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I crimini violenti contro le donne: una lettura antropologica

a cura di Sara Ginanneschi 26 maggio 2015

CRIMINOLOGIA-26-27-giugno-2015-loc.-e-programma_Pagina_1-800x1035Il 26 ed il 27 GIUGNO 2015, il Polo Psicodinamiche di Prato ospiterà il CORSO DI CRIMINOLOGIA:
“I CRIMINI VIOLENTI CONTRO LE DONNE” a cura del Prof. Vinicio Serino.

Dalle culture pre-agricole dell’area mediterranea risalenti all’8000AC ai giorni d’oggi, sembra essere la struttura societaria e l’organizzazione dei ruoli sessuali a delineare una modalità in cui predomina la cura parentale, come salvaguardia di una specie, rispetto ad una in cui prevale l’aggressività e la violenza come forma di protezione del gruppo.
Le società primitive, ossia i primi aggregati di Sapiens sapiens, manifestavano una divisione dei compiti per il controllo degli spazi e l’acquisizione delle risorse indispensabili alla vita. Si trattava di “società acquisitive”, composte da popolazioni di cacciatori-raccoglitori “che traevano le risorse direttamente dall’ambiente, muovendosi sul territorio, senza praticare forme di agricoltura e di allevamento”, ma sfruttando, senza trasformarle, le risorse alimentari, animali o vegetali, rinvenute in natura (Godelier, 1977). In queste società le donne avevano prevalentemente compiti di  raccolta di vegetali o di piccoli animali e di cura parentale; gli uomini quelli della caccia, a prede che spesso, potevano diventare predatori. Sarebbe quindi un’etica naturale, un meccanismo biologico affinatosi per evoluzione naturale, ad incanalare ed orientare i comportamenti umani. Essa ha la vocazione della universalità in quanto agisce come una sorta di codice genetico innato che serve, in ogni gruppo sociale, a garantire la copertura dei tre bisogni primordiali: l’alimentazione, la sopravvivenza, la riproduzione della specie e funziona sulla base del principio della cooperazione specifica tra i membri del gruppo: senza il rispetto delle prescrizioni imposte da quel codice e quindi senza una attività cooperante di copertura di quei bisogni, quell’aggregato non potrebbe esistere.
L’etica naturale funziona allora come uno straordinario meccanismo attraverso il quale è possibile avviare e mantenere la cooperazione tra appartenenti allo stesso aggregato sociale. Ogni comportamento indirizzato ad ostacolare la soddisfazione, da parte dei cooperanti, dei bisogni primari è deviante perché crea le condizioni per dissoluzione del gruppo. Sono allora ipotizzabili, in questa prospettiva, delitti naturali, come quelli che impediscono, dice Chiarelli, la perpetuazione “del DNA tipico della specie e la sua variabilità infraspecifica”. Il mancato esercizio della cura parentale; l’inadempimento del dovere di riproduzione; la mancanza di cooperazione nella acquisizione del cibo e nella difesa del gruppo comporterebbero inevitabilmente la fine dell’intero aggregato sociale.
È in queste ancestrali forme di aggregazione, con la conseguente assegnazione dei ruoli, che vanno ricercate le basi stesse della preminenza e talvolta del dominio dell’uomo sulla donna. Una vera e propria gerarchizzazione dei rapporti che comporta la valorizzazione dei compiti affidati ai maschi: in particolare sullo “scarto tecnologico tra uomini e donne”, avendo i primi “il monopolio degli strumenti-armi, della lavorazione delle materie prime; gli uomini hanno il controllo dei mezzi-chiave di produzione (attrezzi, tecniche, terra, capitali, manodopera) e di quelli di difesa e di violenza, da cui deriva il dominio dell’organizzazione simbolica e politica” (Mathieu, 2006). E quindi la subordinazione della donna, entro la quale possono manifestarsi le più diverse forme di violenza.
L’ipotesi antropologica si pone quindi l’obiettivo di ricostruire storicamente il motivo per cui il fenomeno della violenza alle donne nasce, esattamente come lo psicoanalista utilizza la storia di vita del suo paziente per capire il problema che lo affligge oggi.
Il Prof. Serino affronterà un excursus storico per spiegare come tutte le società hanno sempre assegnato ai due sessi due funzioni diverse nel corpo sociale: la riproduzione ed il lavoro (Mathieu, voce sesso in Izard e Bonte, 2006), fino ad arrivare ai giorni d’oggi, alla subordinazione della donna rispetto all’uomo, alla rivoluzione sessuale ed al femminismo, fino alla storia odierna ed agli aspetti morali e giuridici della violenza nel 2015.

Culture mediterranee e dimensione donna: alcune (personali) considerazioni sul tema delicato della violenza

di Vinicio Serino            17 ottobre 2014

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Con questo intervento, ispirandomi anche a posizioni della antropologia funzionalista (cfr. i lavori di E. Leacock), cercherò di sfatare ovvero ridimensionare un mito: quello della “marginalità femminile” e quindi del presunto, ridotto o addirittura inesistente “potere” della donna nell’ambito delle passate culture mediterranee.
Paradossalmente, come d’altra parte avviene spesso nel corso della storia, la violenza esercitata ha, in qualche modo, funzionato da “levatrice” di “aliquid novi” che, nei caso specifici qui sotto riportati, anziché “schiacciare” il soggetto colpito ha prodotto l’effetto opposto. Dando luogo a quello che potrebbe essere definito modello culturale ad effetto inverso … Storie di donne che la violenza non ha affatto annientato ma che, anzi, ha contribuito ad innalzare al rango di modelli ideali, forti, condivisi seppure alternativi, ispirativi di comportamenti altrui, spesso divenuti, nel tempo, dominanti.
La Grande Madre, la generante
“Nell’Europa del Neolitico e in Asia Minore … nell’arco di tempo tra il 7000 ed il 3000 a. C.”, sostiene l’antropologa lituana M. Gimbutas, “ la devozione religiosa si rivolgeva alla ruota della vita e alla sua ciclica rotazione … il punto focale della religione comprendeva nascita, nutrimento, crescita, morte e rigenerazione, parallelamente alla coltivazione delle messi e all’allevamento degli animali. I popoli di questa era ritenevano imponderabili le forze naturali … e adoravano molte dee, o forse una sola dea in molte forme. La dea manifestava le sue innumerevoli forme attraverso varie fasi cicliche che vigilavano sul buon andamento di ogni cosa …” (Gimbutas, 2005).La donna, non l’uomo, era l’asse portante di questa società. Ma poi altri popoli, popoli guerrieri, imposero, secondo la Gimbutas, un nuovo ordine, quello della supremazia del maschio: non più, allora, maternità ma paternità; non più generazione, ma distruzione; non più amore ma violenza …
Penelope, la fedele ed astuta tessitrice
Penelope rappresenta bene l’idea di donna del mondo omerico. “… la saggia Penelope”, “donna bellissima” tra i pretendenti, straziata dal canto di Femio, che intona la storia (penosa) del ritorno degli Achei da Troia … Essa è il simbolo stesso della fedeltà coniugale. Ma nell’immaginario collettivo, per via della celebre tela, è diventata anche il simbolo della astuzia femminile, in grado di tener testa efficacemente ai maschi, opponendo la sua intelligenza costruttiva alla forza sciocca e brutale. “Allora di giorno la gran tela tesseva/ e la sfaceva la notte, con le fiaccole accanto … “ Così l’ha immortalata Omero nella sua Odissea.

Cornelia, l’educatrice
Haec ornamenta mea”: questi sono i miei gioielli, è la frase attribuita alla matrona romana figlia di Publio Cornelio Scipione l’Africano, il vincitore di Annibale, sposa del Tribuno della plebe Tiberio Sempronio Gracco e madre dei due tribuni della plebe, grandi riformatori della Repubblica romana, Tiberio e Gaio Sempronio Gracco. Tacito seppe cogliere bene , nel suo “Dialogus de oratoribus, la grandezza di questa donna che nel suo seno e nel suo grembo aveva educato quei due figli a grandi ideali, spingendoli coraggiosamente a riformare la società romana, anche al costo della propria vita.
Maria di Nazareth, Virgo et Mater
La Madonna dei cristiani, personaggio, come è noto, molto amato anche dalla cultura islamica – non ultimo per la pia tradizione che la vuole soggiornare, nella fase finale della sua vita terrena in Efeso, insieme con l’evangelista Giovanni – è, da due millenni, il simbolo mediterraneo della dolcezza dell’amore materno. Un amore che si coglie sempre, in ogni momento della sua esistenza, ma soprattutto nella struggente sofferenza subita durante la passione del figlio. Mater dolorosa et lacrimosa, sed semper suavis et dulcissima … Senza essere irriverente Maria rappresenta una sorta di “continuum” ideale con le storie narrate dalle antiche mitologie mediterranee della Grande Madre generante di ogni forma di vita …

Ipazia, la martire pagana
“ Quando ti vedo mi prostro davanti a te e alle tue parole, vedendo la casa astrale della Vergine,
infatti verso il cielo è rivolto ogni tuo atto Ipazia sacra, bellezza delle parole, astro incontaminato della sapiente cultura.”
Così canta, in uno dei suoi Epigrammi, il poeta Pallada di Alessandria (IV-V secolo d.C.) a proposito di Ipazia (da Upatos, il più elevato?), figlia del matematico alessandrino Teone, matematica ed astronoma lei stessa, nonché, capo della celebre Scuola Alessandrina, centro della ricerca medica e ascientifica, dal 393 dell’e.v. Perché, allora fu uccisa e fatta a pezzi da monaci Cristiani nel 415? Perché coltivava ancora il culto degli antichi dei? O perché, con la sua “tanta cultura”, rappresentava un (pericoloso) modello alternativo di donna?

Teodora, la politica
“… Non appena giunse all’adolescenza e fu matura, entrò nel novero delle attrici e divenne subito cortigiana, del tipo che gli antichi chiamavano ‘la truppa’. Non sapeva suonare flauto né arpa, né mai s’era provata nella danza; a chi capitava, ella poteva offrire solo la sua bellezza, prodigandosi con l’intero suo corpo.” In modo malevolo Procopio di Cesarea, storico della Corte Imperiale ed esponente della potente consorteria del Senato, illustra la giovinezza di Teodora (500- 548 e. v.) , destinata a diventare moglie e (ascoltata) consigliera dell’Imperatore Giustiniano … Fu lei che contribuì, in maniera decisiva, con la sua determinazione e con le sue arti di grande mediatrice, a mantenere l’unità dell’Impero in un’epoca di formidabili tensioni religiose.

Fatima, la madre dei Califfi
Fātima bint Muhammad, Fātima al-Zahrā, (Fātima la Luminosa) (Mecca 605, Mecca 633) fu la quarta e ultima figlia di Maometto. Sposò Alī ibn Abī Tālib cugino del profeta e quarto califfo “ortodosso“, nonchè primo imam per lo Sciismo. Fatima fu la sola, tra le figlie di Maometto, a generare una discendenza, con al-Hasan ibn Alī e al-Husayn ibn Alī.
In vita subì molti torti, come l’ affronto – mancato per l’intervento di Maometto – di un’altra moglie per suo marito Alī ibn Abī Ṭālib Alī.. Dovette anche affrontare l’opposizione del califfo Abū Bakr, per altro amico di Maometto, contrario a che lei, la figlia del Profeta,che incamerasse alcuni dei beni acquisiti dal padre nella prima fase della espansione islamica.
Fatima, colei che allatta, che dà il nutrimento, rimane una sorta di icona esemplare della sofferenza e della rassegnazione, elevata, da questo punto di vista, ad esempio della straordinaria fortezza d’animo del giusto: una (tranquilla) fortezza al femminile …
Sherazade, l’intrattenitrice
La vicenda dell’origine de “Le mille e una notte” è nota: ogni notte la bella Sherazade, andata sposa al re Shāhrīyār, lo intrattiene con una storia. In questo modo evita la morte perchè il sovrano, per vendicarsi del tradimento di una delle mogli, è uso uccidere sistematicamente le sue spose al termine della prima notte di nozze. Per mille e una notte Sherazade riuscirà nel suo intento, fino a quando il re, innamoratosi di lei, recederà dal suo insano proposito. Come in Penelope, sua ideale progenitrice, l’inventiva, la creatività, ma anche la pazienza, virtù molto comuni tra le donne, premiano. E salvano, la vita …

Beatrice, la Fede secondo Dante
Della Beatrice dantesca non si sa praticamente nulla. Se davvero non è ancora possibile identificarla con certezza con la figlia del banchiere fiorentino Folco Portinari e la sposa bambina di Simone de’ Bardi, a sua volta rampollo di una famiglia di grandi banchieri , è comunque fuori di ogni dubbio che seppe incidere, in maniera indelebile, sulla poesia e, soprattutto, sulla architettura filosofica di Dante. Dio è amore, ci dice appunto Dante, attraverso Beatrice : e per comprendere la natura di questo amore è necessario l’abbandono totale delle cose di questo mondo. Delle sue convenzioni, delle sue banalità, dei suoi pregiudizi, della sua vanagloria. Beatrice è la Fede, quella autentica, che innalza l’essere davvero libero alle vette del divino … Dagli occhi della mia donna si move / Un lume si gentil, / che dove appare / Si veggion cose ch’uom non può ritrare / Per loro altezza e per loro esser nuove … dice di lei Dante ne Le Rime. Quel lume è, appunto, la fede, come sapeva l’iconologo Cesare Ripa che rappresenta la prima delle virtù teologali con una donna recante nella mano destra una candela accesa, posta alla sommità di un cuore.
Caterina, l’innamorata di Cristo
“In altro non sta la pena nostra, se non in volere quello che non si può avere. “ “Nella amaritudine gusterai la dolcezza, e nella guerra la pace”. Sono due tra le affermazioni più significative della santa senese, poi diventata dottore della Chiesa romana e Patrona d’Italia e d’Europa.Una innamorata di Cristo che avrebbe, pesantemente, inciso sul grande corso della Storia degli uomini, convincendo il Papa a ritornare a Roma, dopo il tempo di Avignone … Ci riuscì con un “santo inganno” che servì a restituire il Pontefice alla sua domus naturale, la Sedes Petri romana.

Giovanna, la vergine guerriera
Vissuta in un periodo di immensi travagli – tra il 1412 ed il 1431 – indotta dalle voce di San Michele, di S. Caterina e di S. Margherita, Giovanna d’Arco, la Pulzella d’Orleans, si consacrò a Dio, facendo voto di castità. Quelle stesse voci le ingiunsero di correre in soccorso del delfino di Francia, Carlo, in guerra con gli inglesi ed i loro alleati borgognoni. In un clima di violenza, non sottostò alla violenza, ma impose alle sue truppe un modello di tipo monastico – forse ispirato a quello dei cavalieri Templari ? – vietando ogni saccheggio e prevaricazione; imponendo la preghiera quotidiana e la confessione; obbligando a mantenere con la popolazione civile un rapporto di collaborazione e non di rapina, come era consuetudine negli eserciti del tempo. Secondo i suoi persecutori per avere salva la vita non avrebbe dovuto riprendere le armi; né portare i capelli corti, come gli uomini ; né indossare vesti maschili. Ma lei rifiutò: e le fiamme del rogo la avvolsero, dopo essere stata riconosciuta come eretica, ad appena diciannove anni.

Artemisia, l’emancipatrice
Chiudo queste mie riflessioni con il caso di Artemisia Gentileschi, figlia ed allieva di Orazio, pittore caravaggesco presso cui condusse il proprio apprendistato. Era l’unico modo per imparare ed esercitare l’arte, essendo impedito, all’epoca, alle donne di svolgere lavori fuori della propria sfera domestica e tali da assegnar loro un qualche ruolo sociale. Salvo quello della cortigiana e/o della prostituta … Era stata troppo in anticipo sui tempi per poter presentarsi come un modello di riferimento per le donne della sua epoca: anche per questo – non solo per la sua avvenenza – fu stuprata dal pittore Agostino Tassi … E forse si vendicò idealmente con il suo “Giuditta uccide Oloferne” dove il volto del generale nemico degli ebrei sembrerebbe riprodurre proprio quello del suo violentatore …

Uno zodiaco al femminile
Ho giocato. Ma solo per raccogliere, da questo personale florilegio delle culture mediterranee, dodici fiori che simboleggiano altrettante peculiarità della condizione femminile. Ossia:
La maternità naturale, propria della Grande Madre;
L’astuzia “positiva”, propria della fedele Penelope;
La capacità educativa, propria della romana Cornelia,
La disponibilità al sacrificio di sé, propria di Maria, Vergine e Madre;
La libertà di affermare posizioni anche scomode e pericolose, propria di Ipazia, la martire pagana;
L’intelligenza politica , propria di Teodora imperatrice;
La forza d’animo, propria di Fatima, diletta figlia del Profeta;
L’inventiva creativa, propria di Sherazade, la giovane intrattenitrice;
L’abbandono di se, proprio della Beatrice dantesca;
La forza persuasiva, propria di Caterina, la mistica di Siena;
Il coraggio cavalleresco, proprio di Giovanna, vergine guerriera;
La propensione emancipatrice, propria di Artemisia, la dipintora.
– Uno zodiaco fatto di dodici, straordinarie gemme …

In fine
Che la bellezza irradi e compia i nostri lavori … Bellezza è donna …

BIBLIOGRAFIA
D. Alighieri, Rime, Note di Gustavo Rodolfo Ceriello, Milano 1952;
La Bibbia di Gerusalemme, Bologna 2009;
F. Cardini, Giovanna d’Arco, Milano 1999;
R. Contini e G. Papi ( a cura di), Artemisia, Roma, 1991;
F. Gabriel ( a cura di ), Le mille e una notte, Torino 1964;
M. Gimbutas, Le dee viventi, Milano 2005;
E. Leacock, Women’s Status in Egalitarian Society: Implications for Social Evolution, in Current Anthropology, vol. 33, no. 1, supp. Inquiry and Debate in the Human Sciences: Contributions from Current Anthropology, 1960–1990 (Feb., 1992 (ISSN 00113204 & E-ISSN 15375382)), p. 225 ff. (essay originally appeared in Current Anthropology, vol. 19, no. 2 (Jun., 1978),
P. Misciattelli, Lettere di S. Caterina da Siena, Firenze 1939;
Omero, Odissea, nella versione di Rosa Calzecchi Onesti, Torino 1963;
F. M. Pontani ( a cura di), Antologia Palatina, Libro IX, Torino 1979;
Procopio di Cesarea, Storie Segrete, a cura di F. Conca e P. Cesaretti, Milano 1996;
C. Ripa, Iconologia, a cura di Piero Buscaroli, Milano 1992;
Muhammad ibn Jarīr al-Tabarī, History of the Prophets and Kings, V.2, Albany, NY, 1987-1996;
P. Cornelio Tacito, Dialogus de oratoribus, Napoli 2009.

Morte, buone morti, cattive morti nel Medioevo di Siena

di Vinicio Serino                                       11 novembre 2013

Antropologia

pdf Morte, buone morti, cattive morti nel Medioevo di Siena

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Normalità della morte e vita brevis

“La prima scoperta dell’uomo è la morte. Non la morte astratta del Medioevo, passaggio verso l’al di là. Ma la morte incarnata: il Medioevo volgendo al suo termine inciampa nel cadavere” (Le Goff, 1981). Ciò avviene proprio quando, nel così detto “Autunno del Medioevo”, si è ormai formata una società proto-borghese e proto-capitalista, molto incline alle cose del mondo e quindi intrinsecamente umanista. Una società nella quale, pur nella consapevolezza di una dimensione spirituale post mortem, cresce comunque il rimpianto per la vita. Che si manifesta appunto quando si è consapevoli di lasciare in questa (già) valle di lacrime, molte cose/persone, che hanno dato piacere e godimento, come sembra suggerire, con la forza espressiva della propria potente pittura, Ambrogio Lorenzetti. Quando, nel suo “Effetti del Buon Governo in città” descrive uno spazio pieno di uomini e di donne impegnati nelle attività più disparate – ci sono calzolai, muratori, filatrici, persino un magister con la sua classe – al cospetto dei quali nove fanciulle (allusione alle Muse) danzano leggiadramente al tempo battuto, con un tamburello, dalla decima (madonna Armonia?).

E ciò nonostante che “la durata della vita sia comunque bassa – specie se limitata alle aspettative del nostro tempo – tanto che di rado supera i trenta anni per le donne, mentre a malapena tocca i quarantacinque per gli uomini. Pochi i vecchi i quali, superati i quarantacinque anni di età, durante i quali si è già verificata una rigorosissima selezione naturale, hanno una qualche speranza di vita più lunga ….Un quarantenne, dunque, nel Medio-evo è già ben oltre la maturità, un cinquantenne è un vecchio” (Gatto, 2003). Anche a Siena questa è la norma per la concomitanza di una serie di eventi capaci di produrre rilevanti selezioni quali morti infantili, guerre, pestilenze, dissenterie, carestie e cambi climatici (Turrini,  2003).

La morte è (anche)immagine

Un nuovo modo di intendere la morte si percepisce, a partire dal secondo decennio del XIV secolo, attraverso il forte intensificarsi della sua iconografia (Gianni, 2003). Il che è sociologicamente spiegabile con la nostalgia per una vita che, almeno per le classi più elevate, le stesse che “commettono” le immagini, merita comunque di essere vissuta. Lo sapeva bene Cecco Angiolieri quando scriveva: “tre cose solamente mi so’in grado, /le quali posso non ben ben fornire: ciò è la donna, la taverna e ‘l dado; /queste mi fanno ‘l cuor lieto sentire.”

D’altra parte, già a partire del XIII, questa gaudente filosofia della vita anima gran parte dei Carmina burana, una serie di composizioni, verosimilmente tutte cantate contenute nel c.d. Codex Latinus Monacensis proveniente dal convento di Benediktbeuern (l’antica Bura Sancti Benedicti, nei pressi di Bad Tölz in Baviera), dove molto presenti sono le tematiche amorose, bacchiche, conviviali e satiriche. Erano opera dei “Clerici vagantes” o goliardi, dal nome del loro mitico capostipite, Golia, che si spostavano da una città all’altra. Forse il più noto tra questi carmina è quello dedicato alla Fortuna, “imperatrix mundi”, cangiante come la luna che cresce o cala …

L’idea della morte ed i suoi tanti volti

Quello espresso da Cecco e, almeno in parte, dai Clerici vagantes, era un ideale “di “basso godere”, che certo mal si conciliava col misticismo di Bernardo di Chiaravalle o la profondità di sapere di Bonaventura di Bagnoregio, il Doctor Seraphicus. Eppure l’idea dissacrante di vivere nel mondo e per il modo era sempre più diffusa nella Res publica Christiana, dopo il transito del temibilissimo anno Mille: Mille e non più Mille. Ma l’idea della morte – molto spesso l’ossessione della morte – era pur sempre presente e, con l’ annus horribilis 1348, l’anno della terribile pandemia di peste, le rappresentazioni iconografiche di quell’inevitabile evento si intensificheranno, mentre al senso del rimpianto per i piaceri perduti si aggiungerà l’orrore per la tremenda, collettiva moria.

Questo “rimpianto” per i piaceri perduti con la fine della vita spiega, probabilmente, non solo il senso di “horror” che emana dalle raffigurazioni della morte ma anche la quantità di “declinazioni” di questo horror. La morte è uno scheletro, il che ci illumina su come sarà il nostro corpo “dopo”, secondo il modello allegorico del “Contrasto tra tre vivi e tre morti” forse rappresentato, per la prima volta, nel  Cattedrale di Santa Maria Assunta, ad Atri, in Abruzzo, a metà del XIII secolo. I tre gentiluomini, che si apprestano alla caccia col falcone, incontrano tre scheletri che li rimproverano per la loro spensieratezza e li ammoniscono sulla ineluttabilità della morte.

Nei “Documenti d’Amore” di Francesco da Barberino (a. 1314), la morte è un mostro villoso, con tre facce e quattro braccia che, con due archi, lancia le sue micidiali frecce, tre per ciascun arco. In mezzo,  una donna colpita da due saette  sta per cadere: dietro a essa è Amore alato, diviso in lungo per metà e mentre la metà sinistra è intera, la destra è spezzata in più parti. E’ evidente – ma difficilmente interpretabile – il significato allegorico della rappresentazione che, per alcuni, sarebbe un’allusione alla celebre Setta iniziatica dei Fedeli d’ Amore di cui avrebbe fatto parte anche Dante (Valli, 1994). Per altro il messaggio potrebbe anche essere inteso che mors non amor omnia vincit

La morte è anche una danzatrice che guida un singolare ballo nel quale si uniscono scheletri con i diversi rappresentanti della articolata società basso medievale, contadini, artigiani, prelati e cavalieri: è questa la danza macabra, denominazione che, forse, serve a rievocare il sacrificio dei sette fratelli Maccabei, giustiziati insieme alla loro madre sotto il regno di Antioco Epifane per aver osservato la propria fede nel Signore. Ma che potrebbe anche rimandare alla parola siriaca maqabreu, seppellitore, a sua volta da connettere con maqbar, cimitero. La più antica rappresentazione iconografica della penisola, risalente al 1485, si trova nell’Oratorio dei Disciplinati di Clusone, nel bergamasco.

Nel territorio della Repubblica di Siena la  morte è “cattiva morte”, come nell’opera di Biagio di Goro Ghezzi nella Chiesa di san Michele Arcangelo in Paganico. E’ effigiata come una donna terribile (una strega ?), a cavallo di un destriero nero, montato a pelo; porta, legata alla cintura, la terribile falce, mentre dal suo arco micidiale lancia una acuminata freccia. Sopra di lei Cristo che ammonisce: “ O tu che leggi pon chura ai colpi di chostei/c hocise me che so signior di lei”.  Persino il Figlio di Dio ha dovuto soggiacere alla tremenda legge di quella orribile creatura …

Nella stessa Chiesa, Goro ha rappresentato San Michele nella sua funzione di pesatore delle anime secondo una impostazione simbolica che rammenta la psicostasia egizia. Alla destra dell’Arcangelo (la sinistra per chi guarda) la Vergine intercede per le anime del Purgatorio, essendo ormai stata fissata la tripartizione dei mondi dell’al di là (ved. Infra). Alla sinistra dell’Arcangelo un demone (o una diavolessa) emaciato e con le ali di pipistrello, accoglie, nel suo regno tenebroso, l’anima (nuda) di una  giovane donna.

Morte, ritualità della morte e mondi del post mortem

A partire dal XIII secolo, quando il processo di formazione della nuova società medievale comincia a completarsi, socialmente ed antropologicamente, con il ruolo crescente della borghesia cittadina, in molte città italiane si vanno stabilmente delineando nuove modalità rituali che, tra l’altro, comportano la fine delle “vecchie lamentazioni funebri dell’antichità” e l’avvento di “un complesso cerimoniale religioso, con la conseguenza di messe di suffragio, richieste di indulgenza, accensioni di ceri e anche lasciti di beneficenza per la salvezza dell’anima ” (Turrini, 2003). L’esempio di Siena è, al riguardo, molto illuminante.

Si tratta dunque di un vero e proprio processo di razionalizzazione delle pratiche rituali, accompagnato da precise disposizioni del de cuius sulla destinazione del proprio patrimonio, in perfetta coerenza con le tendenze di una società borghese nella quale, grazie alla crescente formazione di ricchezza mobile – il denaro, sostituto della ricchezza immobile terriera tipica degli antichi feudatari – ci si può anche salvare in articulo mortis, praticando quella che J. Chifffoleau definisce “contabilità dell’anima”.

Ovviamente per il buon Cristiano la morte non è affatto la fine. Ed un aspetto innovativo relativo al “dopo” è dato dalla introduzione di una nuova dimensione, intermedia tra Inferno e Paradiso, il Purgatorio. Già nell’Antico Testamento se ne adombrava l’idea. Lo si ricava dall’episodio, contenuto in Maccabei II, dei soldati di Giuda uccisi in battaglia e trovati in possesso di “cose consacrate agli idoli”. Allora, continua il testo sacro, “ricorsero alla preghiera, supplicando che il peccato commesso fosse pienamente perdonato …. Perché se (Giuda) non avesse avuto ferma fiducia che i caduti sarebbero risuscitati, sarebbe stato superfluo e vano pregare per i morti. Ma se egli considerava la magnifica ricompensa riservata a coloro che si addormentano nella morte con sentimenti di pietà, la sua considerazione era santa e devota. Perciò egli fece offrire il sacrificio espiatorio per i morti, perché fossero assolti dal peccato …” (Maccabei II, XII, 40-46).

Molti secoli dopo Agostino d’Ippona, nel suo “De Civitate Dei”, parlerà di un focus purgatorius, tema  che ritornerà poi con Beda il Venerabile, Bernardo di Chiaravalle, Piero Lombardo, e molti altri. Ma è nel secolo  XIII secolo che, per opera di grandi teologi come Alberto Magno, Tommaso d’Aquino, Bonaventura da Bagnoregio, si forma compiutamente l’idea di un “luogo” dove è temporaneamente possibile la purificazione dei peccati per accedere quindi alla definitiva e beatifica visione di Dio.

Il II° Concilio di Lione del 1274 sanzionerà definitivamente questa importante innovazione della Chiesa affermando solennemente che “le anime sono purificate dopo la morte con pene che lavano”. Il Giubileo del 1300, indetto da papa Bonifacio VIII, poi, svilupperà ulteriormente l’idea del suffragio con la bolla Antiquorum habet fida relatio: ogni cento anni, chiunque visiterà le tombe degli Apostoli, per quindici giorni, godrà della remissione totale di tutte le pene che avrebbe dovuto scontare in terra o in Purgatorio. L’indulgenza vale anche per quelli morti durante il viaggio.   Alla costruzione di questo luogo – non luogo molto avevano contribuito le tante storie di anime che chiedevano preghiere per la propria salute riferite dai viaggiatori nell’al di là, di cui Dante è il più noto …

Per J. Le Goff l’idea di Purgatorio (Le Goff,1982) si afferma in parallelo con l’ascesa della borghesia produttiva, grande manipolatrice e dispensatrice di denaro. Una vera e propria classe intermedia che si pone tra  i chierici ed i nobili cavalieri da una parte e la massa damnationis – in terra – dei contadini e delle miserabili plebi urbane dall’altra. Si viene così formando una nuova visione del mondo secondo la quale, nonostante il peccato, è comunque possibile il riscatto e quindi, la redenzione attraverso la purificazione espiatrice, agevolata dall’azione dei viventi. La Chiesa visibile era l’unica istituzione che, con la forza delle preghiere e della messa, ma anche attraverso le indulgenze – a pagamento … – poteva spingere l’anima verso la beatifica visione dell’Eterno. I ricchi borghesi della Siena del ‘300 – come d’altra parte quelli di molti altri liberi comuni – faranno ampio ricorso a questa (pia) possibilità.

Per l’onore di Giovanni d’Azzo

Per altro la morte era anche occasione di esibizione di ricchezza e di potenza di ceto. Illuminante quanto avviene a Siena nell’anno del Signore 1390, quando Giovanni d’Azzo, nobile e cavaliere, ebbe la sua fastosa cerimonia funebre “… fecelisi grandissimo onore; in prima el suo corpo ebbe duecentodieci doppieri legati nel castello di legname … e arsero mentre che fece tutto l’ufficio. Vestì il Comune quattro cavalli con la balzana e con le bandiere e l’arme del popolo,e anco vi si vestie sessanta uomini a bruno. Fue portato in una bara ad alto coperta d’un bellissimo drappo d’oro; e sopra al corpo uno padiglione di drappo d’oro foderato d’armellino …”I doppieri erano torce di cera, molto utilizzati nelle case dei più abbienti:  E nelle case entrato, fatto pianamente aprir la camera nella qual sapeva che dormiva la giovane, in quella con un gran doppiere acceso innanzi se n’entrò” racconta G. Boccaccio nella novella VI°  della V° giornata. La pelle di armellino, ossia ermellino, diventa di un bianco candido di inverno, simbolicamente rimandando alla idea di purezza … Una delle opere d’arte più famose, opera di Leonardo, “La dama con l’ermellino”, rappresenta appunto una splendida donna, poi identificata con Cecilia Gallerani – la cui famiglia, emigrata a Milano, era di origine senese – dama della corte degli Sforza, amante di Ludovico il Moro. La splendida donna reca in braccio un candido ermellino, forse per alludere all’Ordine dell’Ermellino che il re di Napoli aveva conferito al Duca di Milano.

“ … el detto padiglione” continua la cronaca di quel fastoso funerale,  “portava in quattro stagiuoli cavalieri e grandi cittadini di Siena , e fur vestiti vinti cavagli a bruno con le bandiere di sua arme … e uno uomo armato a cavallo di tutte le sue armi e barbuta , spada nuda e speroni, e altre armadure le quali tutte rimasero al Duomo … Anco a detta sepoltura furono tutti e’ Priori di palazzo e furonvi tutti frati e preti delle regule di Siena e di chiesa parrocchiali; e furo avvisati tra preti e frati e monaci intorno a seicento…” Un corteo funebre degno di un monarca, per il quale le note – e teoricamente severe – disposizioni suntuarie del Comune di Siena non trovarono applicazione: rileva la solennità della cerimonia con l’uomo a cavallo che, coperto di barbuta, cioè dell’elmo, ricorda agli astanti le virtù cavalleresche del defunto.

Honor mortis (e non solo)

Eppure la morte, ossia il trattamento del morto, è sottoposto ad una disciplina molto precisa, a Siena, come in molte altre città comunali. Si tratta di disposizioni oltre che circostanziate anche particolarmente severe,  sostanzialmente motivate da diverse esigenze:

a)     il divieto dell’uso di certi colori come il rosso, il verde e l’azzurro, per le vesti dei partecipanti, con l’imposizione del nero per uniformare, per quanto possibile, la cerimonia di commiato, evitando ostentazioni di ceto che, in ogni città medievale piena di divisioni, di fazioni, di “Monti”, sarebbero potenziali fonti di dissenso verso il (precario) potere costituito;

b)    il divieto di assembramenti, col “contingentamento” del numero dei partecipanti alle esequie, chiara misura di prevenzione di ordine pubblico, altro nervo scoperto nell’ambito delle rissose comunità cittadine del tempo;

c)     il divieto di partecipazione delle donne al corteo funebre in coerenza con una società (almeno relativamente ai tempi) sessuofobica, salvo che non si tratti delle esequie di una defunta, nel qual caso scatta sempre il meccanismo del (rigido) “contingentamento” (Turrini, 2003);

d)    il divieto del “bociarerium”, ossia delle manifestazioni di dolore esteriorizzate, accompagnate da pratiche come la lacerazione delle vesti o lo strappo dei capelli, dal momento che tali forme di disperazione sono incompatibili con la credenza in una vita eterna post mortem.

Il senso di tutte queste prescrizioni va ricercato nell’impegno delle autorità ad assicurare comunque, specie in caso di manifestazioni coinvolgenti più persone, una rassicurante condizione di normalità …

Morte ad omicidi e spie

Una delle espressioni pubbliche della morte è quella relativa alla sua somministrazione come pena per crimini gravissimi. Nelle città medievali – e Siena non costituisce affatto un’eccezione – attiene a reati molto gravi, come l’omicidio considerato ”Horrido e grande peccato”, perché priva dalla dimensione terrena una creatura fatta ad immagine dell’Eterno. Questo tremendo delitto non ha altra pena che quella della decapitazione: “… punisscase in ella pena del capo.” La ratio di questa disposizione sta nella c.d. “legge del contrappasso”: ogni delitto va colpito con una sanzione comminata secondo il principio dell’ analogia, deve cioè essere “coerente” con la colpa commessa. E la pena deve contenere un messaggio, un insegnamento facilmente comprensibile e, al tempo stesso, di forte valenza pedagogica di cui va immediatamente apprezzata la funzione dissuasiva.

La “spiccatura” della testa, dunque, oltre a valere come punizione per il reo esprime anche una propria valenza simbolica in quanto si ritiene che all’interno del cranio  si trovi il principio attivo dell’essere, in coerenza con le credenze proprie delle popolazioni del nord – i Galli, i Celti – che consideravano uccisi i propri nemici solo se ne avevano spiccato la testa. Inoltre, presso quelle popolazioni, si pensava che la  (macabra) acquisizione delle teste mozzate conferisse al vincitore la forza ed il coraggio del guerriero vinto (Chevalier e Gheerbrant, 1989). Notizie in tal senso provengono da Tito Livio quando racconta della cocente sconfitta subita dalle legioni romane guidate da Postumio Albino contro le tribù celtiche dell’Appennino durante la II° Guerra Punica. Qui, nella foresta di Litana, i barbari con uno stratagemma ebbero ragione dei Romani. Lo stesso Postumio cadde e la sua testa tagliata venne portata dai Boi nel loro tempio, considerato lo spazio più sacro. “Ripulita la testa”, racconta Tito Livio, “come è loro costume ornarono il teschio con un cerchio d’oro, e questo era per loro un vaso sacro con cui libare alle solennità e allo stesso tempo una coppa per i pontefici e per i sacerdoti del tempio …” (Tito Livio, Historiae).

La stessa pena della decapitazione viene riservata, nell’anno del Signore 1375, a Nicolò di Tuldo, un giovane gentiluomo perugino accusato di congiura e spionaggio a danno della Repubblica di Siena. Sembra sia stato condannato ingiustamente e che solo grazie a S. Caterina abbia deciso di richiedere il conforto religioso.  In una sua lettera a Frate Raimondo da Capua Caterina descrive le ultime ore di Nicolò che invita la Santa a non abbandonarlo. ” Io sentivo uno giubilo” dice Caterina ”uno odore del sangue suo, e non era senza l’odore del mio, sentendo el timor suo, dissi: ‘Confòrtati, fratello mio dolce, chè tosto giognaremo alle nozze. Tu n’anderai bagnato nel sangue dolce del Figliuolo di Dio, col dolce nome di Gesù, el quale non voglio che t’esca dalla memoria, e io t’aspetterò al luogo della giustizia …’ Poi egli giunse come uno agnello mansueto … Posesi giù con grande mansuetudine; e io gli distesi il collo  … e rammentalli il sangue dell’agnello. La bocca sua non diceva se no Gesù, e, Catarina. E così dicendo ricevetti il capo nella mani mie … Riposto che fu l’anima mia si riposò in pace e in quiete, in tanto odore di sangue, che io non potevo sostenere di levarmi il sangue, che mi era venuto addosso, di lui” (Epistolario, 1940). L’odore del sangue è l’odore della vita che sta finendo e che impregna, indelebile, il corpo della santa.

Dunque nel mondo medievale la testa mozza possiede una vis evocativa straordinaria non solo rappresentativa della supremazia esercitata su qualcuno, ma anche come immagine simbolica ricollegabile all’idea stessa di giustizia. Lo sapeva bene Ambrogio Lorenzetti quando, nel Buon Governo, raffigurava la sua Giustizia , posta accanto alla Temperanza, con una spada nella mano destra, una corona nella sinistra e, appunto,una testa mozza in grembo. A rafforzare ulteriormente il senso del rapporto con la giustizia, ai piedi della virtus un gruppo di cavalieri e di armigeri appiedati recano, al cospetto del Bene Comune, dei malfattori saldamente legati.

Morte ai raptores

Un altro reato particolarmente grave  contemplato – e pesantemente sanzionato – dagli Statuti delle città medievali è la rapina. La figura del raptor è assai spesso presente e talora manifesta aspetti inquietanti. Gregorio VII, l’autore del Dictatus papae, chiama i cavalieri del suo tempo, noti per la loro brutalità, raptores  ossia predoni. E li invita alla conversio: “Nunc fiant Christi milites, qui dudum extiternat raptores”. Mettano dunque le proprie armi e la propria abilità guerriera al servizio di una buona causa – che sarà la liberazione del Sepolcro di Cristo – abbandonando quella malefica, violenta pratica che ha solo una ricompensa, la morte. Da queste parti della Toscana il raptor più noto fu sicuramente Ghino di Tacco, immortalato in una celebre novella di Boccaccio per aver sequestrato l’Abate di Clugny.

Anche per questo delitto la pena prevista è la morte: ma con una variante rispetto all’omicidio. Viene comminata per impiccagione: “…empicchase cum laccio per la gola in elle forche si et in tal forma che moga e l’annima se sepera dal corpo”, è scritto nello Statuto di Radicofani, il nido di Ghino. Molti anni fa, occupandosi della valenza simbolica della impiccagione, uno studioso della grandezza di Furio Jesi evidenziava come e quanto, dal punto di vista della mitologia dell’area mediterranea questa tipologia di pena – talora utilizzata anche in cerimonie iniziatiche in qualche modo connesse col culto degli alberi – andasse ” considerata per la sua capacità di significare il passaggio dalla condizione terrestre all’alterità espressa dall’aria …” (Jesi, 1989)

Per altro, questa di Jesi appare come una interpretazione, dotta, sottile. Mentre, dal punto di vista simbolico, doveva essere più facilmente colta la legge del contrappasso che, appunto, trovava una puntuale applicazione anche nel supplizio riservato al rapinatore. La valenza simbolica del laccio, da questo punto, è esplicita. Chi tiene legato a sé un altro, appunto attraverso un laccio, esercita su di lui un potere. Un potere che ne condiziona lo status. E’ arcinoto il potere che Cristo ha conferito a Pietro, il principe degli Apostoli:”E io dico a te, che tu sei Pietro e sopra questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non prevarranno contro di essa. E a te darò le chiavi del regno dè cieli: e qualunque cosa avrai legata sopra la terra, sarà legata anche nei cieli: e qualunque cosa avrai sciolta sopra la terra, sarà sciolta anche ne’ cieli ” (Matteo, XVI,19).

La corda utilizzata per l’impiccagione aveva un grande valore simbolico, specie per le Compagnie di Giustizia ed in particolare per la loro opera di “conforto”, ossia di assistenza e soccorso spirituale prestato ai condannati a morte, svolta sostanzialmente a partire dal XIV secolo in poi.  Molte di queste confraternite avevano l’usanza di custodire la corda usata per l’impiccagione che veniva bruciata – forse ritualmente – in occasione della ricorrenza del santo patrono. Santi patroni con un background culturale coerente alla funzione dei confortatori, come San Giovanni decollato a Siena; o Santa Maria della Morte a Bologna  (Prosperi, 1982).

E per restare sempre nell’ambito dell’immaginario simbolico come non sottolineare la forma della forca che doveva evocare, negli spettatori, l’idea di un orribile mostro pronto ad ingoiare nelle proprie fauci il condannato? Ancora nel Buon Governo di Lorenzetti c’è l’immagine di un impiccato, che per altro pende da una forca semplicissima, composta da due pali verticali uniti da uno ritto sul quale, appunto è effigiato, con le mani legate e le vesti svolazzanti, il suppliziato. Un angelo, l’angelo della Securitas, dalle belle forme muliebri la sorregge con la mano sinistra, mentre con la destra esibisce un cartiglio dalla scritta quanto mai eloquente. “Senza paura ognuomo franco Camini. E lavorando semini ciascuno. Mentre che tal Comuno. Manterra questa dona i Signoria. Chel alevata arei ogni balia.” Un manifesto esemplare, di facilissima comprensione.

Morte a maliardi, facitrici, streghe

Infine il più grave peccato, quello legato al mondo, oscuro, della magia. Bernardino  degli Albizzeschi nelle sue prediche sul Campo di Siena del 1417 ammonisce: “… el sicondo peccato che discende da la superbia, si è il peccato de li incanti e di indivinamenti, e per questo peccato Iddio manda spesso fragelli a le città” (B. degli Albizzeschi, 1989).  Opera “di quelle indiavolate maledette”: quelle “indiavolate maledette”, prima maliarde o facitrici, dalla fine del XIV secolo saranno sempre più spesso appellate streghe. Strega rimanda al latino striga, al greco striks, e indica il rapace notturno che affonda i propri tremendi artigli nelle carni degli sventurati per dilaniarle senza pietà e succhiarne avidamente il sangue. “E però dico”, continua indomabile Bernardino, “che là dove se ne può trovare niuna che sia incantatrice o maliarda, o incantatori o streghe, fate che tutte siene messe in esterminio per tale modo che se ne perdi il seme; ch’io vi prometto che se non se ne fa un poco di sacrificio a Dio, voi ne vedrete vendetta ancora grandissima sopra a le vostre case, e sopra a la vostra città … Sapete perché io temo più di voi che di niuno altro luogo? Perché mai non fu in luogo né in paese, che tanti e tante ne fussero, quanti ne so’ in questo vescovado.” (XXXV, 88)

La pena per chi si macchia di crimini tanto gravi, allora non può essere che la morte, come attestato dalla vicenda di Marta, moglie di Ranuccio muratore, strega e maliarda, messa al rogo nel 1446  – due anni dopo la morte di  Bernardino –  per ordine dell’inquisitore senese. La tragica vicenda di Marta è ricordata anche da Sigismondo Tizio nelle Historiae, dove racconta che la donna, riconosciuta colpevole di maleficio “veluti ex mulieribus una que se credunt cum Diana et Herodiade noctu equitare, que strige nuncupantur, cum falsa sit omnia in visione, ut comperuimus et legimus, illusiones huiusmodi patiantur, incendio consumpta est”. Diana è la regina delle streghe, che si riunivano, appunto, nella compagnia di Diana; Erodiade o Aradia sua figlia. Il lapidario “incendio consumpta est” costituisce un sigillo ammonitore di quella orribile storia (Ceppari, 1999).

L’episodio più raccapricciante ritrovato tra le carte della Inquisizione senese riguarda un frate aretino, fra Sisto da Verze, al secolo Serafino di Filippo Bazini, eremita agostiniano di ascendenza lombarda, accusato di necromanzia, avendo evocato il demonio. Si tratta per altro di una vicenda che già attiene all’età moderna – essendosi svolta nel 1541 – ma secondo canoni e modalità propri di quello che, convenzionalmente, viene chiamato Medio Evo. L’operazione di magia, magia nera, era stata possibile perché il frate aveva rapito ed ucciso una piccola mendicante che poi aveva smembrato in più parti, conservandone il cuore ed il grasso che, insieme al sangue di due malfattori giustiziati ed all’olio consacrato per la cresima, erano stati utilizzati “per costregnere il diavolo” (Ceppari, 2003).

Il processo fu condotto da un Tribunale laico, i c.d. Otto di Guardia, dopo aver richiesto ed ottenuto “per l’honor di Dio e benessere di questa nostra città” la grazia di godere della autorità necessaria “per mezo delle quale possiamo liberamente dar quel castigo a questo vitioso frate”. Il procedimento, conclusosi nel marzo del 1541, comminò la morte per Frate Sisto, stabilendo che l’esecuzione avvenisse nel Campo di Siena, il centro della città: l’uomo era moribondo, sfinito dagli interrogatori, da almeno due tentativi di suicidio e dal lungo digiuno. Nel centro della Piazza, era pronta la catasta di legna per il rogo. Ma Sisto non morì per il rogo perché fu strozzato dal boia che, dopo il primo, inutile tentativo, riuscì ad appenderlo, fino alla morte, ad una colonna. Assolto il suo compito, il boia appiccò il fuoco alla legna e le fiamme avvolsero quel corpo ormai esanime.Nel rogo furono gettati i libri di magia e la saccuccia che conteneva tutto il complesso armamentario del necromante.  Fin dal 1197 il re Pietro II d’Aragona aveva disposto che, nel suo regno, agli eretici fosse comminata la pena del rogo. Il IV concilio Lateranense (1215, can. 3) avrebbe confermato le precedenti disposizioni  stabilendo che “… gli eretici condannati siano abbandonati alle potestà secolari o ai loro balivi per essere puniti con pene adeguate …” E che “i chierici siano prima degradati della loro dignità …”Perché il rogo e non la decapitazione o l’impiccagione? In omaggio, ancora una volta, alla legge del contrappasso. Colui che, con le sue azioni ed il suo pensiero, aveva infettato l’ecumene doveva essere disperso, affinchè scomparisse ogni traccia della sue “eretica pravità” e fossero così purificati i luoghi dove aveva operato. Consumptus sit …

Preti e liturgie

E’ nota la tripartizione funzionale della società medievale, secondo l’organizzazione della società romana a suo tempo individuata da G. Dumezil  (Dumezil, 1955). Tre sono le componenti di questa società, gli oratores, i bellatores, i laboratores, ossia quelli che pregano, quelli che combattono, quelli che producono. Si tratta di ordini fra loro distinti nell’ambito dei quali il clero esercita la propria supremazia gerarchica. Inizialmente questo dominio compete ai monaci ma, con l’avvento delle città e la decadenza del feudalesimo, passa saldamente nelle mani del clero secolare e, più ancora, quando compaiono, ossia agli inizi del XIII secolo, degli Ordini Mendicanti. L’”organizzazione” dei funerali a Siena – come in qualunque altra città medievale – rispecchia fedelmente questa “egemonia” clericale.

Questa preminenza del clero si sostanzia in almeno tre diversi momenti:

A)    La liturgia, dove è sempre presente – come minimo – un sacerdote che officia la messa, “con intenzioni particolari a seconda che si trattasse di un uomo o di una donna, di un frate o di un canonico” (Corsi, 2003);

B)    Le celebrazioni post mortem, secunda, septima, nona et annualis, che segnava il definitivo distacco del morto e la fine della vedovanza (Turrini, 2003): si trattava cioè di una scansione di tempi sia “magici”, in quanto relativi al definitivo distacco dell’anima dal corpo; sia civili, in quanto la donna riacquisiva la capacità generatrice;

C)    L’ incameramento di (lucrosi) lasciti che servivano ad impinguare i già cospicui patrimoni del clero, tanto più frequenti dopo l’invenzione del Purgatorio.

Mors atra

Si è detto che la durata della vita dell’Uomo medievale è breve, falcidiata, come è da patologie di ogni genere, in larga parte dovute alla assenza di adeguate tutele igieniche e dall’altissima mortalità infantile. La situazione è ulteriormente aggravata dalla diffusione di epidemie che, proprio con la rinascita delle città, con lo sviluppo di  economie mercantili – e quindi scambistiche –  e con rapporti sempre più frequenti col Medio Oriente, espongono l’intero ecumene cristiano al rischio di contagi. Il più terribile di questi, una devastante pandemia di pestilenza colpì Siena – e molte altre città mercantili del bacino occidentale del Mediterraneo – nel 1348. Una malattia terribile, che viaggiava con gli opportunisti alimentari, i topi, sempre a contatto con l’uomo, le cui pulci, attraverso il bacillo Yersinia pestis trasmettevano l’agente patogeno. La pandemia si era scatenata  dopo che, sul finire del secolo XIII, un cambiamento climatico, noto come “piccola glaciazione”, aveva ulteriormente contribuito a spingere i roditori nelle città, alla ricerca di cibo. Era quello il tempo della morte nera, ossia della mors atra (letter. morte atroce) con la quale i cronisti danesi e svedesi del XIV secolo, colpiti dalla straordinaria virulenza del morbo, designavano la peste bubbonica.

Giovanni Villani raccontò nella sua Cronica quanto avvenne in quei tempi spaventosi. “E la detta mortalità fu predetta dinanzi per maestri di strologia, dicendo che quando fu il solstizio vernale, cioè quando il sole entrò nel principio dell’Ariete del mese di marzo passato, l’ascendente che ffu nel detto sostizio fu il segno della Vergine, e ‘l suo signore, cioè il pianeto di Mercurio, si trovò nel segno dell’Ariete nella ottava casa, ch’è casa che significa morte; e se non che il pianeto di Giove, ch’è fortunato e di vita, si ritrovò col detto Mercurio nella detta casa e segno, la mortalità sarebbe stata infinita, se fosse piaciuto a Dio. Ma noi dovemo credere … che Idio promette le dette pestilenze e ll’altre a’ popoli, cittadi e paesi per punizione de’ peccati, e non solamente per corsi di stelle, ma … quando vuole, fa accordare il corso delle stelle al suo giudicio … “(Villani, 1991)

La peste è punizione divina: il suo implacabile arrivo è “annunciato” dagli astri.

E non sonavano Campane, e non si piangeva persona, fusse di che danno si volesse, che quasi ogni persona aspettava la morte; e per sì fatto modo andava la cosa, che la gente non credeva, che nissuno ne rimanesse, e molti huomini credevano, e dicevano: questo è fine Mondo …” “Non si trovava chi seppellisse né per denari né per amicitia et quelli della casa propri li portava meglio che potea a la fossa senza prete, né offitio alcuno, né si sonava la campana. E in molti luoghi in Siena si fè grandi fosse et cupe per la moltitudine su morti … et ognuno gittava in quelle fosse e si cuprivono a suolo a suolo … e anco furo’ di quelli che furo’ sì mal cuperti di terra che li cani ne trainavano et mangiavano di molto corpo per la città, et non era alcuno che piangiesse alcuno morto”. Così Agnolo di Tura detto il Grasso, calzolaio, che nell’orrenda carneficina avrebbe perso cinque figli da lui stesso seppelliti, racconta ai posteri , nella “Cronaca senese”, come la città visse il tragico evento.

Il contagio era giunto a Siena da un’altra repubblica, marinara questa volta, Pisa: colpì la città per sette lunghissimi mesi, dall’aprile all’ottobre del 1348. Quella “grande mortalità, la maggiore e la più oscura, la più horribile” che la città abbia mai visto, avrebbe causato, a detta di Agnolo, il decesso di circa 80.000 buoni cristiani … Il numero è probabilmente esagerato, dal momento che gli storici propendono per circa 50.000 vittime a fronte di una popolazione di circa 80.000 “anime”. Morirono moltissimi artisti – tra i quali i fratelli Ambrogio e Pietro Lorenzetti – e le attività economiche, le relazioni sociali, le pratiche culturali subirono un lungo stop che provocò di fatto, per almeno una generazione, un grave stato di involuzione e di regresso causa prima del ritardo con cui fiorì compiutamente quella che sarebbe stata la straordinaria stagione dell’Umanesimo e del Rinascimento

 Corpi santi

C’è, infine, almeno un altro aspetto di grande rilevanza connesso alla dimensione della morte, ossia il “trattamento” delle reliquie dei santi. “Poiché dal fatto che alcuni espongono le  reliquie dei  santi per venderle, si è spesso presa occasione per detrarre la religione cristiana, perché ciò non  avvenga in futuro, col presente decreto stabiliamo che le reliquie antiche da ora in poi non siano messe in mostra fuori del reliquiario, né siano poste in vendita. Quelle nuove nessuno si azzardi a venerarle, prima che siano state  approvate dall’autorità del  Romano Pontefice. Per l’avvenire i prelati non permettano che chi va nelle loro chiese per venerare le reliquie  sia ingannato con discorsi fantastici o falsi documenti, come si usa fare in moltissimi luoghi per lucro”. Così stabiliva il LXII capitolo del IV Concilio Lateranense tenutosi dall’11 al 30 novembre 1215 per volontà di Innocenzo III, grande teologo e grandissimo giurista, approvatore della Regola di San Francesco e tutore di Federico II. La disposizione impartita faceva intendere bene le preoccupazioni della Chiesa – o almeno della sua parte più consapevole – non solo per il commercio delle reliquie, ma anche per l’uso che se ne faceva: sì che il richiamo a “discorsi fantastici” ovvero a “falsi documenti” fa chiaramente pensare ad un tipo di venerazione che tratta le reliquie stesse come potenti talismani, in grado di proteggere quei devoti cristiani che avevano la possibilità di vederle o, ancora meglio, di toccarle.

“La reliquia è, nella storia del patronato, materia e al tempo stesso segno della protezione elargita dal santo. La continuità del patrocinio ha il suo sigillo materiale nella presenza delle reliquie del santo che la comunità custodisce come un prezioso presidio, garanzia della presenza protettiva e della potenza taumaturgica del suo campione celeste”. Una vera e propria forma di “sacralizzazione del territorio” che, basti pensare al culto barese di San Nicola o a quello veneziano di San Marco, contribuisce alla formazione della identità di un popolo (Niola, 2007). A Siena questo tipo di culto è praticato verso Sant’Ansano, il battista della città, un romano di agiata famiglia (gli Anicii?), che sarebbe approdato sulle sponde dell’Arbia a metà del III° secolo.

Per altro a Siena la devozione cittadina si manifesta non verso uno, ma verso quattro santi diversi. Si tratta dei protettori, Ansano, Crescenzio, Savino e Vittore – tutti santi molto antichi, tutti martiri – il culto dei quali ammonta almeno all’XI secolo, come testimonia la loro collocazione nel presbiterio della cattedrale. Eppure, la “sanzione ufficiale della loro funzione civica sarà, almeno per l’iconografia, solo con la Maestà di Simone Martini del 1315 nel Palazzo pubblico”(Argenziano, 2003). Una operazione non solo devozionale, dal momento che coincide col definitivo impianto di una salda società borghese con forti esigenze identitarie, così sanzionate.

Credenze private e tracce di fede

Nonostante questo “tardivo” riconoscimento civico esistono testimonianze dell’attaccamento dei senesi verso “cadaveri eccellenti” con (presunti) poteri taumaturgici e in qualche modo collegati alla loro città. Così si spiegano  i contrasti con gli aretini per il possesso del corpo di Ansano, il (mitico) battista di Siena fino al 1107 interamente conservato ad Arezzo, e quindi, dopo lunghe trattative, “opportunamente” smembrato: il corpo a Siena e la testa ad Arezzo (Scorza Barcellona, 1991). La “popolarità” del santo era da attribuirsi, verosimilmente, alla sua capacità taumaturgica, che si estrinsecava attraverso l’acqua salutare – per la cute, l’intestino ed i polmoni – sgorgante nel luogo del suo martirio, dal nome evocativo di “Dofana” forse ricalcato sul latino duo fana, o forse riferimento al dio Faunus, spesso connesso a luoghi e sorgenti da cui emanano vapori di zolfo …

La testimonianza più rilevante di culto riservato alle reliquie di santi a Siena è comunque quella della testa e del dito di Caterina Benincasa, la santa dell’Oca. Appena tre anni dopo la sua morte, avvenuta a Roma nel 1380, il fedele Raimondo da Capua aprì il suo sepolcro in Santa Maria sopra Minerva e ne staccò i due resti oggi conservati a Siena, nella basilica di san Domenico. Fece bene perché “del suo corpo” rimasto a Roma “non resta molto”, in quanto “il sepolcro è stato saccheggiato nei secoli per ricavarne reliquie disseminate tra Roma, Firenze, Siena, Salerno” (Cattabiani, 1993). E’ evidente il motivo di questa pratica: si ritiene che, attraverso quelle reliquie, sia possibile ottenere l’intercessione della grazia da parte della Santa. Una vera e propria operazione border line tra fede e magia … 

Domenicani contro

E’ curiosa la circostanza che Caterina, santa legata al Terz’Ordine Domenicano, si sia in qualche modo “formata” nello stesso ambiente di un illustre maestro come l’inglese Riccardo di Knapwell. Magister ad Oxford, autore, nel 1285, della “Quaestio disputata de unitate formae” nella quale si sosteneva una discutibile (per i tempi) tesi antropologica: ossia “il ruolo decisivo dell’anima nella costituzione dell’identità personale.” Giacchè l’anima agisce “come forma” e poiché non è “concepibile un’attività formale senza un supporto materiale … l’anima, oltre ad avere attività intellettuali, identificava il corpo della persona …” (Santi, 2003).

Le conseguenze di queste affermazioni così dissonanti rispetto al comune sentire dell’epoca erano molto pesanti: solo con la forma data dall’anima il corpo era tale e quindi il corpo privo dell’anima non era altro che materia destinata alla putrefazione ed alla dissoluzione. “Ridiculum videtur quod propter solam materiam quae remanet post mortem debeat corpus mortuum tradi sepolturi in loco sacro”. Ossia è ridicolo che per la sola materia che rimane dopo la morte il corpo inanimato sia sepolto in un luogo sacro. E questo valeva anche per i corpi dei santi, giacchè i corpi autentici, quelli animati non sono sulla terra … Erano posizioni riprese da San Tommaso, ma non bastarono a risparmiare Riccardo dalla scomunica …

In fine, la filosofia di Cecco, ovvero inno gioioso alla vita

S’i’ fosse foco, ardere’ il mondo;
s’i’ fosse vento, lo tempestarei;
s’i’ fosse acqua, i’ l’annegherei;
s’i’ fosse Dio, mandereil en profondo;
s’i’ fosse papa, serei allor giocondo,
ché tutti ‘ cristiani embrigarei;
s’i’ fosse ‘mperator, sa’ che farei?
a tutti mozzarei lo capo a tondo.
S’i’ fosse morte, andarei da mio padre;
s’i’ fosse vita, fuggirei da lui:
similemente faria da mi’ madre
.
S’i’ fosse Cecco com’i’ sono e fui,
torrei le donne giovani e leggiadre:
le vecchie e laide lasserei altrui.
 (Cecco Angiolieri, S’i’ fosse foco)

BIBLIOGRAFIA

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Anthropos, Signore nel Regno della Forma

di Irene Battaglini                                                                                           Prato, 12 maggio 2013

Recensioni

pdf: Vinicio Serino – Antropologia delle forme simboliche

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«In effetti, noi intendiamo qui i sacramenti come dei segni o delle figure; ma queste figure non sono le virtù, ma i segni delle virtù, e ce ne serviamo come di una parola scritta per gli insegnamenti. Fra i segni, gli uni sono naturali, gli altri positivi, sul che si dirà cosa sia un sacramento, nella quarta parte di questa opera, sotto la settima particella del canone, alla parola mysterium fidei (mistero della fede)».

Guillaume Durand de Mende (1230-1296), vescovo francese della Chiesa Cattolica. Rationale divinorum officiorum, (lib. I-V, Prefazione. II. I segni)

Antropologia delle forme simboliche è un viaggio negli incunaboli della forma che “si fa” simbolo. Il figlio dell’Uomo esce dai ruoli ascritti dalla condizione umana e diventa protagonista di una storia che investe il suo passato remoto ma che è ancora viva e piena di domande: la storia della sua psicologia e della sua tensione a comprendere se stesso, ad abitare e arredare tutta la sua casa multidimensionale cui aderisce in ogni angolo dell’esistenza. E proprio brandendo questo candeliere che spande molte e diverse luci,  il lavoro di Vinicio Serino è scientifico, storico, seducente, poetico e un po’ mistico: si investe di questa necessità plurima di esplorare.

Il professore senese è antropologo e docente di Antropologia alla Scuola di Psicoterapia Erich Fromm e alla Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università di Siena. Autore di oltre settanta lavori tra articoli, testi critici e saggi, con Antropologia delle forme simboliche ci fa dono di un’opera che racchiude una vita dedicata alla studio delle declinazioni del pensiero, del linguaggio  e della creatività dell’uomo.

Se l’antropologia (antropo-, dal greco άνθρωπος ànthropos = “uomo”; -logia, dal greco λόγος, lògos = “parola, discorso”), è una scienza di proporzioni universali che risponde al bisogno dell’uomo di conoscere se stesso – di spiegare a se stesso e ai suoi compagni di viaggio il mistero delle proprie origini e del proprio destino – Ànthropos e sua sorella, la Terra, costruiscono secondo l’autore un progetto di reciprocità ontologica, in cui gli affondi di Jung con l’inconscio collettivo sono arginati dalla felice visione sistemica e interdipendente di Durand. Questa lettura non può che aprire al dramma della contraddizione che è antropologica e che oggi potremmo chiamare matrice di conflitti individuali e sociali.

In questa traversata di rinnovate interpretazioni, l’autore non dimentica mai la profonda solitudine che l’uomo è chiamato a sperimentare, e il suo delicato quanto feroce bisogno di attaccamento, di essere protetto, di ingraziarsi il dio, di vantare diritti sull’altro per garantirsi una sopravvivenza, di accaparrarsi il partner più forte e fecondo e al tempo stesso di proteggere gli elementi deboli del nucleo. Egli si nasconde in una foresta e nello stesso tempo compone mosaici, vive dolci sentimenti di amore che scompigliano le sue azioni dettate da un primigenio comportamentismo, studia le forme delle onde, delle bestie e dell’orizzonte, il movimento degli astri e il suo spostarsi, il suo cercare, il suo meditare nella sosta eppure essere nomade, sopravvive alla decimazione delle malattie e si aggrappa a quel retaggio orale che sarà la sua nave senza porto: tutto questo imparando il segno e incrementandone ad ogni ricodifica l’ampiezza di significazione. Scrive le note musicali, applica le regole della numerazione, innalza piccoli altari che diverranno templi millenari, impara a declinare i ruoli in modelli. I modelli sono forme della mente e del comportamento. Dal caos perviene all’ordine, dalla confusione sedata con la violenza della sopraffazione esprime con le gerarchie – forme sociali – i campi d’azione del potere dentro e fuori i confini del gruppo e del territorio che si assegna per investitura, per necessità di stare, di restare.

In questa avventura si cala questo splendido saggio di antropologia e di filosofia della forma.

Il testo non è solo uno strumento meramente utile allo studioso e al ricercatore. È scrigno ingemmato di immagini e di riferimenti, scritto con generosa semplicità e con opulenza di contenuti e di rimandi. La vasta bibliografia è seguita dall’indice dei nomi e dei luoghi (facendo del testo un manuale versatile e una fonte proficua di informazioni) e la veste editoriale è arricchita da una copertina effetto “tela” che ha ancora il profumo dei veri libri con i quali è piacevole accompagnarsi.

Ogni capitolo aggiunge qualche cosa allo studio della formazione e della produzione del simbolo, senza mai allontanarsi dal nucleo centrale, che è l’attesa dell’autore stesso nei confronti della prospettiva antropologica. Una prospettiva nella quale crede con la fermezza dello scienziato e la passione dello studioso con il cuore volto al mistero.

Vinicio Serino ci trascina dentro la storia dell’Uomo a partire dai suoi primi movimenti di pensiero, di riflessione, di socializzazione, offrendo una visuale rilevante anche alla posizione del femminile all’interno del processo immaginativo, partendo dalla storia delle aree del Karadag, dove si sarebbe sviluppata la tecnica della domesticazione delle piante (7000-3000 a.C.):

«citazioni simboliche della sessualità nelle “Veneri” preistoriche,  (…) che si ritrovano tutte nelle rappresentazioni dell’Antica Madre Generante, la Grande Dea delle popolazioni destinate a diventare le artefici della Rivoluzione agricola, il più grande passo in avanti realizzato dalla Umanità nel corso della sua storia perché, da allora in poi, avrebbe prodotto direttamente quanto necessitava alla propria esistenza.

(…) “La dea manifestava le sue innumerevoli forme attraverso varie fasi cicliche che vigilavano sul buon andamento di ogni cosa; molti erano i modi in cui si rivelava, nei mille accadimenti della vita”. (M. Gimbutas, Le dee viventi, 2005).  L’ipotesi formulata da Gimbutas [“una sola dea in molte forme”], affascinante per quanto tutt’altro che unanimemente raccolta dagli studiosi, ipotizza una centralità della donna nella religione della Euro/Asia antica …» (Antropologia delle forme simboliche, p. 99 e segg.)

Il fulcro di tutta l’opera è il tentativo di spiegare e di comprendere, in un valzer di doppi passi ermeneutici, come l’Uomo si sia prima coinvolto e poi sempre di più specializzato nella sua attività culturale,  linguistica, comunicativa, con l’intento di cementare i legami sociali e consolidare le posizioni acquisite, nella natura e nel mondo, come nelle relazioni, attraverso lo sviluppo di traiettorie di conoscenza e di ritualizzazione, alla luce dei fattori genetici, evoluzionistici e storici che ne hanno determinato il destino e il progresso. Il tema delle relazioni è centrale nel discorso di Serino ed è per questo che Antropologia delle forme simboliche è indispensabile nella libreria dello psicologo e del sociologo, ma anche del medico e dello studioso di lettere. In ogni biblioteca che detenga una sezione “Umanistica”, sarà necessario fare spazio a questo volume, proprio perché tenta ad ogni rigo di andare oltre il “classico” programma di antropologia per addentrarsi nella dinamica di interiorizzazione del simbolo, sia dal punto di vista del pensiero logico-argomentativo sia dal pensiero immaginale e intuitivo. Quest’apertura rigorosa, scientifica e tagliente allo studio del rapporto interno della psiche, di questo binomio affascinante e insidioso, rende questo testo ulteriormente originale e intimamente connesso alla psicologia dinamica e alla psicologia dell’arte.

Lo studio di Serino è innovativo perché lascia una pietra angolare nel panorama delle pubblicazioni intorno a Ànthropos. Per sorreggere le tesi proposte, non esita a chiamare in causa i filosofici classici e gli ermetici, i santi e gli iniziati, gli psicologi di ogni casta (da Freud a Vigotskij a Gombrich, fondatore della psicologia dell’arte), poeti e scrittori da Petrarca a Yourcenar, passando per autori discussi come Carl Gustav Jung,  Gilbert Durand, Mircea Eliade, René Guenon.

Questo slancio narrativo fa del libro un punto di partenza per il destino dell’antropologia, che si vuole ancora porre come carrefour tra le scienze sperimentali e quelle umanistiche.

«Si tratta, dunque, di penetrare in una scienza la quale, occupandosi sia delle variazioni biologiche dell’Uomo, come pure dei “parametri che definiscono o che controllano il manifestarsi dei tratti biologici” (cit. Ponte e Bizard, 2006), si presenta alla stregua di una disciplina di confine. Non più limitata, da questo punto di vista, alla dimensione della natura, ma che si colloca, piuttosto, tra il biologico e il sociale. In sostanza, allora, l’antropologia moderna – senza alcuna ulteriore specifica – può essere intesa come quella disciplina orientata ad occuparsi sia dei meccanismi genetici dell’evoluzione che dei processi di socialità – nell’ambito dei quali gioca un ruolo fondamentale la cultura, e quindi il simbolo – nella consapevolezza che, per capire davvero l’Uomo, non basta ricostruirne le tappe segnate dalle scansioni evolutive, ma occorra anche considerarne la condizione di “animale sociale” (cit.)». (Antropologia delle forme simboliche, pp. 13-14)

Si conclude così il primo capitolo, dando a tutto il lavoro l’imprinting di una carta programmatica che coinvolge moltissime aree della conoscenza.

Le otto tappe che seguono, dal secondo alle conclusioni, rappresentano un vero e proprio processo di trasformazione: si parte dalle origini della cultura e della socialità, si affrontano il politeismo e il monoteismo sul piano delle trasformazioni e delle culturali, per arrivare al cuore del simbolo, alle strategie di decodifica dei messaggi che l’uomo ha saputo mettere a punto, “attraversando” i sentieri iniziatici, alla ricerca di nuove correlazioni tra ermetismo e forme simboliche, all’interno di una nuova alchimia, illuminata dai quadri del Lorenzetti e dai versi stupendi della Tavola Smeraldina.

«Nella senese Sala della Pace colui che entrava veniva immediatamente colpito dalle vivaci tonalità cromatiche dell’affresco e da quella congerie di personaggi, reali e simbolici: percepiva subito il messaggio in maniera unitaria, il pensiero era l’immagine, l’immagine era il pensiero, secondo una tecnica che, probabilmente, l’alchimista e filosofo Raimondo Lullo avrebbe chiamato, nel contesto della propria Ars magna, combinatoria. Combinatoria appunto di immagini e di pensiero in grado, attraverso la loro compenetrazione, di esprimere – adeguatamente – un significato.

D’altra parte, come dice E. Wind, in un’opera ancora in grado di emozionare l’attento lettore, il simbolo “in virtù della sua obliquità”, ossia il mostrare una cosa per intenderne un’altra, “conserva suggestioni recondite che un’affermazione semplice e chiara elude e dissolve…”. Il meccanismo vale sia per le metafore che per i simboli, perché, aggiunge Wind, “le metafore hanno nel linguaggio lo stesso ruolo che i simboli hanno nelle arti visive: sostituiscono una cosa per un’altra e parlano per allusioni”. In tal modo, aggiungiamo recuperando ancora da Wind, il messaggio (nascosto) è più compatto, perché in grado di condensare, efficacemente, ciò che il “creatore culturale” intendeva comunicare». (Antropologia delle forme simboliche, p. 262 e segg).

Il viaggio di Vinicio Serino include due soste essenziali alle significazioni simboliche delle Cattedrali Cristiane, e prende a coordinate l’affresco del Buono e del Cattivo Governo di Lorenzetti nel Palazzo Pubblico di Siena nella prima metà del ‘300, e il cammino iniziatico, con la ricostruzione del “labirinto delle Sibille” nella Cattedrale di Siena. Entrambe le opere possono essere considerate punti cardine del processo esoterico.

Sempre Durand de Mende:

Tutte le cose che appartengono agli uffici, agli usi o agli ornamenti della Chiesa, sono piene di figure divine e di mistero, e ognuna, in particolare, trabocca di una dolcezza celeste, quando nondimeno incontri un uomo che le esamini con attenzione e amore, e che sappia trarre il miele dalla pietra e l’olio dalla più dura roccia. Chi conosce tuttavia l’ordine del cielo, e ne applicherà le regole alla terra? Certo, colui che vorrà scrutarne la maestà sarà schiacciato dalla sua gloria, poiché si tratta di un pozzo profondo, e io non ho di che attingervi, a meno che colui che dona a tutti abbondantemente e senza rinfacciarlo, non mi offe a l’occasione di bere pieno di gioia alle fontane del Salvatore, l’acqua che cola al centro delle montagne. Tuttavia, non si può dare ragione di tutto quello che ci è stato trasmesso dai nostri antenati (Dt 32, Gb 38, Pr 25, Gv 4, Gc 1, Sal 103, Is, 12 Ap 3, Ct 2, Es 25, Sap 10, Gv 3); giacché è necessario anche toglierne, il che non ha delle ragioni. E, per questo dunque che io, Guillaume Durand, nominato vescovo della santa Chiesa di Mende per sola concessione di Dio, io busserò, e non smetterò di bussare alla porta, se tuttavia la chiave di Davide si degni di aprirmela, cosicché il re mi introduca nella cantina dove egli sorveglia il suo vino, e dove  mi sarà rivelato il modello divino che fu mostrato a Mosè sulla montagna, sino a che io possa spiegare, in termini chiari e precisi, che cosa significhino e che cosa racchiudano tutte le cose che si riferiscono agli uffici, agli usi e agli ornamenti della Chiesa, fissandone le regole dopo che questo mi sarà rivelato da colui che rende eloquente la lingua dei fanciulli e il cui spirito soffia dove vuole, distribuendolo a ciascuno come più gli piace per la lode e per la gloria della Trinità. (Guillaume Durand de Mende (1230-1296), vescovo francese della Chiesa Cattolica, Rationale divinorum officiorum, lib. I-V, Prefazione, I. Il miele dalla pietra e l’ordine del Cielo)

Le 56 tarsie marmoree che ricoprono il pavimento furono realizzate tra il 1369 e i 1547.  Il primo grande riquadro rappresenta Ermete Trismegisto, il “tre volte grandissimo” (recita il cartiglio sotto la figura: “Contemporaneo di Mosé”), che secondo le tradizioni non appartiene alla cultura cristiana. È la figura che accoglie il pellegrino-visitatore appena varcata la soglia del sagrato, dove sono raffigurati i simboli del lac (latte) e del mel (miele). Simboli che richiamano il nutrimento del Cielo nel Regno di Dio.

      Antropologia delle forme simboliche        Antropologia delle forme simboliche, di Vinicio Serino

Angelo Pontecorboli Editore, Firenze

279 pp., Euro 22,50