONTEMPORANEA

Parte I. “L’Architrave e la Foglia”
Premessa metodologica
Il Mito di Narciso e le sue raffigurazioni
Come opera il modello narcisistico

The integrated internal combined object learns from experience in advance of the self and is almost certainly the fountainhead of creative thought and imagination.
DONALD MELTZER, The Claustrum, 1992.

Odio e amore sono differenti aspetti della stessa costellazione emozionale e necessitano di esser esperiti simultaneamente perché siano costruttivi. La chiave dello sviluppo è passione e turbolenza, su di una scala qualitativa, piuttosto che quantitativa – gli incrementi possono essere anche minuscoli. Mentre il concepire le relazioni intime sia nella vita che nell’arte come prive di conflitti, risulta ad un’indebolita, eccessivamente liberale, mentalità “soft umanista”.
MEG HARRIS WILLIAMS, 1986.

La psicoanalisi e tutta la psicologia moderna, senza dimenticare il contributo della sociologia e dell’antropologia, mettono a disposizione teorie e opere interamente spese a favore di una indagine il più possibile ampia ed accurata del mitologema celebrato da Ovidio nelle Metamorfosi. Si racconta di Narciso, bellissimo figlio del dio fluviale Censo e della ninfa Lirope, una delle Oceanine (figlie del titano Oceano e della titanide Teti) la quale interrogò l’indovino Tiresia circa il destino riservato al figlio ed ebbe come risposta una frase che risulterà emblematica: Narciso sarebbe vissuto finché non si fosse conosciuto. Narciso cresce come un bellissimo ragazzo dal cuore arido, pieno di sé, che non ha attenzioni per nessun altro che non sia se stesso. Grazie al suo fascino cattura il cuore di molte fanciulle rifiutandole però duramente. La ninfa Eco fu una di queste, s’innamorò perdutamente di lui dopo averlo incontrato nel bosco dove Narciso era solito andare a caccia, come le altre però venne rifiutata. Eco in seguito a tale delusione si consumò d’amore divenendo un’ombra della quale non rimase altro che la voce. Gli dei colpiti decisero di punire Narciso e incaricarono Nèmesi, dea debita alla distribuzione della giustizia, di punire l’indifferenza da lui dimostrata nei confronti dell’amore di Eco. Così Nèmesi guidò il giovane sulla sponda di una fonte di limpida acqua che nel momento in cui Narciso vi si affacciò gli rese come in uno specchio la sua immagine molto nitida.
Nel vedere il proprio volto riflesso nelle acque della fonte, il giovane Narciso ne è stupefatto tanto da esclamare che dopo aver visto una tale sublime bellezza niente lo avrebbe potuto tenere in vita senza che questa risplendesse continuamente nei propri occhi. Narciso s’innamora così di se stesso. Non trovando le forze per staccarsi dalla propria immagine e consapevole di non poterla mai avere per sé, muore consunto dal dolore. Il mito si conclude con il gesto delle Ninfe che arrivando alla fonte non trovano più il giovane ma al suo posto un fiore bianco e giallo cresciuto come d’incanto, al quale viene poi dato il nome di Narciso.
Non è interessante, dal punto di vista di questo contributo, enumerare le tante raffigurazioni del mito nella pittura classica e nell’arte moderna. Caravaggio con il Narciso del 1597-1599 e Salvador Dalì con le Metamorfosi di Narciso del 1937 costituiscono i poli dirimenti di questo continuum di figure duplicate, la cui nemesi è nella storia di narcisismo espresso dall’infinita serie di autoritratti e di selfie di cui siamo vittime, dai grandi pittori ai più comuni possessori di smartphone.
Tuttavia l’inganno di Narciso ai danni di Eco sta proprio in questo misunderstanding. Egli perpetra in primo luogo il furto dell’idea di amore in termini di proiezione, ancora prima del rapimento dei sensi a favore dell’immagine. L’autoritratto, il selfie sono echi di un suono composto unicamente da figure. Non sono altro che ripiegamenti tecnici di una elaborazione di un oggetto estetico, che può essere costituito dal proprio volto come avere le sembianze di qualsiasi altro oggetto che l’artista o il ritraente sentono incompiuto dentro di sé e che ritraggono nel tentativo mai placato di ridurre il divario tra idea e percezione. L’eco è il processo in cui si esaurisce all’infinito lo scarto tra il suono originario e quello che si arriva a scrivere, a imprimere da qualche parte. Ne consegue che, psicodinamicamente, si è fatta grande confusione tra il problema narcisistico in senso stretto e la necessità di dare un segno ed una forma all’idea di noi stessi e di ciò che amiamo. Inoltre, a carico del mito sta la questione del furto della rappresentazione ai danni della raffigurazione. Narciso ruba da Eco l’unica possibilità di trasformare l’oggetto in relazione oggettuale7. Ed è proprio questa forma di violenta usurpazione che fa di Narciso un mito evidentemente mercuriale: non a caso Robert Graves nel caposaldo I miti greci (85 2; Longanesi, 1986) sostiene che uno dei nomi di Narciso fosse Anteo, appellativo di Dioniso, e che i fiori associati alla figura mitologica fossero il narciso, il giacinto e il fiordaliso: una identità con più sfaccettature, dedita alla meditazione e alla contemplazione, ma in grado di mutare con improvvisi slanci di passione.
La raffigurazione di Narciso in un quadro o in una statua, in un’opera teatrale o in una commedia sono espressioni, più o meno geniali, dell’arte figurativa o narrativa intese nella loro funzione illustrativa. Non è implicito, e naturalmente neppure escluso, infatti, l’accento narcisistico che deve essere considerato come un movimento interno, una dinamica che informa dall’interno il processo creativo e il concept di un’opera: in altre parole, il narcisismo è più che altro una condizione di partenza che viene impressa all’opera, una motivazione intrinseca o ancora meglio il mito che abita l’autore e l’opera, l’archetipo che cavalca una sponda dell’arte, che la fa propria, al qua della volontà dell’artista. Scrive Gilles Deleuze2:

La pittura deve strappare la Figura al figurativo. Bacon evoca due dati stando ai quali pittura non avrebbe con la figurazione o l’illustrazione lo stesso rapporto della pittura moderna. Da un lato la fotografia ha assunto su di sé la funzione illustrativa e documentaria, al punto che la pittura moderna non deve più assolvere a questo compito, che invece spettava ancora alla pittura antica. Dall’altro, la pittura antica era ancora vincolata a certe “possibilità religiose” che davano un senso pittorico alla figurazione, mentre la pittura moderna è un gioco ateo3. Non è sicuro, tuttavia che queste due idee, riprese da Malraux, siano adeguate. […] nella pittura antica il legame tra l’elemento pittorico e il sentimento religioso sembra a sua volta mal definito dall’ipotesi di una funzione figurativa che sarebbe semplicemente santificata dalla fede. […] Non si può certo dire che nella pittura antica fosse il sentimento religioso a sostenere la figurazione: viceversa, esso rendeva possibile la liberazione delle Figure, il sorgere delle Figure al di là di ogni figurazione. Né si può dire che alla pittura moderna, in quanto gioco, sia più facile rinunciare alla figurazione. Anzi, la pittura moderna è invasa, assediata dalle foto e dai cliché che si collocano sulla tela prima ancora che il pittore abbia iniziato il suo lavoro. Si cadrebbe infatti in errore se si credesse che il pittore operi in una superficie bianca e incontaminata. L’intera superficie è fin da subito investita virtualmente da ogni genere di cliché con cui è necessario rompere. E Bacon intende appunto questo quando parla della foto: essa non è una figurazione di ciò che si vede, ma è quanto l’uomo moderno vede. Essa non è dannosa semplicemente perché figurativa, ma perché pretende di regnare sulla vista, dunque sulla pittura. Così, avendo rinunciato al sentimento religioso, ma assediata dalla foto, la pittura moderna, suo malgrado, è in una situazione difficile per rompere con la figurazione, la quale sembrerebbe il suo miserabile dominio esclusivo. Questa difficoltà è attestata dalla pittura astratta: c’è voluta la straordinaria opera della figura astratta per strappare l’arte moderna alla figurazione. Non vi è però un’altra via, più diretta e più sensibile?

Narciso possiede l’immagine di sé come unica via della conoscenza. Egli spicca la melagrana infetta di un doloroso desiderio non di amore, ma di una gnosi della morte e della vita: dell’estremo sacrificio di sé. Guardarsi da fuori, come fosse estraneo a se stesso, o vivere nella limitazione dell’amore che è conoscenza dell’altro come condizione di conoscenza di sé attraverso l’altro? Fa ammenda della possibilità di raffigurare con religiosa aderenza al Vero, al Dio, al Mondo e all’Uomo per restare nel gioco di rimandi della rappresentazione illusoria che è, in definitiva, la sua unica “visione”: il suo orizzonte multiplo, che si moltiplica ad ogni gesto, ad ogni battito di ciglia. E il suo dolore sta nel doversi rapportare a questo orizzonte nel tentativo di scalfirlo e guardarvi dentro come uno scenario di forze anatomiche nel tentativo estremo di restituire sulla tela il mistero che sta dentro la realtà (Bacon); placarne la silenziosa inutilità resa dagli oggetti sviliti del quotidiano e celebrati nella loro immortalità (Warhol), ferire il campo proiettivo come una tela tesa e chiusa (Fontana), combattere contro quella figura che è simulacro e immagine di sé agitandone e sfocandone i contorni come un allievo privo di maestro (Twombly), ma non mai sfiorando la veste degli dei e di una qualche verità esperienziale, oltrepassando la logica della percezione e della sensazione, in un gioco di forze che stanca, che invita al “senza titolo”.
Ci focalizzeremo sull’opera di alcuni grandi pittori e artisti che hanno contribuito a trasformare il comune significato di “pittura”, portandola a qualche cosa di molto complesso che ha un rapporto difensivo o passionale, e qualche volta distruttivo, con la figurazione, e non meramente rappresentativo, ma evidentemente rappresentazionale. L’atteggiamento verso la realtà dell’arte, in questo lavoro, terrà conto del fatto che qualsiasi pittura deriva sia dalla precedente arte sia dalla precedente realtà extra-pittorica, oltre che dalle influenze delle condizioni ambientali, socioculturali, storiche e personali degli autori presi in considerazione: è l’approccio storiografico appreso dalla lezione di Mario Praz con un tematismo che «passa sopra a ogni divario di qualità estetica»4 assumendoci la «responsabilità del raccordo»5: la visione sarà eretica per essere feconda. Il nostro giudizio di valore estetico è separato da ogni analisi positivistica perché passa dall’intuizione, da ogni storia perché presuppone l’universalità dell’arte come dimensione – e non solo come esperienza fortuita mutuata dall’assemblaggio fortunato di percezioni altrimenti caotiche – assiomaticamente fondante della psiche umana.
Quando un processo artistico può definirsi abitato da una connotazione di tipo narcisistico? Si potrebbe dire, con un passaggio letterario, che il narcisismo «non è opera di carne ma di triste iniziazione», come riflette Isabella Inghirami nel Forse che si, forse che no di Gabriele D’Annunzio, a proposito della teoria della dolorosa voluttà incestuosa. Lasciando ad altri approfondimenti gli aspetti psicopatologici del narcisismo, proviamo a metterne a fuoco gli aspetti peculiari alla psicologia dell’arte, tenendo conto del monito di Jung, secondo cui «gli dei sono diventati malattie»6.
Per andare in questa direzione, occorre superare la dicotomia che vede contrapposti l’amore per sé e l’amore per gli altri, e di conseguenza l’amore narcisistico e l’amore oggettuale; non sappiamo quale sia il destino di una possibile cooperazione tra questi due livelli che, nella psicoanalisi di Freud, sembrano in contrapposizione; tuttavia sappiamo che un artista in primo luogo si occupa ed approfondisce tematiche da cui è intimamente toccato, perché ha a che fare con la propria più intima ferita. Kouth afferma che «L’individuo creativo nell’arte o nella scienza, è meno separato psicologicamente dal suo ambiente dell’individuo non creativo: la barriera Io-Tu non è così chiaramente definita […]»8. In altre parole, nella visione di Kouth l’artista rivela un’esperienza narcisistica del mondo, che lo psicoanalista definisce «avventura amorosa col mondo», un modo di cui si abbia dunque un vissuto narcisistico, ovvero una sorta di “inclusione” del mondo nel proprio Sé, che è in definitiva l’oggetto-Sé. L’amore oggettuale, quindi è in pieno concorso per uno sviluppo positivo della personalità dell’artista, in cui il ruolo dell’empatia è determinante a partire proprio dallo sviluppo della funzione estetica. Egli sostiene che

gli oggetti-sé sono oggetti da noi esperiti come parte del nostro Sé; il controllo che ci attendiamo di esercitare su di essi è quindi più vicino al concetto di controllo che un adulto si aspetta di avere sul proprio corpo o sulla propria mente piuttosto che a quello del controllo che si aspetta di avere sugli altri9.

A questo proposito Romolo Rossi e Lisa Attolini del Dipartimento di Neuroscienze, Sezione di Psichiatria, Università di Genova10:

Il termine usato da Freud per descrivere lo stato originario del lattante è «narcisismo primario». Questo stato primario del sé dà luogo, secondo Kouth, a due forme interrelate ma differenziate, centrate rispettivamente sul senso di ammirazione per il sé e sull’immagine idealizzata dell’altro. In un aspetto dell’esperienza di sé ci si aggrappa al sentimento originario di onnipotenza, nell’altro al senso di «beatitudine originaria, potenza, perfezione e bontà» della figura genitoriale. Tuttavia, la difficoltà nella sistemazione del narcisismo è quella di trovare i modi di incanalarlo e indirizzarlo nelle strutture mediatrici del sé, ed è qui che sta la chiave per impiegare efficacemente il senso della propria grandezza. Grandiosità ed idealizzazione sono dimensioni del narcisismo da cui si può partire come forme di narcisismo che si sviluppa con l’integrazione in vari tipi di trasformazioni. La prima di queste trasformazioni da prendere in esame è appunto la creatività. La creatività consiste di per sé in una forma di narcisismo trasformato. I residui delle forme più primitive di narcisismo anche nelle espressioni più avanzate del lavoro scientifico si possono scorgere, in parte, nelle maniere spesso infantili che caratterizzano la persona creativa. Il compito principale della vita è di mantenersi attivamente creativi, e ciò può venire solo dalla capacità di «stare in contatto col bambino che gioca, nel profondo della personalità, di tenersi ben stretti alla freschezza dell’incontro del bambino col mondo». L’empatia è il secondo esempio di narcisismo trasformato proposto da Kouth. L’empatia è la modalità mediante la quale raccogliamo dati psicologici a proposito delle altre persone. In sé l’empatia, che nasce dall’estetica (Einfühlung), ha in origine il significato dell’emozione del fruitore dell’opera l’arte: è ovvio che il termine indica qualcosa che deve essere del tutto a sé rispetto a qualsiasi teoria sistematica esplicativa. Un vissuto interno che è una riedizione con un’antica relazione materna, per esempio, e cioè una situazione propriamente transferale riportandosi alla sistematicità della teoria psicoanalitica, non può essere a rigore considerata empatica. Nonostante ciò, per Kohut, abbastanza contraddit-toriamente, la capacità di empatia nasce dalla nostra fusione originaria con la madre, i cui sentimenti, atti e comportamenti sono parte integrante del sé. Questa empatia primaria con la madre ci prepara a riconoscere il fatto che le esperienze interne fondamentali degli altri sono in larga misura simili alle nostre. Ma è evidente che più che derivare dalla relazione con la madre, questa relazione non è che il primo evento empatico. Il terzo esempio di narcisismo trasformato trattato da Kouth è quello dell’umorismo, che viene affiancato al «narcisismo cosmico». Entrambe a livello più profondo si collegano alla morte.

 

PARTE II. “Signo ergo sum”
Come si esprime il modello narcisistico nelle opere di Andy Warhol, Cy Twombly, Francis Bacon, Lucio Fontana.

La memento mori di Andy Warhol

Andy Warhol 11(Pittsburgh, 1928 – New York, 1987) si avvicina al ritratto con astuzia mercuriale, attraverso una precisissima opera di elusione delle regole pittoriche, tanto è vero che egli non è da tutti considerato un artista nell’accezione classica del termine ma più verosimilmente un fenomeno di tipo socioculturale e mediatico. C’è da dire che “artista” è una parola ambigua e spesso diventa il contenitore per le persone il cui contributo esce dalle cornici delle forme fino a quel momento conosciute. In ogni caso le sue opere sono un elemento centrale nelle dinamiche dell’arte contemporanea e direi della Storia dell’arte più in generale.
L’identità espressa nei ritratti è “passata”, la vita è “trascorsa”, sfiorando quel corpo eletto a simulacro e divenuto oggetto della compravendita dei diritti di servitù per il passaggio di accesi colori stesi “a zona”. Nulla vieta che il patchwork possa produrre coperte che scaldano, ma è complicato fare del patchwork qualche cosa di veramente nuovo, perché si tratta di pezzetti presi qua e là da cose conosciute e consumate. Diventa nuovo se genera un insieme diverso dalle parti di cui è composto, ma non soltanto perché è qualche cosa di più della somma delle parti. Voglio parlare dell’immagine che si costella a partire dal mosaico di elementi accostati che presi singolarmente non alludono al tutto, poiché quel tutto è qualche cosa di nuovo che non sarebbe esistito senza quel preciso modo di mettere insieme le parti e che non dipende tanto dalle parti quanto dall’equazione compositiva che sta nella mente del mosaicista. I colori usati da Warhol sono già conosciuti nel mondo della moda, i volti sono di vite consumate dalla fama, dalla vita, dal successo. Come ha potuto egli arrivare ad un volto completamente nuovo, ad esempio, di Marilyn, senza svilirne l’eleganza e senza utilizzare elementi ulteriori? Probabilmente con la potenziale spinta necrofila di chi deve mantenere in vita ciò che vivo non è. Attraverso l’illusione del venditore. L’illusione tra l’immagine emergente e la sua verità sottostante (che afferisce alla memoria di quel volto nell’immaginario comune) genera uno iato di senso difficilmente catalogabile. Se la forma resta identica (il volto), se il nome resta invariato (ad esempio Marilyn), perché immediatamente ricaviamo l’idea di qualche cosa di completamente diverso, che si proietta nel futuro alla stregua di una icona museale? In altre parole, perché una fotografia semplicissima del volto di Marilyn all’improvviso dovrebbe assomigliare ad un vaso cretese elegantemente decorato, in cui il vaso perde la sua funzione di utensile per addivenire il palco della narrazione di una storia? E che storia racconta il ritratto di Marilyn? Parla di lei o più verosimilmente parla di quello che lei NON è stata?, ovvero racconta quelle cose del suo volto di cui non ci eravamo accorti? La sua bellezza ubertosa viene stravolta a favore della possibilità di consumarla attraverso l’utilizzo del quadro sulla scorta dei bisogni dello spettatore. Esattamente come avrebbe fatto lo spettatore nelle sue fantasie private, ma tuttavia in questo caso alla piena luce, gettate in faccia, eliminando la componente di Ombra, l’elemento “segreto”. La privatezza della proiezione – una sorta di autonomia iconologica che ciascuno di noi coltiva nel proprio dominio psicologico – viene sostituita dalla valenza “sociografica” dell’idea di Marilyn, che si fa oggetto seriale un po’ come un articolo di consumo, un barattolo della Campbell.
Il mondo dell’arte infatti, attraversa a partire dalla Pop Art – e non solo per mano della Pop Art, ma in risposta ad una tensione interna irrisolta –una dinamica regressiva che porta alla dissoluzione della materia nell’opera d’arte. Se Picasso in Europa compie la stessa operazione “ferendo” la figura, e chiudendo pressoché definitivamente il capitolo millenario del dominio della forma, Warhol non ferisce ma, si potrebbe dire ab-usa, usa illecitamente e smodatamente non tanto la forma quanto l’immagine che stabilisce una nominazione: il nostro volto è l’istanza primaria che si collega al nostro nome, ma anche la Brillo Box identifica un mondo, una categoria, e Warhol stravolge non il significato ma la rappresentabilità di quell’istanza.
Decontestualizzare equivale ad estirpare, sradicare, se in gioco è l’identità. Una componente aggressiva che mal si coniuga al tema della spiritualità (ripreso anche da Arthur C. Danto in Quotidianità e sacralità nell’arte di Andy Warhol)12 in cui dovrebbe essere sublimata, canalizzata. L’affettività ne risulta coartata, perversa, autodestruente.

 Infatti il problema è fondazionale, e il critico, a partire dal pretesto della Brillo Box, si trova incagliato in una palude di contraddizioni, che hanno per oggetto principale il tema della Bellezza e i suoi assunti. La riflessione di Danto non si esaurisce all’interno di categorie filosofiche ma tiene conto degli aspetti storici e sociologici, come sostiene Tiziana Andina:

La tesi di Danto, estremamente coerente negli anni, è che il formalismo non colga nel segno nella misura in cui non tiene conto della dimensione storica delle opere. La Brillo Box non avrebbe potuto avere il valore e il significato che ha se, poniamo, Warhol avesse avuto la stessa identica idea nel 1864.13

Ed è il sociologo Howard S. Becker – noto per la “Teoria dell’etichettamento sociale” – a dare sostegno a questa lettura: nell’opera I mondi dell’arte egli propugna una «sociologia del lavoro applicata all’attività artistica» al posto di una «sociologia dell’arte»14.
L’approccio etnografico inaugura quindi il grande fiume delle teorie contestuali. Utilissime, e rischiose: ci allontaniamo dall’urgenza di Danto di trovare una definizione si flessibile, ma universale, senza tempo, di opera d’arte. Il problema quindi si pone come una costante che si sposta continuamente, aprendo ad uno scivolamento relativistico. Una zattera, il cui intreccio porta con sé il background socioculturale del naufrago-inventore, in cui la validazione del processo artistico è definita dalla tenuta di mare della zattera, la cui “bellezza” sarà il frutto dell’apprezzabilità pratica. In altre parole Warhol ridefinisce il “contenuto” dell’opera d’arte a partire da due elementi costitutivi: la “cassetta degli attrezzi” e l’accessibilità agli occhi del mondo.
Tuttavia, questo non è sufficiente a comprendere come, ad un certo punto, si sia dovuto cambiare il modello interpretativo per far fronte alla nuova realtà, connotata dalla destrutturazione della forma e dell’immagine, dalla smaterializzazione, e dall’inclusione delle tecniche più svariate e innovative, negli atelier e nelle scuole, in cui il gesto e l’azione sostituiscono la contemplazione, lo studio, il duro lavoro di bottega. A quale esigenza non tanto dell’artista ma dell’uomo, risponde questo fenomeno? Qual è quell’uomo che non ha più bisogno della forma classica, ma che sente come affine al suo gusto la forma destruente, l’immagine dissonante, l’installazione rarefatta, che si priva dei maestri (e quindi degli allievi) per far posto agli artigiani estetici? Perché la Pop Art non avrebbe una così grande rilevanza se non avesse sradicato la pittura dalla storia. E se non avesse inaugurato la trasformazione del Dna dell’arte il cui sviluppo è oggi ad un intricato crossing-over: un punto di non ritorno, una perdita della tradizione e della conoscenza che, con le nuove generazioni, non sarà possibile recuperare. Ma il nostro occhio deve essere addestrato al disincanto, poiché tutto è in perenne divenire, e nulla di ciò che osserviamo è privo di un suo precipuo inconscio.
La deriva narcisistica che sta alla base della dinamica dissociativa, che tende a separare l’oggetto dal soggetto, offre possibili sponde interpretative non solo di Andy Warhol ma di molta arte contemporanea. Partiamo dal «conflitto estetico» di Donald Meltzer: «Il conflitto estetico è quel conflitto suscitato dalla bellezza del mondo e dalla sua rappresentazione primaria»15; «… la madre bella che si offre agli organi sensitivi… (del bambino)… e il suo interno enigmatico che deve essere costruito attraverso l’immaginazione creativa»16: si tratta di andare a comprendere l’impatto estetico che la “vista” della madre-arte ha sulla psicologia dei figli-artisti. Questa madre sembra come assente, sorda, cieca, taciturna, assorbita dalla sua necessità di generare ed espandersi, mentre all’uomo il grave peso di insegnare, imparare, insegnare, imparare. Migliorare, accendere, pregare, servire, trasferire conoscenza, incendiare città, costruire città, attraversare oceani, essere pronto a salpare ancora. È priva, questa madre-arte, di una “visione” longitudinale del destino dell’uomo-apprendista, tutta protesa com’è a estendersi, a ramificarsi, a decorare tutte le chiese, a ornare le case, a farsi storia, guerra, società, organizzazione, impresa. Il ripiegamento dell’uomo su se stesso, la sua solitudine, si riflettono sulla sua capacità simbolica.
Andy Warhol è l’uomo che esprime appieno la contemporaneità dell’artista privato del conflitto estetico, si muove in una direzione apparentemente caotica. La bellezza della Grande Madre-Arte è estraniante, metamorfica, il suo seno è inafferrabile e forse troppo lontano: la vecchia Europa con le sue cattedrali è inaccessibile, soverchiante di bellezza nelle segrete e nelle catacombe, chiusa a difendersi dalle minacce della guerra. La società “occidentale” diventa la madre presente, che consente l’unica possibile simbolizzazione attraverso la distruzione della bellezza negata. La reciprocità di proiezione tra arte e oggetto dell’arte si costella come unica forma di identità, segnando il destino autoreferenziale e narcisistico dell’arte che seguirà negli anni successivi, in America come in Europa. Warhol sembra utilizzare quindi il potenziale emozionale negativo di dotazione, per neutralizzare l’impatto della bellezza sulla sua fragile e bizzarra struttura polimorfica. Il suo merito è quello di aver reso “accessibile”, come un oggetto sostitutivo, l’inafferrabile. Marilyn, inafferrabile. Detersivi e scatole di minestra, scarpe e poltrone, residui di memoria di una madre-altrove17.

Il gesto in piena di Cy Twombly

L’arte di Cy Twombly18 è un grido sull’America. Un richiamo di sangue e di cieli densi di fiori che si rompono in un boato crespo di farfalle contaminate. La sua pittura è un fiotto che rompe gli argini dell’armonia, è un soffio che imprime voli per mete non raggiunte, non possibili. La pittura di Twombly (Virginia, 1928 ‒ Italia 2011), esprime il fallimento delle utopie moderniste. Illeggibile, incoerente, improbabile. Eppure è vera e bellissima. Bisogna capire come sia stato possibile creare questa unione violenta e irreversibile, come un aereo in velocissima precipitazione che prende fuoco sulla coda, e nell’atto di avvolgersi su di sé diventa una stella cometa.
Quadri di una straordinaria epifania cromatica, di luce che esplode. In cui segni, colori e forme sono gli strumenti dell’agrimensore in un pianeta desertico di cui scongiura l’imminente deflagrazione. Sono il canto e la preghiera di un ultimo uomo verso Dio i cui occhi, che per dirla con Cormac McCarthy, un altro americano dignitario della più alta contemporaneità, «tradivano non disperazione, ma soltanto quell’insondabile, profonda solitudine che è l’impronta più tipica di questo mondo»19.
Tutta l’arte di Cy Twombly (pittore, incisore, disegnatore, scultore) è notte inoltrata che deflagra nell’aurora, è il “linguaggio dimenticato” di Erich Fromm su una lavagna stridente, è ardesia che si sbriciola a creare forme improbabili, è gemmazione di scarabocchi di luce bruciante dalle forme svelte, come le braccia di un nuotatore esperto che farfugliano nell’abisso e che nell’inconscio tumulto non smarriscono – nello smarrirsi – l’eleganza di quanto hanno appreso.
Il “quadro” deciso da Cy Twombly è una forma concreta di non-pittura, è una decisione spasmodica di andare verso la crisi linguistica e di immergersi in questo spasmo come all’imbocco della neoplasia che ha corroso velocemente l’universo percettivo del cui declino siamo attori, costretti alla visione monoculare della realtà dell’emarginazione o alla confusione conglobante e regressiva dei social-network. È una pittura di voci che si affollano ad un crocevia, dove è obbligato a stare l’artista contemporaneo che deve organizzare e riorganizzare continuamente immagini, metafore e rappresentazioni nella stanza della propria coscienza, che si affligge del proprio paradosso esistenziale, per dover essere nello stesso tempo figlio e dio, creatura e creatore.

Cy Twombly sembra aderire, per far fronte allo stress della devastante mitologia unilaterale del mondo contemporaneo, ad una tradizione “anticreativa”, come se il suo atelier fosse una prestigiosa accademia in cui lo scranno più alto è perennemente disabitato. La sua originalità è così potente che deve per forza nascondersi a se stesso, per capire qualche cosa della sua stessa talentuosa e indisciplinata arte del segno. La tecnica che lo vuole maestro nello sfocare la linea del contorno dal disegno è l’espressione di una strategia di attacco ai fianchi dell’ortodossia, è un modo per dire che l’infante è più indipendente del dio e più arrogante, più violento, più demoniaco. Del resto, il desiderio di unione deve essere spostato in una fuga in avanti verso la dimora della perfezione, verso la quale il puer muove con incessanti cadute e inappagato desiderio.
La proiezione sul futuro, su quello che sarebbe stato un disegno di Cy Twombly se egli ci avesse donato le forme belle del suo immane talento pittorico a detrimento della sua scelta di uomo autentico che decide di farsi scenario del mito della luce del mondo post-industriale, comincia già a costellarsi nel controverso ambiente del ventre acido dell’espressionismo, in cui nascono le sue prime opere, non in ordine ad una casualità, ma ad un divenire in prospettiva mitica del dramma della propria vita lacerata in cui segno e disegno, contorno e ombra, sono scissi eppure appaiati in un affiancamento in cui sembrano alloggiare danzatori solitari. Dice lo junghiano Adolf Guggenbühl-Craig:

Abbiamo [quindi] a che fare con due tradizioni: da un lato la creatività viene fatta oggetto di ammirazione, dall’altra essa viene ritenuta un attributo esclusivo di Dio e, per quanto riguarda gli uomini, la si considera soltanto una forma di hybris, di tracotanza. Sia quel che sia, con la creatività noi giungiamo faccia a faccia con Dio. E che cosa succede con l’indipedenza? Sicuramente possiamo ritenere che l’unico essere davvero indipendente in questo mondo sia Dio. Per definizione Dio è indipendente da tutto e da tutti, e tutto è dipendente da lui. Egli è l’inizio e la fine, alfa e omega del creato; […]. Noi stessi cerchiamo di raggiungere questo tipo di divinità, cadiamo vittima del complesso di Dio20.

La prospettiva mitica fu, per Twombly, forza e sembianza, significato e bellezza. Il pittore amava nutrirsene, e fare dei suoi disegni “veicoli per contenuti letterari”, dai quali cercava di liberare le figure.
L’opera di Twombly, se fosse tutta ordinata su piani paralleli, mostrerebbe una morfologia simile ad una stratificazione geologica intra-psichica in cui sembrano essersi fissati i marcatori del processo alchemico. Gli esordi, agli inizi degli anni ’50, sono connotati dall’influenza di Franz Kline e Paul Klee, e sono prevalentemente pennellate gestuali-espressioniste, in un originale e morbido intreccio di tratti, parole, numeri e porzioni (“frazioni“) di oggetti. È molto attratto dall’Italia, dove si stabilisce definitivamente nel 1960, anno in cui allestisce la prima mostra alla Galleria di Leo Castelli.
Gli anni ’60 sono caratterizzati dai cosiddetti Quadri della Lavagna, opere di grande dimensioni in cui usava la tecnica calligrafica dei graffiti su sfondi solidi di colore grigio, marrone o bianco (una tecnica a metà tra la pittura e l’incisione), in cui la scrittura viene svestita del suo ruolo comunicativo e trasferita nel campo semantico del gesto, fino a costellare appieno l’action painting, ricco di citazioni come Leda e il cigno o la famosa Battaglia di Lepanto.
In questo periodo, che è estremamente proficuo, comincia a creare le sue prime sculture astratte, le quali, sebbene varie nella forma e nel materiale, erano sempre ricoperte di pittura bianca. Twombly utilizzerà (e sarà scultore di quest’arte povera per tutta la vita) materiale preso a prestito dal fabbro, dal maniscalco, dal falegname, per dare altezza a forme semplici dalla struttura assemblata, a ricordare l’arte dei mastri antichi nel forgiare gli strumenti del lavoro: un omaggio alle cose, che si liberano della condizione di oggetti utili (come le lettere e la parola scritta) per diventare il simbolo del proprio servilismo: l’oggetto svilito dalla sua destinazione strumentale diventa un soggetto di bellezza silenziosa e perenne, come in un processo di mummificazione, in cui gesso, vernice, legno, cartone, metallo, carta, stoffa, spago, matite, diventano elementi del lavoro manuale che, ricoperti di vernice bianca e opaca, subiscono l’ultimo trattamento immortale.
Nella metà degli anni ’70 Twombly realizza opere “multistrato”, vere e proprie creature che rappresentano la piena realizzazione del suo repertorio anticonvenzionale, costruite assemblando il collage di fogli ad altri media pittorici.

Gli spazi “vuoti” sono il collante necessario al dipanarsi di una creatività splendente, che attinge spietatamente alla linguistica, piratandone i sistemi di base. Il segno diventa “lemma” e spesso è contratto in un calco filologico: come se un bambino geniale avesse la capacità improvvisa di comunicare attraverso un linguaggio in cui verbo e immagine convergono in una bocca vulcanica fatta di meraviglie e di delicatezze, che vengono alla luce con estrema cura, a volte con riferimenti geografici, come la serie dei quadri Bolsena (il lago vulcanico vicino a Viterbo).
In questi lavori, gli elementi grafici si fondono con forza tecnica sempre più rilevante in una sorta di dissoluzione vorticosa, di totale imprendibilità, ma sono talvolta caratterizzati da un nitore fantasmatico, come una sorta di alfabeto decifrabile dalla perizia di pochi eletti, come ad esempio in Apollodoro, fino a raggiungere negli anni ’90 l’acme estetico di eleganti esemplari floreali che in qualche modo lo ricongiungono, in una sorta di re-unione con il principio, ai Fauve che ne connotarono gli inizi del percorso mezzo secolo prima, nel periodo americano, in cui fu della scuola dei grandi Robert Rauschenberg e Jasper Johns.
Un esempio folgorante è quello delle Quattro Stagioni, giganteschi pannelli che sembrano dimorare tra lo spazio scenico e quello architettonico, in una sorta di danza dei colori che si raccordano in chiazze in perenne tentativo di scendere verso il basso, trattenute contro la tela da invisibili fili, come mani che tentano di mitigare l’urlo di una dea di bellezza arcaica, maestra delle pitture rupestri.
L’interno delle tavole è carico di una fortissima tensione, di una conflittualità invadente e di una cripticità linguistica che rimanda alla costante alternanza tra violenza e silenzio, tra sessualità e gioco, tra luce e fondale, in un rapporto emotivamente coinvolgente con lo spettatore: al quale non è difficile desiderare di balzare dentro il quadro e affondare gli occhi in quel coacervo di colore.
I fiori sono, in alcuni lavori, vere e proprie esplosioni e non è un caso se appartengono all’ultima parte del viaggio pittorico di Twombly. Artista ricchissimo e avido, così viene descritto, non fu mai collocato dalla critica americana nella Pop Art; questa sua ostinata originalità stilistica fu la sua fortuna: i suoi quadri sono valutati milioni di dollari e ambiti dai maggiori galleristi.
Non essendo “schematico”, si può solo ripercorrere a ritroso il suo progetto e intercettarne alcune coordinate, con una visione dall’interno, che sembra l’unica via percorribile, proprio come farebbe quello spettatore curioso e invadente. E tornando a quel processo alchemico stigmatizzato nella geologia delle opere, non è difficile individuare un alternarsi di strati di bianco, di rosso, di nero. La qualità dinamica dell’opera di Twombly si interseca con quella statica di depositaria del messaggio, è quindi un’opera magistrale che separa l’oro dal fango, e aggiunge un’aura di mistero e di sapienza, per quella inusuale competenza del maestro a rendere coscienti e ricchi sia il nero che il rosso l’uno dell’altro, stretti al confine tra il simbolico e l’astratto, uniti dall’invisibile catena dell’espressione del colore in piena luce, che sembra poter dire tutto, ma che di fatto rimanda sempre ad altro in un infinito specchio di rappresentazioni.
La catalogazione in “espressionismo”, infatti, è sempre relativizzante, perché non fa altro che dire continuamente che sotto l’espressione c’è una volontà di manifestare, di dire, di esprimere. Il messaggio “espresso” da Twombly è ancora totalmente indecifrato. Un’idea, un desiderio, di destituire il mito restituendo al sogno gli eroi e le anfore di un tempo passato21.

Il dominio della forza e della forma di Francis Bacon

Per me il mistero del dipingere oggi è il come rendere l’apparenza. So che può essere illustrata, so che può essere fotografata. Ma come può essere resa in modo da catturare il suo mistero dentro al mistero della fattura?                            FRANCIS BACON

Francis Bacon (Dublino 1909 – Madrid 1992), in una perfetta corrispondenza con la disamina narcisista, mantiene una posizione isolata rispetto ai suoi contemporanei, pur rivolgendosi all’ambito figurale22. Opera con l’ausilio di fonti diversificate (poesia, dramma, opere di altri autori, fotografia). La critica ha messo in evidenza il rapporto della poetica di Francis Bacon con il nichilismo, l’esistenzialismo, e con il surrealismo, in virtù della risonanza di Bacon con le riflessioni di George Bataille e André Breton. Tuttavia ogni tentativo di avvicinarci a Francis Bacon implica e conchiude il rispecchiamento di parti del nostro Sé. Le sue opere coinvolgono con una forza immane che ha scaturigine nella sua adesione piena e diciamo iper-narcisistica al proprio modo di sentire, vedere e percepire il mondo. Come la morte di un figlio tocca la corda più profonda di una madre (ed Eco, madre-amante mancata, si consuma nella perdita di Narciso, consapevole di non poter mediare per lui l’incontro con il mondo), così il dolore dei suoi volti, dei suoi corpi e dei suo ambienti risuonano nella stanza più profonda di chi vi si accosta. La necessità di esporre la perdita degli oggetti primari nell’arte di Bacon è un’alchimia della vergogna e del ripudio, l’apoteosi della realtà stuprata per evitarne l’immanente collasso; la deformazione come ultima istanza di deflagrazione del riflesso nello stagno, per farne l’unica possibile reificazione, esponente ideale di un Io negativo, di segno opposto al grandioso, che non è censurabile dal Super-Io, perché nasce all’interno, condizionato dalle pulsioni istintuali alla base della struttura psichica: una manifestazione esteriore del funzionamento della carne, una soddisfazione in cui«l’oggetto è importante solo in quanto è invitato a partecipare al piacere narcisistico [del bambino] e quindi a confermarlo»23, sviluppato attraverso un’intelligenza creativa straordinaria, che riesce in qualche modo a rappresentare l’annegamento di Narciso entro se stesso, come una sorta di attaccamento narcisistico all’interno del corpo come appendice dell’immagine di Sé. Questa ricerca radicale è denunciata dallo stesso Bacon, quando afferma: «Io voglio deformare le cose al di là delle apparenze ma allo stesso tempo voglio che la deformazione registri l’apparenza»24. Scriverà Gilles Deleuze25:

In arte, in pittura come in musica, non si tratta di riprodurre o di inventare delle forme, bensì di captare delle forze. È per questa ragione che nessuna arte è figurativa. La celebre formula di Klee: «non rendere il visibile, ma rendere visibile», non significa niente altro. Il compito della pittura si definisce come il tentativo di rendere visibili delle forze che non lo sono. […] E il genio di Cézanne non consiste proprio nell’aver subordinato a questo compito tutti i mezzi della pittura? Rendere visibile la forza di corrugamento delle montagne, la forza di germinazione della mela, la forza termica di un paesaggio… E Van Gogh, non ha forse anch’egli dato espressione a forze sconosciute – la forza inaudita di un seme di girasole? […] Si direbbe che, nella storia della pittura, le Figure di Bacon siano tra le risposte più sorprendenti alla domanda: come rendere visibili forze invisibili? Tale è anche la funzione primordiale delle Figure. […]. È come se forze invisibili schiaffeggiassero la testa dalle angolazioni più svariate. E qui le regioni del volto ripulite, trattate a spazzola, assumono un nuovo significato, poiché evidenziano proprio la zona in cui la forza sta colpendo. In questo senso i problemi di Bacon sono di deformazione, non di trasformazione. La trasformazione della forma può essere astratta o dinamica. Ma la deformazione inerisce sempre al corpo, è statica, si produce nell’immobilità; subordina il movimento alla forza, come pure l’astratto alla Figura. […] Cézanne, a forza di ricondurre la verità al corpo, è forse il primo ad aver prodotto deformazioni senza trasformazione. Anche per questo Bacon è cézanniano: in Bacon come in Cézanne, la deformazione è ottenuta sulla forma in riposo; e al tempo stesso tutto il contorno materiale, la struttura, cominciano a muoversi, «le pareti si contraggono e si spostano, le sedie di chinano oppure si sollevano di un poco, gli abiti si accartocciano come fogli di carta in fiamme» (D.H. Lawrence). […] Le deformazioni di Bacon raramente risultano imposte o forzate, nonostante l’apparenza, non sono mai torture: sono, al contrario, le posizioni più naturali di un corpo che si raccoglie in funzione della forza semplice che si esercita su di lui, voglia di dormire, di vomitare, di voltarsi, di rimanere seduto il più a lungo possibile…

Per Deleuze, Bacon agisce come un rivelatore della forza e del movimento della forza. Individua tre grandi gruppi di forze invisibili in Bacon: le forze di isolamento, le forze di deformazione, le forze di dissipazione. Naturalmente ne enumera molte altre, ad esempio la forza di accoppiamento, la forza del tempo mutevole e la forza del tempo eterno…26
La prospettiva mitica è predominante e la dinamica de-idealizzante applicata alle figure non fa che rinforzare la specularità narcisistica che muove forze arcaiche, alla ricerca di una empatia residuale, attraverso un processo assimilabile a quello che nell’analisi del transfert Kouth chiama «internalizzazioni trasmutanti», volte a mitigare e modificare il Sé grandioso del paziente. Si potrebbe definire questo narcisismo estetico come una fase di conquista dell’autonomia iconologica e iconografica, che definisce «uno speciale campo poetico, una situazione in cui l’arte poteva imboccare la strada dell’emancipazione dai mezzi espressivi ereditati, che in passato avevano servito ai compiti d’illustrazione, interpretazione, documentazione ideologica»28.

Jean-François Lyotard, nella sua analisi critica del “soggetto” nella postmodernità, dedica al rapporto tra arte e figura un saggio fondamentale, Discorso, figura29 del 1971. Svettano, tra tutte le opere, gli autoritratti: si offrono come fianchi animati al nostro sguardo, aprendo alla riflessione sulla creatività divergente e delirante del narcisismo dialettico. Xenia Nibrandt, nel suo lavoro La schiuma dell’inconscio. Un approccio lyotardiano alla deformazione negli autoritratti di Francis Bacon30, sostiene:

La figura umana è il soggetto che «divora l’anima»31 a Bacon, facendolo insistere sui ritratti, degli amici, degli amanti, di sé. Sebbene si possano considerare tutti i suoi dipinti, a suo stesso dire, dei ritratti e anche degli autoritratti – in essi si oggettiva la relazione intima dell’artista, a livello percettivo e reattivo, con il mondo in cui opera –,4 la preoccupazione della presente riflessione è la deformazione cui sono sottoposti gli autoritratti. Nei cinquantadue dipinti individuati sul tema e realizzati tutti, tranne il primo, nella seconda metà del Novecento, Bacon si autorappresenta secondo due modalità: a grandezza quasi naturale, in primissimi piani della testa a malapena contenuti in tele dalle dimensioni 35,5 x 30,5 cm, e a figura intera in formato verticale, che dagli anni settanta in poi si fissa alle misure 198 x 147,5 cm. L’artista predilige il lavoro in serie, forma che lega assieme le immagini dei singoli pannelli e nello stesso tempo conserva la loro autonomia, come indicano anche gli sguardi che non si incrociano mai. Ci sono tre dittici (1970, 1972 e 1977) e quattro studi su un’unica tela (1967), ma la forma preferita è il trittico, adottato quasi esclusivamente per gli autoritratti-teste disposte nei singoli pannelli a volte «come fossero foto segnaletiche, prima un profilo, poi di fronte, poi l’altro profilo» (1967, 1983), altre volte in pose similari (1973, 1974, 1976 e 1980); pochi i trittici a figura intera (1973, 1985-86, 1991). Già il primo autoritratto, risalente al 1930 e scoperto soltanto una decina d’anni fa, mostra una testa scomposta in superfici spigolose e cromaticamente vivaci che, nonostante la chiara influenza del cubismo, prelude già a ciò che sarà la sua maniera più caratteristica di lavorare: «trascinare i lineamenti ora in una direzione ora nell’altra».                                               […] Diversamente agisce la deformazione sulla spazialità che accoglie e a volte circonda gli autoritratti a figura intera. Bacon conserva la rappresentazione dello spazio secondo il sistema prospettico ereditata dal rinascimento, ma la altera. Nei due autoritratti degli anni cinquanta lo spazio si perde nell’oscurità dello sfondo condividendo la sorte con la figura. Un effetto prospettico, perfino un’esasperazione di esso, deriva soltanto dall’ardito scorcio dei piedi, la parte più vicina all’osservatore, presente nella figura del 1956 e da allora in poi in molte altre. La produzione successiva è caratterizzata da una profondità esigua e poco articolata. Più di tutto sortisce un effetto di piattezza, che contraddice la profondità che invece vorrebbe evocare, mentre proietta le figure in avanti, l’uso di dipingere il fondo ad ampie campiture monocrome con colori acrilici puri stesi in maniera uniforme e liscia. Lo spazio può perfino restringersi alla bidimensionalità della tela pittorica posta a modo di parete inclinata (1970), o a evocarlo è sufficiente un riquadro nero sulla tela grezza (1972, trittico del 1991).

Lo spazio fittizio è incrinato e squilibrato ancor di più dall’inserimento di piani bidimensionali che non si integrano nella scena.
Possiamo afferrare, a questo punto, la veste di Narciso mentre sta per inabissarsi nella sua propria immagine, e fare qualche considerazione prima di lasciarlo al proprio destino. Le istanze di disintegrazione sono così evidenti da lasciare interdetto il pensiero, da lasciarlo indietro. Le emozioni si aggrovigliano al limite dei corpi e dei tratti del volto, nel tentativo di aggrapparsi alla vita ultima. Alla necessità di rappresentare si sostituisce la necessità di trovare un linguaggio adeguato ad una minima comprensione che non lasci l’occhio irrigidito ed escluso, unico testimone smarrito di una storia di solitudine, di amori e specchi infranti, di dolore per dover esistere al limitare di uno stagno, di urli inascoltati che si disperdono negli echi delle rovine e delle macerie, in un viaggio ad incontrare l’uomo straniero a se stesso, definitivamente privato all’Altro. Questo linguaggio va formulato, ed è forse il linguaggio del sogno, o gli assomiglia moltissimo. Ancora Xenia Nibrandt33:

La costituzione dell’oggettività va intesa come un «manifestare che nasconde», poiché da forma a una presenza-assenza, sul modello della relazione fort-da osservata da Freud. Il linguaggio riesce a porre il sensibile come oggetto dotato di spessore in quanto simultaneamente lo rende presente (designa) e lo sottrae al suo senso immediato (significa). Ma, per la sua fondamentale proprietà referenziale, riesce a costituire non solo ciò che manifesta-afferma, ma anche ciò che nasconde-nega: nell’esistenza è contenuta e occultata un’inesistenza, al lato invisibile del mondo visibile corrisponde un non mondo – l’inconscio delle pulsioni dispiacevoli che sono state rimosse-negate.

L’ingresso nell’Ade vivificante dell’inconscio apre a digressioni pressoché infinite. Uno dei problemi è che nel sogno, il linguaggio è solo apparentemente destrutturato e caotico, e di fatto ancora viene esercitato un controllo da parte delle istanze super-egoiche, degli archetipi, dai desideri.

Come rileva Deleuze, Bacon ritiene che i tratti asignificanti debbano essere inseriti nell’insieme attraverso un sapiente gioco di contrappesi e al contrario esecra un’estensione indiscriminata degli elementi caotici a tutte le fasi della realizzazione artistica, come nell’action painting, o all’intero quadro, come nella pittura informale34.

Limitiamoci a dire che al Narciso che decide di intraprendere la strada della conoscenza di sé non resta una distruzione immediata e indolore: intraprende in realtà un percorso che è croce e resurrezione, un’onda percettiva la cui costante che passa attraverso il corpo e il volto umano. Narciso Anarca, cui tocca vagare con lo sguardo acceso dal Sé straniero, cui non sa offrire un destino compiuto, privato del senso del tempo, non resta che la caduta incompiuta nel sogno e nel mondo infero, prima di accogliere una cura per la sua ferita narcisistica.

La ferita sul vuoto di Lucio Fontana

Non appena pone il punto, lo spirito è un occhio (lo diventa nell’esperienza come lo era diventato nell’azione).
GEORGES BATAILLE

Un sogno, serve a vedere l’invisibile, e a nascondere il visibile. Una ferita è sicuramente un luogo elettivo per poter accedere al mondo immaginale, e al cuore di quell’ “estetica del male”, per dirla alla Bataille, che assomiglia al rovescio di un ricamo gentile, a quella duplice esazione di verità che si costella ogni volta che il supplemento dell’Io si ritrova ad annaspare nella palude che per Narciso fu stagno e specchio. Che cos’è, quindi, la ferita in un ordine linguistico come quello proposto da Lucio Fontana nei suoi straordinari “tagli“? Più addentro, immagine e parola. E questo cambio di prospettiva si apre come una faglia, non c’è il tempo per tornare a guardare come prima che si spalancasse l’orizzonte sotterraneo.
Orizzonte che è telos e nostos. Perché è scoperta e viaggio e ricordo, è passaggio e visione dal di dentro. Questo è il registro del doppelgänger nel tema del sogno. Ed è metafora. Metafora pura, spaziata, ordini e disordini protoverbali di idee primigenie, embodied cognitions nell’involucro percettivo dei sensi. Nulla vieta di percorrere sentieri riduzionistici in una mappa di digressioni che ci facciano da sponda. La ferita è declinazione, è segno complesso, è morfema in grado di definire un atto linguistico in rapporto a quel che accade, nel modo in cui accade.
Ridurre la produzione creativa (figurativa, astratta, informale ma sempre sperimentale) di Lucio Fontana (Rosario, 1899 – Comabbio, 1968), fondatore del movimento spazialista, ai “buchi” e ai “tagli”, è una evidente caduta stereotipica. Tuttavia non possiamo non tenere conto del fatto evidente che è con questi che viene spesso identificato dal pubblico e dalla critica. Una delle ragioni potrebbe essere proprio la rilevanza psicodinamica del “taglio”, autentico colpo inferto con forza a quella nuda immagine che è una tela senza alcuna voce, senza più eco. Un atto di estrema libertà, che ferisce e che permette di vedere, di valicare, di accedere ad uno spazio nuovo, in cui la tensione formale e immaginativa subisce il contraccolpo del viaggio, dell’esperienza dolorosa: uno spazio che è una nuova annessione a favore della coscienza, una nuova domanda. Francesco Poli35 a proposito dei Concetti spaziali:

Comunemente definiti Tagli, i Concetti spaziali, attese sono i lavori più famosi dell’artista. Sono opere che mettono in gioco, nel modo più essenziale e sostanziale, la natura stessa dell’identità dello spazio pittorico. Attraverso un’azione diretta che si attua in un attimo, l’artista, tagliando la tela con una lama affilata, traccia sulla superficie uno o più segni che aprono letteralmente la via della terza dimensione (la profondità reale), uno spazio “al di là” che mette in moto una carica di energia estetica, nel senso della tensione formale e immaginativa. […] Fontana ha prodotto numerose tele tagliate con caratteristiche variate: con più tagli in sequenze ritmiche; su superfici lisce monocrome o con spessori materici (anche con frammenti di vetro colorato); in gruppi di tele diversamente sagomate e disposte sul muro (I quanta); con interventi su lastre di ottone lucido. Ma forse, per il loro impatto visivo icastico ed essenziale, sono i quadri con solo taglio centrale su fondo monocromo, in particolare bianco, quelli più affascinanti. E lui stesso ha dichiarato: «Conta l’idea. Basta un taglio». Questa operazione artistica è stata interpretata nei modi più diversi. Per esempio: come uno sfregio puramente provocatorio; come una performance gestuale (una sorta di action painting più “incisiva“); come metafora sessuale; e anche, con qualche ragione, come un gesto che ha certe valenze Zen (gli arcieri Zen dicono: «Un colpo. Una vita»).

Un taglio si presta a infinite interpretazioni, si potrebbe obiettare. Il problema potrebbe essere ribaltato in ottica di rinuncia. A che cosa “serve” tagliare una tela, se non a “dire” qualche cosa che diversamente è indicibile? In questo infatti sta il logos di ogni pittura, la sintassi di un’operazione grammaticale altrimenti inutile. Il fuoco della riflessione deve essere, a nostro avviso, la richiesta di «“superamento” di tutti i generi, le forme, le materie e le procedure tradizionali in nome di un’arte nuova, un’arte con intenzioni totalizzanti che comprende materia, suono, movimento, colore in unità di tempo e spazio»36, auspicata da Fontana attraverso il Manifesto Blanco (Buenos Aires, 1946) e sintetizzata nell’integrazione in una «unità fisico-psichica» delle manifestazioni dell’arte, e nel Manifesto tecnico dello spazialismo del 1951, scritto dal solo Fontana. Il solipsismo di questi enunciati, la loro ira di grandioso rifiuto di tutti i codici precedentemente utilizzati dagli artisti, sembra essere l’estrema voce di una necessità di oltrepassare il guado e di annientare la funzione di rispecchiamento, evidenziando una impossibilità di accedere ad una qualche identificazione nei maestri precedenti: l’irreversibile “caduta degli Dei”, profetizzata da Nietzsche agli inizi del Novecento. Se, sempre con Nietzsche, «Tutto ciò che è profondo ha bisogno di una maschera», che cos’è l’implicito di là della tela, quale identità sopraggiunge in quello spazio agognato con veemenza furibonda e graffiante? Forse un nauseabondo vuoto vertiginoso e nullificante, sartriano. Ed è la maschera, la tela, la “cosa ferita”, che acquisisce identità al posto dello spazio desiderato: il desiderante controlla l’oggetto appropriandosene, integrandolo in un luogo inscindibile dall’Io, proprio come avviene nella classica formulazione narcisistica psicodinamica. Marìa Zambrano offre, nello scritto sulla pittura La distruzione delle forme (Buenos Aires, 1945)37, una disamina lucidissima e incantevole, preziosa:

Nella maschera si erge davanti all’uomo l’ambiguo, il demoniaco, il sacro insomma, con quell’ambivalenza che del sacro è caratteristica. Forgiare un volto nell’arte è conseguenza di averlo già forgiato nella mente, è lo specchio e il risultato della decisione di essere uomini e del fatto di aver ormai trovato una nozione, un sapere previo, intorno al consistere dell’uomo. In mancanza di questo, come sarebbe stata possibile la nitida immagine, la semplicità ottenuta da un Fidia, da una scultura che è tutta una definizione? Immagine plastica che è conseguenza della Filosofia, strumento che l’uomo ha forgiato nel momento in cui ha deciso di essere tale. Nel nostro tempo si verifica, tuttavia, un evento strano, dinanzi al quale le persone ancora si scandalizzavano frivolamente, «dando per scontato…»: è l’istante in cui l’arte europea di qualsiasi provenienza si presenta nell’agghiacciante aspetto della distruzione delle forme. […] Era di nuovo la maschera. […] Era l’eclissi del «naturale». Quel naturale che il capriccio di alcuni – questa l’opinione dei più – metteva al bando. Il volto umano, il volto degli uomini e il volto con cui l’umano guardava a se stesso, contemplandosi nel suo specchio rassicurante, scompariva. L’arte, quella della figura e quella della parola, cessava di assolvere questa funzione di equilibrio e di pacificazione che le era stata tacitamente affidata da tanti secoli; rinunciava ad essere la medicina, rimedio e stimolo confortante. Per la prima volta era inquietante a un grado estremo, deprimente in qualche caso. Tornavano a mostrarsi cose che l’umanità non ricordava; un passato remoto lasciato indietro riviveva. Vecchissimi dèi dovettero sorridere, e migliaia di potenze sconfitte dovettero accorrere, leggere, alla chiamata. Ciò che a prima vista appariva, così, era una disintegrazione evocatrice della morte: l’esperienza che abbiamo della vita, è che la morte è ciò che distrugge e disintegra soltanto, e che unicamente essa è capace di far retrocedere il divino processo con cui qualcosa di vivo si genera. La morte è la genesi al contrario, […].

Quale straniamento può pervadere l’artista, dunque l’uomo, che pratica una così netta dissoluzione della forma a favore di una svolta che segni la storia intera dell’arte del ’900, avviandola al suo destino estetico? Alla videoart, alla performance, all’installazione, alla rarefazione della materia? Uno straniamento che è simile al risveglio perpetrato per la via del delirio, del fantasma, dell’illusione.
L’aggressività del gesto espresso in Fontana, non è dissimile dall’aggressività di una vita che tenta di uscire dal magma estatico di una condizione unicamente narcisistica. È un tentativo che persegue la via estetica, in una dinamica eroica, che possiamo “rileggere” ribaltando la tela, esaminandola dal di dentro e dal suo interno, dalla stessa parte da cui Bacon osserva i corpi degli uomini che ritrae. Giovanni Cucci e Andrea Monda, nel saggio L’arazzo rovesciato. L’enigma del male38, enunciano le caratteristiche dell’eroe, che sembra in qualche modo ricalcare il modello:

Percezione di ciò che sta capitando in termini di gravità etica; riconoscimento di un potere a disposizione; urgenza di un intervento da mettere in atto; il coraggio di attuare l’esigenza di giustizia. Inoltre l’eroe avrà l’autotrascendenza come capacità di comprendere l’avvenimento nella sua globalità, rendendo possibile la consapevolezza; e infine la capacità di essere «presenti al presente», la traduzione psicologica della vigilanza evangelica.

Quello spazio “oltre la linea” è la terra di una promessa estetica cui approda l’artista che sente una forte responsabilità, per il compito che gli è stato assegnato: rinnegare i maestri per approdare a una vitalità completamente rinnovata, in un desiderio idealizzante di unità e di unicità. La passione con cui opera è pari soltanto al controllo che gli necessita esercitare per non essere avviluppato dalla sua stessa natura, che è materia al pari di quella terra-madre che deve deturpare, di quella tela grezza su cui ha organizzato i primi segni ancestrali della sua arte. L’arma è affilata, il bordo cruento, lo sguardo aguzzo e pietrificato, saturo.

Parte III. “Di Passione e di Ombra”

Osservazioni Conclusive

Non è forse la massima sventura, quando si lotta contro Dio, quella di non essere vinti?
SIMONE WEIL, L’ombra e la grazia

Art is the triumph over chaos.
JOHN CHEEVER, The Stories of John Cheever, 1978

Alcuni grandi artisti dell’arte moderna hanno utilizzato un sistema simbolico-rappresentativo «importante», facendo ricorso anche al mito, nel tentativo di «comprendere» le dinamiche dell’aggressività, spiegarle, sottoporle ad interrogativo filosofico, psicologico, religioso, etico.

Nell’arte contemporanea l’artista sembra rinunciare alla propria funzione di «mediatore» tra istanze inconsce e realtà oggettiva, talvolta essere privo della forza psichica necessaria a gestire la tensione che è generata dall’essere contemporaneamente «mezzo» e «creatore», rinunciando alla dimensione religiosa e alla posizione filosofica che lo investirebbero oltre le sue possibilità. Il nichilismo del ’900 aggrava la sua condizione di impotenza, che spesso esprime attraverso un passaggio all’azione artistica trasferendo l’«istinto» in un sistema di «tracce» che afferiscono alla sfera concettuale, informale, linguistica. Il linguaggio dell’arte contemporanea tende quindi ad esprimere l’aggressività e la violenza applicando una ferita alla rappresentazione: con Picasso (e Les demoiselles d’Avignon, 1907) crolla il dominio della forma e ha inizio la grande trasformazione delle rappresentazioni, che si trasferiscono nel dominio della metaforizzazione. Impariamo dalla psicologia interpersonale di Romano Biancoli che

la passione di controllare non si placa mai, perché la sicurezza che rincorre svanisce nel momento in cui è afferrata. Volendo agguantare la vita, ci si ritrova padroni solo di uno schema di vita. […] L’efficacia del controllo e la voluttà che esso procura stanno nell’alternarsi ottimale fra stretta della presa e suo allentamento. La passione del controllo si intensifica fino all’affacciarsi della morte e poi si ferma39.

La connotazione fortemente narcisista dell’arte contemporanea rende sempre più improbabili i processi di identificazione che stanno alla base della visione e re-visione della dimensione creativa. L’opera d’arte cede il posto alla performance e all’arte informatizzata e multimediale. La perdita massiva della quota «concreta» che caratterizza questo attuale e complesso «mondo» iper-comunicativo necessità di una risposta da parte dell’Uomo.
L’Io, la Coscienza, necessitano di un campo visivo, relazionale, di movimento e di linguaggio che riportino ad una condizione primaria e primigenia l’espressione concreta del mondo delle rappresentazioni. La società contemporanea ha esploso il rimosso del corpo attraverso una particolare forma di psicodramma che vede protagonista la superficie corporea e il mondo delle relazioni sessuali come unici scenari disponibili al ritorno delle rappresentazioni.
La costellazione di Ombra che si delinea apre ad orizzonti che richiedono amplificazioni dell’analisi della funzione trascendente nella psicologia dell’artista e nelle dinamiche interne all’arte contemporanea. Il narcisismo sociale e individuale, tematiche di una vastità estrema, che mettono timore e tremore.

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1Metamorphoseon libri XV, poema epico in latino scritto tra il 2 e l’8 d.C., libro III.
2 G. DELEUZE, Francis Bacon. La logica della sensazione, pp. 29-31. Quod Libet, Macerata 1995 (ed. originale: Francis Bacon. La logique de la sensation, Éditions de la différence, Parigi 1981).
3 Deleuze si riferisce a Bacon, quando si chiede perché Velàzquez poteva restare tanto vicino alla “figurazione”. E risponde che, da un lato, la foto non esisteva ancora e, dall’altro, la pittura era legata a un sentimento religioso, sia pure vago, in Conversazioni, ovvero La brutalità delle cose: conversazioni con David Sylvester, di Francis Bacon, nei “Quaderni Pier Paolo Pasolini”, Editore Associazione Fondo Pier Paolo Pasolini, 1991, pp. 26-27 (David Sylvester, The Brutality of Fact: Interviews with Francis Bacon 1962-1979). Gilles Deleuze dice inoltre a questo proposito: «E quando Bacon, per parte sua, parla della foto e del rapporto fotografia-pittura, dice qualcosa di molto più profondo», in Francis Bacon Logica della sensazione, op. cit., p. 29.
4 F. ORLANDO, Costanti tematiche, varianti estetiche e precedenti storici, p. XII, saggio introduttivo a M. PRAZ (1930), La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, Bur, RCS, Milano 20092 .
5 Ibidem.
6 C.G. JUNG (1967), Opere Complete, vol. XIII par. 54, p. 47. Ed. italiana a cura di L. AURIGEMMA, Bollati Boringheri, Torino 1966-2007.
7 Nel 1966, nel saggio Forme e trasformazioni del narcisismo, Kohut sostiene che «L’antitesi del narcisismo non è la relazione oggettuale, ma l’amore oggettuale. Una profusione di relazioni oggettuali può occultare l’esperienza narcisistica del mondo oggettuale, mentre l’apparente isolamento può essere lo scenario per una quantità di investimenti oggettuali abituali».
8 H. KOUTH (1957), La ricerca del Sé, Bollati Boringhieri, Torino 2005 (Death in Venice by Thomas Mann. A story about the disintegration of artistic sublimation, Psychoanal Q, n° 26, pp. 206-228).
9 H. KOUTH (1971), Narcisismo e analisi del Sé, trad.it. Bollati Boringhieri, Torino 1976.
10 R. ROSSI, L. ATTOLINI, L’arte del guarire o guarire con l’arte, Revue des Littératures de l’Union Européenne, n. 6, 2007, pp. 73-83. www.rilune.org
11 Tratto da I. BATTAGLINI, La memento mori di Andy Warhol. Frontieradipagine_magazine on line. Polo Psicodinamiche, Prato 2014
12 A. DANTO, Quotidianità e sacralità nell’arte di Andy Warhol, in G. MERCURIO (a cura di), Andy Warhol. Pentiti e non peccare più! (Repent and sin no more!), SkieaMilano, Skira, 2006.

13 T. ANDINA, Arthur Danto. The Abuse of Beauty, 2003, in “2R – Rivista di Recensioni Filosofiche”, vol. 6, 2007.
14 Cfr.: H.S. BECKER, I mondi dell’arte, ed. italiana a cura di M. Sassatelli, Il Mulino, Bologna 2004.
15 D. MELTZER, Sinceridad y otros trabajos, Spartia, Buones Aires, 1997, p. 493.
16 D. MELTZER, M. HARRIS WILLIAMS (1988), The Apprehension of Beauty. The Role of Aesthetic Conflict in Development, Art and Violence. London: The Roland Harris Educational Trust [trad. it. Amore e timore della bellezza: il ruolo del conflitto estetico in sviluppo, l’arte e la violenza. Roma: Borla, 1989].
17 Tratto da I. BATTAGLINI, op. cit., 2014.
18Tratto da I. BATTAGLINI, Il gesto in piena di Cy Twombly, Frontieradipagine_magazine on line. Polo Psicodinamiche, Prato 2013.
19 Cfr.: C. MCCARTHY, Oltre il confine, Einaudi, Torino 2006.
20 A. GUGGENBÜHL-CRAIG, Il bene del male. Paradossi del senso comune, Moretti&Vitali, Bergamo 1998, pp. 27-28.
21 Tratto da I. BATTAGLINI, op. cit., 2013
22 Lyotard adopera la parola “figurale” come sostantivo, e per opporla a “figurativo”. Cfr: J.-F. LYOTARD, Discorso, figura (1971), Edizioni Unicopli, Milano 1988.
23 H. KOHUT, Potere, coraggio e narcisismo: psicologia e scienze umane, Astrolabio, Roma 1986, p. 123.
24 F. BACON, La brutalità delle cose. Conversazioni con David Sylvester, Quaderni Pier Paolo Pasolini, Garzanti, Milano 1991, p. 35.
25 G. DELEUZE, Francis Bacon. La logica della sensazione, pp. 117-125. Quod Libet, Macerata 1995 (ed. originale: Francis Bacon. La logique de la sensation, Éditions de la différence, Parigi 1981).
26 Ibidem.
27 P. MIGONE, il Concetto di Narcisismo, in Il ruolo terapeutico, Psicoterapia e Scienze Umane, 1993, pp. 63-64.
28 K.TEIGE, Il mercato dell’arte, in K. TEIGE, Il mercato dell’arte. L’arte tra capitalismo e rivoluzione, a cura di G. PACINI, Einaudi Torino 1973, p. 12.
29 F. LYOTARD (1971), Discorso, figura, Edizioni Unicopli, Milano 1988.
30 X. NIBRANDT, La schiuma dell’inconscio. Un approccio lyotardiano alla deformazione negli autoritratti di Francis Bacon. Esercizi Filosofici 3, 2008, pp. 72-89.
31 «Per me l’arte è un’ossessione della vita e poiché siamo degli esseri umani, siamo noi il soggetto della nostra ossessione. Poi vengono gli animali e dopo ancora il paesaggio» (F. BACON, in D. SYLVESTER, 1991, p. 49).
32 Il giudizio di R. Alley è riportato, assieme alle circostanze del rinvenimento, nel quotidiano Daily Telegraph, 18 giugno 1998 (at http://www.francis-bacon.cx./newfound/bacon-stewart.html).
33 X. NIBRANDT, Op. cit.
34 G. DELEUZE, Francis Bacon. La logica della sensazione, pp. 184-185. Quod Libet, Macerata 1995 (ed. originale: Francis Bacon. La logique de la sensation, Éditions de la différence, Parigi 1981).
35 F. POLI, Fontana. Spazio e libertà, in “Arte”, mensile di arte, cultura, informazione, Aprile 2014, pp.70-76.
36 Ibidem.
37 M. ZAMBRANO (1945), La distruzione delle forme, in Dire Luce. Scritti sulla pittura, a cura di Carmen Del Valle, Bur, Milano 2013, pp. 49-64.
38 G. CUCCI, A. MONDA, L’arazzo rovesciato. L’enigma del male, Cittadella Editrice, Assisi 2010, pp. 135-136.
39 R. BIANCOLI, Controllo e creatività, Relazioni al convegno “Dalla necrofilia alla biofilia: linee per una psicoanalisi umanistica“, Firenze 1986.

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Irene Battaglini, 2014
ceo@polopsicodinamiche.com

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Per gentile concessione della Prof.ssa Maria Ammon, Dap, Berlino, sono stati pubblicati on line in:
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Le dinamiche affettive nell’opera di Aleksandr Sergeevič Puškin

XVII Congresso Mondiale di Psichiatria Dinamica, San Pietroburgo 2014

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LECTURER
Doctor Andrea Galgano, poet, writer, literary critic, professor of literature at Erich Fromm School of Psychotherapy, Florence

Italian Branch
Chairman Doctor Ezio Benelli, International Foundation Erich Fromm, Florence

Abstract
The affective dynamics in the work and thought of Alexandr Pushkin

Alexandr Pushkin is the poet of harmony and its forced deprivation, such as correspondence of cosmic forces and order of universal life. In the analysis of his affective plots slides his secret freedom, its integral attachment with the historical events and the destinies of his time.
The art of Pushkin feels the weight of the art’s contradiction and its never-ending dialogue with the vertex of the freedom. It has gone through the literary and lively drama, as evidenced by the lyric, the tragedy, the prose and the history of criticism.
Even his family life shows the signs of a wound and an icy breath. The latent and grumpy relationship with his emotional tension, locates in the image of the snowstorm, his worthy representation.

The inevitability of fate is accompanied by the fatality dramatically lived, that doesn’t gain only the tragic meaning, but tries always to chase the spasm of the harmony and the balance point. Myth and reality that merge and end up to look the same. The talk follows these multidisciplinary lines, investigating the adversity of the contrasts between the characters, the relationship between the social struggle and the human ethical criterion. Here is his territory, as his death in a duel that becomes the tragic emblem of the poetry and the Russian people, in a dense and layered tissue of Romanticism and Realism.

leggi in pdf PUSKIN

Aleksandr_PuskinAleksandr Sergeevič Puškin (1799-1837) è il poeta dell’armonia e della sua privazione forzata, come corrispondenza di forze cosmiche e ordine della vita universale. Nell’analisi delle sue trame affettive scorre la sua segreta libertà, il suo integro legame con le vicende storiche e i destini del suo tempo1 .
L’arte di Puškin avverte il peso della contraddizione dell’arte e del suo colloquio inesausto con il vertice della libertà. Essa ha attraversato il dramma letterario e vitale, come si evince dalla lirica, dalla tragedia, dalla prosa e dalla storia della critica. Persino la sua vita familiare presenta i segni di una ferita e di un gelido alito. A tal proposito, così Pietro Citati scrive:

Non so quale poeta moderno abbia diffuso attorno a sé il fascino, che irradiò Aleksandr Puškin negli ultimi anni di vita. Forse soltanto il giovane Goethe e Baudelaire. Quando passeggiava per la Prospettiva Nevskij, aveva una tuba un po’ lisa, e un lungo cappotto rivestito di pelliccia e segnato dal tempo: al cappotto mancava sempre un bottone. Non era più il ribelle della tumultuosa giovinezza. Aveva accettato la realtà, la società, la famiglia: persino lo zar; e la società di Pietroburgo, mondana, frivola, perfida piaceva al suo acuto spirito mondano. Amava la musica secca del pettegolezzo, il suono breve della battuta, l’eleganza effimera dei balli. Proprio lui, lo spirito più libero dell’ Ottocento, era diventato un poeta-cortigiano, come Ariosto e Tasso: era consigliere e confidente dello zar; e questa parte gli piaceva e lo umiliava. Molti testimoni lo ritraggono a corte, o nei salotti aristocratici di Pietroburgo. Amava la bella conversazione: giocava con le parole, intrecciava merletti di una frivolezza squisita, si accendeva: lasciava che il suo disinvolto pensiero prendesse il suo passo naturale: svagato, indifferente ai sistemi, innamorato della pointe e dell’ immagine. Era elegantissimo, capriccioso, imprevedibile: la sua grazia era fondata sulla mobilità, la sprezzatura e, soprattutto, una cosciente aritmia. […] Ad un tratto si abbuiava. La letizia rivelava una malinconia sempre più cupa e ombrosa, o delle passioni e dei furori che a prima vista sembravano incomprensibili. Allora nessuno degli ascoltatori lo seguiva più. Nessuno capiva come Puškin potesse raggiungere, nel furore, una specie di freddo distacco: nessuno afferrava la sua demoniaca leggerezza, che lo portava al di là del mondo dei corpi, – e il Vuoto, in cui si inoltrava, il vertiginoso vuoto del quale era il solo sovrano, e che gli permetteva di diventare tutti gli sguardi, tutti i luoghi, tutte le parti, e dove alla fine rischiava di perdersi2.

L’ineluttabilità del destino si accompagna alla fatalità drammaticamente vissuta, che non acquista solo un significato tragico, ma tenta di inseguire sempre lo spasmo dell’armonia e dell’equilibrio. Mito e realtà che si fondono e finiscono per assomigliarsi.
La riflessione sulla sua componente letteraria è inscindibile dal suo strappo di biografia, nel suo squarcio di sogno e distacco, vissuti sotto l’egida della poesia, del potere e della quotidianità, come sostiene giustamente Giovanna Spendel: «La biografia di Puškin è della massima importanza per la comprensione della sua opera e, viceversa, non c’è momento significativo di quest’ultima che non possa tradursi in un nome di luogo o di persona, in una data, in una situazione»3.
Tra la data della sua nascita (26 maggio 1799) e la data della sua morte (29 gennaio 1837) si dipana il tessuto della sua vita inquieta, della sua poesia che copre ogni genere, come il suo romanzo in versi, in cui «scorre un elenco di passioni fitto e vario; scorre un lungo giocar d’astuzia col potere autocratico, in cui l’immagine sociale del «grande poeta» finisce con l’immiserirsi, autodegradarsi giorno per giorno; scorre, infine, a ritmo sempre più celere e spietato, una sofferenza personale in crescendo, una specie di furore autopunitivo, di cui il matrimonio con la bellissima e giovanissima Natal’ja Gončarova e il duello con un suo corteggiatore sembrano conclusioni accidentali»4.
Lo scrittore che rappresenta la Russia e la sua “russicità” accorda la sua anima con le sue diverse componenti, laddove la lingua, il carattere e il paesaggio della sua letteratura classica convivono in un monumento di perenne inafferrabilità.
Una vitalità che compone le sue concrete immagini femminili, l’amore e i suoi rapimenti, l’Eterno Femminino e la Bellezza. In un epitaffio a sedici anni aveva scritto: «Qui Puškin è sepolto con la giovane Musa / Con amore, con pigrizia passò la sua allegra vita, / Non fece il bene, tuttavia nell’anima, / Grazie a Dio, era un uomo buono», come una sorta di appartenenza che invocava qualcosa di Eterno, un passaggio che sfiorasse la sua anima di giovane aquila.
La sua dinamica affettiva non ha riposo. Tutte le donne segnate, amate, o quelle persino sfiorate hanno un’impronta devota ma di stuporoso tormento, come testimonia Marina Cvetaeva, riferendosi alla poesia Al mare:

Il mio mare – il libero elemento puškiniano – era il mare dell’ultima volta, dell’ultimo sguardo. Per quale ragione io, ancora piccola bambina, tante volte scrivevo con la mia mano: «Addio, libero elemento!» – o anche senza nessuna ragione: io tutte le cose della mia vita, di esse mi sono innamorata, e poi le ho amate con l’addio, e non gli incontri, ma gli strappi, non la fusione, non per la vita, ma per la morte. E, in un senso del tutto diverso, il mio incontro col mare si rivelò essere proprio un addio, un duplice addio: un addio al mare libero elemento che davanti a me non c’era e che io, voltando la schiena al vero mare, ricreavo – bianco su grigio – cifra dopo cifra – e con l’addio a quel vero mare che stava davanti a me e che io, a causa di quel primo mare, non potevo amare. E dirò di più: l’ignoranza della mia infanzia, che identificava l’elemento con i versi, si rivelò una visione: il «libero elemento» si esprimeva con i versi, e non col mare, con i versi, cioè con l’unico elemento al quale non si può mai dire addio5 .

Permane una sorta di sconsolata segretezza nella sua opera. Puškin ha conosciuto la solitudine e l’esilio, il dramma della libertà e della patria, rivissuti nelle corrispondenze con gli elementi (mare, nave, paesaggio esotico, libertà) che, per alcuni versi, lo avvicinano a Byron, pur mantenendo una dinamica classicità di idea e pensiero, come ha sostenuto D.P. Mirskij 6.
Nelle sue liriche si afferma lo strato acceso di lamento interno, di passione voluttuosa e accesa, di compiuta stanza interiore: «Lida, amica mia fedele, / Perché attraverso il sonno lieve / spesso io, spossato dall’amore, / sento il tuo lieve lamento? / Perché, nell’amore felice / Nel vedere un sogno spaventoso, / Lo sguardo immobile, timoroso / È fisso verso la tenebra? / Perché, quando io assaporo / il rapido svenimento dell’estasi, / Osservo talvolta / Le tue lacrime segrete?» (A una giovane vedova).
Quando invece descrive «il genio della pura bellezza», Anna Petrovna Kern, l’anima puškiniana si attesta in uno stupore visivo che, subito, lascia spazio alla solitudine e alla tempesta, come se l’improvviso epifenomeno affettivo debba abbracciare lo spazio immoto e solitario che non lascia tregua alle lontananze:

Ricordo il momento incantato: / davanti a me tu sei apparsa, / Come una fuggitiva visione, / Come il genio della pura bellezza. / Nelle angustie di una disperata tristezza, / Negli scompigli della rumorosa vanità, / Risuonava a lungo in me la tenera voce, / E sognavo i cari lineamenti. / Passarono gli anni. L’impeto ribelle delle tempeste / Disperse i sogni di un tempo, / E io dimenticai la tua tenera voce, / I tuoi lineamenti celesti. / Nella solitudine, in una tenebra di carcere / si trascinavano cheti i miei giorni / Senza un dio, senza ispirazione, / Senza lacrime, senza vita, senza amore.

Poi il ritorno dell’immagine amata, sebbene fuggitiva, innesca una nuova ebbrezza non spoglia, ma ricolma di una fenomenologia intensa. «Questa poesia», commenta Eridano Bazzarelli,

è forse eccezionale proprio per la sua infinita armonia: l’«eroe lirico» rivede dopo qualche tempo colei che è «il genio della pura bellezza». La parola «genio» era, naturalmente, nello stile dell’epoca, una parola «neoclassica» (ma anche, con qualche sfumatura diversa, romantica). Ma si consideri, pur nella rozzezza della traduzione, il trasparire della grande tenerezza di Puškin, la storia della sua «disperata» tristezza, la vicenda del ricordo della «tenera voce», la disperazione e il deserto seguiti agli entusiasmi dell’amore di un tempo. Ed ecco che la ricomparsa del genio della pura bellezza, con i suoi lineamenti celesti, che l’eroe lirico, nelle tempeste della vita aveva dimenticato, che aveva dimenticato nella solitudine del «carcere», quando era senza un dio, senza ispirazione, senza lacrime, senza vita, senza amore, ecco dunque che la ricomparsa della bella donna, simile a «fuggitiva visione», risveglia il cuore del poeta, gli ridona vita, lacrime e amore. […] E questa lirica “riassume”, se vogliamo dire così, tutta l’esistenza di Puškin, il movimento della sua vita7.

L’esaltazione della quotidianità passa attraverso miniature filosofiche, passaggi di fiato ed ombra, fa vivere i suoi personaggi e «[…] la natura vista come paesaggio, nel fluire delle stagioni, e anche come simbolo dell’uomo e dell’inesorabile scorrere del tempo.
Ad essa si possono riportare quasi tutti i motivi che affiorano in moltissime poesie: l’aspirazione alla libertà, il viaggio come movimento o come ricerca di una meta e di un riparo, il desiderio di pace e di serenità, la fragilità della bellezza, i limiti dell’amore»8: «Primavera, primavera, tempo d’amore / Come mi pesa quando arrivi tu, / quale languido fermento / Nell’anima mia, nel mio sangue… / Come al cuore m’è estraneo il godimento… / tutto che esulta e riluce / angoscia e tedio è per me».
La disperata vitalità del suo paesaggio è natura che si muove, vita irresistibile, segno scandito dell’esistenza che si appropria delle stagioni che dilagano con la loro sontuosa ambiguità, il loro appannarsi o fiorire, come viaggio misurato di ossimori e di spiriti liberi: «La tormenta distrugge le intenzioni degli uomini e, come se giocasse, divide gli uni, trascina gli altri, crea nuovi destini. Alla fine però, sia pure con una mutata fisionomia dei personaggi, si ristabilisce quell’idillio al quale tendono i racconti del ciclo»9.
La tormenta di neve rappresenta l’esito simbolico di una forza esterna che conquista la scena dove i protagonisti vivono il loro teatro (si pensi all’incontro tra il nobile Grinev e il fuggiasco contadino Pugačev in La figlia del capitano oppure nel racconto La tormenta di neve), entra nei sogni, instaura un forte legame con la morte, intreccia la dura trama delle vicissitudini ed essa, come scrive Irina Koleva:

assume una funzione compositiva, perché la vita di Grinev e della sua fidanzata Maša rimarranno in seguito nelle mani dei ribelli guidati da Pugačev; dall’altro, acquista un’intensa carica simbolica, rappresentando la rivoluzione popolare. Un anonimo tumulto contadino all’improvviso degenera in una feroce sanguinosa guerra civile, che, come una tempesta di neve, trascina nel suo vortice distruttivo le vite umane. La tormentosa lotta sociale scatena la crudeltà in entrambi i protagonisti: i contadini sterminano la nobiltà, i nobili da parte loro, per salvare il proprio potere, agiscono spietatamente contro i ribelli. Il tragico pensiero di Puškin sull’impossibile riconciliazione tra le parti avverse incide sulla problematicità dell’opera – il rapporto tra la lotta sociale e il criterio etico umano10.

Essa, pertanto, acquista un significato ultimo e decisivo, non soltanto come scena determinante, ma come esternazione del compiuto della sua opera, come scorcio disegnato della vita quotidiana dei personaggi, dipinti nella storicità della fiaba e nella letteratura che diventa storia. La bufera, quindi,

sovrasta sempre la volontà e le intenzioni degli uomini. Di certo, nel racconto puškiniano si sente pure l’eco del tema romantico della fatalità, espresso, forse, in modo più marcato dallo scrittore e drammaturgo austriaco Franz Grillparzer. Tuttavia, il tema del destino, pur essendo drammatico, in Puškin non acquista mai un significato tragico, poiché esprime armonia ed equilibrio – i tratti essenziali del suo mondo poetico11.

L’armonia e l’equilibrio seguono una loro linea netta di sinuosa espressione, di inebriamento umano e poetico che tocca la vertigine erotica («Ol’ga, pupilla di Cipride / Ol’ga, prodigio di bellezza, / come sei abituata tu / A prodigare carezze e offese! / Con il bacio del piacere / tu ci sconvolgi il cuore, / E di una tentatrice felicità / tu ci dici l’ora segreta / […] In nome della gioiosa dissolutezza, / in nome degli affanni di Priapo, / In nome della tenerezza, in nome dell’oro / In nome del tuo fascino, / Ol’ga, sacerdotessa del piacere, / Ascolta il nostro pianto innamorato»), la morte, la bellezza estrema, la profezia di una carnalità sottile, l’anacreontica11 di un erotismo leggero (Gabrieliade).
La sintesi della conoscenza reale e della conoscenza letteraria fondono la sua figura femminile in un unico movimento di realtà e visione, fuse in un unico canto di amore, sfrangiato in ogni cromatura possibile, in ogni luce lieve o luminosa, rapito spesso nella fuggevolezza: «Vi ho amata: l’amore ancora, forse, / Non si è spento del tutto nella mia anima; / Ma non voglio che esso vi inquieti ancora; / A nessun modo vi voglio rattristare. / Vi ho amata silenziosamente, senza speranza, / Oppresso ora dalla timidezza, ora dalla gelosia; / Vi ho amata così sinceramente, così teneramente, / Che Dio vi conceda di essere così amata da un altro», oppure come lampo di sogno fugace e bellezza irraggiungibile («Mentre mi attaccavano i cavalli, / mi presero la mente e il cuore / Il tuo sguardo e la tua selvaggia bellezza»), finanche dubbio maledetto: «Maledico le perfide fatiche / Della mia criminosa giovinezza / E le attese di incontri convenuti / Nei giardini, nel silenzio delle notti. / Maledico il sussurro d’amore delle parole, / la melodia misteriosa dei versi, / E le carezze delle sventate fanciulle, / E le loro lacrime, e il tardo rimorso».
Il suo caleidoscopio è capace di restituire una sequenza di istantanee, di fotogrammi fissati in una luce ombrosa, in cui la figurazione della scena concede, da una parte, il frammento della vita vissuta e, dall’altro, trova, persino, nello splendore cromatico, il legame discontinuo e forte con il vivente e i suoi contrari.
È l’arte dell’Armonia che tiene insieme l’estrema libertà della poesia e della profezia poetica in un universo di impressioni e di quadri esistenziali che uniscono e riportano all’Unità.
Nella sua esperienza mitica ed epica esiste una coralità di elementi, una significazione che scandisce i movimenti in un binomio di luce ed ombre, come accade ne La donna di picche: «Nel fantastico letterario Puškin, come del resto la maggior parte degli scrittori del suo tempo, spiega sempre tutto con delle motivazioni realistiche. Rientra nella tradizione del tempo anche la pazzia finale di German che viene considerata come una specie di liberazione dalla quotidianità, una suprema condizione di libertà, e che costituisce un elemento costante nell’estetica del romanticismo: peraltro, prima di diventare pazzo, l’eroe di Puškin si distingue per una intelligenza fredda, sottile, calcolatrice»13, come afferma lo stesso German, per cui «Il gioco m’interessa fortemente, ma non sono in grado di sacrificare l’indispensabile per la speranza di acquistare il superfluo», e poco dopo il suo autore rivela: «Aveva delle forti passioni e un’immaginazione infuocata; ma la fermezza l’aveva salvato dai soliti errori della gioventù».
Anche l’ultimo capitolo presenta questo binomio di luce umbratile. La realtà trova il suo contrario e tutto si confonde, come la disperazione e la delusione di Liza e la follia di German, appunto. Commenta ancora la Spendel:

La comparsa dello spettro assume una motivazione fantastica e nello stesso tempo realistica perché le carte nominate dalla contessa defunta avrebbero in seguito portato alla vincita. Proprio nel continuo oscillare tra l’elemento fantastico e quello reale, nonché nelle velate osservazioni sulla realtà, si nasconde tutta l’ironia di Puškin. È però attraverso la lapidarietà e la sobrietà della frase che Puškin cerca di costruire quella «lingua metafisica» che sola sa rendere la ricchezza della vita14.

L’io di Puškin vive l’eterna lotta tra il bagliore pulviscolare e l’incanto della libertà, tra la forza opposta del potere e del soggiogamento e il tentativo di inoltrare il suo sguardo alla veduta prospettica del mondo, aperto all’Infinito, ma sempre pronto a un ripiegamento e a un accoglimento: «E sarò caro al popolo perché / nobili sentimenti destai con la mia lira, / ed in crudele secolo la libertà cantai / e chiesi grazia per i caduti. / Al comando di Dio resta docile, Musa, / senza temere offesa né chiedere corona, / indifferente accogli la calunnia e la lode, / e con lo sciocco non contendere».
La trasparenza della sacralità è il tarlo della sua poesia, mistica bellezza, spasmo di terra, fino all’estremità dell’Eterno femminino, unico principio cosmico trascendente15: «Si sono avverati i miei desideri. Il Creatore / Ti ha mandata a me, te, mia Madonna, / immagine purissima del più puro incanto».
Ne Il cavaliere di bronzo, sua opera inedita in vita e perfetta metafora del potere, si assiste alla gigantesca lotta tra l’impiegato Evgenij e il potere dell’imperatore, simboleggiato dalla statua equestre di Pietroburgo, il cavaliere di bronzo. Lo zar sposta la capitale da Mosca a Pietroburgo, costringendo a un lavoro disumano migliaia di uomini e persino gli stessi abitanti a dover fronteggiare, data la confluenza della città con il fiume Nevà, ogni tipo di inondazione. La magnificenza architettonica della città, vista nel proemio, è spazzata via dalla storia che presenta il suo imprevisto. Commenta Gianfranco Lauretano:

In questa lotta la persona, per Puškin, è schiacciata e distrutta. Il romantico e neoclassico, byroniano e shakespeariano Puškin, che si aggrappa poeticamente alle forze dell’individuo e della natura, ha una visione tragica del destino della persona di fronte alla violenta e gigantesca volontà del potere. […] C’è un punto preciso nel poema da cui inizia la disgrazia dell’uomo Evgenij: quello in cui comincia a far progetti, a sistemare il futuro suo e della sua fidanzata. Si noti che è l’unico punto in cui Puskin fa parlare il protagonista e da lì inizia la sua tragedia. Quando la persona è sconfitta? Quando assomiglia al potere. Quando come quello pretende di ingabbiare la vita e di schematizzare il tempo. E nel farlo afferma, come il potere, la sua autosufficienza e autoreferenzialità. La fiducia di Evgenij nelle sue forze e nelle sue capacità viene d’un colpo spazzata via dall’alluvione e lui muore. Il potere lo ha reso presuntuoso e, intrinsecamente, solo di fronte all’imprevisto. Il rapporto che s’instaura tra la statua di bronzo di Pietro il Grande e Evgenij ormai impazzito è gotico e mostruoso, è un non-rapporto tra due solitudini, tra due autoreferenzialità che il mistero degli avvenimenti naturali distrugge. Il potere, secondo Puškin, ci fa fuori facendoci credere capaci di guidare il nostro destino con le nostre forze solitarie e perdenti16.

Puškin attraversa il dominio della Bellezza, sconfinando nel territorio delle Muse. In questa esaltazione e manifestazione suprema dell’Anima del Mondo vibra tutta la sua personale tensione, come vocazione e aspetto mitopoietici.
La cara immagine di Natal’ja Gončarova, moglie e compagna, è il suo tumulto di estasi infrante, rimane la bellezza che sopravvive alla morte, come sacralità franta ma inattaccabile.
La sua imago poetica insegue il sogno profetico e biblico (Il profeta) e la fenomenologia della Bellezza ai termini, la libertà ariosa di una sterminata tensione e l’appartenenza alla gloria patria.
La fenditura della luce non si compone solo di firmamenti di cielo aggrappati ai passaggi, ma è stupore, fiamma, dolore che brucia, coscienza spezzata.
L’introspezione, la memoria, l’infinita riflessione della vanità della vita scandagliano la sua meditazione lieve, come rimpianto e mistero di una particella dolce di tristezza improvvisa: «Attraverso le ondulate nebbie / Traspare la luna, / Sulle tristi radure / Essa versa tristemente la luce. / Sulla strada invernale, noiosa / Corre l’ardita trojka, / Il campanellino dal monotono suono / Echeggia estenuante» oppure in Elegia, che unisce la purezza classica dei rimpianti dei giorni andati alla innata volontà di vivere, amare e compiersi.
Il paesaggio di Puškin conta le sue ore nel paesaggio-Russia, stabilisce un sacro e ineffabile rapporto naturale, si appropria della versatile anima russa e delle sue città (Russia centrale, San Pietroburgo, ma anche Caucaso, Crimea e Georgia) e dipinge l’odore del suo canto misterioso17.
L’inquietudine puškiniana (toska) nasce da un ideale greco, sviluppa il suo spleen (chandra) in un’ottica di perdita e di rimpianto ma mai di annullamento.
La comparsa dello stupore fa largo a un incendio interiore, come se l’affanno, il canto, l’anima umbratile debbano sporgersi e tentare una dolce enclave, che però rimane annebbiata e sperduta come un germoglio, e la stessa armonia, la stessa misura che determinano l’esistenza restano tra sfumatura e delicatezza pittorica, una lingua che disegna, uno schianto nebbioso.
Poi una rotta nuova, più dolorosa, fa attendere il suo presagio naufrago, «Nel canto del postiglione / c’è qualcosa di famigliare: / ora allegria che avvampa, / ora dolore del cuore… / Noia, tristezza…ma domani, Nina, / domani sarò da te, / non smetterò più di guardarti, / vicino al camino dimenticherò tutto», il tempo si consuma così, in un annebbiamento di passi: «Poi la lancetta delle ore / concluderà il suo giro, / e allontanati gli importuni / la mezzanotte ci unirà. / Mesta e gioiosa, Nina, è la via, / il postiglione si è addormentato, / la campanella è una nenia, / il volto della luna s’è annebbiato».
Così come la virtù eroica femminile (Il prigioniero del Caucaso) raggiunge l’acme di una elevazione estrema e senza risparmio, fino al prezzo della vita. Anzi è nel gesto estremo che il suo taglio all’esistenza si fa netto e deciso.
Il dramma eroico di Puškin è un dramma di libertà che si compone in una sorta di placida ambiguità, «tra il libertario (del resto assai moderato) e il nobile russo di antica famiglia, orgoglioso dei successi della patria e della dinastia, sta, forse, il segreto della vita di Puškin, la chiave di molti suoi atteggiamenti, spesso assai contraddittori»18 .
L’Eugenio Onegin, romanzo in versi che lo tiene occupato dal 1824 fino al 1830-31, oltre ad essere una sorta di enciclopedia della vita russa, racchiude l’esperienza vitale del poeta, riassume le sue speranze e disillusioni, compie il suo diario: «Eugenio è un personaggio libero, indipendente anche da Puškin, col quale ha in comune un certo numero di atteggiamenti, di idiosincrasie, di vizi, di ideali. Puskin e Onegin sono figli della stessa epoca, della stessa civiltà, dello stesso gruppo sociale e culturale, la nobiltà colta e il suo modo di vedere se stessi e gli altri ceti. […] Il poema trova la sua espressione più sottile in un equilibrio mirabile fra l’impeto soggettivo e la sua oggettivazione poetica, la sua resa in parole e sillabe, nessuna delle quali gira a vuoto»19. Scrive Venceslao Ivanov:

Il poeta non si limita a tracciare caratteri ed a narrare vite di singoli personaggi sullo sfondo della Russia dipinta su larga scala, col suo popolo immobile e il suo ceto superiore vagamente irrequieto coi suoi paesaggi e costumi, col suo grande e il suo piccolo mondo, colle sue tradizioni gerarchiche e la sua avidità di mode straniere e d’idee occidentali, ma compie qualcosa di più, e cioè rintraccia (il che è un compito riservato al romanzo e realizzabile solo nell’ambito di esso) lo sviluppo dei caratteri, la loro lenta formazione attraverso i successivi avvenimenti interiori e certe crisi d’anima che la trasfigurano20 .

Tat’jana e Onegin vivono il loro flusso delle stagioni, che imprimono nelle cose e negli uomini il loro avvicendarsi, riflettono i conflitti, i sentimenti e la dinamicità dei personaggi.
Eugenio Onegin è un dandy che ha perduto la sua ricchezza, che però ritrova grazie alle fortune ereditate da uno zio. Dovendo vivere per qualche tempo in campagna, conosce il poeta Lenskij, gli diviene amico e questi gli presenta la famiglia dei Larin.
La figlia maggiore dei Larin, Tat’jana si innamora a prima vista di Onegin, al quale scriverà una lettera estrema e infiammata, ma questi inizialmente la rifiuta.
Poco dopo, Lenskij insiste perché il suo amico assista a un ballo per l’onomastico di Tat’jana. Annoiato, Onegin decide di vendicarsi, seducendo Olga, fidanzata di Lenskij che sta al gioco. Sentendosi tradito, il poeta lo sfida a duello il giorno dopo all’alba. Onegin lo uccide ed è costretto a lasciare la città.
Alcuni anni dopo, egli si mette in viaggio e ritorna a Mosca, ritrova Tat’jana, sposata con un principe e immersa nell’alta società. Si rende conto dell’errore commesso prima e del suo rifiuto: ella preferisce restare fedele a suo marito, ma in segreto la meravigliosa fiamma del suo amore è viva.
Il mondo culturale di Pietroburgo21 e Mosca viene rappresentato in tutta la sua fluidità: Onegin è l’emblema straordinario che sfugge alla comprensione del suo tempo, si abbandona al segno dell’angoscia, il suo amico Lenskij evade nell’elegia mistica della sua fantasia, Tat’jana sposa un generale al quale vuole rimanere fedele, in lei Dostoevskij nel suo Discorso su Puškin ne fa il modello delle virtù tradizionali della donna russa, fedele al marito e alla religione e verso la quale il poeta ha una particolare tenerezza, le dona un’aura dolce quasi crepuscolare di sogno, che mantiene la sua ferita non chiusa: «La conclusione di Onegin è l’angoscia, la tristezza e l’irrequietudine, che lo sospingono senza pace, che provocano in lui una serie di fallimenti, a cominciare da quello che costituisce il racconto, il fallimento del suo incontro con Tat’jana» .
Il taglio dell’anima è un solco perduto. Onegin conosce la frattura della noia e il crampo di un desiderio invisibile, come se la consapevolezza di un passaggio maturo sia una lettera di anelito:

Belle siete voi, rive della Tauride, quando vi si vede dal vascello alla luce della mattutina Cipride, come io la prima volta vi scorsi; e voi mi siete apparse come nel fulgore delle nozze; sotto il cielo lucido e azzurro risplendevano le vostre montagne; il ricamo delle valli, degli alberi, dei villaggi si apriva dinanzi a me. E là. Tra le capanne dei Tartari… quale fiamma si risvegliò in me, di quale incantata malinconia si strinse il mio cuore ardente! Ma dimentica il passato, o musa!

Scrive Franco Cordelli:

Evgenij in sostanza è un dandy, anzi un vero e proprio libertino. Non può amare. Si rifiuta. Tatjana è lì, ma lui se ne va. Poi le preferisce Olga, che giudica meno impegnativa. Che può Lenskij se non sfidare a duello quella così irresistibile gioventù, quella travolgente natura che Onegin incarna? Sono le due anime di Puskin. L’anima spavalda di Onegin non può che accettare la sfida e quella piagata dall’ idea dell’ onore di Lenskij, fedele all’ idea suprema, la bellezza, non potrà che cadere sul campo (come sette anni dopo aver finito il poema accadrà a Puskin, che sospettava d’ essere tradito dalla moglie Natalja e dal vanitoso D’ Anthès). Quando Evgenij si deciderà per Tatjana sarà troppo tardi. Le strofe forse più belle del poema sono nell’ ultimo canto: la XXVIII e la XLI, le due metamorfosi di Tatjana – che ancora amando Evgenij, ma ormai sposata, lo rifiuterà. Non c’ è alternativa, ci dice Puskin: la metafora (la metamorfosi), cioè il romanticismo, tormenta; e la lettera, il così prendersi sul serio, cioè il realismo, uccide23 .

La malinconia di Onegin espande la sua cromatura di suono e sentimento («egoista sofferente» lo ha definito Belinskij24), è in definitiva, il crollo della gioventù dopo l’esaltazione napoleonica. Il personaggio qui non coincide con il suo autore, ma presenta tratti simili, un’identità oggettiva, una febbre incurabile, la sottile magia di una speranza che vorrebbe vivere.
La sfrontatezza della sua noia si appropria del disordine, vive nella convulsa confusione di una fisiologia disordinata, potremmo dire, che rappresenta la modernità dell’uomo, la sua inesausta e perenne ricerca di senso.
La poesia di Puškin ricrea la realtà, appartiene all’armonia del mistero del tempo, la segreta libertà che permette l’emersione geometrica25 del magma poetico. Svanito il suo sogno di libertà, la rassegnazione di dover fronteggiare i molti nemici, dal ministro della pubblica istruzione Sergej Semjonovič Uvarov, fino alla società di corte, invidiosa della sua fama e della sua grandezza26, i debiti, gli strozzini, compirono la frattura del sogno di formarsi un riparo stabile: «Per il suo carattere generale, l’ideologia di Puškin si può definire un conservatorismo, che si unisce tuttavia a una tensione forte per uno sviluppo libero della cultura, per un assicurato ordine politico e per l’indipendenza della personalità»27.
Georges D’Anthès, emigrato francese, proclamava di essere innamorato di Natal’ja, la cara moglie del poeta:

una serie agghiacciante di casi, che non hanno nessun rapporto tra loro, eppure formano una catena ferrea di piccoli eventi, di coincidenze, di sentimenti, di abitudini volgari, di scherzi grossolani, di piccole colpe, di furori, di desideri mortali. Questa catena ferrea di dettagli dobbiamo chiamarla Caso o Destino? Quanto a noi, restiamo terrorizzati dal fatto che le vicende, senza che nessuna mano umana le abbia preparate, mostrino un’ intenzione così pervicace e sinistra, come se davvero qualche sovrumana figura in ombra, negli ignoti meccanismi della storia, abbia meticolosamente congegnato la rovina di Puskin28.

Sembrava invaghirsi di una morte estrema, sfidò a duello D’Anthès e il fango delle delazioni e morì, fra dolori atroci per difendere il suo onore nell’ inverno del 1837 29, come una coltre di solchi immutabili ed eterni («O no, la vita non mi ha stancato, io amo vivere, io voglio vivere, l’anima non è divenuta per niente fredda dopo la perdita della giovinezza. Ancora sono in serbo dei miei piaceri per la mia curiosità, per i cari sogni dell’immaginazione, per i sentimenti…per tutto»), come echeggia questa lirica scritta alla vigilia della morte: «Dimentico della selva e della libertà, / Un passero prigioniero sopra di me / becca un chicco e spruzza l’acqua, / E si consola con una viva canzone», conscio che egli non morirà del tutto, la sua lettera sull’acqua consegnerà le sue schegge al futuro immortale e «l’anima nel mio canto / Sopravvivrà alle ceneri scampando al disfacimento / E io avrò gloria finchè sotto la luna / Anche un solo poeta rimarrà».

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1 EDMONDS R., Pushkin: the man and this age, MacMillan, London 1994.

2 CITATI P., Puskin ferito a morte, “La Repubblica”, 4 maggio 1995.

3 PUSKIN A., Opere, a cura di Eridano Bazzarelli, introduzione di Giovanna Spendel, Mondadori, Milano 2012, p.XV.
4 Ibidem, p.XVI.

5 CVETAEVA M., Il mio Puškin, traduzione di Giovanna Ansaldo, Marcos y Marcos, Milano 1985.
6 MIRSKIJ D.P., Storia della letteratura russa, II ed., Garzanti, Milano 1977.

7 BAZZARELLI E., Introduzione…, p.13.

8 SPENDEL G., Introduzione a Poesie, in PUŠKIN A., Opere, p.11.
9 LOTMAN J., Puškin, in: Storia della civiltà letteraria russa (a cura di) M. Colucci e R. Picchio, vol. I, Torino, pp. 403-433. 1997, p.424.

10 KOLEVA I., L’immagine della tempesta di neve nell’opera di Puškin, Gogol’, Blok. Fra tradizione e innovazione, in «LC» Rivista online del Dipartimento di Letterature e culture europee, Università degli studi di Palermo 2009, p.3.
11 ID., cit., p.4.
12 Cfr. BAZZARELLI E., Anacreonte in Russia, in «Acme», 23, 1970. pp. 5-32.

13 SPENDEL G., Introduzione a La dama di picche, in PUŠKIN A., Opere, p.73

14 ID., cit. p.774.
15 Cfr. ANDREEV D., Raccolta delle opere in tre volumi, Moskva 1995.

16 LAURETANO G., Introduzione, in PUŠKIN A, Il cavaliere di bronzo, Raffaelli, Rimini 2003.

17 GREENLEAF M., Pushkin and romantic fashion: fragment, elegy, orient, irony, Stanford University Press, Stanford, California 1994.

18 BAZZARELLI E, Introduzione a Il prigioniero del Caucaso, in Opere, cit., pp. 191-192.
19 ID., Introduzione, in PUŠKIN A., Eugenio Onegin, Rizzoli BUR, Milano 2000, p.20.
20 IVANOV V., Introduzione a Eugenio Oneghin, Bompiani, Milano 1936, pp. 12-13.

21 Cfr. VOLKOV S., San Pietroburgo. Da Pushkin a Brodskij, storia di una capitale culturale, Mondadori, Milano 1998, DEBRECZENY P., Social functions of literature: Alexander Pushkin and Russian culture, Stanford University Press, Stanford 1997.
22 BAZZARELLI E., cit. p.24

23 CORDELLI F., L’amore e i tormenti di Puškin, in “Corriere della Sera”, 4 dicembre 2011.
24 Cfr. BELINSKIJ, V.G., Polnoe Sobranie Sočinenij, tom 7, Moskva 1957.
25 BLAGOJ D. D., Il magistero di Puškin, Mosca 1955.

26 Cfr. VITALE S., Il bottone di Puskin, Adelphi, Milano 1996.
27 SEMJON L.F., Studi su Puškin, Paris 1987, p.47.
28 CITATI P., cit.
29 Il grande poeta Michail Jur’evič Lermontov scrisse questi versi in suo onore: «Il Poeta è morto! – schiavo dell’onore – / è caduto, calunniato, / col piombo nel petto e assetato di vendetta, / ha chinato la testa orgogliosa!… / Non ha sopportato l’anima del Poeta / il disonore delle offese meschine, / contro la società s’alzò / solo come prima… ed è stato ucciso! / Ucciso!… a che serve piangere ora, / intonare inutilmente vacui elogi, / e balbettare patetiche scuse?
Si è compiuta la sentenza del destino! / Forse che per la prima volta avete perseguitato così ferocemente / la sua libera, coraggiosa voce / e per puro divertimento / avete soffiato sul fuoco quasi nascosto? / Ebbene? divertitevi… egli la tortura finale / non poteva sopportarla: / si spense, come una fiaccola, il genio miracoloso, come una ghirlanda appassì». (in LERMONTOV M. J., Liriche e poemi, Adelphi, Milano 2006).

Andrea Galgano
2014

In Frontiera di Pagine, www.polimniaprofessioni.com/rivista/
e Psicoanalisi Neofreudiana, www.ifefromm.it/rivista.php
per gentile concessione della Prof. Maria Ammon, Dap, Berlino

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La rilevanza della letteratura nella formazione dello psicologo

di Andrea Galgano             7 luglio 2014

*intervento alla Prima Conferenza Internazionale di Psicologia Dinamica, Cenacolo di sant’Apollonia, Firenze, 27-28 ottobre 2012

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de chirico

Un buon libro lascia al lettore l’impressione di leggere qualcosa della propria esperienza personale. Quando la letteratura è al suo apice ci sembra che d’improvviso ricordiamo qualcosa d’importante che sapevamo ma abbiamo scordato.

O.Lagercrantz, da L’arte di leggere e scrivere

In un breve scritto dal titolo Poesia, filosofia, psicoanalisi Umberto Saba afferma che una persona «guarita dalla psicoanalisi non scriverebbe più poesie, neanche qualora avesse sortito dalla nascita il felice ingegno di Dante»[1]. Secondo Saba, e Rilke più tardi,  l’attenuazione del narcisismo, la cancellazione dei demoni, perseguita dalla psicoanalisi, attenuerebbe anche la fecondità e la fertilità poetica.

Ma se ogni poesia, come direbbe Wittgenstein, può assurgere a gioco linguistico e una moltiplicazione delle regole del linguaggio, ecco che determina un «arrest of disorder», ossia una sospensione del disordine, come si rinviene nelle affermazioni del grande poeta americano Robert Frost, in un’intervista con John Ciardi (1959). Altrove, in un altro passaggio, Frost si rivolge al legame che nasce tra autore-poeta e poesia, che prende forma durante il processo figurativo:

Se è una melodia selvatica, allora è poesia. Il nostro problema quindi, come moderni astrattisti, è di raggiungere la selvaticità pura; essere selvaggi con nulla, essere selvaggi verso qualcosa. Ci solleviamo come aberrazionisti, cedendo ad associazioni indirette e facendoci scalciare in ogni direzione dalla possibilità di un’associazione all’altra, come una cavalletta in un caldo pomeriggio. È solo il tema che può mantenerci fermi. Così come il primo dei misteri è il modo in cui una poesia può avere una melodia dentro la piattezza della metrica, così il secondo è come una poesia può essere selvatica e, al tempo stesso, avere un soggetto da soddisfare. Sarà il piacere che ci dà una poesia a dirci come questo sia possibile. La figura che una poesia crea.

E ancora:

Comincia in gioia, si inclina verso l’impulso, con il primo verso assume direzione, percorre un tragitto di eventi fortunati e finisce in una chiarificazione della vita – non necessariamente una grande chiarificazione, come se ne trovano nelle sette e nei culti, ma in un momentaneo riparo dalla confusione. […] È solo una poesia truccata, una poesia che non è tale, se la parte migliore è stata pensata prima e serbata per la fine. (Frost, 1939, p. 440)[2].

È l’indizio di una sospensione del disordine, non un’illuminazione che tutto chiarifica e che tutto rende ampio.  I neuroscienziati e gli psicologi cognitivi che studiano le relazioni tra cervello e linguaggio, considerano la poesia uno degli eventi del cervello, che, per così dire, costruisce la realtà in cui viviamo. Hans Magnus Ezensberger, in Omaggio a Gödel, , scrive:

«Teorema di Münchhausen, cavallo, palude codino/ è una delizia, ma non dimenticare: / Münchhausen era un bugiardo. / Il teorema di Gödel a prima vista appare / poco appariscente, ma rifletti: Gödel ha ragione. / «In ogni sistema sufficientemente complesso si possono formulare frasi / che all’interno del sistema / non sono né dimostrabili né confutabili, / a meno che il sistema/ non sia di per sé inconsistente». / Puoi descrivere la tua lingua/ nella tua propria lingua: ma non del tutto./ Puoi analizzare il tuo cervello/ col tuo stesso cervello: ma non del tutto. Ecc. / Per giustificarsi / ogni sistema pensabile / deve trascendersi, / ossia distruggersi. / «Sufficientemente complesso» o no: / la libertà di contraddire / è un fenomeno di carenza / o una contraddizione. (Certezza = inconsistenza). / Ogni pensabile uomo a cavallo, / quindi anche Münchhausen, / quindi anche tu, è un sub sistema / di una palude piuttosto ricca di sostanze. / E un sottosistema di questo sottosistema / è il proprio codino, / questa specie di leva / per riformisti e bugiardi. / In ogni sistema piuttosto ricco di sostanze / quindi anche in questa palude, / si possono formulare frasi / che all’interno del sistema / non sono né dimostrabili né confutabili. / Prendile in mano, queste frasi, / e tira!»[3].

Nella loro attività la poesia e la letteratura condividono la funzione terapeutica del linguaggio, la sua forza, il suo orientamento, la sospensione del disordine, appunto, per cui, come scriverà Paul Celan, nel suo «cristallo di respiro», luogo cercato, forma racchiusa di una testimonianza mai rinnegata e irrefutabile: «In fondo / al crepaccio dei tempi, / presso il favo di ghiaccio/ attende, cristallo di respiro, / la tua irrefutabile / testimonianza»[4].

La poesia nasce in un segno fragile e solenne e nella perfezione del cristallo dà forma al silenzio, toglie fiato e parola, ma, allo stesso tempo, offre il suo itinerario umano, la sua tensione. Avere un ritmo nella lingua, che ostinatamente, si muove alla ricerca del punto fermo del mondo, sollecita maggiormente l’interesse e l’impulso del clinico, per il contatto con i sogni, la memoria, i ricordi e la conoscenza, in quel che James Hillman chiamava la «base poetica della mente»[5].

Nello spettacolo del reale, per accedere al simbolico, il poeta deve saper trasformare, separando con la sua attitudine povera e ricca allo stesso tempo, il reale dal fantastico. È nel preconscio che avviene questo lavoro di commutazione.

La parola diviene la traccia di un’apertura, che attraverso la scrittura, transita nel confine tra dicibile e non detto, rivelazione e ignoto. Perché il poeta, con le sue ossa spezzate in segreto, prima di rivelarsi in pubblico (Baudelaire), è, per usare le parole di Josif Brodskij «qualcuno per cui ogni parola non è la fine ma l’inizio di un pensiero».

Per indagare il mondo e i suoi oggetti, e salvare il «volto comune di ciascuno individuo», egli usa il linguaggio, le sue vaste campiture e le sue potenzialità. La parola rappresenta uno degli spazi di salvezza del bene della individualità e della personalità.

Nel frammento noto come Il primo programma sistematico dell’Idealismo tedesco, del 1795-96, Hölderlin, Hegel e Schelling attribuiscono alla poesia la missione di preparare il regno della libertà, con i suoi dispiegamenti individuali, i destini che trasformano e incarnano la loro precipua singolarità, i loro demoni. Parlano di religione del sensibile, caratterizzata da ciò che Giorgio Antonelli chiama «monoteismo della ragione e del cuore e politeismo dell’immaginazione dell’arte».[6]

Il farsi della poesia e dell’analisi conduce l’epifania degli dei a manifestarsi, a rivelare la loro intima natura, in ciò che Coleridge chiama co-adunaton, come l’immaginazione che si presentifica, offrendo la sua sponda silente. La teo-epifania di Rilke, Yeats, Pound è esibizione materica di una lunga e inevitabile arsi interiore.

Scrive Angelo Maria Ripellino nella sua nota a Sulla Poesia di Osip Mandel’ŝtam

Come il Pasternak del Salvacondotto, anche Mandel’ŝtam punta tutto sulla metafora, accostando in misture inattese opposti campi semantici, rendendo tangibili con virtuosistici intarsi di abbaglianti similitudini e suoni, gli odori, le «meraviglie» dei versi altrui, dei paesaggi, di eventi lontani e dell’ambiente giudaico della sua infanzia. Per cogliere l’identità delle cose distanti, egli tende la vista «come un guanto di pelle di daino» (e riesce così a percepire e ad immettere nella densissima sigla d’una metafora tutto quello che sta fuori campo, attorno al punto focale, il contiguo), quasi il suo sguardo, asimmetrico come gli occhi di certi pesci, potesse simultaneamente imbricare differenti assi ottici.[7]

Gli fa eco il grande poeta francese Yves Bonnefoy, citato da Armando Massarenti, in un interessante articolo de “Il sole24 ore” del 16 luglio 2011:

A ogni istante due vie s’aprono nel cuore della parola; e la poesia si decide a questo bivio: essa deve lasciare la grande biblioteca, andare sino allo sprone che s’inoltra tra cielo e terra, e continuare ancora, più lontano, declinando verso appuntamenti dello sguardo ove s’accoglie ancora il calore appena mitigato della notte d’estate.[8]

L’intensità della parola poetica costruisce i circuiti neuronali più solidi, sostanziali e profondi, e  ci parla del carattere sempiterno dell’espressione poetica, che, nella sua concretezza e ricchezza, come testimoniato anche da un recente saggio in tedesco del neuropsicologo Arthur Jacobs e del poeta Raoul Schrott[9], può offrire un valido strumento di analisi e indagine nelle strutture interne del paziente. La lettura di sostantivi, verbi e aggettivi (guerra, nazismo, torturare, distruggere, morto) e positivi (amore, libertà, ridere, baciare, grandioso) provocano la modificazione opposta delle pupille, della frequenza del polso e del colorito della pelle, mentre parole ad alto tasso emotivo possono rallentare la lettura.

Leggere e ascoltare permette di trasmettere ai centri cerebrali, segnali visivi e acustici che arrivano alla coscienza con un significato, un ritmo, un senso, un’immagine. Una poesia può esprimere l’intensità di ciò che altrimenti sarebbe impossibile dire, un romanzo o una novella e persino un racconto (si pensi allo sguardo sulla nevrosi americana di John Cheever) possono entrare nel magma vitale più di qualunque testimonianza. L’intensità dei centri dell’affettività sollecitati ne è fervida conferma. Scrive il poeta americano Mark Strand in un suo elzeviro:                                                                             

È una cosa curiosa: la vita che conduciamo ci consente solo di rado di fermarci a riflettere su ciò che abita nel nostro corpo e, di conseguenza, possiamo diventare così estraniati da noi stessi da aver poi bisogno della poesia per ricordarci che cosa si prova a esser vivi. La nostra abitudine a pensarci in relazione agli altri e a giudicarci in base a come agiamo in un contesto sociale ci rende più vicini allo spirito della narrativa: il comportamento esteriore è più facile da osservare, può essere percepito immediatamente, ed è quindi più semplice giudicarlo. (…) Una poesia, tuttavia, avrà necessariamente un’esistenza nel tempo, se non altro per il modo in cui si relaziona alle opere precedenti, assieme alle quali viene a formare un lungo specchio ininterrotto che, nel fluire dei secoli, ritrae la soggettività umana. È curioso notare come i sentimenti, pur accompagnandoci sempre, siano così difficili da cogliere da sembrare qualcosa di effimero. In genere vi prestiamo attenzione quando si fanno avanti con impellenza, nei momenti critici, quando è più forte l’esperienza della perdita: durante una separazione, per esempio, o in seguito alla morte di una persona cara. È allora che ci rivolgiamo alla poesia perché ci dica quali sono i nostri sentimenti, per mettere in parole ciò che supera la nostra capacità di articolazione. Inoltre, la poesia ha la capacità di conservare il senso di urgenza di tali momenti, permettendoci di riviverli più e più volte: anche quando una poesia è incentrata sulla perdita, il suo scopo è quello di conservare, di trattenere. Vogliamo serbare ciò che sentiamo nel profondo ma in un modo tale da trasformarlo in piacere.[10]

La letteratura, esperienza di lingua accesa, spesso ai margini della formazione e della professione psicologica, crea uno spazio di incontro in cui le individualità si sentono e in cui si sperimentano le gradazioni affettive dell’uomo, esplorate precipuamente da Dostoevskij ad esempio, nelle cui opere emerge il mistero insondabile dell’uomo, il suo essere una creatura in perenne confine tra bene e male, paradiso e inferno.[11]

Ne Il Sosia egli, ad esempio, descrive l’inizio di una psicosi, il senso di una alienazione, mai altrimenti visibile, afferrato da un nuovo sistema sconosciuto e ignoto.

Dostoevskijj parla dell’uomo all’uomo, affascina e reca timore e tremore, poichè raggiunge, anche nel buio e nelle tenebre, la positività ultima del reale, il suo disegno umano e divino e la sua grazia potente.[12]

L’esperienza poetica consente il ristabilimento di un rapporto con la realtà. Tale attività risulta, pertanto, decisiva, come  scrive T.S.Eliot, a portare in superficie le reazioni della nostra personalità dinanzi al visibile e toccabile, verso un’alterità, misteriosa e infinita, che esprime il punto di fuga della nostra esperienza avventurosa.

L’esperienza della poesia si dà innanzitutto come incontro. Qualcosa di nuovo, di sconosciuto e forse di insolito entra a contatto con la nostra vita. Anzi qualcuno, una persona nel momento in cui esprime una sua urgenza. Può tratatrsi di qualcuno che non conosco affatto, o solo per nome (come certi autori ‘famosi’), o di cui ho già letto qualcosa. Potrebbe essere addirittura un vecchio amico, che, però, fermandomi in quel modo lungo il corso, di fatto chiede di essere reincontrato di nuovo. Ogni incontro, ogni testo letto per la prima o la millesima volta è, di fatto, un avvenimento nuovo nell’ambito di ciò che ha costituito fino a quel momento il retroterra e l’orizzonte della mia conoscenza e della mia esperienza.[13]

L’esperienza della poesia è legata allo stupore di fronte alla presenza dell’esistenza, uno stupore che si attesta sul riconoscimento di qualcosa d’altro che, per così dire, compie il reale, fino al suo punto infinitesimo che è l’io. Leopardi in un appunto dello Zibaldone dell’agosto 1823, descrive la coscienza di un’attitudine poetica autentica

Niuna cosa maggiormente dimostra la grandezza e la potenza dell’umano intelletto, né l’altezza e nobiltà dell’uomo, che il poter l’uomo conoscere e interamente comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza. Quando egli considerando la pluralità de’ mondi, si sente essere infinitesima parte di un globo ch’é minima parte d’uno degli infiniti sistemi che compongono il mondo, e in questa considerazione stupisce della sua piccolezza, e profondamente sentendola e intentamente riguardandola, si confonde quasi col nulla, e perde quasi se stesso nel pensiero della immensità delle cose, e si trova come smarrito nella vastità incomprensibile dell’esistenza; allora con questo atto e con questo pensiero egli dà la maggior prova possibile della sua nobiltà, della forza e della immensa capacità della sua mente, la quale rinchiusa in sí piccolo e menomo essere, è potuta pervenire a conoscere[14]

Ecco il movimento della poesia, come segno di non contraddizione, come gesto ineliminabile dell’uomo, nel riconoscersi «quasi nulla» prediletto dall’essere, che gli ha dato la possibilità di abbracciare tutto con stupore vero.

Il suo avvenimento aiuta a giudicare in modo più umano la vita, riconoscendo l’adeguatezza del suo rilievo. L’incontro con questa materia viva permette una com-prensione, salva la possibilità di un’esperienza adeguata del mondo, introduce a un altro avvenimento e permette, infine, il giudizio che la realtà esprime su di sé.

A poco più di vent’anni nel 1938, Mario Luzi e poco prima T.S.Eliot,  notavano come il presupposto della poesia moderna fosse una sorta di disincanto deluso verso l’esperienza del visibile. Far emergere in superficie le reazioni della nostra personalità dinanzi a ciò che è visibile e toccabile è il suo dono, il suo crinale più vero.

Lo scopo della poesia e della letteratura, in senso lato, è esprimere la realtà della vita e suggerirne la conoscenza in modo non pregiudicato. Una tensione che spinge a trovare il legame di forme e parole più adeguate alla realtà che si intende comunicare, per mettere a fuoco il mistero della verità che ci tocca e ci rende vivi, suscitando, da un lato una risonanza personale, dall’altro una rievocazione intertestuale. La memoria viene sollecitata, come una sorta di esperienza primordiale, come scrive J.S. Bruner, secondo il quale i generi letterari «sono espressioni convenzionali di rappresentare le vicende umane, ma sono anche modi di raccontare che ci predispongono a usare la nostra mente e la nostra sensibilità in un senso particolare»[15]

L’intuizione di Vygotskij (1930 circa – 1978) sulla natura culturale e sociale delle «funzioni psicologiche superiori» e del carattere “mediatore” di strumenti e segni, per cui le funzioni cognitive “superiori” tendono a svilupparsi attraverso attività compiute come il linguaggio, la scrittura, ad esempio, divengono strumenti cognitivi che forniscono un meccanismo formale, per padroneggiare i processi psicologici, ha trovato eco nelle rielaborazioni di Bruner (1965) sugli strumenti intesi come “amplificatori culturali” o al modello dell’intelligenza adattiva di Olson (1976), fino a Michael Cole.

Cole (1994, 1995, 1996), riprende la configurazione triangolare tra individuo e ambiente di Vygotskij, per applicarla al processo di lettura, ridefinendone la relazione  fra mente e cultura e il carattere intersoggettivo e contestuale della cognizione, poiché

«gli esseri umani si distinguano dalle altre creature per il fatto che essi vivono in un ambiente trasformato dai prodotti (artefacts) delle generazioni precedenti, sin dagli inizi della specie […], la cui funzione fondamentale è quella di coordinare gli esseri umani con l’ambiente e fra di loro».[16]

In uno studio del 1994 di R.W.Gibbs[17] è emerso che la mente umana è modellata non solo da processi poetici o figurati, ma le stesse figure retoriche, scheletro di ogni componimento,  costituiscono gli schemi attraverso cui gli uomini concettualizzano la loro esperienza quotidiana e “il mondo esterno”. L’amore, ad esempio, come scrive in un interessantissimo articolo Laura Messina[18]

sembra che nella cultura occidentale sia concettualizzato attraverso un limitato numero di metafore, tra cui, più frequenti, “amore è una forza naturale”, “amore è un’unità”, “amore è una risorsa preziosa”, “amore è insania”, “amore è calore” Da queste metafore può derivare un numero pressoché infinito di espressioni che è possibile rendere in modi più o meno creativi. Ciò che solitamente viene inteso come un’espressione creativa di una certa idea in una poesia, (…) è spesso solo una sorprendente instanziazione di specifiche strutture metaforiche, che derivano da un limitato set di metafore concettuali condivise da molti individui all’interno di una cultura. Alcune di queste instanziazioni sono il prodotto di un pensiero altamente divergente, flessibile, ma la loro esistenza è determinata da “soggiacenti schemi di pensiero che limitano, o addirittura definiscono, i modi in cui pensiamo, ragioniamo, immaginiamo”.

Il gesto poetico, non solo contribuisce a una accensione a una tensione infinite, ma sono l’indizio di una esperienza e di un nome alle cose e alla pienezza del reale.

Eugenio Montale descrive il rapporto di associazione  di vita-arte-vita  come un  «pellegrinaggio attraverso la coscienza e la memoria degli uomini, il suo totale riflusso alla vita donde l’arte stessa ha tratto il suo primo alimento»[19]

La creazione delle immagini, che portano scritto «più in là», rappresentano la traiettoria di una domanda e di una visione dei propri desideri costitutivi, l’intuizione dei modi con cui si educa a vedere la realtà come segno. Pur in ogni variabilità individuale, guardare la realtà come segno, ci porta a sostare, riflettere, trattare le persone con prospettiva umana e a non smettere mai di indagare, con cura e stima, il «misterio eterno dell’esser nostro».

L’arte risulta allora una lente particolare in grado non solo di osservare  la realtà, ma di analizzarla e di elaborarla, definendone le prerogative e i limiti e realizzando una vera e propria Weltanschauung.

L’opera d’arte  rappresenta, quindi, l’esito di un processo inconscio che acquista senso plastico e bellezza nelle immagini e nei simboli, e scaturendo da profondità, diversamente, insondabili.

Sklovskij, infatti, afferma che l’arte esiste «per risuscitare la nostra percezione dell’esistenza, per rendere sensibili le cose, per fare della pietra una pietra. Il fine dell’arte è di darci la sensazione delle cose così come esse vengono percepite, non così come vengono conosciute. La tecnica dell’arte consiste nel rendere gli oggetti strani, complicare le forme, accrescere la difficoltà e la durata della percezione, perché il processo della percezione ha un fine estetico in sé e per sé e deve essere protratto (1917)»[20].

Analogamente, la riflessione di Jung[21] penetra sì la personalità creativa dell’artista, portatore di un disagio e di una peculiarità non comune,  ma lo riconosce capace di attingere dalle risorse primordiali e originarie dell’umanità e di offrire la possibilità di un superamento della dimensione della sofferenza psichica.

La forza delle immagini primordiali, si pensi a tal proposito alle delicate e vitali immagini della fanciullezza leopardiana, germinano l’opera d’arte, come una sorta di “complesso autonomo” che esprime la sua forza di espressione, imponendosi alla coscienza.

Nell’introduzione del suo saggio, qui preso in esame, Jung assegna alla psicologia i compiti di chiarire «la struttura psicologica dell’opera d’arte» e le «condizioni psicologiche che creano un’artista».

L’intuizione poetica permette di cogliere la strada verso l’ignoto, le lande occulte, il notturno dei voli e dei volti, risale alle figure mitologiche, la primigenìa di un enigma e la pienezza delle sue visioni: «In opere d’arte di questo tipo (che non si debbono mai confondere con la persona dell’artista) è indubbio che la visione è un’autentica esperienza primordiale, checché ne pensino i razionalisti. Non è cosa derivata, secondaria, sintomatica, ma simbolo vero, cioè espressione di un’essenza sconosciuta».[22]
Secondo Jung è possibile rintracciare tali visioni in un nutrito elenco di opere, tra cui Hoffman, Dante, Blake, Goethe. Tutte culminano in un confine quasi epocale, in quanto espressioni larghe del genio profetico e del suo disvelamento:

Perciò il Faust tocca una corda presente nell’anima di ogni tedesco […], perciò la gloria di Dante è immortale e il Pastore di Erma è diventato quasi un libro canonico. Ogni epoca ha le sue unilateralità, i suoi pregiudizi e il suo malessere psichico. Un’epoca è come la psiche del singolo, ha la sua limitata specifica situazione cosciente e ha perciò bisogno di una compensazione; questa le è fornita dall’inconscio collettivo; di modo che un poeta o un veggente esprime l’inesprimibile della sua epoca e dà vita, nell’immagine o nell’azione, a ciò che tutti attendevano, nel bene o nel male, per la salvezza di quell’epoca o per la sua rovina[23].

La formazione intellettuale di Jung inizia con la lettura della Bibbia di Lutero; poi continua con i testi di teologia, ma trova nel Faust di Goethe, un orizzonte possibile di richiamo e di domanda

La sua lettura fu per la mia anima come un balsamo miracoloso “Ecco finalmente” pensai “qualcuno che prende sul serio il diavolo, e conclude persino un patto di sangue con lui – con l’avversario che ha il potere di frustare il proposito di Dio di fare un mondo perfetto” […] Finalmente avevo trovato conferma che vi erano, o vi erano stati, uomini che vedevano il male e il suo potere universale, e – cosa più importante – il compito misterioso che esso ha nel liberare l’uomo dalla sofferenza e dalle tenebre. Pertanto Goethe diventò, ai miei occhi, un profeta.[24]

 

«In qualche luogo c’era una volta un Fiore, una Pietra, un Cristallo, una Regina, un Re, un Palazzo, un Amante e la sua Amata, e questo accadeva molto tempo fa, in un’isola nell’oceano cinque mila anni fa… Questo è l’Amore, il Fiore Mistico dell’Anima. Questo è il Centro, Il Sé…”.

Jung parlava come se fosse in trance.

“nessuno comprende ciò che voglio dire; soltanto un poeta potrebbe iniziare a comprendere…”.

“Lei è un poeta”, dissi, spinto da quello che avevo udito»[25]

Lo studio della psichiatria rappresenta, pertanto, il trait d’union fra la scienze naturali e quelle umanistiche. Si pone l’obiettivo di conoscere l’uomo e le sue relazioni, deviazioni[26] e tensioni.

Una psicologia che non si riduca a psicofisiologia deve attenersi a «ciò che significa esser uomo»[27], alla sua presenza nell’originario essere-nel-mondo.

Anche l’aspetto psicoanalitico che ha interessato le caratteristiche precipue della psicologia della letteratura[28], da Petrarca, a Borges, fino al teatro quale psicodramma e al «ruolo modulare dell’immaginazione», sta piano piano facendo emergere una sintesi attenta di alcune dinamiche di studio, che qui brevemente abbiamo enunciato.

Gli artisti sembrano precedere gli psicologi nei territori profondi della psiche. In alcune pagine di uno dei romanzi più intensi, sebbene incompiuto, di Hugo von Hoffmansthal Andrea o i ricongiunti[29], nel quale si sviluppa una sorta di immaginario che si spinge fino a frequentare il linguaggio dell’invisibile e nell’ignoto che appare, o  ne I quaderni di Malte Laurids Brigge[30], come nelle rabdomantiche e oscure Elegie Duinesi[31] di R.M.Rilke, è possibile rintracciare dense strutture di significato, altrimenti difficilmente distinguibili dalle esperienze psicotiche in senso stretto.

Karl Jaspers in un suo famoso saggio Psicopatologia generale[32] ha affermato che non esistono né psicologie né psichiatrie degne di questo nome, che non cerchino confronti e correlazioni in modo permanente con analisi, ricerche, letteratura, narrativa, poesia e creazioni, che abbiano la capacità di rendere meno drammatico il solco interrotto e, per così dire, bruciato, che separi l’anima, la conoscenza della vita affettiva e la disperazione degli altri.

L’esperienza letteraria, come si evince dagli ultimi acutissimi studi di Eugenio Borgna[33], può permettere l’uscita dalle separazioni delle discipline e una prova di indagine incisiva e profonda tra noi e coloro che ci chiedono aiuto.

I testi letterari riescono a farci comprendere come gli enigmi dell’esistenza possano trovare un varco segreto e un trasloco, attraverso la frequentazione assidua e piena di soste della coltre poetica.

L’apertura umanistica nei confronti del paziente, della sua “mitologia” personale e del suo romanzo autobiografico, trova negli strumenti letterari e poetici il riflesso, non solo di grandi stati d’animo e di grandi angosce, ma soprattutto di altezze estreme, anche perchè, come scriveva la grande scrittrice americana Flannery O’Connor: «Se la vita ci soddisfacesse, fare letteratura non avrebbe senso».

La ribellione e la fiamma contro ogni cosificazione di studio e prassi, permette a tutti coloro che si accingono a rapportarsi all’altro, di sostenerne la fragilità, la debolezza radente e coglierne i particolari singolari.

Occorre, infatti, ciò che Simone Weil chiamava l’ «educazione all’intuizione», affinchè ogni terapia possa permearsi di una conoscenza profonda e maggiormente incisiva.

Il rapporto con il testo non tende a una “psicoanalisi” dell’autore, non cerca di sollevarsi dal perimetro ampio e vasto della sua narratività, ma grazie al solco vivido di una lingua accesa, consente un ulteriore contributo, talvolta decisivo, alla comprensione del paziente, alla sua peculiare esperienza esistenziale e comportamentale e alle sue istanze originarie. L’incontro costituisce l’inizio di tutto:

L’avventura incomincia quando la persona è destata dall’incontro […]. E l’avventura è lo sviluppo drammatico del rapporto tra la persona risvegliata e la realtà intera da cui essa è circondata e in cui vive[34]

perché

Quanto più uno ama la perfezione nella realtà delle cose, quanto più ama le persone per cui fa le cose, quanto più ama la società per cui fa la sua impresa, di qualunque genere, tanto più è per lui desiderabile essere perfezionato dalla correzione. È questa la povertà del nostro possedere le cose, che in ogni lavoro, in ogni impresa rende l’uomo attore, artefice, protagonista.  Ma libertà vuol dire anche, oltre che coscienza del proprio limite, impeto creatore. Se è rapporto con l’Infinito, essa mutua dall’Infinito questa inesausta volontà di creare. […] Tutto è correggibile e tutto deve essere creabile. Questo istinto creatore è ciò che qualifica la libertà in un modo più positivo e sperimentalmente affascinante.[35]

L’immagine poetica, nella sua funzione prima espressiva (ossia le immagini mentali e le forme del pensiero e del linguaggio) e poi elaborativa (ossia il generare immagini impresse), esprime il valore conoscitivo del logos, che non si situa nell’astratto, ma vive della concretezza del reale, recuperata grazie al mondo delle «belle apparenze»[36].

Tolstoj, nella sua splendida epopea russa che è Guerra e Pace, coglie con semplicità estrema la divaricazione tra essere e apparire, tra comprensione d’abisso ed esperienza di angoscia:

Oggi mi hanno portato al consiglio di governatorato per farmi esaminare, e i pareri sono stati discordi, hanno discusso e hanno deciso che non sono pazzo, ma lo hanno deciso solo perché durante l’esame mi sono trattenuto dall’esprimere ciò che penso, e non ho espresso ciò che penso perché ho paura del manicomio, ho paura che lì mi impedirebbero di compiere il mio pazzo compito. Hanno dichiarato che sono predisposto all’emotività o qualcos’altro del genere, ma sano di mente. Questo è quello che hanno dichiarato, ma io so che sono pazzo, il dottore mi ha prescritto una cura assicurandomi che se seguirò scrupolosamente le prescrizioni allora tutto ciò che mi agita passerà, cosa non darei perché passasse. È un tormento troppo grande. (…) Tutto il giorno avevo lottato contro la mia angoscia e l’avevo vinta, ma nell’anima c’era una terribile sensazione come se mi fosse successa una qualche disgrazia e io potessi dimenticarla solo temporaneamente, ma era essa lì nel fondo dell’anima e mi dominava[37].

A tal proposito lo studio dell’opera di Elsa Morante si riconnette in modo preciso alle incursioni nel romanzo dell’inconscio, che nella comunicatività e raffinatezza del suo  linguaggio, si spingono verso una densa attività onirica, collegata in maniera tumultuosa e angosciosa con la veglia notturna e le crisi nervose. Ida è il personaggio del romanzo La storia, molto vicino alla scrittrice, solita prendere appunti dei suoi sogni.

Era un mondo ricco, contorto e intriso di angoscia, rivissuto attraverso una vivida tensione[38].

Forse, fu anche l’interruzione della cura a provocare una simultanea trasformazione della chimica del suo sonno. Difatti, è incominciata da allora la crescita rigogliosa dei suoi sogni notturni, che doveva accoppiarsi alla sua vita diurna, fra interruzioni e riprese, fino alla fine, attorcigliandosi alle sue giornate più da parassita o da sbirra che da compagna[39].

«Amare la verità che giace al fondo», pertanto, come scriveva Umberto Saba, è un richiamo a sorprendere quell’azione dell’aria, a notarla, a farne memoria e lasciarsi stupire, come spalancamento più largo possibile ai fattori del reale e dell’esistenza.

Diceva Hannah Arendt che purtroppo l’uomo moderno ha sostituito lo stupore che gli antichi ponevano alla base di ogni conoscenza con la dubitosità (e George Steiner aggiungerebbe: con lo scetticismo nemico dell’arte). L’uomo dubitoso e scettico mette in crisi ogni rapporto perché non crede ai suoi occhi, mette in dubbio la forma e quindi vive l’arte come una illusione, e non come quella «magia vera» di cui parlava Giuseppe Verdi. Non ha più visione, ma una sensibilità labirintica, come richiamava Flannery O’Connor. Invece nella poesia che amo tutto procede dallo stupore verso l’alterità presente, misteriosa e infinita, che costituisce il punto di fuga nella nostra avventurosa esperienza. Così che tra percezione elementare e visione non c’è più differenza.[40]

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[1] Saba U., Poesia, filosofia, psicoanalisi, in Tutte le prose, a cura di Arrigo Stara, Meridiani Mondadori, Milano 2001.

[2] Bromberg P.M., L’ombra dello tsunami. La crescita della mente relazionale., edizione italiana a cura di  Vittorio Lingiardi e Francesco de Bei, Raffaello Cortina editore, Milano 1998, pp. 5-6.

[3] Ezensberger H M., Gli elisir della scienza. Sguardi trasversali in poesia e in prosa, Einaudi, Torino 2004.

[4] Celan P., Poesie, a cura di Giuseppe Bevilacqua, Mondadori, Milano 1998, pp.551.

[5] Hillman J., Scritti sull’Umanesimo, a cura di Paola Donfrancesco, Moretti & Vitali, Bergamo 2001, p.29.

[6] Antonelli G., Origini del fare analisi, Napoli, Liguori 2003.

[7] Mandel’ŝtam O., Sulla poesia, con due scritti di Angelo Maria Ripellino e una nota di Fausto Malcovati, Bompiani, Milano 2003, p.8.

[8]  Massarenti A., Bonnefoy, «A Silvia» e le neuroscienze, “Il Sole24 ore”, 16 luglio 2011.

[9] schrott R.- jacobs a., Gehirn und Gedicht Wie wir unsere Wirklichkeit konstruieren (Cervello e poesia. Come costruiamo la nostra realtà), Hanser Verlag, Monaco di Baviera 2011.

[10] Strand M., Ritrovarsi sull’isola dei poeti, “Il Sole24 ore”, 3 luglio 2011.

[11] Kasatkina T., Dal paradiso all’inferno. I confini dell’umano in Dostoevskij, a cura di Elena Mazzola, Itaca, Castel Bolognese 2012.

[12] Id., Dostoevskij. Il sacro nel profano, Bur Rizzoli, Milano 2012.

[13] Rondoni D., La parola accesa, una mappa di letture, Bari, Edizioni di Pagina, 2006, p.7.

[14] Leopardi G., Zibaldone, 12. VIII 1823

[15]Bruner J. S., La costruzione narrativa della “realtà”, in Ammaniti e Stern (1991), p.31.

[16]Cole M., Culture and cognitive development: From cross-cultural research to creating systems of cultural mediation, Culture & Psychology, 1, 1995, pp.25-54.

[17]Gibbs R.W., The poetics of mind: Figurative thought, language, and understanding, Cambridge University Press, Cambridge 1994.

[18] Messina L., Psicologia della letteratura: alcuni aspetti educativi, Università virtuale – Spazio editoriale: i quaderni della SSIS – Università Ca’ Foscari di Venezia, pp.1-22.

[19] Montale E., Auto da fè, Il Saggiatore, Milano 1966, p. 135.

[20] Sklovskij V., Una teoria della prosa. L’arte come artificio. La costruzione del racconto e del romanzo, De Donato, Bari 1966.

[21] Jung C.G., Psicologia e poesia, in Opere vol. 10-I, Civiltà in transizione: Il periodo fra le due guerre, Bollati e Boringhieri, Torino 1985.

[22] Id., cit., p.367.

[23] ivi, p.371.

[24] Ricordi, sogni, riflessioni di C.G. Jung. Raccolti ed editi da Aniela Jaffé, edizione riveduta e accresciuta, Rizzoli, Milano 1978, pp. 90-91.

[25] Serrano M., Il cerchio ermetico. Carl Gustav Jung e Hermann Hesse, Astrolabio, Roma, 1976, p.60.

[26] Borgna E., Di armonia risuona e di follia, Feltrinelli, Milano 2012.

[27] Binswanger L.,  Sogno ed esistenza in Per un’antropologia fenomenologica, Feltrinelli, Milano 1984, p.67.

[28] Tomassoni R., Psicologia e letteratura alle soglie del terzo millennio, Edizioni Franco Angeli, Roma 1998.

[29] Hoffmannsthal Von H, Andrea o i ricongiunti, a cura di Giovanna Bemporad, Adelphi, Milano1970.

[30] Rilke R.M., I quaderni di Malte Laurids Brigge, a cura di F. Jesi, Garzanti, Milano 2002.

[31] Id, Elegie duinesi, a cura di M. Ranchetti, Feltrinelli, Milano 2006.

[32] Jaspers K., Psicopatologia generale, Il Pensiero scientifico, Roma 2000.

[33]borgna E., L’attesa e la speranza, Feltrinelli, Milano 2005. Id., Come in uno specchio oscuramente, Feltrinelli, Milano 2007. id.,  La solitudine dell’anima, Feltrinelli, Milano 2011.

[34] Giussani L., L’io rinasce in un incontro (1986-1987), Bur, Milano 2010, pp.206-207.

[35] Id.,  L’io, il potere, le opere, Marietti, Genova 2000, p. 117.

[36] Zambrano M., Filosofia e poesia, a cura di P. De Luca, Pendragon, Bologna 2002.

[37] tolstoj L., Guerra e Pace, Garzanti, Milano 2007.

[38] Bernabò G., La fiaba estrema. Elsa Morante tra vita e scrittura, Carocci, Roma 2012, pp. 212-215.

[39] Morante E., La storia, Einaudi, Torino 2005, p. 291.

[40] Rondoni D., Non una vita soltanto Scritti da un’esperienza di poesia, Marietti,Genova 2002, pp.19-20.

27.3.2014: Aspetti Legali e Fiscali dell’Internazionalizzazione delle Imprese

CONVEGNO

Alba, 27 marzo 2014
Sala Convegni del Palazzo Banca d’Alba (Via Cavour n.4 – Alba)

LocandinaConvegnoInternazionalizzazione
Aspetti Legali e Fiscali dell’Internazionalizzazione delle Imprese – 27.3.2014

locandina in pdf  Convegno 27 03 2014

  • Iscrizione obbligatoria a convegni@agiconsul.org
  • Il Convegno è stato accreditato dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Alba con delibera del 13/03/2014 con l’attribuzione
  • ai partecipanti di n. 4 crediti formativi.
  • Il Convegno è stato accreditato dall’Ordine dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili di Cuneo.

PROGRAMMA

Registrazione: ore 14.30

Inizio lavori: ore 15.00

Saluti Introduttivi: Avv. Raffaele Battaglini (LL.M.; Segretario Generale AGICONSUL)

interventi

  • I contratti per l’internazionalizzazione delle imprese, Avv. Nemio Passalacqua (ufficio legale Ferrero S.p.A.)
  • I risvolti fiscali dell’impresa all’estero, Dottor Luca Ferrini (Ph.D.; dottore commercialista; professore a contratto Università di Torino; consiglio direttivo AGICONSUL)
  • La risoluzione delle controversie e il Third Party Funding, Avv. Giovanni Pera (associato AGICONSUL); Avv. Niccolò Landi (LL.M.; Studio Legale Gianni, Origoni, Grippo, Cappelli & Partners)
  • Africa e Medio-Oriente, Avv. John Shehata (Studio Legale Orrick, Herrington & Sutcliffe)
  • Un’esperienza imprenditoriale d’internazionalizzazione, Dottor Franco Morando (Amministratore Delegato Morando S.p.A.; consigliere Giovani Industriali Torino)

Conclusioni: Avv. Riccardo Cappello (Presidente AGICONSUL)

Moderatore: Avv. Riccardo de Caria (Ph.D; LL.M.; consiglio direttivo AGICONSUL)

Chiusura lavori: ore 18.45

INFORMAZIONI

Posti limitati
Iscrizione obbligatoria a convegni@agiconsul.org
Il Convegno è stato accreditato dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Alba con delibera del 13/03/2014 con l’attribuzione
ai partecipanti di n. 4 crediti formativi.
Il Convegno è stato accreditato dall’Ordine dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili di Cuneo.

AGICONSUL – Associazione Giuristi e Consulenti Legali –
Codice Fiscale 96344570583
e-mail: info@agiconsul.org
Sito: http://www.agiconsul.org
Via Davide Bertolotti, 7 – 10121 Torino
Tel. 011/08.66.155
Fax 011/197.198.43
Cell. 380/38.88.280
Con la collaborazione di
Aspetti Legali e Fiscali
dell’Internazionalizzazione delle Imprese
Alba, 27 marzo 2014
Sala Convegni del Palazzo Banca d’Alba (Via Cavour n.4 – Alba)

 

 

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Locandina Convegno Impresa all'Estero-Profili Pratici Legali e Fiscalilocandina in pdf: Locandina Convegno Impresa all’Estero-Profili Pratici Legali e Fiscali

Torino, giovedì 12 dicembre 2013

Moderatore: Avv. Raffaele Battaglini (LL.M.; Segretario Generale AGICONSUL)

Via Davide Bertolotti n. 7 (presso Terrazza Solferino)

L’evento attribuisce crediti nell’ambito dei programmi formativi dell’Ordine dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili di Ivrea-Pinerolo-Torino e dell’Ordine degli Avvocati di Torino.

Registrazione: ore 15.45
Inizio lavori: ore 16.00

– Redazione delle clausole inerenti la risoluzione delle controversie
Avv. Giovanni Pera (associato AGICONSUL)
– L’arbitrato online
Avv. Riccardo de Caria (Ph.D; LL.M.; consiglio direttivo AGICONSUL)
– Contenzioso finanziato: Third Party Funding
Avv. Niccolò Landi (LL.M.; Studio Legale Gianni, Origoni, Grippo, Cappelli & Partners)

Pausa

Ripresa lavori: ore 17.15

– L’internazionalizzazione delle imprese italiane, dall’esportazione all’investimento: i principali modelli
contrattuali e loro applicazione in Cina quale mercato emergente
Dottor Pier-Domenico Peirone e Avv. Lucia Netti (China Consultant S.r.l.)
– Fare impresa all’estero: i risvolti fiscali
Dottor Luca Ferrini (commercialista; professore a contratto Università di Torino; consiglio
direttivo AGICONSUL)
– L’Italia e l’internazionalizzazione delle imprese
Avv. Riccardo Cappello (Presidente AGICONSUL)
– Un’esperienza imprenditoriale d’internazionalizzazione
Ing. Pietro Quaranta (Amministratore Delegato Tubiflex S.p.A.)

Chiusura lavori: ore 19.00 – Dottor Walter Pucci (AZIMUT Wealth Management)

Iscrizione obbligatoria scrivendo a

convegni@agiconsul.org

Numero di posti limitato. Iscrizioni aperte
fino al 9 dicembre 2013.

AGICONSUL – Associazione Giuristi e Consulenti Legali –
Codice Fiscale 96344570583
e-mail: info@agiconsul.org
www.agiconsul.org
Via Davide Bertolotti, 7 – 10121 Torino
Tel. 011/08.66.155
Fax 011/197.198.43

“Frontiera_di_Pagine_magazine on line”

COVER FRONTIERA DI PAGINE N. 1 ANNO 1 - 10.02.2013_Page_1

1° gennaio 2013

scarica, stampa e leggi il pdf:

 N. 1 ANNO 1     FEBBRAIO 2013

 

 

Frontiera di Pagine è un’esperienza di sguardo e di confine che cerca di confrontarsi in modo ragionevole per conoscere il mondo e esplorarne gli anfratti. Studiando e approfondendo lo sguardo poetico e narrativo, psicologico e artisti stico rappresenta il segno di una tensione a ciò che compie, al dato dell’esperienza.

Nata nell’agosto del 2011 e approdata come inesauribile dialettica, tra le attività del Polo Psicodinamiche di Prato, rappresenta la relazione continua verso lo stupore e ciò che ridesta lo sguardo  a quel che ogni esperienza poetica, letteraria, artistica e psicoanalitica reca in grembo: la memoria e la visione. Due atti coniugati al presente per raccogliere il reale, nel suo significato di azione viva.

È un progetto culturale che nasce dall’esperienza e raccoglie iniziative reali, come presentazioni, lezioni e seminari, volti allo sviluppo del gesto creativo, come scoperta e sensibilità.

In questo passaggio di rubrica si scoprirà ciò che alimenta il respiro, in una narrazione presente, un abbraccio di occhi tra sangue e respiro, come uomini veri e liberi.