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L’oltre-tempo di Jorie Graham

di Andrea Galgano 8 ottobre 2019

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Jorie Graham at Harvard’s Fogg Museum, Cambridge, Massachusetts, 2003

L’ultima raccolta del premio Pulitzer Jorie Graham (1950), Fast[1], una delle più alte voci della poesia americana, a cura di Antonella Francini, si apre con un segno di Robert Browning, come epigrafe, che insegue il rapido assedio del tempo, la sua consunzione e la sua dilatazione, la sua trattenuta elegiaca e il suo arrestarsi e il suo respiro che declina e risorge.

Ma il tempo di Jorie Graham, pur percependo l’obliata transizione delle sue linee, rimane la cifra del passaggio della sua densità. L’attraversamento nella velocità di ciò che passa, se da un lato espone il cuore dell’istante a porgersi, come dono e come atto d’amore, dall’altro fronteggia il mormorio della finitudine.

Stringerlo per la sua unicità, afferrarlo per respirare il continuo entrare nei luoghi. Il posto è il punto in cui io dice io, la vertigine umbratile e luminosa del qui e ora e l’espansione dell’altrove ma anche, la tensione all’alterità, all’empatia, all’affectus come adesione alla verità e all’attrazione verso la bellezza.

Ci troviamo, dunque, di fronte alla drammatizzazione dei passaggi e alla loro condensazione in un fluido mentale condiviso. Le pause del tempo sono quelle del pensiero, della mente che guarda, del movimento dello sguardo che è cammino eidetico addensato. Il suo viaggio epistemologico si appropria della metamorfica mutevolezza per farsi veglia di cellule, aggroviglio di identità, suolo rarefatto che entra nella luce imprigionata, ammanettata a un vortice e a un posto sospeso. La corposità della parola si rapporta  alla fittezza dell’istante e all’epifenomeno dell’atto[2]:

 

«Ammanettata a un vortice. Chiedo alle piante di darmi la mia piccola identità. No, ai pianeti. / Messaggeri che s’inarcano, le loro viscere d’orbita fanno un cenno, e un bruco su una foglia, muffa, / campane, una pergola-tutto in transizione-in-svolgimento-riversandosi in un po’ di vita cellula / dopo cellula nel vento come questo / fruscio di scarabocchi sulla / carta. Sto precipitando / credo. Ricordo la terra. Il terriccio giace / quieto, sotto di me, aspetta di fare di noi quel che può, anche il fumo, aspetta / d’essere l’origine d’un posto nuovo, fantasmatico l’altro, intralciata l’entrata, / sempre più entrate-ho passato la vita a entrare- la faccenda del posto sospesa sopra di me / anno dopo anno-il mio rarefarsi sempre qui in spirito, dentro di me, lontano da me, dietro di me, / intima con insetti, uccelli, pesci-ma perché solo vittime – / che io possa divenire-vetro-che dopo diverremo fusione / glaciale- morena che disvela gramigna, erbacce, la carezza d’una gelida madre / preistorica-o un dito / nell’atto di toccare / una pelle quieta, di scorrere sulla sua polvere, un’unghia che turba il bordo / dell’aria, fruga nella sua assurda fine immaginata / all’infinito-salta-atterra al tocco. Una mano. Su chi. Un solco attraversato dove un dio / muore. Vellutato prima della ferita. Un universo può morire. Che si possa sempre avere o essere un corpo. Afferrati poi per i lunghi capelli / e trascinati giù per un canale / nell’essere. Uno. Ora ascolta i pini, la fioritura, il suo luccichio, il tossire secco e selvaggio del mare, una piega in ogni rivolo, un vortice di pieghe-ascolta-odi lo sciogliersi, interminabile, delle pelli-odi una pelle che si stringe su ciò che ora non è più / assente. / Eccoti dice una voce nella luce, la luce imprigionata. Sii felice» (Ceneri).

 

 

In Nido d’Ape, Jorie Graham compie un periplo febbrile di magmi incandescenti che, partendo dalla luminescente ultimità di W.B. Yeats, dalla finitudine espansa di T.S. Eliot, dai Cantos di Ezra Pound e dall’oltre-evento di Virginia Woolf in Gita a Faro, si muove in una definitività immersa nel limite dell’essere e della mancanza, attraverso tracce non rintracciabili. È come se il blocco sequenziale delle immagini reclamasse il suo posto e la scoperta irriducibile della sua lettera al mondo[3].

L’inconoscibile ha bisogno di rivelarsi, lasciare manifestazioni e segni, essere significato e farsi permanente. In tal caso, la fenomenologia di Graham è legata anche al mistero dell’inizio e della fine, al respiro delle ellissi e all’essenzialità ritmica  come ebbi a scrivere, parlando de Il posto:

«La poesia di Jorie Graham chiede un atto ineffabile, evita di dissotterrare la nostra messa in gioco, invita a rischiare la parola per recuperarla nei fondi, non concedendo distrazioni. Lo sguardo si muove nello sciame della realtà e del suo flusso, ricercando l’inscrizione di un germogliata mutevolezza, di una cattura di consistenza abbandonata, dove la precisazione diventa l’irrimediato mondo della scrittura, come acqua che si squarcia nel suo minuto iridescente».[4] :

Il lungo dispositivo tipografico che accompagna e sussegue le parole, solo parzialmente frammentano la lunghezza della sua epicità, che procede per accumulo. La sua opera è manifesto di una dilatazione e di una esplorazione della finitudine dell’umano, del post-umano e delle sue inquietanti trasgressioni.

La poesia metamorfica, dunque, esplora il tempo geologico, storico e personale attraverso sì la fusione ma attraverso, soprattutto, attraverso la reificazione del mito. È un orfismo concettuale che trattiene ciò che può svanire, coltiva lo stupore come riscrittura verbale del visibile, verso il segreto che intride l’ascesa e la discesa di ogni spaesamento. Nella sua terra vi sono tutti i punti di contatto: ciò che cambia forma e l’inerzia, la labilità e la permanenza, il dramma della nascita e l’opzione del confine, come avviene in Autoritratto a tre gradi, il cui titolo si riferisce alla temperatura media dello spazio cosmico in scala Kelvin: «toccherò le cose → ecco / ecco come guardarle → tutti i punti di contatto → entropia, diminuzione, premendo e poi ritraendosi e guardando, lasciando soltanto → inimmaginabile → un significato in / ogni passo».

Nella nota d’apertura, Antonella Francini, introducendo la molteplicità di voci che si incontrano e si sovrappongono nel libro, scrive che Jorie Graham qui:

«racconta il viaggio dal non-essere all’essere, la linea di confine fra vita e morte e fra naturale e artificiale, esplorando quell’istante di tempo in cui avviene la transizione da una forma all’altra. In questi interstizi temporali, messi a fuoco e ampliati, entra l’io narrante, si scinde in più voci e cede il suo ruolo anche al non-umano – gli oceani violati, il vento, la lingua della tecnologia – per rappresentare, da una prospettiva post umana, un mondo in rapida dissoluzione. Che si tratti del lamento di ecosistemi in pericolo, del continuo brusio digitale che azzera i rapporti umani, della morte del padre, della vecchiaia della madre o dell’esperienza della malattia, gli immensi testi corali e elegiaci di Graham creano imprevedibili connessioni, dialoghi tra soggetti distanti, la documentazione in presa diretta del momento in cui i nasce o si estingue una vita. In questo processo vengono forzate la lingua e le sue regole grammaticali e sintattiche, la punteggiatura e il modo con cui si compongono i versi e le strofe».[5]

È l’esito della sua totalità mossa e segugia che recupera la parola alla sua sopravvivenza, che solca il significante per individuare la visione, il dolore, le righe dei dettagli aperti. Questa totalità non vuole abdicare e cerca

«tutte le modalità in cui gli uomini hanno lasciato una traccia. Un atto corporeo tangibile. La Sacra Sindone, qualunque cosa sia, è fatta di fluidi corporei, tracce di sofferenza e di scelta umana. Scelta di fronte al destino. Di fronte all’incomprensibile. Scelta fatta per istinto, con informazioni insufficienti, un salto di fiducia. Scelta umana, in altre parole. Una macchina intelligente avrebbe visto molto rapidamente, in modo algoritmico, come non finire su quella croce. E dove saremmo allora?».[6]

La traccia non è solo il passaggio digitale o fisico di un transito. È la composizione unica e irripetibile dell’esplorazione del mondo, della forma anche sovraffollata, dell’enigma del passato, attraverso una intera una vocalità cosmica di spaesamenti di anima e mente, per osservare, intingere gli occhi generativi nel tempo e restituire alla possibilità della parola di farsi autentica, registrandone un’unica esistenza mortale: «o avrai fame. Troppo. O non abbastanza. Oppure. Nient’altro? / Nient’altro. Troppo forte troppo veloce troppo organizzato troppo invisibile. Sopravvivremo chiedo al bot»

Lo strazio brusco della morte e della malattia un gesto vivente che fronteggia non già la sua fine ma il suo finire. Vi è una inesausta precisione, lo scorrere del sangue e il suo passato, la notte che scende, la lettura ad alta voce che diventa frammento dinanzi a un letto, inventa altre possibilità di parola per dire la vita anche dinanzi alla sua migrazione, al suolo sradicato e a tutte le sue frazioni, a cui aggrapparsi, come accade nel respiro-grido di Medium o come qui in Il Post umano: «Il sole e l’alluminio – non si toccano più di te e me ora? / Ora. È un luogo ora. Tu hai un ora?».

La carne è il varco del tempo. Dove la lacerazione della malattia, della morte, della fine raccontano del suo respiro arato e del ritmo del suo sciame verbale. Cos’è l’ora dei luoghi? Cosa sono i dettagli e i particolari quando vanno via e tutto è sospeso, le ombre, il corpo come un discorso, una dichiarazione che brucia il giorno. Graham è poeta del termine non della fine. E se lo è, ne rappresenta l’immagine del cum finis, della sua esatta osmosi, della unione di dinamica scientifica e processo immaginativo, come se fosse un monologo ordinato, una sorgiva abbondanza di veglie, una memoria immensa di salvezza e caduta, di tempi e corpi che cambiano:

«siamo ben oltre / il presentimento / passato / amico: il passato di → puoi solo pensarci → non ci sarà per te → puoi solo parlarne → se ne sono andati quelli venuti prima → non ci hanno lasciato
nulla eccetto noi stessi → sulla nostra minuscola asse di sangue → circondati da tutte le colonne infrante → il marmo che s’arrenderà → al tempo → alla radioattività → a → siamo tutto ciò che siamo mai stati →»

 In Crio, Graham affronta la possibilità di preservare criogenicamente la propria mente dopo la morte in modo di tentare di evitare o alterarne la sua potenza nullificante. In un solo salto, un corpo criogenicamente congelato, ma la mente continua a funzionare in un oltre-tempo. Quali saranno le nostre parole intruse? Cosa vedremo? : «ora arriva il mio non-io, il mio io più silenzioso, troppo sottile, esposto, figura d’una completezza smarrita, ma liberandosi d’ogni bordo, dentro non c’è nulla, per quanto piccolo non c’è nulla, della sua stessa tinta-vuoto, estremo, ma non finale-torna indietro su sé stesso per scoprire che nessun sé arriva al bordo del fatto del detto-».

In Doppia elica, la prima immagine di provvisoria precarietà («Un uccello vicino alla casa    corvo / che fa esistere all’improvviso / la provvisorietà del muro / un richiamo nel / sopraggiungere del temporale l’annuncio / da greggi e sciami / le aiuole ruotano nel sistema solare / ascolta-/ Schubert e il tordo all’unisono e / in un punto nello spazio noi / sospesi siamo sospesi») aggiunge un mosaico di conclusività spalancate e metafisica, biologia molecolare e foresta in fermento, per concludere con il gesso sul nero contro il nulla, il vuoto, il non Esser-ci. Per sempre.

[1] Graham J., Fast, a cura di Antonella Francini, Garzanti, Milano 2019.

[2] Pople I., Jorie Graham, Fast, “The Manchester Review”, May 2017.

[3] Ricciardi C., Graham, seduzioni dl post-human, in “Il Manifesto”, 29 settembre 2019.

[4] Galgano A., -Battaglini I., Il posto di Jorie Graham , in Frontiera di Pagine II, Aracne, Roma 2017, p. 795.

[5] Francini A., Nota della Traduttrice, in Graham J., cit., p.5.

[6] Fraccacreta A., Jorie Graham: «La poesia e le seduzioni del postumano», in “Avvenire”, 24 settembre 2019.

Graham J, Fast, a cura di Antonella Francini, Garzanti, Milano 2019, pp. 284, Euro 20.

 

Graham J, Fast, a cura di Antonella Francini, Garzanti, Milano 2019.

Fraccacreta A., Jorie Graham: «La poesia e le seduzioni del postumano», in “Avvenire”, 24 settembre 2019.

Galgano A.,-Battaglini I., Il posto di Jorie Graham , in Frontiera di Pagine II, Aracne, Roma 2017.

Nelson C., A review of Jorie Graham’s Fast, Under a Warm Green Linden, Online, August 14, 2017.

Pople I., Jorie Graham, Fast, “The Manchester Review”, May 2017.

Ricciardi C., Graham, seduzioni dl post-human, in “Il Manifesto”, 29 settembre 2019.

Un viaggio oltre-tempo lirico con Jorie Graham – Cronache Lucane, 19 ottobre 2019

Il posto di Jorie Graham

di Andrea Galgano             27 marzo 2014

recensioni Il posto di Jorie Graham

sul sito della poetessa nella Bibliografia ufficiale  http://www.joriegraham.com/bibliography

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Si chiama Il posto (Mondadori 2014), la nuova raccolta di Jorie Graham (1950), una delle più alte voci della poesia americana. Dopo la scelta antologica, edita qualche anno fa da Sossella, L’angelo custode della piccola utopia, ci giunge questo testo di scheggia e potenza, acutamente tradotto da Antonella Francini.

Premio Pulitzer nel 1996, dal 1997 al 2003 Chancellor of the Academy of American Poets e premio Nonino 2013, per aver «intarsiato i suoi versi sul mito, sulle dicotomie e polarità dell’esistere, scandagliando e sperimentando profondamente tutte le sensazioni della poesia […] dove la parola ritrova la sua eticità e spiritualità tendendo all’infinito», Jorie Graham è nata a New York nel 1950, ha vissuto fino ai diciotto anni a Roma (e il suo iter sembra attestarsi su Pavese. Montale e prima Petrarca) e ha studiato sociologia a Parigi, prima di terminare la sua formazione negli Stati Uniti, dove oggi insegna, ad Harvard, retorica e oratoria.

L’eidetica di Jorie Graham, quasi di neoavanguardia, «[…] ci fa entrare nella forza magmatica della poesia, la sua capacità di testimoniare l’umanità, di risvegliare la mente attraverso i sensi, le presenze vitali del mondo, una «fiumana di sangue» che procede attraverso un deserto. In una fusione coinvolgente di musicalità poematica e densità narrativa» (Bianca Garavelli, da “Avvenire”, 17 marzo 2014).

Ed ecco che i sintagmi intessuti nella pagina acquistano una scaturigine di terra e ferita, il conflitto (persino quello sociale) e la gioia, il crampo del cuore, il tocco, il registro e la trascrizione dell’atto del reale.

È l’inatteso, il blocco superno della realtà che reclama il suo posto, lo spazio di scoperta del mistero che incide l’inconoscibile, che si appropria dell’amore, del tempo presente dilatato e dell’immaginazione: «E vento accolto dal velo d’acqua. / Guarda: l’accoglienza ha una forma […] Ogni cosa nel sole / improvvisa a ritroso, / buttando giù frasi veloci e nervose […] ogni cosa nel sole che tenta d’incarnarsi attraverso qualcos’altro […] Certo il futuro / un tempo non era affatto là […] Parla della lunga catena a ritroso / all’inizio del “mondo” (come lo chiama) e poi, infine, al grande non / inizio. Sento il no iniziare. / Il seguito ronza leggero intorno a me, / cancella le mie impronte», […] Canta dice l’acqua che ripiomba su acqua più ferma – che scorre dove l’altra si rompe. Cantami / qualcosa (il suono del rompersi basso dell’onda) / (gli accordi dove laggiù deposita materia di vita / sulla rampa di spiaggia) (anche la molteplicità / di profondità e rivestimenti dove sorge la chiarezza come una moltitudine) / (mentre l’onda s’abbatte sul suo frangente) / (per squarciarsi all’unisono) (sul suo rifrangersi) – / canta qualcosa, e cantando dissenti».

La poesia di Jorie Graham  chiede un atto ineffabile, evita di dissotterrare la nostra messa in gioco, invita a rischiare la parola per recuperarla nei fondi, non concedendo distrazioni.

E la parola, scomposta, segmentata e frammentata richiede il suo posto, per inebriarsi di mistero, stare dietro la luce del giorno che «sussulta / dietro di noi / ed è un tesoro immenso per esempio oggi / un uomo a cavallo galoppava / leggero su Omaha / sopra la mia spalla sinistra / giungendo veloce ma / leggero e inaudito finchè non mi sono voltata / senza un motivo / come se ciò ch’è dietro di noi / avesse sussurrato / cosa posso fare per te oggi e io mi fossi appena / voltata a / rispondere e la risposta alla mia / risposta scaturisse dalla battigia nell’ultimo sole in cui lui /loro stavano entrando».  

Il respiro precede così l’incedere del verso e il battito, incalzante e vivido, implora la sua esplorazione, quasi che l’istante proclamasse la sua densità e l’immagine si imporporasse di suoni.

Claudio Magris, in un articolo sul “Corriere della Sera” del 20 gennaio 2013, dal titolo La poesia ricuce il mondo, scrive:

«La sua lirica cattura una totalità mossa, spezzata, mutevole, imprevedibile, multipla e simultanea, che il suo verso epicamente lungo e digressivo o concentrato ed essenziale come quello di un haiku coglie con bruciante verità. La sua totalità comprende l’individuo – i suoi sentimenti, passioni, smarrimenti – ma anche la specie e l’incertezza radicale del suo, del nostro futuro. La sua opera esprime una radicale verità della nostra condizione, la vigilia di un ignoto e sconvolgente cambiamento: la possibile – concretamente possibile – assenza di futuro, la morte della nostra specie o una trasformazione tale da renderla non più umana, da aprire l’era del non-umano. […] Il tempo geologico è tanto più grande di quello storico, ma forse il tempo non c’è, non esiste, perchè nel ticchettio dell’orologio non c’è niente, solo un secondo in cui non può esistere nulla e lo spazio fra un secondo e l’altro in cui egualmente non può accadere nulla, eppure la poesia va alla ricerca di questo tempo e di ciò che esso (forse) contiene; ascolta gli uomini, ma anche la foglia, lo scirocco, il cristallo come le vicende d’amore, gli eventi storici e quelli mai es empre esistiti del mito, «il bagliore che assomiglia allo svanire», perchè ogni Io ha dentro di sè il suo «animale morente». La sua Euridice, come quella che ho cercato di rappresentare anch’io, desidera sparire in quello sguardo di Orfeo che si volta».

Il posto, pertanto, è l’osservazione avventurosa del mondo, il gemito del creato, che, anche quando sembra superfluo, si intride di rivelazione, come scrive in Cagnes sur mer 1950: «Sono l’unica a ricordare / la voce di mie madre nell’ombra particolare / dell’arco romano ricolmo di cielo / che oscura le pietre sulla strada in discesa / da dove lei ora risale all’improvviso. / Come l’arco, la voce e l’ombra / violentemente afferrano il piccolo triangolo / della mia anima, un film muto dove note di piano / diventano un corpo impazzito / per le immagini squillanti dello spirito – patria abbandonata – miracolo da cui / si riemerge vivi. Così qui, io di nuovo / rileggo il libro del tempo,

il mio unico tempo, come se ci fosse un fatale errore la cui / natura non so rintracciare – o la forma –  o l’origine – / prendo la creatura e la riporto / sul posto dove io sono un minuscolo serbatoio di sangue, cinque chili d’ossa / e tendini e altre cose – già condannata a quest’unica anima – che dicono pesi meno d’una piuma, o tanto / quanto un centinaio di grammi quando cresce – come in un viaggio ripercorro / quelle arterie, il prezioso liquido, il campo di metodi, agonie, / stupori – che io non sprechi gli stupori – / che non uccida per errore fratello, sorella – mi siederò con audacia una volta ancora sul mio inizio […]».

L’espansione dell’opera di Jorie Graham si nutre di una vocalità cosmica e di uno spazio di macerie insalubri, di spaesamenti di mente e mondo, e costringe a non cambiare itinerario di affinamento, per osservare, intingere gli occhi nel tempo per «restituire alla mente, in modo nuovo per ogni generazione, la sua parola e le parole al loro mondo tramite un uso preciso. Ogni generazione di poeti ha questo dovere, e ogni volta deve svolgerlo ripartendo sostanzialmente da zero», per «riportare la parola umana nella cosa immortale; assicurare che il rapporto, anche se per un istante soltanto,  sia vitale e autentico Far sì che le parole siano canali fra mente e mondo. Renderle di nuovo pregnanti».

È la sua personale ricostruzione della parola segmentata nel mondo, il gesto sopravvivente nella strada al margine del campo, «per vedere / nella spumeggiante fine del giorno / il posto dove tutto davvero / risiede, desiderato o sopra- / valutato / dalla mente umana, che può / se lo vuole / portarlo alla luce / con l’immaginazione – non c’è invenzione – oppure c’è – finchè / esiste, la mente può / farlo – […] il mondo ha aperto la sua veste / e tu / eri libera di guardare / senza nessuna / frenesia, nessuna canzone, semplicemente così, polmoni sospesi, le / cesoie sospese / lì nella mano, / la siepe selvatica accanto a te, / e tu puoi – sì – sentirla scorrere / per le sue migliaia / di steli – e più vicino ora / anche lo stelo / esile e solo».

L’osmosi di corpo e mente, la sopravvivenza della parola alla storia e nella storia, l’immaginazione, che non tralascia nemmeno il fare politico, invita alla redenzione e la poesia diviene «un atto di profonda responsabilità spirituale … Io utilizzo la poesia per essere obbligata a rimanere nella storia». come disse a Firenze il 20 dicembre 2006 nel laboratorio della rivista “Semicerchio”, l’azzardo e lo scandaglio abissale delle sue pagine diventano espressione di concrezione di passato e  ferita, di persone e luoghi, in un fertile connubio di comunione.

Recuperare la parola alla sua sopravvivenza, come solcare le retine di una presenza di senso che essa contiene, senza la scheggia di vaniloqui possibili e di ovvietà spezzate, per cercare, infine, il disegno delle danze, la visione delle colline lontane, il trampolo dei sogni.

La scena diviene, pertanto, una gemma di macerie recuperate, di splendente vacuità sulle foschie e laddove la resistenza, la geniale trasposizione umana sono «ancora il segreto del terreno / arato di nostra creazione / respiro dopo respiro».

Scrive Antonella Francini: «Nell’intervista rilasciata a “The Paris Review”, Graham ricorda che Roma ha rappresentato per lei il tempo storico, uno spazio dominato da un «imponente senso della storia», dove la «percezione della dimensione temporale, della vita e delle azioni del passato»  la facevano sentire come un fantasma, «un’anima in pili nell’enorme massa di detriti umani». Al lato opposto della sua esperienza Graham mette il tempo “geologico” del Wyoming, le vaste distese di spazio dove si sentiva ugualmente un fantasma, dove «questioni di giustizia, cause ed effetti della storia svaniscono», dove la coscienza individuale non ha accesso e «qualsiasi assunto sull’importanza degli esseri umani su questo pianeta» deve necessariamente essere corretto. […] Il periodo intermedio della Francia e dell’esperienza politica ha rappresentato invece l’apertura alla realtà, ad «altre forme del presente definite pili dalle idee che dalle sensazioni, dall’immaginazione, dal mito, dalla storia». Queste tre dimensioni possono essere associate ai tre grandi blocchi tematici della poesia di Jorie Graham: il tempo geologico dell’Ovest americano fa da sfondo alla meditazione metafisica, quello romano al tema della storia (personale, collettiva e culturale) e quello francese alle questioni socio-politiche».

È nella dinamica dell’altro e dell’altrove, dalla esperienza e dall’avvenimento della poesia, che può essere rintracciabile la sua origine e l’affettività della sua conoscenza che implorano «la morbida deviazione mutata in bellezza».

Ancora una volta, la parola, come annota Antonella Francini è «scardinata da ogni vincolo sintattico, ma tuttavia risalta e risuona dalla posizione di isolamento in cui Graham la pone avvertendo il lettore postmoderno che, anche se erosa dagli attacchi teorici e dalla retorica, può sempre creare significato. Le parole, così messe sotto il riflettore, impongono ed esigono una ri-definizione, creano una vibrante tensione fra occhio e immagine grafica, rispuntano ossessivamente in una sorta di gioco del gatto e del topo con un poeta determinato a costruire una nuova colonia per il suo “sciame”, a sondare per loro tramite i misteri della vita umana. In quest’appassionata ricerca della minima essenza di lingua e materia, parola e silenzio devono in qualche modo coincidere […]».

La sua poesia proclama il risveglio di una conquista, non solo di forma o di distesa emersa, ma un posto umano che si impenna, si concede, offre il suo fianco vitale, per «Essere una persona / umana e poi donna. / Essere una che ha avuto / abbastanza. / Abbastanza sottosuolo. / Abbastanza giardino / col suo muro alto anche se non alto abbastanza con tutti / gli spioncini a meno che non fossero / soltanto cretti accidentali / da cui vedere / il mondo».

Poi il mondo, che corre famelico, che nasconde le mani. Resta in ascolto l’anima socchiusa, la nota lunga del tempo, come una creatura che abita le soglie e il dolore esaminato, la maestria delle forme umane. Dove un grido o forse, meglio, un canto tralasciano il loro sangue per darsi avvio e pronunciare tutto il loro magma di spaesate gemme.

 

3Dnn+9_2B_pic_9788804635796-il-posto_originalJORIE GRAHAM, Il posto

Mondadori, pp.240, euro 18    

 

  

Graham J., Il posto, Mondadori, Milano 2014.

Id., L’angelo custode della piccola utopia. Poesie scelte (1983-2005), Luca Sossella Editore, Milano 2008.

(a cura di) Graham J.- Lehman D., The Best American poetry 1990, Collier Books, New York 1990.