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2020.03.04 Il pensiero del giorno Il governo della Fortuna e la prova del Caos, la più politica delle virtutes

di Giulia Corrado

4 marzo 2020

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Se un merito si può attribuire all’epidemia di Coronavirus è quello di aver permesso a società e individui di confrontarsi di nuovo con quello che, da ben prima che esistano società e individui, esiste come Ingovernato ed è stato osservato con terrore fino a diventare oscuro tabù dei nostri sistemi: il Caos.

Non solo ha risvegliato la consapevolezza del nostro essere fragili e mortali, con il senso di essere in balia della biologia così come ogni altro essere a cui consolatoriamente pretendiamo di essere superiori; ma nel nostro essere animali sociali, e quindi in una dimensione ulteriore e politica delle nostre esistenze, ha evidenziato quanto siano fragili gli schemi e le presunte stabilità che si legano alle proprie certezze, abitudini, quotidianità, a quello che abitualmente concepiamo come implicito e acriticamente (se non per la chiacchiera da bar) chiamiamo col nome di “Sistema”, contro il quale ci scagliamo ma dal quale scopriamo poi di sentirci protetti quando minaccia di crollare.

E proprio qui riscopriamo il concetto di Politica: davanti all’effetto domino che ha portato dall’infinitesimale del virus al macroscopico del sistema. Ci si chiede dov’è la falla, cosa non ha funzionato, cosa ha permesso che la grande macchina, della quale il più delle volte siamo ignari, andasse in blocco. Interrogativi che già suppongono una premessa errata, nel momento in cui si propongono di valutare solo la funzionalità della macchina e ne ricercano il guasto, senza badare alla sua complessità di processo e di dinamiche. Un riflesso metodologico di quel positivismo che ha finito col distorcere il concetto stesso di Politico, riducendolo alla mera funzione.

Se dobbiamo individuare una falla, potrebbe essere proprio questa allora: l’incapacità di concepire la centralità del Politico come metodo e come processo. Lo stesso che, al di fuori delle fissità positiviste e delle pretese funzionaliste arenate sui modelli organizzativi, potrebbe essere realmente risolutore di un problema nel suo dinamismo.

Machiavelli scriveva, già cinquecento anni fa a proposito delle imprevedibilità delle Guerre d’Italia, della tremenda difficoltà che un approccio politico comporta: un processo reso complicato dalla fortuna e ancor più dalla sua mutevolezza. Nell’epoca più liquida di tutte, fatichiamo ancora a considerare caotica e mutevole la realtà: speravamo che il progresso, qualunque cosa questa speranza e questo concetto abbiano significato, ci avrebbe dotato anche di schemi predittivi, di argini a questo caos, liberandoci dall’incombenza di confrontarci con esso. Ma le condizioni, le situazioni, le circostanze del mondo non sono predicibili, né sono fisse: e così come per la società, lo stesso principio vale per la vita individuale.

Il buon Principe, per Machiavelli, è quello che governa la fortuna e che è pronto a mutare se stesso davanti alla mutevolezza della fortuna stessa, che al volgersi contrario delle circostanze sa come renderle un’occasione. Perché il governo, e dunque la politica, non è l’esercizio del regno sulle cose fisse, ma l’arte del condurre e dar direzione a quelle mutevoli. Per farsi portatori e attori di questa virtù, occorre però avere il coraggio di uno sguardo disincantato e consapevole davanti al Caos, onesto nel riconoscerne l’esistenza.

Se allora il Caos irrompe nel nostro quotidiano e si manifesta con un’epidemia, perché non provare ad essere più politici davanti a questo guizzo della sorte e ravvedere nel vento contrario un’occasione per provare nuove strade e concepire nuovi modi di approcciarci ai problemi? Perché non uscire dalla retorica del problem solving da santoni delle organizzazioni ed esperti del management e sperimentare con un po’ di gaia scienza anche la dimensione più creativa, poietica, politica che risiede nello sporcarsi le mani con tutto ciò che di caotico celiamo di solito al nostro sguardo?

Potremmo scoprire che il Caos, oltre a terribile e totalizzante minaccia, è un magma di possibilità che solo un’azione lucida (e coraggiosa) può plasmare in qualcosa di completamente nuovo. Forse proprio in quell’atto, politico per metodo e natura, che in momenti di stallo servirebbe per uscire dal cerchio del panico.

 

2020.02.26 il pensiero del giorno – Anemometro Temporale

di Gualtiero Armosino

26 febbraio 2020

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Non so se si possa misurare il tempo in nodi invece che in secondi, ma è così che io faccio. Mi serve per pensare che il respiro non finisca con la morte. Anche adesso lo sto facendo, nell’atrio partenze dell’aeroporto di fronte ad un poster pubblicitario che promuove il turismo nella mia città. La città in cui sono nato. Io il primo a nascere lì di una famiglia che ha cambiato nome per confondersi tra la gente del posto.

Nascere lì per mio padre, per la madre di mio padre, per il nonno di mio nonno è stato un traguardo. Io sono il traguardo.

Nella foto il cielo è azzurro e terso come in una giornata di Foehn.

Lo sguardo a volo d’uccello dello scatto di un drone in una bella giornata di pochi anni fa.

Le Alpi sullo sfondo.

Se mi giro, nonostante il vento soffi anche nel presente fuori da quella fotografia, una coltre di smog rende invisibile tutto.

Non riesco a vedere la collina che so esserci al fondo della pista di decollo e sulla quale c’è una casa in cui sono stato. Quando la ragazza che ero andato a trovare era solo una ragazza che odiava il padre e invidiava il fratello. L’erede di un nome che nessuno avrebbe mai cambiato.

Ma questo non conta più. Un vento di Tramontana ha portato via da lì quella ragazza da anni.

“Come fate a parlarvi con questo rumore continuo dei motori?” avevo chiesto io allora.

“Non ci parliamo neanche quando gli aerei non passano. Ma quando c’è tutto quel rumore assordante posso sorridere con le labbra e dire in faccia a mio padre cosa penso di lui, tanto non mi sente”.

La ventata d’aria fresca capace di pulire il cielo della mia città da tutti i fumi dell’industria sembra dirmi: “Non ce la faccio. Mi dispiace, mi sono arresa. Sorrido e apro le labbra ma faccio solo finta di soffiare come faceva finta di dire cose belle quella tua ragazza. Guarda là!”

E io guardo e vedo in mezzo alla folla agli imbarchi quattro persone con una mascherina anti-virus. Vedo tre ragazzi che escono dalla sala fumatori lasciando la sigaretta a metà appena entra un ragazzo dai tratti orientali.

Il ragazzo scuote la testa, sorride e dice: “Sono più sano e più italiano di voi, stronzi imbecilli!”. L’epidemia del Coronavirus riempie le pagine dei giornali. Ogni giorno il vento fa svolazzare una pagina in più.

La brezza mediterranea che mi aspetta a Barcellona è la stessa che ho lasciato trent’anni fa, quando ero arrivato con un treno su cui ero salito senza diritto.

Perché non avrei dovuto essere lì.

Non oltreconfine durante una licenza di cinque giorni sotto servizio militare. Era una cosa punibile con l’arresto.

Non in Spagna per la quale non provavo nessuna attrazione. Ero intimamente sprovvisto dell’estetica del sangre e arena, della passionalità del flamenco, del senso di Hemingway per l’aperitivo sulle Ramblas e il Partit d’Alliberament Catalunya mi stava già parecchio antipatico allora.

Ma era inverno e avevo già preso tanto vento freddo per i servizi di guardia, Parigi era troppo cara per una paga da sergente e volevo vedere Gaudì da tanto tempo.

Stavo cercando qualcosa di meno scontato di un venditore di fumo, di una discoteca trasgressiva e l’unico film in castigliano non doppiato in catalano era quello.

Per me il regista non era nessuno.

Antonio Banderas non era nessuno per tutti.

Ma la Ley del deseo era un titolo così suadente per uno che aveva vent’anni e cercava da tempo di capire quali fossero i suoi desideri che entrai nel cinema.

L’inizio era una provocazione senza precedenti.

La scena di sesso scorreva parallela di fronte ad una seconda telecamera in scena e riprendeva un ragazzo sexy qualunque e due attori del doppiaggio tanto bravi quanto privi di sensualità, a dimostrare che la pornografia è sempre e solo finzione.

Un transessuale interpretato da una donna come Carmen Maura e una madre interpretata da un transessuale come Bibi Andersen erano un tocco da maestro.

Il genio risaliva la china di una società manieristica da poco affrancatasi dal Franchismo. Il talento di uno che scherzava con un super-otto come se fosse stato YouTube.

L’indomani mattina venni via su un Pablo Casal diretto a Milano, carico di emergenti uomini d’affari, modelle e l’inizio di una folle economia fondata sul nulla degli anni ‘90 che ancora dovevano venire.

Ma tra il vento che avevo lasciato sulle Ramblas avevo visto una cosa che era unica.

In un posto dove non dovevo essere e che Almodovar aveva inventato.

Ed ora quella brezza è di nuovo qui.

A dispetto di bollettini medici che mi inseguono come un contagio.

Nell’ossessione fobica il mio Pablo Casal diventa il treno pieno di virus di Cassandra Crossing, diretto verso un ponte dal quale è previsto che precipiti perché nessuno ha capito che le bombole di ossigeno installate sui vagoni carrozza per isolarne i viaggiatori ammorbati hanno sconfitto il virus e tutti sono di nuovo sani.

E così Sofia Loren, Martin Sheene, Burt Lancaster, Ava Garner e O.J. Simpson sono qui con me, coinvolti in una suspense che alla fine li salverà. E il vento del destino consentirà a O.J. Simpson di ammazzare la moglie e vivere indisturbato fino a finire comunque in carcere per rapina a mano armata e sequestro di persona. Perché al vento non si sfugge.

E questo non lo dice l’anemometro in stile modernista catalano sul tetto di un palazzo su un paseo, lo dice invece il cartone animato di Gumball che mio figlio sta guardando in spagnolo nell’appartamento sopra il centro culturale LGTB che ha affittato mia moglie.

Anche il cartone parla di contagio. La delusione amorosa di un palloncino ha progressivamente tolto i colori al mondo e solo il recupero dell’amore per la vita, comprensiva delle sue incertezze, può far rinascere i colori che ritornano con un vento d’amore per le cose che possono essere indipendentemente da come sono soltanto.

Il vento dalla Germania ha portato un nuovo caso di Coronavirus a La Gomera nell’arcipelago delle Canarie che è la mia meta. C’è scritto su La Stampa di Torino di oggi che mia madre non ha ancora comprato e che a breve comprerà uscendo a prendere il pane.

Io guardo il telefono aspettando che vibri e che una voce preoccupata mi chieda con tono allarmante e allarmato di non andare alle Canarie a respirare gli Alisei.

Come se lei stessa o tutti quanti non potessimo già essere il contagio. Come se il vento si potesse fermare con un rifiuto a respirare.

Ma è vero che il vento non è per forza sempre e solo buono.

Era vento anche quello che ha portato via l’intero tetto della scuola di mio figlio cinque anni fa. È vento anche questo che ha riportato oggi il razzismo che aveva spinto secoli fa il mio trisnonno a fuggire dal Caucaso, prima che fosse troppo tardi.

Ma al vento si può sempre tendere una vela per risalirlo in bolina come un marinaio, come una donna di buona famiglia che sposa contro il volere di tutti uno zingaro che la lascia vedova in tempo di guerra, con figli che chiamano fascista il maiale nero nell’aia. Che nasconde Ebrei in soffitta con la cucina piena di nazisti in rastrellamento.

Una donna che non mi lasciato una ricetta della torta di mele della nonna ma che ha saputo rispondere ad un reduce da a un campo di concentramento, tornato a vedere se gli aveva tenuto i soldi e le cose che le aveva affidato: “Ecco è tutto qui, ed è ancora tuo. Ora puoi portare via di qui il mio figlio più giovane che ha lo stesso cuore debole di suo padre? Prima che schiatti sull’aia sotto un sacco di farina? Prima che debba coprire anche sul suo volta la smorfia contratta di un uomo che muore d’infarto? Portalo con te in città, insegnagli a riparare gli orologi. Ad avere come te in tasca una scatola d’argento per non gettare a terra i mozziconi di sigaretta. Fagli fare un lavoro sedentario che lo renda ricco per il giorno in cui dovrà pagarsi a Londra i primi by-pass riusciti”.

Il vento importante è di fronte a me da sempre anche se in questo momento si mostra sul Paseo de Gracia ad alzare le foglie secche dai marciapiedi. È sulla facciata di Casa Battlo in una coppia di verricelli montacarichi messi in vista come draghi incatenati al posto di nasconderli dietro una fioriera quando il pianoforte è già stato elevato al piano nobile.

E mentre cammino il virus ritorna sulla mascherina di una donna cinese che esce da un negozio di Louis Vuitton. Vuole evitare il rifiuto da parte del negozio. I rifiuti di ragazze che sono scese da una passerella dell’alta moda prima di compiere trent’anni e del concierge che sulla passerella dell’alta moda non c’è mai salito, perché l’alta moda maschile non esiste. Per questo che il concierge odia le commesse e le commesse odiano tutti. Ma la donna cinese non lo sa e così indossa la mascherina come un chirurgo e gli occhiali neri di Dior come Jackie Kennedy per non fare vedere il suo sguardo titubante.

Voltando in un calle che risale la collina verso il Parc Guell il Levante cessa di soffiare davanti ad un mercato coperto che non ha ancora subito la gentrificazione del Sant Antoni Market. Qui il pesce in scadenza viene venduto col prezzo ribassato e il puzzo è vero.

I tre suonatori di violino, viola e violoncello all’angolo della strada sono anziani. E anche se piacciono molto al pubblico non riesco non pensare che se io avessi suonato una partita di Bach così approssimativa la mia maestra di pianoforte alla terza battuta mi avrebbe detto: “Non ho tempo da perdere con te anche se tua madre ti vuole sul palco, il musicista vero è tuo fratello! Quello che suona qualsiasi cosa senza neanche uno spartito. Quello che disegna qualsiasi cosa veda. Quello con un disegno del quale tuo padre ha pagato mezzo trasloco. Il disegno incorniciato e appeso dietro la scrivania di un ufficio di fianco alla foto di una gru col nome di una ditta. In quel disegno c’è il vento. In tuo fratello c’è il vento. Io vorrei lui, non te. Ma a tua madre tuo fratello non piace. Se gli piacesse non lo farebbe scappare lontano al comando di un cargo che impiega quattro giorni ad essere riempito di derrate di bassa qualità e che va avanti e indietro dalla Cina. E che per questo sua moglie oggi gli ha detto che non lo voleva a casa perché poteva essere infettivo più di un monatto. Ma la verità è che lei non lo vuole da tempo. Ed è tua la colpa. Di te che suoni così male!”.

Il panorama mostra che il soffio di nessuna Galerna riuscirà mai ad abbattere le perenni impalcature della Sagrada Familìa, che vista da lì sembra indossare una mascherina anch’essa.

Sento il Terral che soffia verso il porto. Vorrei partire dalla Estació de França, perché è bella è antica e ha le vetrate delle volte centinate in curva che sembrano le ali di un uccello nel vento. Ma ho un viaggio diverso da fare. Diverso dai viaggi di un tempo. Diverso da tanto tempo.

Da ragazzo ho viaggiato un po’.

Abbastanza tutto sommato. Cercavo la libertà ma non sopportavo l’idea che uno dovesse rinchiudersi ad Amsterdam per farsi una canna, a Berlino per farsi una pera, a Mikonos per farsi qualcuno, a Ibiza per dormire ubriachi sulla spiaggia.

I posti scontati mi mettono l’ansia da sempre.

E così ha girato l’Europa passando da un ghiacciaio ad un lago, ad una foresta, ad un museo, ad un fiordo, ad una biblioteca, ad un circolo polare Artico. Sempre in mezzo al nulla o sospeso sopra a tutto come uno stilita o un pipistrello. Un pipistrello affetto da un virus.

Un virus che mi teneva là su un ramo alto di un albero, in attesa di una mongolfiera che al primo vento mi portasse di fronte alla meraviglia della pace di anelito.

Ma il mio virus è un vento che non conosce pace.

E così dopo essere stato in balia della moltitudine di persone di una metropoli di tre milioni di abitanti, sono andato a dormire sei ore prima della intera città.

Sulla città il vento non si è mai fermato.

Verso le cinque mi sono svegliato per il rumore di una musica che usciva da un’auto ferma sotto le mie finestre come mi succedeva da bambino nella periferia della mia città.

Come facevo allora mi sono alzato che il giorno era ancora notte.

Persone di tutte le età ancora passeggiavano in un quartiere senza locali o discoteche, in una piazzale un po’ panorama un po’ parcheggio del distretto di polizia.

Un ragazzo è spuntato da un vicolo inseguito da un altro.

Il primo arrabbiato, il secondo cercando una riconciliazione.

Il primo non si voleva fermare, aveva il vento in poppa.

Il secondo lo ha preso per un braccio. Il primo si è divincolato un po’ come un bambino che fa i capricci e un po’ come un uomo che ha delle sante ragioni.

L’altro ha tentato di abbracciarlo sebbene l’uno facesse resistenza. Ci è riuscito, si sono baciati sulla bocca senza essere a Mikonos, ad Amsterdam, a Berlino, a Ibiza. Tra la gente, davanti alla polizia.

Molti li hanno guardati per capire se tutto andasse bene. Nient’altro.

Poi uno dei due ha offerto la sigaretta all’altro. Hanno cominciato a parlare e a discutere.

Ad un certo punto uno ha detto una cosa. L’altro ha dato un pugno forte alla lamiera di una saracinesca. Poi un altro ed un altro ancora. Si è messo le mani sul viso e il suo corpo ha sussultato dal pianto.

Senza guardare l’altro ha mosso la mano in segno di addio e se n’è andato.

L’altro scuotendo la testa ha preso la direzione opposta. Ha detto qualcosa a due poliziotti che gli hanno sorriso ed è scomparso anche lui.

Io non so se qui il vento sia migliore, se l’aria sia più pulita. Se qui il virus non abbia peso. Non so se sono veramente pronto a scendere dall’albero.

Ma in quella scena ho visto che il vento può cambiare direzione, cambiare le cose e poi cambiarle ancora fino a ricucire il tempo.

Non so se scenderò mai dal ramo ma so che posso fare scendere mio figlio. Perché un posto nel mondo, in cui fino a ieri c’era una dittatura, è diventato un luogo in cui c’è posto anche per le storie d’amore che possono finire male in mezzo alla gente. E questo mi basta. Sia come che, sia come perché.

Anzi, il perché non mi interessa. Come non mi interessa sapere del paziente zero del contagio, di questo e di altri virus.

Non mi interessa sapere quale fosse il guasto tecnico che mi ha tenuto a terra sul mio aereo per due ore sulla pista del Areopuerto El Prat. Mi basta che l’aereo non sia decollato prima che qualche mio simile avesse risolto il guasto. Questo è il “che”. Il “che” come il vento.

Il vento che batte tutti i virus.

Il vento che non si ferma mai.

Il vento che misura il tempo.

Viaggio terrestre e celeste di Madonna Pia

di Vinicio Serino 12 agosto 2017

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Chi era la Pia

Uno degli episodi più belli e fascinosi della Divina Commedia è, sicuramente, quello del Canto V del Purgatorio, quando Dante incontra una misteriosa Pia che, insieme al fanese Jacopo del Cassero, combattente a Campaldino tra le fila dei Guelfi ed a Buonconte da Montefeltro, combattente nella stessa battaglia alla testa delle milizie ghibelline – dove trovò la morte – condivide il secondo balzo dell’Antipurgatorio. Là dove sono confinate le anime dei “negligenti” che perirono per morte violenta e che solo “all’orlo della vita” (Casini, 1892) si pentirono dei propri peccati. “Ricorditi di me che son la Pia”, raccomanda quella donna misteriosa al Poeta, quando ritornerà nel mondo dei vivi. Aggiungendo che “Siena mi fè, disfecemi Maremma”, lo sa bene “colui che ‘nnanellata pria/disposando m’avea con la sua gemma” (Purgatorio, V, 133-136): ossia il suo (ignoto) sposo. Null’altro.

Come è noto i commentatori più antichi furono concordi nell’identificare quella donna misteriosa nella moglie di Nello della Pietra, ossia di Paganello Pannocchieschi, figlio di Inghiramo, signore del Castel di Pietra, Potestà di Volterra e di Lucca e futuro consorte di Margherita Aldobrandeschi, la donna dai molti mariti tra i quali il celebre  – e spietato – Guido di Montfort, vicario di Carlo D’Angiò.

Per Pietro Alighieri, uno dei primi commentatori della Commedia, ”Ista domna Pia de Tholomaeis de Senis fuit uxor domni Nelli de la Petra de Senis qui eam occidit …” Ossia questa donna – nel senso di domina, signora – Pia dei Tolomei da Siena andò sposa a Nello senese signore di Castel di Pietra che la uccise. Si tratterebbe dunque della discendente di una delle più potenti famiglie di Siena, i Tolomei, appunto, mercanti e banchieri. Secondo quanto vuole la tradizione Nello Pannocchieschi, per un imprecisato sentimento di gelosia, ovvero per impalmare Margherita Aldobrandeschi, ultima esponente di una delle famiglie più potenti del centro Italia, avrebbe deliberato l’assassinio della “sua” Pia facendola precipitare dal proprio maniero di Castel di Pietra, nel cuore della Maremma.

A partire dal XIX secolo la critica dantesca ha messo in crisi questa storia. In un recente lavoro, Roberta Mucciarelli, ricercatrice dell’Università di Siena, rifacendosi a quanto sostenuto da alcuni studiosi ed eruditi dello scorso secolo – Decimo Mori, Alessandro Lisini e Giulio Bianchi Bandinelli – riconosce la Pia in una nobildonna discendente dal lignaggio dei Malavolti che avrebbe sposato, tra il 1282 ed il 1283, un Pannocchieschi. Non Nello, ma Tollo, dei signori di Prata, nei pressi di Massa Marittima il quale, il 19 Aprile del 1282,  aveva sottoscritto un atto di sottomissione a Siena e che, nel 1283, impalmava la sua Pia, appunto dei Malavolti. Appena due anni dopo, nel 1285, Tollo veniva ucciso per mano dei tre nipoti, scatenando quindi la reazione dei senesi che solo nel 1289 avrebbero ripreso il suo castello. Nessuna traccia della Pia (dei Malavolti), però (cfr. Mucciarelli, 2011). Sì che il mistero rimane ancora …

Dubbi e nuove strade

Per cercare di ricostruire la vicenda terrena della Pia dantesca occorre quindi fare (saldamente) ricorso ad una (sana) categoria, il dubbio. Dubbio sulla sua identità; dubbio sull’atto commesso e configurato come peccato, e che Dante condanna come negligenza; dubbio sulle modalità della sua morte che, sempre attingendo alla Commedia dantesca, sarebbe avvenuta per atto violento (cfr. per tutti Mucciarelli, 2011). D’altra parte, come diceva un grande magister, Abelardo, con buona pace di San Bernardo e della sua mistica, “dal dubbio ci muoviamo alla ricerca, e attraverso la ricerca percepiamo alla verità”.

Visti i risultati, quanto meno non esaurienti, ottenuti dai medievisti moderni e dagli eruditi del passato che, nei secoli, si sono cimentati nel tentativo di dissolvere questi tre dubbi, proviamo a seguire una strada diversa da quella della ricerca storica. Seguiamo le tracce – e le suggestioni – dell’immaginario collettivo, ossia quello straordinario contenitore di rappresentazioni, di simboli, di ideologie che, ci dice J. Le Goff citando il padre Chenu, appartengono alla storia della coscienza di un popolo (Le Goff, 1988).

Proviamo dunque con una indagine intorno alla mentalità diffusa in un tempo – il Medioevo – ed uno spazio, quello di una delle più dinamiche città stato dell’epoca e del suo territorio, Siena. Una ricostruzione non erudita eppure “reale” di quello che lo stesso Le Goff definisce Umanesimo medievale, fatto di “imprese economiche”, di “alte creazioni culturali e spirituali”, configurate in un corpus capace di far emergere le “immagini profonde, più o meno sofisticate secondo la condizione sociale e il livello di cultura dell’universo mentale degli uomini e delle donne dell’Occidente medievale” (Le Goff, 1988).

Per comprendere bene questo invito a seguire la via dell’immaginario basta pensare alla cattedrale gotica, alla congerie di messaggi veicolati attraverso la sua pietra.”La cattedrale”, dice G. Duby, “… è proclama pubblico, discorso muto che si rivolge alla autorità del popolo fedele , e innanzitutto dimostrazione di autorità”, l’autorità dei due poteri associati, quello laico del principe, o della città; quello del vescovo espressione della Chiesa universale (Duby, 1987). Una lingua “chiara e sublime”, in grado di “parlare all’anima dei più umili come a quella dei più colti” (Fulcanelli, 1972). Una dimensione entro la quale si sono “accatastati” modelli culturali molto diversi, ed alla apparenza persino inconciliabili, dove si incontrano rappresentazioni, simboli, allegorie del mondo cristiano con quello “pagano”.

Cattedrale di Siena, straordinario liber mutus che parla attraverso il messaggio del simbolo

Cerchiamo allora di penetrare il “mistero della Pia” col ricorso all’immaginario, ed in particolare ad un immaginario per così dire arturiano, fatto di molte citazioni, dirette ed indirette, al mondo della cavalleria medievale e del c.d. amor cortese. Un mondo al quale, forse, qualche manifestazione archetipica, non è del tutto estranea.

Sulle orme della Pia

Usiamo allora i canoni dell’immaginario ripercorrendo il viaggio della Pia, attraverso due dimensioni spaziali antitetiche, Siena che la “fece” e la Maremma che la “disfece”. Ed è nel mezzo di questi due estremi che occorre ricercare battendo, appunto, la strada dell’immaginario. E’ teoricamente possibile ricostruire questa strada che la Pia ha preso per raggiungere, secondo la tradizione, Nello Pannocchieschi, suo sposo, in quel di Castel di Pietra. Una via ancora esistente – e quindi rintracciabile – che si sviluppa attraverso luoghi, scenari, contrade di grande significato: un autentico spazio dell’immaginario, capace di creare straordinarie suggestioni …

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Ambrogio Lorenzetti, particolare da Effetti del Buon Governo in città

Il viaggio inizia da Siena, dal Palazzo Tolomei, probabilmente, presso il punto dovesi toccavano i termini dei tre Terzi … poco lungi dalla Croce del Travaglio presso alla gran piazza del campo , celebre per la svelta altissima torre detta del Mangia , per il palazzo pubblico e per il gioco più popolare e più allegro di quanti contar ne può tutta Italia; e costà dove i due poggi riuniti tornano a biforcare in due rami, uno de’ quali dirigesi a scirocco verso la Porta Romana, mentre l’altro verso libeccio sale al Duomo , al Castel vecchio, e di là sino alla Porta S. Marco , donde esce la strada regia Grossetana”(Repetti, 1833). Così il Repetti nel suo celebreDizionario Geografico Fisico e Storico della Toscana”.

Da qui, Costa Fabbri  al di sotto del monastero di Sant’Eugenio, già  Abbazia di S. Eugenio in  Pilosiano : ”forse … la più antica Abazia della Toscana Granducale, avvegnachè la sua fondazione risale all’anno 730 per opera del Longobardo Warnifredo castaldo regio di Siena, che generosamente la dotò” (Repetti, 1833). Di ascendenza longobarda era la famiglia di Nello …

Il percorso della Pia si sviluppa quindi da Certano, antico possesso di S. Eugenio, alla Fonte al pino (costeggiando le tombe etrusche), per il Ferratore, fino a Ponte al Rigo e Palazzaccio (Proprietà Bonsignori). Finalmente Ponte allo Spino  in prossimità del castello di  Sovicille. Qui si erge la pieve di Ponte allo Spino, vero e proprio (piccolo) libro di pietra dove si consuma, attraverso immagini di forte valore simbolico, una contaminazione culturale tra il cristianesimo e gli antichi culti delle prime popolazioni abitanti il territorio, etruschi e romani …

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Pieve romanica di Ponte allo Spino, Sovicille (SI)

Ed ecco, dopo la località di Malignano, dove è stata rinvenuta una piccola necropoli etrusca, costeggiando il padule di Rosia – oggi non più esistente – che si giunge al castello di Rosia. “Fu il castel di Rosìa insieme con altri vicini castelletti di Brenna, di Stigliano, di Orgia ecc. signoreggiato dai conti dell’Ardenghesca finché con lodo del 27 maggio 1202 quei conti dovettero dichiararsi tributarj del Comune di Siena insieme con i vassalli ad essi soggetti … “ (Repetti, 1833). Di qui, a circa un miglio, il fatidico ponte, ora detto della Pia, ma fino agli anni ’30 più noto come ponte di Santa Lucia.

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Il ponte della Pia

Un ponte a schiena d’asino, probabilmente ricostruito nel Medioevo là dove insisteva un precedente manufatto romano. L’opera, che sembra risalga all’ XI secolo, consentiva di raggiungere il vicino eremo di Santa Lucia, collocato entro una suggestiva vallata. Quella strada è denominata “Strada Manliana“ e, sulla fede del Repetti, sappiamo che doveva esistere, nei pressi di Gavorrano, ossia nell’area di Castel di Pietra, “l’antica mansione di Maniliana, ossia Manliana, per ragione che essa vedesi segnata nella tavola Teodosiana fra Populonia e la Bruna, con tutto ciò sino al secolo XII …” (Repetti, 1833)

Il ponte possiede una straordinaria valenza simbolica, è un intermedio che, come sapeva bene il ”Pontifex maximus” e come sa la Chiesa Cattolica, mette in comunicazione due dimensioni diverse, due mondi diversi, la terra col cielo: in questo caso il passato, Siena e il futuro, la Maremma. La tradizione vuole che Madonna Pia, nell’attraversarlo, abbia avuto come una premonizione e che, sospirando, si sarebbe girata (per l’ultima volta) in direzione della sua amata città. Al “simbolismo del passaggio” si affianca “il carattere frequentemente pericoloso di questo passaggio”(Chevalier, Gheerbrant, 1989) a designare l’ignoranza che il viaggiatore ha del suo approdo.

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Notturno sul Rosia

A sottolineare la forte valenza simbolica che il ponte ha in questa storia basterà citare una diffusissima credenza: si vuole che  qui, nelle notti senza luna, compaia una bianca figura di donna, vestita di bianco, con la testa coperta da un velo e  circondata da una soffusa luce bianca. E’ il fantasma della Pia, ormai consapevole della fatale scelta che ha compiuto quando è transitata su quell’antico passaggio. Una manifestazione che avrebbe sicuramente suscitato l’interesse di Jung, convinto come era che quelle forme eteree ed impalpabili andavano intese quali esteriorizzazioni della grande mole di materiale arcaico contenuto, ab origine, nell’inconscio collettivo … Ma c’è di più …

Assonanze arturiane

Rileva, dal punto vista dell’immaginario, il riferimento ad un’altra dama bianca, sicuramente molto più nota della Pia, Ginevra, la consorte di Artù. Il suo nome rimanda, con molta verosimiglianza all’antico gallese, l’impronunciabile Gwenhwyvar che, appunto, significa bianco spettro, spirito bianco. Ma le somiglianze non finiscono qui: Ginevra è rapita da un cavaliere straniero, il malvagio Meleagant, che la rinchiude nel suo castello.

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Archivolto della Porta della Pescheria, Winlogee (Ginevra) prigioniera di Mardoc, Cattedrale di Modena

Solo un cavaliere valoroso come Lancillotto, racconta Chrétien de Troyes nel suo “Il cavaliere della carretta”, saprà liberarla: ma, per compiere l’impresa, sarà costretto a salire sulla carretta, infamante, dei malfattori, perché, come gli rivela il nano che la guida, è il solo modo per giungere alla diletta dama.

Ginevra, anche in virtù dell’ impresa di Lancillotto, consumerà l’adulterio col più valoroso dei cavalieri: colpevole – come la Pia dantesca ?- del tradimento del proprio consorte, Artù, da arkto, orso. Intrigante la possibile etimologia del nome Lancillotto che non avrebbe radici celtiche evidenti: forse  Lance ap Lot (“Lance, figlio di Lot“). O forse dall’ebraico “Aziloth” (ovvero “Nobile”) che diventando “L’Aziloth“ esprime l’animo del Cavaliere, “Il Nobile”. Il che apre ad una serie teoricamente infinita sui rapporti tra modelli culturali molto diversi … eppure coesistenti …

La vicenda, narrata da Chrétien de Troyes –  autore anche del Perceval, il primo dei romanzi del Graal – viene ricostruita tra il 1170 ed il 1180 su richiesta di Maria, contessa di Champagne, figlia di Eleonora d’Aquitania. Dunque in una dimensione molto evocativa sul versante dell’immaginario, perché riferibile al contesto del così detto amor cortese, uno straordinario movimento culturale in lingua d’oc e d’oil, che si sviluppa nella seconda metà del XI secolo nelle corti dell’Aquitania e della Provenza, ad opera dei trovatori, trobadours e dei trovieri, trouvères, dal verbo trobar (trovare), da riconnettere a sua volta al tardo latino tropare (sinonimo di invenire).  Si tratta di poeti che compongono  liriche piene di passione, portatori di una idea dell’amore – molto diversa da quella, castigata, dell’Alto Medioevo – ispirata, in parte, alla Ars amandi di Ovidio. E che disciplinava, in una maniera assolutamente nuova, il rapporto d’amore tra la dama e il cavaliere, il “tema dell’amore per una dama superiore ed irraggiungibile, destinataria dell’omaggio e del canto di un io lirico che ama” (Meliga,1991).

Nel “Cavaliere della carretta” ritroviamo due singolari assonanze con la vicenda della Pia dantesca. Il rapitore di Ginevra è il malvagio cavaliere Meleagant – che sarà poi ucciso da Lancillotto – il cui nome assomiglia tanto – ovviamente è solo una suggestione – a quel “Magliata da Piombino” che, secondo l’anonimo chiosatore del Codice Laurenziano XL 7 (risalente al secolo XIV), sarebbe il sicario di cui si servì Nello Pannocchieschi per liberarsi della sua sposa, facendola precipitare dal Castel di Pietra.

Un’altra singolare assonanza, quella del ponte con tutta la sua forte valenza simbolica. Il ponte, “tagliente come una spada”, grazie al quale Lancillotto raggiunge il castello nel quale è rinchiusa la sua dama. Lo stesso che Parzival attraversa per ritornare  al castello del Graal.

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Il ponte-spada di Lancillotto, miniatura del XV secolo

Anche Galgano, il santo che infigge la spada nella pietra di Montesiepi, inizia la sua vicenda “visionaria” superando, sotto la guida dell’Arcangelo Michele, patrono della Cavalleria, un ponte “che non poteva attraversare per eccessiva difficoltà” e al di sotto del quale“un mulino con una ruota che girava, sembrava gridare”.

Superato il ponte sul Rosia madonna Pia raggiungerà, dopo un breve tragitto sulla via Manliana, l’eremo di Santa Lucia. Ai suoi inizi un semplice romitorio che si vuole fondato, alla fine del XII secolo, dall’eremita Bonaccorso, il quale, unitamente ad un gruppo di asceti che si erano uniti a lui, avrebbe iniziato la costruzione del suggestivo edificio, anche grazie al patrocinio ed al sostegno degli Spannocchi, proprietari del luogo. La chiesa, dedicata a Santa Lucia la santa protettrice degli occhi e della vista, dovrebbe risalire al 1252 e la sua consacrazione al 1267. Per tutto il medioevo il complesso fu importante punto di riferimento per viaggiatori e pellegrini che da Siena si recavano verso le Colline Metallifere e la Maremma.

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Eremo di Santa Lucia, Montagnola senese

Santa Lucia è la fanciulla di Siracusa, vissuta alla fine del III secolo che, ottenuta per intercessione di Sant’Agata la guarigione della madre, decise di mantenere la propria verginità consacrandosi al Signore. Denunciata dal promesso sposo come cristiana, e mentre il carnefice la sottoponeva al supplizio dell’accecamento, dichiarò che il suo sacrificio avrebbe tolto i non credenti dal buio in cui li aveva costretti la loro superbia. Forse, grazie a lei, simbolo per Dante della Grazia illuminante, Madonna Pia potè “vedere” la triste sorte che l’attendeva.

Dianzi, ne l’alba che procede al giorno,
quando l’anima tua dentro dormia,
sovra li fiori ond’è là giù addorno
venne una donna, e disse: “I’ son Lucia;
lasciatemi pigliar costui che dorme;
sì l’agevolerò per la sua via“ (Purgatorio, IX, 52-57).

Così Virgilio al risveglio del poeta gli rivela che, mentre era addormentato, una “donna” è venuta per aiutarlo a trovare la sua via …

Con la forza della sua luce la santa è in grado di risvegliare, ossia di “aprire gli occhi” degli uomini altrimenti accecati dall’orgoglio e della passioni …

Nei romanzi del Graal, poi, la figura dell’eremita compare spesso per consigliare i cavalieri dubbiosi sulla loro missione, indirizzandoli sulla via della virtù e della saggezza, come fa Trevrizent con Parsifal, suo nipote che, nel racconto di Wolfram von Eschenbach, ammonisce rammentandogli che la sua gioventù potrebbe indurlo “a mancare alla virtù della rinuncia”.  Proprio questa capacità di rinunziare al “mondo” ed alle sue lusinghe consente agli eremiti di condurre una vita ascetica – da ascesis, esercizio – che li prepara alla unione mistica con Dio rendendoli degni, attraverso il distacco delle cose terrene, della sua illuminazione.

Anche madonna Pia, transitando lungo l’eremo di Santa Lucia, avrà incontrato questi uomini solitari, che cercano – e trovano – la propria strada nella solitudine, nella foresta come quella che si stende lungo il corso del Rosia . Un luogo, la foresta che, nell’immaginario  è, al tempo stesso, deserto ed rifugio.  Un luogo inospitale, una terra desolata, popolata di esseri ostili e, soprattutto,di demoni tentatori. Gli eremiti vi si ritirano per contrastare e dominare, in quel mondo carico di oscure minacce, la forza delle proprie passioni. E’,dunque, il loro campo di battaglia, dal quale possono uscire sconfitti o radiosi vincitori. E se vi riescono aprono davvero la vista a coloro che incontrano,(Le Goff, 2007), magari interpretandone il linguaggio oscuro dei sogni, o manifestando  una straordinaria capacità profetica  Alvar, 1998).

Castelli e castellani

Dopo l’eremo di S. Lucia, ecco Spannocchia in Val di Merse, “Villa signorile, già Castello o casa torrita, con fattoria omonima della nobile famigli senese de’conti Spannocchi nella parrocchia di S. Maria ai Monti di Malcavolo, ora a Frosini, Comunità Giurisdizione e circa 9 miglia toscane a libeccio di Chiusdino, Diocesi di Volterra, Compartimento di Siena. La tenuta di Spannocchia fa parte della Montagnola posta alla destra del torrente Rosia e della strada che viene da Chiusdino, poco al di sotto di Castiglion Balzetti, ch’è al suo libeccio nel popolo di Brenna, mentre esiste al suo grecale dentro la tenuta medesima la chiesa profanata degli Eremiti Agostiniani di S. Lucia a Rosia con annesso claustro attualmente ridotto ad uso di casa colonica” (Repetti, 1833). La famiglia degli Spannocchi, destinati a diventare grandi banchieri, possedeva quella tenuta già nel XIII secolo, dunque al tempo della Pia. Il riferimento a Castiglion Balzetti, ossia Castiglion che Dio sol sa per la difficoltà che si ha nell’individuarlo, rimanda a tenebrose credenze popolari che vuole quello come il luogo dove “si marchiavano” le streghe  che poi volavano alla volta di Siena (Biliorsi, 1995). Forse un rito di iniziazione alla pubertà femminile che si teneva nel fitto impenetrabile di quei boschi.

Madonna Pia dovette quindi giungere a Pentolina, “Casale con chiesa plebana (S. Bartolommeo) nella vicaria foranea di Rosia, Comunità e 6 miglia toscane a grecale di Chiusdino …”

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Casale di Pentolina, Montagnola senese

Qui “ebbero signoria i conti Pannocchieschi fino dal principio del secolo XIV almeno, stantechè il potente milite Nello d’Inghiramo signor del castel di Pietra in Maremma con testamento del 21 febbrajo 1321 lasciò allo spedale di S. Maria della Scala di Siena un legato di mille lire compresi tutti i suoi diritti e beni che possedeva nel castello e corte di Tatti a condizione fra le altre cose di doversi erigere nella villa di Pentolina un sufficiente spedalelto per i poveri” (Repetti, 1833).

Il riferimento alla generosità post mortem di Nello, evocata dal Repetti,  quel Nello che la credenza vuole abbia fatto uccidere la Pia, sua sposa, è molto interessante. Dal suo testamento, vergato in Gavorrano, avanti al notaro Francesco di Bizzino da Massa Marittima, si apprendono, con ricchezza di particolari “le … malefatte. Il maltolto e le usure, le violenze e le rapine, le relazioni illecite … (Mucciarelli, 2011). Nello, consapevole dei suoi delitti – tra i quali la soppressione della Pia ? – aspirava evidentemente ad una collocazione benevola nell’al di là. Difficilmente il Paradiso, per quante ne aveva fatte, ma con buone probabilità di approdare al Purgatorio, il luogo di purgazione delle anime penitenti, scoperto, o inventato come dice Le Goff, dalla Chiesa solo nella seconda metà del ‘200.

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Domenico di Michelino, Il Purgatorio, particolare da “Dante e il suo poema”

Più facile se la penitenza comportava sostanziosi lasciti a chi aveva il potere del lasciapassare per questa dimensione intermedia, e provvisoria, tra Inferno e Paradiso. Una dimensione dell’immaginario religioso che ironiche considerazioni aveva indotto in quella mala penna di Giovanni Boccaccio.

Chissà se la Pia, transitando per il castello di Pentolina, di proprietà Pannocchieschi, avrà incontrato il serpente dalla testa di Uomo che, secondo la tradizione popolare, avrebbe abitato nelle fitte selve che circondavano – e circondano – il castello? Una ibrida creatura che, dice M. Biliorsi, un cercatore di funghi avrebbe visto, in età moderna, penzolare da un albero, mentre mugolava strane parole”  (Biliorsi, 1988). Una evidente citazione del “cifero serpente” nella versione che, ad esempio, ne dà Michelangelo nell’episodio della tentazione dei nostri (dissennati) antenati.

Da qui la Pia deve aver raggiunto Mulinaccio e poi, percorrendo l’ antica strada maremmana, costeggiato l’ Abbazia di San Galgano, costruita ai piedi di Montesiepi, là dove è conservata la spada nella roccia legata alla vicenda di un cavaliere la cui storia presenta un’ impressionante consonanza con quelle dei romanzi del Graal, di Artù e dei suoi cavalieri: aprendo quindi una serie di importanti quesiti quali, tra i tanti, il fatto che il primo di questi romanzi, il Perceval di Chrétien de Troyes è stato composto sicuramente dopo il 1181, data della morte di Galgano. Come era stato possibile?

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Abbazia di S. Galgano

Nella fraternità guglielmita

Il percorso della Pia si snoda quindi lungo il Piano di Campora (antica area etrusca); passa per la  Pieve di Luriano, dove si fermò il cavallo di Galgano, inducendone la conversione nel giorno del solstizio d’inverno del 1180; raggiunge le Osterie delle macchie e il paese di Torniella, “villaggio che fu Castello, con chiesa plebana (S. Gio. Battista) … dominato un tempo da una consorteria di nobili detti i signori di Torniella e di Sticciano …” (Repetti, 1833). Da qui al bivio ora di Sassofortino (valle del torrente Bai) e, finalmente, all’antica abbazia di Giugnano …

“GIUGNANO (BADIA DI) nella Valle della Bruna in Maremma. Quest’antico monastero di monaci eremiti”, dice il Repetti, “era situato in mezzo ai boschi sul fosso delle Venaje, tributario del fiume Bruna, fra Monte Lattaja, Monte Massi e Roccastrada, in luogo detto attualmente le Casaccie, nella Comunità Giurisdizione e circa 4 miglia toscane a libeccio di Roccastrada  … Poche notizie di questa badia restano fra le carte degli Eremiti Agostiniani di Siena, ai quali furono riuniti gli eremi di Val d’Aspra, dell’Ardenghesca, e di Val di Rosia de’Pannocchieschi, che sino dal secolo XIII possedevano la badia di Giugnano con le sue foreste.  … Era una piccola badìa dei Cisterciensi di S. Galgano concessa loro dal Pontefice Innocenzo IV, e quindi ai medesimi confermata dall’Imperatore Ottone IV con privilegio spedito all’abate di S. Galgano lì 31 ottobre 1209” (Repetti, 1833).

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Cripta dell’abbazia di Giugnano

Cripta dell’abbazia di Giugnano

La vicenda della abbazia di Giugnano è complessa. Verosimilmente  la sua fondazione si deve ai Benedettini, e solo agli inizi del 1200 passerà sotto i cistercensi di S. Galgano ma … Per un breve indeterminato periodo quel luogo fu appannaggio dei Guglielmiti, uno straordinario ordine monastico di forte connotazione cavalleresca che si fa risalire a Guglielmo della Malavalle e, soprattutto, al suo discepolo Alberto, che ne raccolse gli insegnamenti nella “Regula” . E’ con molta verosimiglianza che  qui fosse “accolto … in un collegio di circonvicina fraternità di servi di Dio e di chierici”, dopo essere stato inizialmente respinto, Galgano, da cavaliere divenuto eremita.

E’ forse nella vicenda di Guglielmo la chiave per comprendere il peccato di negligenza commesso, secondo Dante, dalla Pia. Guglielmo proviene dall’Aquitania. In talune circostanze é definito persino Duca d’Aquitania.

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Mattia Preti, San Guglielmo di Malavalle in meditazione

E nel periodo della sua esistenza terrena,ossia nella prima metà del XII secolo, l’Aquitania ha avuto come Duca un Guglielmo, Guglielmo IX – che naturalmente non é il santo di Malavalle – un importante, se non il più importante dei Trovatori provenzali, autore di composizioni cortesi che esaltano la dottrina d’amore, dell’amore cortese.

immagine15La donna, la Dama diventa un simbolo, l’idea stessa di un mondo che é quello delle corti provenzali. Molto libere, molto affascinate da dottrine anche eretiche, come quelle catare, forse non aliene dalla conoscenza delle antiche culture precristiane – e quindi pagane – dei luoghi …

E’ forse attraverso personaggi come Guglielmo di Malavalle che il fantastico mondo dell’amor cortese è giunto in questa parte di Toscana?

Amor cortese e servizio d’amore

Cosa c’entrano i Trovatori con la Pia? Forse la Pia non potrebbe essere stata la Dama corteggiata – ancorchè più o meno felicemente maritata – da qualche fascinoso nobile cavaliere  secondo i principi e le modalità dell’amor cortese, di cui i trovatori sono, con le loro canzoni, gli incontrastati produttori? Circostanza che allora giustificherebbe la “gelosia” di Nello. Amor cortese significa servizio d’amore e culto della dama da parte del suo cavaliere: il legame che li unisce non ha un valore carnale, ma costituisce una sorta di visione, nella quale l’amante pensa all’amato “come il mistico a Dio, fa tutto per lei e per mezzo di lei; dall’amore nascono tutte le virtù, esso è fonte di ogni ricchezza interiore e progresso morale. La femminilità è esaltata dunque come forza morale, spirituale e nobilitante. L’idea centrale è che questo rapporto d’amore è il principio motore che muove e attiva tutte le forze spirituali portando al compimento di atti meritevoli …” (Orlando,S.I.D.).

Dunque un gioco, forse ambiguo, dove non prevale – ovvero non dovrebbe prevalere – la sensualità ma un desiderio inestinguibile di crescita spirituale, una sorta di iniziazione all’Amore  “che muove il sole e l’altre stelle”, dove il rapporto tra l’amata e l’amante è lo stesso che corre tra il Signore – l’amata – e il vassallo, l’amante. Esemplare la storia attribuita al trovatore Jaufré Rudel perdutamente innamorato della contessa di Tripoli (forse Melisenda, figlia del re Baldovino II di Gerusalemme), della quale avrebbe sentito parlare da alcuni pellegrini di Antiochia senza averla mai vista e per la quale si fece Crociato. La storia vuole che si ammalasse proprio a Tripoli e che fosse spirato tra le braccia della contessa vista per la prima ed ultima volta .

immagine16Jaufré  Rudel, uno dei più noto trovatori, nel suo “ Amore di terra lontana”, così descrive la sua infelice passione.

“ … Triste e gioioso me ne partirò,
dopo averlo visto, l’amore lontano:
ma non so quando la vedrò,
perché le nostre terre sono troppo lontane :
vi sono molti valichi e strade,
e perciò non posso indovinare quando la vedrò:
ma sia tutto secondo la volontà di Dio!

… Dice il vero chi mi chiama ghiotto
e desideroso dell’amor lontano,
che null’altra gioia tanto mi piace
come il godere dell’amor lontano.
Ma ciò che voglio mi è negato,
che così mi dette in sorte il mio padrino,
che io amassi e non fossi amato.
Ma ciò che voglio mi è negato.
Sia sempre maledetto il mio padrino,
che mi ha dato la sorte di non essere amato …”

Il  modello ispirativo di questo “gioco” è il De Amore, un  trattato in tre libri ad opera di Andrea Cappellano (1150-1220), vera  summa dei precetti dell’amor cortese, composto in latino attorno al 1185, verosimilmente presso la corte di Maria di Champagne, protettrice di  Chrétien de Troyes  e nipote di Guglielmo IX di Aquitania, nonché figlia di Eleonora di Aquitania, la madre di Riccardo cuor di leone.. Un gioco che è anche culto per l’amata, nella consapevolezza che quel sentimento resterà inappagato, nonostante la sua sensualità che lo distingue dal c.d. amor platonico.  Di qui la sofferenza del cavaliere consapevole di non poter giungere al possesso dell’amata.

 “Amor, ch’a nullo amato amar perdona,/mi prese del costui piacer sì forte, che, come vedi, ancor non m’abbandona”… fa dire Dante a Francesca da Polenta nel Canto V dell’Inferno. E’ la storia d’amore impossibile tra la dama ed il cognato, Paolo Malatesta, detto il bello, giovane aitante, già Capitano del popolo a Firenze nel 1282, quando Dante era un giovinetto. L’attrazione erotica si consuma mentre i due stanno leggendo, “per diletto, /di Lancellotto, come amor lo strinse”. E’ allora, dice Francesca, “quando leggemmo il disiato riso/esser baciato da cotanto amante, / questi, che mai da me non fia diviso,/la bocca mi baciò tutto tremante” (Inferno, Canto V,127-128 e 133-136).

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Alexandre Cabanel, Morte di Francesca da Rimini e di Paolo Malatesta

Quel libro fu Galeotto, e Galehaut, galeotto appunto, era il siniscalco di Ginevra che ne aveva favorito l’amore adulterino

Forse madonna Pia potrebbe aver partecipato ad un gioco d’amore con qualche ignoto cavaliere, ma senza cadere preda della passione per il piaceri carnali; come quelli provati da Paolo e Francesca che scontano per l’eternità il loro peccato travolti dal vento impetuoso ed inarrestabile che tormenta le anime dei lussuriosi. Forse questo “gioco” potrebbe spiegare, con riferimento all’immaginario dell’epoca, la gelosia di Nello e, quindi, al di là del suo desiderio di impalmare Margherita Aldobrandeschi, la volontà omicida. Non lo sapremo mai …

E forse la condanna di Dante, l’attribuzione del peccato di negligenza, potrebbe essere dovuta al suo modo di intendere il “dolce stil novo”, quello espresso dallo stesso Dante con la celeberrima Canzone “Donne, ch’avete intelletto d’Amore”, la prima della “Vita nova”. Non più l’amore inteso, alla maniera dei provenzali e dei siciliani, come sudditanza feudale dell’uomo alla donna, ma come straordinaria tensione dell’animo. Un desiderio, inarrestabile ed infinito, per una Donna che non è più reale ma, come Beatrice, angelicata, vero tramite, che nulla possiede di terreno, tra Dio e l’Uomo.  “Beatrice tutta ne l’etterne rote/fissa con li occhi stava; e io in lei le luci fissi, di là sù rimote … Trasumanar significar per verba/non si poria; però l’essemplo basti/a cui esperienza grazia serba” (Paradiso, I, 64-66 e 70-72)

Il peccato della Pia

Allora, in una prospettiva di immaginario medievale, la colpa di Pia può essere stata quella di essersi dimostrata negligente nei doveri coniugali perché presa dal gioco d’amore dei trovatori provenzali, giunti anche in questa parte di Toscana come sembrerebbe autorizzare la vicenda di Guglielmo di Malavalle, prima della sua conversio. Dal castellare di Lattaia, sulla piana di Maremma, passando da Pian del Bichi (Palazzo della Dogana), attraverso la valle del Bruna, madonna Pia, superata Casa di Pietra, giungeva infine a quel Castel di Pietra dove, secondo la tradizione, si sarebbe consumata la tragedia. “Rocca rovinata resa celebre dall’Alighieri per la tragica fine della Pia moglie di Nello Pannocchieschi signore di cotesta prigione” diceva ai suoi tempi il Repetti.

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Castel di Pietra (GR), veduta aerea

Da qui la Pia aveva iniziato il suo viaggio celeste,

“… Contessa, che è mai la vita?

E’ l’ombra d’un sogno fuggente.

La favola breve è finita,

il vero immortale è l’amor…”

(G. Carducci, Jaufré Rudel)

Ringraziamento: un sentito ringraziamento all’architetto Andrea Brogi per la competente assistenza prestata nella ricostruzione del percorso di madonna Pia.

BIBLIOGRAFIA

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I crimini violenti contro le donne: una lettura antropologica

a cura di Sara Ginanneschi 26 maggio 2015

CRIMINOLOGIA-26-27-giugno-2015-loc.-e-programma_Pagina_1-800x1035Il 26 ed il 27 GIUGNO 2015, il Polo Psicodinamiche di Prato ospiterà il CORSO DI CRIMINOLOGIA:
“I CRIMINI VIOLENTI CONTRO LE DONNE” a cura del Prof. Vinicio Serino.

Dalle culture pre-agricole dell’area mediterranea risalenti all’8000AC ai giorni d’oggi, sembra essere la struttura societaria e l’organizzazione dei ruoli sessuali a delineare una modalità in cui predomina la cura parentale, come salvaguardia di una specie, rispetto ad una in cui prevale l’aggressività e la violenza come forma di protezione del gruppo.
Le società primitive, ossia i primi aggregati di Sapiens sapiens, manifestavano una divisione dei compiti per il controllo degli spazi e l’acquisizione delle risorse indispensabili alla vita. Si trattava di “società acquisitive”, composte da popolazioni di cacciatori-raccoglitori “che traevano le risorse direttamente dall’ambiente, muovendosi sul territorio, senza praticare forme di agricoltura e di allevamento”, ma sfruttando, senza trasformarle, le risorse alimentari, animali o vegetali, rinvenute in natura (Godelier, 1977). In queste società le donne avevano prevalentemente compiti di  raccolta di vegetali o di piccoli animali e di cura parentale; gli uomini quelli della caccia, a prede che spesso, potevano diventare predatori. Sarebbe quindi un’etica naturale, un meccanismo biologico affinatosi per evoluzione naturale, ad incanalare ed orientare i comportamenti umani. Essa ha la vocazione della universalità in quanto agisce come una sorta di codice genetico innato che serve, in ogni gruppo sociale, a garantire la copertura dei tre bisogni primordiali: l’alimentazione, la sopravvivenza, la riproduzione della specie e funziona sulla base del principio della cooperazione specifica tra i membri del gruppo: senza il rispetto delle prescrizioni imposte da quel codice e quindi senza una attività cooperante di copertura di quei bisogni, quell’aggregato non potrebbe esistere.
L’etica naturale funziona allora come uno straordinario meccanismo attraverso il quale è possibile avviare e mantenere la cooperazione tra appartenenti allo stesso aggregato sociale. Ogni comportamento indirizzato ad ostacolare la soddisfazione, da parte dei cooperanti, dei bisogni primari è deviante perché crea le condizioni per dissoluzione del gruppo. Sono allora ipotizzabili, in questa prospettiva, delitti naturali, come quelli che impediscono, dice Chiarelli, la perpetuazione “del DNA tipico della specie e la sua variabilità infraspecifica”. Il mancato esercizio della cura parentale; l’inadempimento del dovere di riproduzione; la mancanza di cooperazione nella acquisizione del cibo e nella difesa del gruppo comporterebbero inevitabilmente la fine dell’intero aggregato sociale.
È in queste ancestrali forme di aggregazione, con la conseguente assegnazione dei ruoli, che vanno ricercate le basi stesse della preminenza e talvolta del dominio dell’uomo sulla donna. Una vera e propria gerarchizzazione dei rapporti che comporta la valorizzazione dei compiti affidati ai maschi: in particolare sullo “scarto tecnologico tra uomini e donne”, avendo i primi “il monopolio degli strumenti-armi, della lavorazione delle materie prime; gli uomini hanno il controllo dei mezzi-chiave di produzione (attrezzi, tecniche, terra, capitali, manodopera) e di quelli di difesa e di violenza, da cui deriva il dominio dell’organizzazione simbolica e politica” (Mathieu, 2006). E quindi la subordinazione della donna, entro la quale possono manifestarsi le più diverse forme di violenza.
L’ipotesi antropologica si pone quindi l’obiettivo di ricostruire storicamente il motivo per cui il fenomeno della violenza alle donne nasce, esattamente come lo psicoanalista utilizza la storia di vita del suo paziente per capire il problema che lo affligge oggi.
Il Prof. Serino affronterà un excursus storico per spiegare come tutte le società hanno sempre assegnato ai due sessi due funzioni diverse nel corpo sociale: la riproduzione ed il lavoro (Mathieu, voce sesso in Izard e Bonte, 2006), fino ad arrivare ai giorni d’oggi, alla subordinazione della donna rispetto all’uomo, alla rivoluzione sessuale ed al femminismo, fino alla storia odierna ed agli aspetti morali e giuridici della violenza nel 2015.

L’inconscio sociale dell’economia

di Irene Battaglini 12 aprile 2015

leggi in pdf recensione a Silverio Zanobetti, Per un’economia perversa

9788884102171Silverio Zanobetti
Per un’economia perversa
Firenze: Clinamen, 2015
pp. 132, euro 9,80
ISBN 978-88-8410-217-1

 

 

 

 

…Se realmente si troverà un giorno la formula di tutte le nostre voglie e capricci, cioè da cosa dipendano, per quali leggi esattamente si determinino, come esattamente si diffondano, dove tendano nel tal caso e nell’altro, eccetera, eccetera, cioè la vera formula matematica, allora l’uomo, forse, smetterà subito di volere, anzi smetterà sicuramente. Ma che gusto c’è a volere secondo una tabella? E non basta: subito si trasformerà da uomo in puntina d’organetto o qualcosa del genere; perché cos’è l’uomo senza desideri, senza libertà e senza volontà, se non una puntina nel cilindro di un organetto?
F. DOSTOEVSKIJ, Memorie del sottosuolo, 1864

Per un’economia perversa, il primo lavoro firmato da Silverio Zanobetti uscito da poco per Clinamen, si inscrive in quel rango di opere, rare a causa della loro struttura complessa e che richiedono una forma mentis in grado di abbracciare i campi del sapere più diversi senza smarrire la bussola del proprio sentiero intellettuale, caratterizzate da una personalità liminale tra un potente desiderio di contemporaneità – connotato dalla commistione interdisciplinare che si “affresca” in quadri di grande bellezza estetica, di linguaggio e di orizzonti – e un ricorso restauratore e categorizzante alla tradizione filosofica del ‘900, a dichiarare una lunga evidenza di studi approfonditi e chiarificatori. Questo da un punto di vista metodologico.
Ma a farci guidare dal taglio lucido dell’autore, rischiamo di non accorgerci di scivolare dentro la sua storia: l’approccio di Zanobetti all’economia è sia uno studio raffinato, sia una necessità di esprimere il proprio sentire, relativamente ad un conflitto forse più antico, come se il suo cuore di giovane autore fosse intrappolato dalla coazione a spiegare che rapporto possa intercorrere tra l’uomo e l’economia contemporanea, in termini filosofici.
L’autore si domanda che cosa spinga l’uomo a viversi un carattere “mercantile”, come avrebbe detto Erich Fromm, declinato secondo le trame della modernità, che dilagano ben oltre le borse on line, passando dall’empowerment (pensiamo ai manuali di self change) al deep web (in cui, oltre ai file riservati e ai documenti di interesse specifico, si consuma il commercio oscuro delle perversioni agite attraverso la mercificazione del corpo, scenario di emozioni proibite ma soprattutto sadiche e regressive).
La riflessione di Zanobetti si distribuisce in quattro parti: la premessa, e tre capitoli, ciascuno dotato di una sua propria caratura. Il primo, Biopolitica e neoliberalismo; il secondo, Economia simbolica e mercato identitario; il terzo, dedicato a Pierre Klossowski, Economia perversa e moneta vivente.
Ai nostri lettori interesserà molto la cornice psicoanalitica di riferimento. Zanobetti indaga come l’“ideologia neoliberale” si snodi nella vita dell’uomo contemporaneo, attraverso un duplice corno di riflessioni. Da una parte sembra stare l’uomo “psicobiologico”, pulsionale, animato da antichi bisogni che si determinano nella sua atavica “mancanza”, nella sua psicologia desiderante e che lo spingono a porre le cose in relazione sul piano dell’utilità; e dall’altro sta l’uomo filosofico, con il suo richiamo alle cose messe in rapporto con l’esigenza di dare loro un senso, di dare all’azione e al sentire umano una coerenza, una possibilità di uscire dallo scacco degli istinti. Sullo sfondo sta Freud e tutta la psicoanalisi, chiamata a discutere allo stesso tavolo: infatti il termine stesso “pulsionale” o “impulsionale” deriva la sua diffusione da Trieb (pulsione), «processo dinamico consistente in una spinta (carica energetica, fattore di motricità) che fa tendere l’organismo verso una meta. Secondo Freud, una pulsione ha la sua fonte in un eccitamento somatico (stato di tensione); la sua meta è di sopprimere lo stato di tensione che regna nella fonte pulsionale; la pulsione può raggiungere la sua meta nell’oggetto o grazie a esso»1. Zanobetti infatti utilizza il termine proprio nell’accezione biologistica, ad esempio quando dice: «Il lavoro freudiano era stato quello di legare l’economico all’intensità libidinale: Pierre Klossowski è avanzato lungo queste orme fino a postulare un’equivalenza tra economia impulsionale ed economia di mercato» (2015, p. 11).
Ma quali sono i fenomeni psichici che spingono l’uomo contemporaneo dell’Occidente a focalizzarsi sui propri bisogni, sebbene al livello primario, quello della mera sopravvivenza fisica, questi siano già soddisfatti? «Alienazione, ansia, solitudine, paura dei sentimenti profondi, carenza di iniziativa e mancanza di gioia. Questi sintomi hanno assunto il ruolo centrale occupato, al tempo di Freud, dalla repressione sessuale»2, sostiene R. Funk (1992), l’ultimo grande esegeta di Erich Fromm.
Se le pulsioni, nella concezione freudiana, sarebbero sessuali ed aggressive e tutta la teoria elaborata da Freud per spiegare le origini e il funzionamento dello psichismo umano, sembri basata su una progressiva trasformazione delle spinte sessuale o aggressive (sebbene oggi non sia più possibile ricorrere alla teoria freudiana allo stato puro e la psicoanalisi sia evoluta in una direzione relazione e interpersonale), Erich Fromm sostiene che «prima di ogni altra cosa l’uomo è una creatura sociale»3. Prosegue Rainer Funk, riproponendo Fromm: «La psicoanalisi deve studiare la “patologia delle normalità”, quella lieve schizofrenia cronica prodotta dalla società cibernetizzata, tecnologica, … » 4.
Nel libro si riflette sul ruolo dello stato nell’economia, e di come questi due “sistemi” umani siano parzialmente sovrapposti; ma anche di come questa interconnessione influenzi la condotta del singolo e delle masse, ad esempio quando Zanobetti tenta di superare con Baudrillard il pulsionale freudiano allo stato puro della sua concezione, introducendo un costrutto cognitivo, l’attribuzione valoriale: (pp. 40-41)

Abbiamo visto grazie a Freud e Groddeck che la pulsione di morte è interna allo stesso principio di piacere e che il movimento pulsionale tenderebbe al ritorno ad un livello inorganico. Ignorando ciò la “scienza” economica non può che fraintendere gli smarrimenti raccontati da Baudrillard nell’ultimo capitolo di Per una critica dell’economia politica del segno. Baudrillard fa un primo esempio: un gruppo violento durante un’azione di protesta neutralizza il servizio d’ordine di un grande magazzino; i ribelli invitano le persone a prendere tutto ciò che vogliono senza pagare. Ma le persone non sanno cosa prendere, si limitano a rubare qualche oggetto da poco ed escono dal grande magazzino. Altro esempio: alcuni vincitori milionari di una qualche lotteria provano panico di fronte alla disponibilità assoluta di tempo libero. Senza dimenticare i casi di atleti che ad un passo dalla vittoria vengono posseduti dalla nota “paura di vincere”. Questi smarrimenti non possono essere spiegati semplicemente tramite la psicologia del profondo. Nel caso del magazzino, spiega Baudrillard, nel momento in cui si neutralizza il valore di scambio scompare anche il valore d’uso. Svaniscono tutti i bisogni e la razionalità in cui l’uomo, secondo la “scienza economica”, dovrebbe consistere. Quando il valore di scambio viene neutralizzato in un processo di dono e gratuità e di dépense anche il valore d’uso diventa inafferrabile. Questo accade perché ciò che non è mediato dalla competizione nell’ambito della posizione sociale diventa privo di valore. Non c’è appropriazione spontanea dei beni del grande magazzino perché al di fuori della logica del valore l’uomo non ha “bisogno” di niente. Prendere non è mai stato sufficiente per il piacere: occorre ricevere, dare, restituire e distruggere in modo che i consumatori non siano esclusi dalla logica dello scambio simbolico. Questi esempi mostrano una specie di controeconomia misteriosa del rifiuto di vincere, una sofferenza nel godere in cui si esprime la pulsione di morte. Il rifiuto è sempre un rifiuto agli altri, e quindi in quel rifiuto di vincere, nel rifiuto di rubare i beni dei grandi magazzini, vive sottotraccia la virtualità simbolica dello scambio. Il desiderio, scrive Baudrillard, non vuole realizzarsi nella libertà, ma nella regola, non nella trasparenza di un contenuto di valore, ma nella opacità del codice del valore.

Qui sembra tornare in gioco proprio l’inconscio sociale di Erich Fromm. Il socio-analista di Francoforte sostiene5 :

È importante analizzare il moderno consumismo come un atteggiamento, o per meglio dire un tratto caratteriale. Non ha alcuna importanza cosa venga consumato: possiamo consumare cibo, bevande, televisione, libri, sigarette, quadri, musica e sessualità. Nell’atto del consumare, il soggetto assorbe avidamente l’oggetto del suo consumo e al tempo stesso ne viene assorbito. Gli oggetti del consumo perdono la loro qualità concreta, poiché non vengono concupiti in ragione di specifiche e reali realtà umane bensì di una onnipotente bramosia: l’avidità di avere e di usare. L’atteggiamento consumistico è un modo alienato di essere in contatto con il mondo, giacché l’uomo trasforma il mondo in un oggetto della sua avidità invece di interessarsene e di entrare in relazione con esso.

Se volessimo addurre una interpretazione oggettuale, potremmo spiegare come non abbia senso “divorare” un seno che non abbia latte, ma neppure un seno che abbia latte in sovrabbondanza: non stimolerebbe il desiderio di possedere la madre, la fonte di quel nettare pacificatore e gratificante, ed eccitante, immaginifico. Una pulsione senza desiderio sarebbe dunque un drive anti-evolutivo, una motivazione inutile, privata del suo stesso oggetto, poiché non insegnerebbe all’uomo le strategie necessarie al mantenimento del potere nell’ambito delle relazioni primarie e dunque la sua sopravvivenza nell’ambiente e alla madre.
Questo dispositivo di base si trasforma inevitabilmente in una perversione, quando l’uomo dal livello “simbolico” passa, nel suo comportamento, ad un livello “simbolizzato”: quando cioè trasforma ogni atto ed ogni gesto, ogni relazione, in una rappresentazione estrema delle sue pulsioni primarie. Quando costruisce un’economia che diventi un seno semivuoto, per poter sperimentare senza tregua il desiderio di appropriarsene, e creare quindi un sistema dotato di gerarchie asservite a questa potenziale supremazia, alimentando l’ideale di un uomo e di una donna self-made, capaci di organizzarsi per assecondare l’offerta di beni e servizi, secondo una spinta autoaffermativa connotata da una necrofilia sublimata. Questo innesca controrisposte che a loro volta costituiscono la polarizzazione del sistema. Pensiamo ad esempio alla deriva ortoressica cui assistiamo recentemente, senza entrare nella disquisizione etica. Psicoanaliticamente, si potrebbe dire che le nuove organizzazioni filoanimaliste costruiscono nuovi sistemi per dare vita ad un potere nuovo: il disprezzo dell’estrema simbolizzazione perversa che si estrinseca nel Gran Consumo di esseri viventi. Questo disprezzo tuttavia si trasforma in un eccesso di controtendenza, una sorta di apostasia cui segue la conversione, ad esempio, all’ideologia vegana: ma anche in quelle organizzazioni il potere e il desiderio non possono essere rimossi, trovano una loro nuova simbolizzazione, la terra diventa un seno talmente buono da rendere cattivo l’essere umano che intenda appropriarsene, come se la spinta mortale e quella di sopravvivenza si sovrapponessero, ingenerando un senso di colpa di cui il vegano si fa carico trasformandosi in eroe in cerca di espiazione per le colpe dei suoi simili.
In questa ottica, e non solo naturalmente, il libro di Silverio Zanobetti Per un’economia perversa può diventare un terreno per riaprire il confronto dialettico della psicoanalisi con la società: quella società che oggi non è neppure dei consumi di beni e di servizi, ma delle relazioni. Valga a titolo di esempio la questione della “moneta vivente”, elaborata attraverso l’analisi delle opere di Klossowski (Zanobetti, 2015, pp. 111-112):

Per capire come far diventare l’emozione voluttuosa un fattore economico nell’economia perversa di Klossowski è necessario far innanzitutto riferimento a Sade. L’emozione voluttuosa è sadianamente preliminare all’atto della procreazione e viene tenuta indefinitamente in sospeso tramite un prelevamento operato sull’istinto di propagazione. Tale sospensione implica un prelevamento della forza impulsionale che va a formare «la materia di un fantasma che l’emozione interpreta; e il fantasma assume qui il ruolo di oggetto fabbricato» [P. Klossowski, La moneta vivente, pp. 55-56]. Nell’industria ogni fenomeno umano è suscettibile di essere trattato quale materiale sfruttabile, assoggettabile alle variazioni di valore. Questo vale anche per l’emozione voluttuosa e per il suo potere di suggestione. Nel mondo dell’industria artigianale la rappresentazione dell’emozione voluttuosa si celebrava tramite la rarità di un quadro, di un libro o di uno spettacolo i quali regalavano un certo prestigio derivante dalla suggestione che emanavano gli oggetti stessi. Questo tipo di prestigio è quello a cui faceva riferimento Veblen. Ma nel regime industriale si assiste ad un passaggio importante: vengono standardizzati gli strumenti meccanizzati della suggestione. La suggestione, provocata attraverso stereotipi, si fa quasi gratuita in quanto il prototipo stesso è senza prezzo. Allora, scrive Klossowski, sarà la sensazione che si può provare a valere più dell’immagine suggerita. Si crea così la possibilità di uno sfruttamento massivo in quanto «la stereotipia della suggestione permette all’industria di intercettare la genesi dei fantasmi individuali per volgerli verso i suoi fini, per rimuoverli e disperderli nell’interesse stesso delle istituzioni» [P. Klossowski, La moneta vivente, p. 57].

Continua Zanobetti (2015, p. 127):

Cos’è una moneta vivente? Occorre dire che ciò che viene comprata è l’emozione voluttuosa generata dal fantasma impulsionale del compratore. «Il perverso può avere rapporti commerciali solo con quel corpo-simulacro il cui valore dipende dall’intensità del fantasma da cui egli è abitato»[] perché ciò di cui entra in possesso acquistando il corpo è unicamente il corpo in quanto simulacro ed equivalente del fantasma. Klossowski ipotizza che i produttori potrebbero esigere a titolo di pagamento degli oggetti di sensazione, degli esseri viventi. […] Il progresso tecnologico diminuisce la mano d’opera e aumenta il tempo disponibile per la sensazione, ma la sensazione non è certamente gratuita e il tempo guadagnato in questo modo è disponibile solo per altre produzioni. In teoria si può pagare il salario in oggetti viventi di sensazioni se questi diventano valutabili in quanto lavoro fornito; perché questo sia possibile è necessario che l’oggetto vivente costituisca preliminarmente un valore. Ma non vi è comune misura tra la sensazione che questo oggetto vivente procura in se stesso e la quantità di lavoro fornito. Nelle classiche regole economiche di scambio l’oggetto vivente, fonte di sensazione vale il suo costo di mantenimento. Per modificare la classica modalità di scambio non si può semplicemente pensare allo scambio di oggetti inerti rari, bensì ad un oggetto vivente, che procura sensazioni voluttuose e che, o sarà moneta e sopprimerà le funzione neutralizzanti del denaro, o fonderà il valore di scambio a partire dall’emozione procurata. Così come solitamente un attrezzo rappresenta un capitale investito, così nell’economia perversa di Klossowski un oggetto di sensazione diventa un attrezzo fonte vivente di una possibile emozione. A partire da tale emozione può divenire l’oggetto di un investimento. L’attenzione deve andare al fatto che nell’economia perversa klossowskiana non si commercializza la creatura vivente stessa ma l’emozione che provoca in un ipotetico consumatore.

In questo scenario, la relazione analitica può diventare uno degli ultimi baluardi di quella che Erich Fromm descrive come Authentisch leben, la vita autentica, nell’omonima opera mai tradotta in italiano (Freiburg: Herder Verlag, 2000)6.
L’uomo vive e sente come propri sentimenti, emozioni, pensieri. Ma sono proprio suoi o veicolati da fuori, attraverso l’ambiente? Probabilmente egli è autore, inconsapevolmente, di entrambe le cose.
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1 J. Laplanche e J. B. Pontalis, Enciclopedia della psicoanalisi, Laterza, 1993, pp. 458-561. Breve definizione di pulsione in Enciclopedia della psicoanalisi. Pulsione è un concetto sviluppato da Freud per dare una spiegazione dei moventi inconsapevoli che condizionano le condotte umane, in termini di processi inconsci.
La pulsione sarebbe l’eccitazione di tipo somatico che promuove i processi psichici, premendo sull’individuo e spingendolo a sviluppare quei comportamenti che permetterebbero una scarica della tensione provocata dalla spinta pulsionale.
Freud usò il termine Trieb (invece di Istinkt, istinto). Le pulsioni si svilupperebbero in maniera plastica, con un’economia idonea a dare soddisfazione ed a scaricare la carica di energia somatica ed avrebbero una origine biologica.
Nelle lingue neolatine il termine pulsione, non usato nel linguaggio comune, ha mantenuto nell’opinione corrente il connotato biologistico freudiano, nonostante questo non sia più mantenuto tra gli psicoanalisti. Nelle lingue anglosassoni il termine freudiano fu tradotto dapprima con “instinct”, ben presto con “drive” e più recentemente con “motivation”.

2 R. Funk, introduzione a E. Fromm (a cura di R. Funk), L’inconscio sociale: Alienazione idolatria, sadismo. Arnoldo Mondadori, 1992, pp. 5-6.

3 E. Fromm (a cura di R. Funk), L’inconscio sociale: Alienazione idolatria, sadismo. Arnoldo Mondadori, 1992.

4 R. Funk, introduzione a E. Fromm (a cura di R. Funk), L’inconscio sociale, Arnoldo Mondadori, 1992, pp. 5-6.

5 E. Fromm (a cura di R. Funk), L’inconscio sociale: Alienazione idolatria, sadismo. Arnoldo Mondadori, 1992, p. 117-118.

6 E. Fromm and R. Xirau (ed.), The Nature of Man. Readings selected, edited and furnished with at introduction by Erich Fromm and Ramon Xirau (1968b), New York (Macmillan) 1968. – The “Introduction” Erich Fromm appeared for the first time in German GA IX, pp 375-391, and was for the most part in E. Fromm, Authetisch Leben (2000b), Freiburg (Herder Verlag) 2000, pp 29-58, reprinted.

Culture mediterranee e dimensione donna: alcune (personali) considerazioni sul tema delicato della violenza

di Vinicio Serino            17 ottobre 2014

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Con questo intervento, ispirandomi anche a posizioni della antropologia funzionalista (cfr. i lavori di E. Leacock), cercherò di sfatare ovvero ridimensionare un mito: quello della “marginalità femminile” e quindi del presunto, ridotto o addirittura inesistente “potere” della donna nell’ambito delle passate culture mediterranee.
Paradossalmente, come d’altra parte avviene spesso nel corso della storia, la violenza esercitata ha, in qualche modo, funzionato da “levatrice” di “aliquid novi” che, nei caso specifici qui sotto riportati, anziché “schiacciare” il soggetto colpito ha prodotto l’effetto opposto. Dando luogo a quello che potrebbe essere definito modello culturale ad effetto inverso … Storie di donne che la violenza non ha affatto annientato ma che, anzi, ha contribuito ad innalzare al rango di modelli ideali, forti, condivisi seppure alternativi, ispirativi di comportamenti altrui, spesso divenuti, nel tempo, dominanti.
La Grande Madre, la generante
“Nell’Europa del Neolitico e in Asia Minore … nell’arco di tempo tra il 7000 ed il 3000 a. C.”, sostiene l’antropologa lituana M. Gimbutas, “ la devozione religiosa si rivolgeva alla ruota della vita e alla sua ciclica rotazione … il punto focale della religione comprendeva nascita, nutrimento, crescita, morte e rigenerazione, parallelamente alla coltivazione delle messi e all’allevamento degli animali. I popoli di questa era ritenevano imponderabili le forze naturali … e adoravano molte dee, o forse una sola dea in molte forme. La dea manifestava le sue innumerevoli forme attraverso varie fasi cicliche che vigilavano sul buon andamento di ogni cosa …” (Gimbutas, 2005).La donna, non l’uomo, era l’asse portante di questa società. Ma poi altri popoli, popoli guerrieri, imposero, secondo la Gimbutas, un nuovo ordine, quello della supremazia del maschio: non più, allora, maternità ma paternità; non più generazione, ma distruzione; non più amore ma violenza …
Penelope, la fedele ed astuta tessitrice
Penelope rappresenta bene l’idea di donna del mondo omerico. “… la saggia Penelope”, “donna bellissima” tra i pretendenti, straziata dal canto di Femio, che intona la storia (penosa) del ritorno degli Achei da Troia … Essa è il simbolo stesso della fedeltà coniugale. Ma nell’immaginario collettivo, per via della celebre tela, è diventata anche il simbolo della astuzia femminile, in grado di tener testa efficacemente ai maschi, opponendo la sua intelligenza costruttiva alla forza sciocca e brutale. “Allora di giorno la gran tela tesseva/ e la sfaceva la notte, con le fiaccole accanto … “ Così l’ha immortalata Omero nella sua Odissea.

Cornelia, l’educatrice
Haec ornamenta mea”: questi sono i miei gioielli, è la frase attribuita alla matrona romana figlia di Publio Cornelio Scipione l’Africano, il vincitore di Annibale, sposa del Tribuno della plebe Tiberio Sempronio Gracco e madre dei due tribuni della plebe, grandi riformatori della Repubblica romana, Tiberio e Gaio Sempronio Gracco. Tacito seppe cogliere bene , nel suo “Dialogus de oratoribus, la grandezza di questa donna che nel suo seno e nel suo grembo aveva educato quei due figli a grandi ideali, spingendoli coraggiosamente a riformare la società romana, anche al costo della propria vita.
Maria di Nazareth, Virgo et Mater
La Madonna dei cristiani, personaggio, come è noto, molto amato anche dalla cultura islamica – non ultimo per la pia tradizione che la vuole soggiornare, nella fase finale della sua vita terrena in Efeso, insieme con l’evangelista Giovanni – è, da due millenni, il simbolo mediterraneo della dolcezza dell’amore materno. Un amore che si coglie sempre, in ogni momento della sua esistenza, ma soprattutto nella struggente sofferenza subita durante la passione del figlio. Mater dolorosa et lacrimosa, sed semper suavis et dulcissima … Senza essere irriverente Maria rappresenta una sorta di “continuum” ideale con le storie narrate dalle antiche mitologie mediterranee della Grande Madre generante di ogni forma di vita …

Ipazia, la martire pagana
“ Quando ti vedo mi prostro davanti a te e alle tue parole, vedendo la casa astrale della Vergine,
infatti verso il cielo è rivolto ogni tuo atto Ipazia sacra, bellezza delle parole, astro incontaminato della sapiente cultura.”
Così canta, in uno dei suoi Epigrammi, il poeta Pallada di Alessandria (IV-V secolo d.C.) a proposito di Ipazia (da Upatos, il più elevato?), figlia del matematico alessandrino Teone, matematica ed astronoma lei stessa, nonché, capo della celebre Scuola Alessandrina, centro della ricerca medica e ascientifica, dal 393 dell’e.v. Perché, allora fu uccisa e fatta a pezzi da monaci Cristiani nel 415? Perché coltivava ancora il culto degli antichi dei? O perché, con la sua “tanta cultura”, rappresentava un (pericoloso) modello alternativo di donna?

Teodora, la politica
“… Non appena giunse all’adolescenza e fu matura, entrò nel novero delle attrici e divenne subito cortigiana, del tipo che gli antichi chiamavano ‘la truppa’. Non sapeva suonare flauto né arpa, né mai s’era provata nella danza; a chi capitava, ella poteva offrire solo la sua bellezza, prodigandosi con l’intero suo corpo.” In modo malevolo Procopio di Cesarea, storico della Corte Imperiale ed esponente della potente consorteria del Senato, illustra la giovinezza di Teodora (500- 548 e. v.) , destinata a diventare moglie e (ascoltata) consigliera dell’Imperatore Giustiniano … Fu lei che contribuì, in maniera decisiva, con la sua determinazione e con le sue arti di grande mediatrice, a mantenere l’unità dell’Impero in un’epoca di formidabili tensioni religiose.

Fatima, la madre dei Califfi
Fātima bint Muhammad, Fātima al-Zahrā, (Fātima la Luminosa) (Mecca 605, Mecca 633) fu la quarta e ultima figlia di Maometto. Sposò Alī ibn Abī Tālib cugino del profeta e quarto califfo “ortodosso“, nonchè primo imam per lo Sciismo. Fatima fu la sola, tra le figlie di Maometto, a generare una discendenza, con al-Hasan ibn Alī e al-Husayn ibn Alī.
In vita subì molti torti, come l’ affronto – mancato per l’intervento di Maometto – di un’altra moglie per suo marito Alī ibn Abī Ṭālib Alī.. Dovette anche affrontare l’opposizione del califfo Abū Bakr, per altro amico di Maometto, contrario a che lei, la figlia del Profeta,che incamerasse alcuni dei beni acquisiti dal padre nella prima fase della espansione islamica.
Fatima, colei che allatta, che dà il nutrimento, rimane una sorta di icona esemplare della sofferenza e della rassegnazione, elevata, da questo punto di vista, ad esempio della straordinaria fortezza d’animo del giusto: una (tranquilla) fortezza al femminile …
Sherazade, l’intrattenitrice
La vicenda dell’origine de “Le mille e una notte” è nota: ogni notte la bella Sherazade, andata sposa al re Shāhrīyār, lo intrattiene con una storia. In questo modo evita la morte perchè il sovrano, per vendicarsi del tradimento di una delle mogli, è uso uccidere sistematicamente le sue spose al termine della prima notte di nozze. Per mille e una notte Sherazade riuscirà nel suo intento, fino a quando il re, innamoratosi di lei, recederà dal suo insano proposito. Come in Penelope, sua ideale progenitrice, l’inventiva, la creatività, ma anche la pazienza, virtù molto comuni tra le donne, premiano. E salvano, la vita …

Beatrice, la Fede secondo Dante
Della Beatrice dantesca non si sa praticamente nulla. Se davvero non è ancora possibile identificarla con certezza con la figlia del banchiere fiorentino Folco Portinari e la sposa bambina di Simone de’ Bardi, a sua volta rampollo di una famiglia di grandi banchieri , è comunque fuori di ogni dubbio che seppe incidere, in maniera indelebile, sulla poesia e, soprattutto, sulla architettura filosofica di Dante. Dio è amore, ci dice appunto Dante, attraverso Beatrice : e per comprendere la natura di questo amore è necessario l’abbandono totale delle cose di questo mondo. Delle sue convenzioni, delle sue banalità, dei suoi pregiudizi, della sua vanagloria. Beatrice è la Fede, quella autentica, che innalza l’essere davvero libero alle vette del divino … Dagli occhi della mia donna si move / Un lume si gentil, / che dove appare / Si veggion cose ch’uom non può ritrare / Per loro altezza e per loro esser nuove … dice di lei Dante ne Le Rime. Quel lume è, appunto, la fede, come sapeva l’iconologo Cesare Ripa che rappresenta la prima delle virtù teologali con una donna recante nella mano destra una candela accesa, posta alla sommità di un cuore.
Caterina, l’innamorata di Cristo
“In altro non sta la pena nostra, se non in volere quello che non si può avere. “ “Nella amaritudine gusterai la dolcezza, e nella guerra la pace”. Sono due tra le affermazioni più significative della santa senese, poi diventata dottore della Chiesa romana e Patrona d’Italia e d’Europa.Una innamorata di Cristo che avrebbe, pesantemente, inciso sul grande corso della Storia degli uomini, convincendo il Papa a ritornare a Roma, dopo il tempo di Avignone … Ci riuscì con un “santo inganno” che servì a restituire il Pontefice alla sua domus naturale, la Sedes Petri romana.

Giovanna, la vergine guerriera
Vissuta in un periodo di immensi travagli – tra il 1412 ed il 1431 – indotta dalle voce di San Michele, di S. Caterina e di S. Margherita, Giovanna d’Arco, la Pulzella d’Orleans, si consacrò a Dio, facendo voto di castità. Quelle stesse voci le ingiunsero di correre in soccorso del delfino di Francia, Carlo, in guerra con gli inglesi ed i loro alleati borgognoni. In un clima di violenza, non sottostò alla violenza, ma impose alle sue truppe un modello di tipo monastico – forse ispirato a quello dei cavalieri Templari ? – vietando ogni saccheggio e prevaricazione; imponendo la preghiera quotidiana e la confessione; obbligando a mantenere con la popolazione civile un rapporto di collaborazione e non di rapina, come era consuetudine negli eserciti del tempo. Secondo i suoi persecutori per avere salva la vita non avrebbe dovuto riprendere le armi; né portare i capelli corti, come gli uomini ; né indossare vesti maschili. Ma lei rifiutò: e le fiamme del rogo la avvolsero, dopo essere stata riconosciuta come eretica, ad appena diciannove anni.

Artemisia, l’emancipatrice
Chiudo queste mie riflessioni con il caso di Artemisia Gentileschi, figlia ed allieva di Orazio, pittore caravaggesco presso cui condusse il proprio apprendistato. Era l’unico modo per imparare ed esercitare l’arte, essendo impedito, all’epoca, alle donne di svolgere lavori fuori della propria sfera domestica e tali da assegnar loro un qualche ruolo sociale. Salvo quello della cortigiana e/o della prostituta … Era stata troppo in anticipo sui tempi per poter presentarsi come un modello di riferimento per le donne della sua epoca: anche per questo – non solo per la sua avvenenza – fu stuprata dal pittore Agostino Tassi … E forse si vendicò idealmente con il suo “Giuditta uccide Oloferne” dove il volto del generale nemico degli ebrei sembrerebbe riprodurre proprio quello del suo violentatore …

Uno zodiaco al femminile
Ho giocato. Ma solo per raccogliere, da questo personale florilegio delle culture mediterranee, dodici fiori che simboleggiano altrettante peculiarità della condizione femminile. Ossia:
La maternità naturale, propria della Grande Madre;
L’astuzia “positiva”, propria della fedele Penelope;
La capacità educativa, propria della romana Cornelia,
La disponibilità al sacrificio di sé, propria di Maria, Vergine e Madre;
La libertà di affermare posizioni anche scomode e pericolose, propria di Ipazia, la martire pagana;
L’intelligenza politica , propria di Teodora imperatrice;
La forza d’animo, propria di Fatima, diletta figlia del Profeta;
L’inventiva creativa, propria di Sherazade, la giovane intrattenitrice;
L’abbandono di se, proprio della Beatrice dantesca;
La forza persuasiva, propria di Caterina, la mistica di Siena;
Il coraggio cavalleresco, proprio di Giovanna, vergine guerriera;
La propensione emancipatrice, propria di Artemisia, la dipintora.
– Uno zodiaco fatto di dodici, straordinarie gemme …

In fine
Che la bellezza irradi e compia i nostri lavori … Bellezza è donna …

BIBLIOGRAFIA
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F. M. Pontani ( a cura di), Antologia Palatina, Libro IX, Torino 1979;
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Muhammad ibn Jarīr al-Tabarī, History of the Prophets and Kings, V.2, Albany, NY, 1987-1996;
P. Cornelio Tacito, Dialogus de oratoribus, Napoli 2009.

Morte, buone morti, cattive morti nel Medioevo di Siena

di Vinicio Serino                                       11 novembre 2013

Antropologia

pdf Morte, buone morti, cattive morti nel Medioevo di Siena

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Normalità della morte e vita brevis

“La prima scoperta dell’uomo è la morte. Non la morte astratta del Medioevo, passaggio verso l’al di là. Ma la morte incarnata: il Medioevo volgendo al suo termine inciampa nel cadavere” (Le Goff, 1981). Ciò avviene proprio quando, nel così detto “Autunno del Medioevo”, si è ormai formata una società proto-borghese e proto-capitalista, molto incline alle cose del mondo e quindi intrinsecamente umanista. Una società nella quale, pur nella consapevolezza di una dimensione spirituale post mortem, cresce comunque il rimpianto per la vita. Che si manifesta appunto quando si è consapevoli di lasciare in questa (già) valle di lacrime, molte cose/persone, che hanno dato piacere e godimento, come sembra suggerire, con la forza espressiva della propria potente pittura, Ambrogio Lorenzetti. Quando, nel suo “Effetti del Buon Governo in città” descrive uno spazio pieno di uomini e di donne impegnati nelle attività più disparate – ci sono calzolai, muratori, filatrici, persino un magister con la sua classe – al cospetto dei quali nove fanciulle (allusione alle Muse) danzano leggiadramente al tempo battuto, con un tamburello, dalla decima (madonna Armonia?).

E ciò nonostante che “la durata della vita sia comunque bassa – specie se limitata alle aspettative del nostro tempo – tanto che di rado supera i trenta anni per le donne, mentre a malapena tocca i quarantacinque per gli uomini. Pochi i vecchi i quali, superati i quarantacinque anni di età, durante i quali si è già verificata una rigorosissima selezione naturale, hanno una qualche speranza di vita più lunga ….Un quarantenne, dunque, nel Medio-evo è già ben oltre la maturità, un cinquantenne è un vecchio” (Gatto, 2003). Anche a Siena questa è la norma per la concomitanza di una serie di eventi capaci di produrre rilevanti selezioni quali morti infantili, guerre, pestilenze, dissenterie, carestie e cambi climatici (Turrini,  2003).

La morte è (anche)immagine

Un nuovo modo di intendere la morte si percepisce, a partire dal secondo decennio del XIV secolo, attraverso il forte intensificarsi della sua iconografia (Gianni, 2003). Il che è sociologicamente spiegabile con la nostalgia per una vita che, almeno per le classi più elevate, le stesse che “commettono” le immagini, merita comunque di essere vissuta. Lo sapeva bene Cecco Angiolieri quando scriveva: “tre cose solamente mi so’in grado, /le quali posso non ben ben fornire: ciò è la donna, la taverna e ‘l dado; /queste mi fanno ‘l cuor lieto sentire.”

D’altra parte, già a partire del XIII, questa gaudente filosofia della vita anima gran parte dei Carmina burana, una serie di composizioni, verosimilmente tutte cantate contenute nel c.d. Codex Latinus Monacensis proveniente dal convento di Benediktbeuern (l’antica Bura Sancti Benedicti, nei pressi di Bad Tölz in Baviera), dove molto presenti sono le tematiche amorose, bacchiche, conviviali e satiriche. Erano opera dei “Clerici vagantes” o goliardi, dal nome del loro mitico capostipite, Golia, che si spostavano da una città all’altra. Forse il più noto tra questi carmina è quello dedicato alla Fortuna, “imperatrix mundi”, cangiante come la luna che cresce o cala …

L’idea della morte ed i suoi tanti volti

Quello espresso da Cecco e, almeno in parte, dai Clerici vagantes, era un ideale “di “basso godere”, che certo mal si conciliava col misticismo di Bernardo di Chiaravalle o la profondità di sapere di Bonaventura di Bagnoregio, il Doctor Seraphicus. Eppure l’idea dissacrante di vivere nel mondo e per il modo era sempre più diffusa nella Res publica Christiana, dopo il transito del temibilissimo anno Mille: Mille e non più Mille. Ma l’idea della morte – molto spesso l’ossessione della morte – era pur sempre presente e, con l’ annus horribilis 1348, l’anno della terribile pandemia di peste, le rappresentazioni iconografiche di quell’inevitabile evento si intensificheranno, mentre al senso del rimpianto per i piaceri perduti si aggiungerà l’orrore per la tremenda, collettiva moria.

Questo “rimpianto” per i piaceri perduti con la fine della vita spiega, probabilmente, non solo il senso di “horror” che emana dalle raffigurazioni della morte ma anche la quantità di “declinazioni” di questo horror. La morte è uno scheletro, il che ci illumina su come sarà il nostro corpo “dopo”, secondo il modello allegorico del “Contrasto tra tre vivi e tre morti” forse rappresentato, per la prima volta, nel  Cattedrale di Santa Maria Assunta, ad Atri, in Abruzzo, a metà del XIII secolo. I tre gentiluomini, che si apprestano alla caccia col falcone, incontrano tre scheletri che li rimproverano per la loro spensieratezza e li ammoniscono sulla ineluttabilità della morte.

Nei “Documenti d’Amore” di Francesco da Barberino (a. 1314), la morte è un mostro villoso, con tre facce e quattro braccia che, con due archi, lancia le sue micidiali frecce, tre per ciascun arco. In mezzo,  una donna colpita da due saette  sta per cadere: dietro a essa è Amore alato, diviso in lungo per metà e mentre la metà sinistra è intera, la destra è spezzata in più parti. E’ evidente – ma difficilmente interpretabile – il significato allegorico della rappresentazione che, per alcuni, sarebbe un’allusione alla celebre Setta iniziatica dei Fedeli d’ Amore di cui avrebbe fatto parte anche Dante (Valli, 1994). Per altro il messaggio potrebbe anche essere inteso che mors non amor omnia vincit

La morte è anche una danzatrice che guida un singolare ballo nel quale si uniscono scheletri con i diversi rappresentanti della articolata società basso medievale, contadini, artigiani, prelati e cavalieri: è questa la danza macabra, denominazione che, forse, serve a rievocare il sacrificio dei sette fratelli Maccabei, giustiziati insieme alla loro madre sotto il regno di Antioco Epifane per aver osservato la propria fede nel Signore. Ma che potrebbe anche rimandare alla parola siriaca maqabreu, seppellitore, a sua volta da connettere con maqbar, cimitero. La più antica rappresentazione iconografica della penisola, risalente al 1485, si trova nell’Oratorio dei Disciplinati di Clusone, nel bergamasco.

Nel territorio della Repubblica di Siena la  morte è “cattiva morte”, come nell’opera di Biagio di Goro Ghezzi nella Chiesa di san Michele Arcangelo in Paganico. E’ effigiata come una donna terribile (una strega ?), a cavallo di un destriero nero, montato a pelo; porta, legata alla cintura, la terribile falce, mentre dal suo arco micidiale lancia una acuminata freccia. Sopra di lei Cristo che ammonisce: “ O tu che leggi pon chura ai colpi di chostei/c hocise me che so signior di lei”.  Persino il Figlio di Dio ha dovuto soggiacere alla tremenda legge di quella orribile creatura …

Nella stessa Chiesa, Goro ha rappresentato San Michele nella sua funzione di pesatore delle anime secondo una impostazione simbolica che rammenta la psicostasia egizia. Alla destra dell’Arcangelo (la sinistra per chi guarda) la Vergine intercede per le anime del Purgatorio, essendo ormai stata fissata la tripartizione dei mondi dell’al di là (ved. Infra). Alla sinistra dell’Arcangelo un demone (o una diavolessa) emaciato e con le ali di pipistrello, accoglie, nel suo regno tenebroso, l’anima (nuda) di una  giovane donna.

Morte, ritualità della morte e mondi del post mortem

A partire dal XIII secolo, quando il processo di formazione della nuova società medievale comincia a completarsi, socialmente ed antropologicamente, con il ruolo crescente della borghesia cittadina, in molte città italiane si vanno stabilmente delineando nuove modalità rituali che, tra l’altro, comportano la fine delle “vecchie lamentazioni funebri dell’antichità” e l’avvento di “un complesso cerimoniale religioso, con la conseguenza di messe di suffragio, richieste di indulgenza, accensioni di ceri e anche lasciti di beneficenza per la salvezza dell’anima ” (Turrini, 2003). L’esempio di Siena è, al riguardo, molto illuminante.

Si tratta dunque di un vero e proprio processo di razionalizzazione delle pratiche rituali, accompagnato da precise disposizioni del de cuius sulla destinazione del proprio patrimonio, in perfetta coerenza con le tendenze di una società borghese nella quale, grazie alla crescente formazione di ricchezza mobile – il denaro, sostituto della ricchezza immobile terriera tipica degli antichi feudatari – ci si può anche salvare in articulo mortis, praticando quella che J. Chifffoleau definisce “contabilità dell’anima”.

Ovviamente per il buon Cristiano la morte non è affatto la fine. Ed un aspetto innovativo relativo al “dopo” è dato dalla introduzione di una nuova dimensione, intermedia tra Inferno e Paradiso, il Purgatorio. Già nell’Antico Testamento se ne adombrava l’idea. Lo si ricava dall’episodio, contenuto in Maccabei II, dei soldati di Giuda uccisi in battaglia e trovati in possesso di “cose consacrate agli idoli”. Allora, continua il testo sacro, “ricorsero alla preghiera, supplicando che il peccato commesso fosse pienamente perdonato …. Perché se (Giuda) non avesse avuto ferma fiducia che i caduti sarebbero risuscitati, sarebbe stato superfluo e vano pregare per i morti. Ma se egli considerava la magnifica ricompensa riservata a coloro che si addormentano nella morte con sentimenti di pietà, la sua considerazione era santa e devota. Perciò egli fece offrire il sacrificio espiatorio per i morti, perché fossero assolti dal peccato …” (Maccabei II, XII, 40-46).

Molti secoli dopo Agostino d’Ippona, nel suo “De Civitate Dei”, parlerà di un focus purgatorius, tema  che ritornerà poi con Beda il Venerabile, Bernardo di Chiaravalle, Piero Lombardo, e molti altri. Ma è nel secolo  XIII secolo che, per opera di grandi teologi come Alberto Magno, Tommaso d’Aquino, Bonaventura da Bagnoregio, si forma compiutamente l’idea di un “luogo” dove è temporaneamente possibile la purificazione dei peccati per accedere quindi alla definitiva e beatifica visione di Dio.

Il II° Concilio di Lione del 1274 sanzionerà definitivamente questa importante innovazione della Chiesa affermando solennemente che “le anime sono purificate dopo la morte con pene che lavano”. Il Giubileo del 1300, indetto da papa Bonifacio VIII, poi, svilupperà ulteriormente l’idea del suffragio con la bolla Antiquorum habet fida relatio: ogni cento anni, chiunque visiterà le tombe degli Apostoli, per quindici giorni, godrà della remissione totale di tutte le pene che avrebbe dovuto scontare in terra o in Purgatorio. L’indulgenza vale anche per quelli morti durante il viaggio.   Alla costruzione di questo luogo – non luogo molto avevano contribuito le tante storie di anime che chiedevano preghiere per la propria salute riferite dai viaggiatori nell’al di là, di cui Dante è il più noto …

Per J. Le Goff l’idea di Purgatorio (Le Goff,1982) si afferma in parallelo con l’ascesa della borghesia produttiva, grande manipolatrice e dispensatrice di denaro. Una vera e propria classe intermedia che si pone tra  i chierici ed i nobili cavalieri da una parte e la massa damnationis – in terra – dei contadini e delle miserabili plebi urbane dall’altra. Si viene così formando una nuova visione del mondo secondo la quale, nonostante il peccato, è comunque possibile il riscatto e quindi, la redenzione attraverso la purificazione espiatrice, agevolata dall’azione dei viventi. La Chiesa visibile era l’unica istituzione che, con la forza delle preghiere e della messa, ma anche attraverso le indulgenze – a pagamento … – poteva spingere l’anima verso la beatifica visione dell’Eterno. I ricchi borghesi della Siena del ‘300 – come d’altra parte quelli di molti altri liberi comuni – faranno ampio ricorso a questa (pia) possibilità.

Per l’onore di Giovanni d’Azzo

Per altro la morte era anche occasione di esibizione di ricchezza e di potenza di ceto. Illuminante quanto avviene a Siena nell’anno del Signore 1390, quando Giovanni d’Azzo, nobile e cavaliere, ebbe la sua fastosa cerimonia funebre “… fecelisi grandissimo onore; in prima el suo corpo ebbe duecentodieci doppieri legati nel castello di legname … e arsero mentre che fece tutto l’ufficio. Vestì il Comune quattro cavalli con la balzana e con le bandiere e l’arme del popolo,e anco vi si vestie sessanta uomini a bruno. Fue portato in una bara ad alto coperta d’un bellissimo drappo d’oro; e sopra al corpo uno padiglione di drappo d’oro foderato d’armellino …”I doppieri erano torce di cera, molto utilizzati nelle case dei più abbienti:  E nelle case entrato, fatto pianamente aprir la camera nella qual sapeva che dormiva la giovane, in quella con un gran doppiere acceso innanzi se n’entrò” racconta G. Boccaccio nella novella VI°  della V° giornata. La pelle di armellino, ossia ermellino, diventa di un bianco candido di inverno, simbolicamente rimandando alla idea di purezza … Una delle opere d’arte più famose, opera di Leonardo, “La dama con l’ermellino”, rappresenta appunto una splendida donna, poi identificata con Cecilia Gallerani – la cui famiglia, emigrata a Milano, era di origine senese – dama della corte degli Sforza, amante di Ludovico il Moro. La splendida donna reca in braccio un candido ermellino, forse per alludere all’Ordine dell’Ermellino che il re di Napoli aveva conferito al Duca di Milano.

“ … el detto padiglione” continua la cronaca di quel fastoso funerale,  “portava in quattro stagiuoli cavalieri e grandi cittadini di Siena , e fur vestiti vinti cavagli a bruno con le bandiere di sua arme … e uno uomo armato a cavallo di tutte le sue armi e barbuta , spada nuda e speroni, e altre armadure le quali tutte rimasero al Duomo … Anco a detta sepoltura furono tutti e’ Priori di palazzo e furonvi tutti frati e preti delle regule di Siena e di chiesa parrocchiali; e furo avvisati tra preti e frati e monaci intorno a seicento…” Un corteo funebre degno di un monarca, per il quale le note – e teoricamente severe – disposizioni suntuarie del Comune di Siena non trovarono applicazione: rileva la solennità della cerimonia con l’uomo a cavallo che, coperto di barbuta, cioè dell’elmo, ricorda agli astanti le virtù cavalleresche del defunto.

Honor mortis (e non solo)

Eppure la morte, ossia il trattamento del morto, è sottoposto ad una disciplina molto precisa, a Siena, come in molte altre città comunali. Si tratta di disposizioni oltre che circostanziate anche particolarmente severe,  sostanzialmente motivate da diverse esigenze:

a)     il divieto dell’uso di certi colori come il rosso, il verde e l’azzurro, per le vesti dei partecipanti, con l’imposizione del nero per uniformare, per quanto possibile, la cerimonia di commiato, evitando ostentazioni di ceto che, in ogni città medievale piena di divisioni, di fazioni, di “Monti”, sarebbero potenziali fonti di dissenso verso il (precario) potere costituito;

b)    il divieto di assembramenti, col “contingentamento” del numero dei partecipanti alle esequie, chiara misura di prevenzione di ordine pubblico, altro nervo scoperto nell’ambito delle rissose comunità cittadine del tempo;

c)     il divieto di partecipazione delle donne al corteo funebre in coerenza con una società (almeno relativamente ai tempi) sessuofobica, salvo che non si tratti delle esequie di una defunta, nel qual caso scatta sempre il meccanismo del (rigido) “contingentamento” (Turrini, 2003);

d)    il divieto del “bociarerium”, ossia delle manifestazioni di dolore esteriorizzate, accompagnate da pratiche come la lacerazione delle vesti o lo strappo dei capelli, dal momento che tali forme di disperazione sono incompatibili con la credenza in una vita eterna post mortem.

Il senso di tutte queste prescrizioni va ricercato nell’impegno delle autorità ad assicurare comunque, specie in caso di manifestazioni coinvolgenti più persone, una rassicurante condizione di normalità …

Morte ad omicidi e spie

Una delle espressioni pubbliche della morte è quella relativa alla sua somministrazione come pena per crimini gravissimi. Nelle città medievali – e Siena non costituisce affatto un’eccezione – attiene a reati molto gravi, come l’omicidio considerato ”Horrido e grande peccato”, perché priva dalla dimensione terrena una creatura fatta ad immagine dell’Eterno. Questo tremendo delitto non ha altra pena che quella della decapitazione: “… punisscase in ella pena del capo.” La ratio di questa disposizione sta nella c.d. “legge del contrappasso”: ogni delitto va colpito con una sanzione comminata secondo il principio dell’ analogia, deve cioè essere “coerente” con la colpa commessa. E la pena deve contenere un messaggio, un insegnamento facilmente comprensibile e, al tempo stesso, di forte valenza pedagogica di cui va immediatamente apprezzata la funzione dissuasiva.

La “spiccatura” della testa, dunque, oltre a valere come punizione per il reo esprime anche una propria valenza simbolica in quanto si ritiene che all’interno del cranio  si trovi il principio attivo dell’essere, in coerenza con le credenze proprie delle popolazioni del nord – i Galli, i Celti – che consideravano uccisi i propri nemici solo se ne avevano spiccato la testa. Inoltre, presso quelle popolazioni, si pensava che la  (macabra) acquisizione delle teste mozzate conferisse al vincitore la forza ed il coraggio del guerriero vinto (Chevalier e Gheerbrant, 1989). Notizie in tal senso provengono da Tito Livio quando racconta della cocente sconfitta subita dalle legioni romane guidate da Postumio Albino contro le tribù celtiche dell’Appennino durante la II° Guerra Punica. Qui, nella foresta di Litana, i barbari con uno stratagemma ebbero ragione dei Romani. Lo stesso Postumio cadde e la sua testa tagliata venne portata dai Boi nel loro tempio, considerato lo spazio più sacro. “Ripulita la testa”, racconta Tito Livio, “come è loro costume ornarono il teschio con un cerchio d’oro, e questo era per loro un vaso sacro con cui libare alle solennità e allo stesso tempo una coppa per i pontefici e per i sacerdoti del tempio …” (Tito Livio, Historiae).

La stessa pena della decapitazione viene riservata, nell’anno del Signore 1375, a Nicolò di Tuldo, un giovane gentiluomo perugino accusato di congiura e spionaggio a danno della Repubblica di Siena. Sembra sia stato condannato ingiustamente e che solo grazie a S. Caterina abbia deciso di richiedere il conforto religioso.  In una sua lettera a Frate Raimondo da Capua Caterina descrive le ultime ore di Nicolò che invita la Santa a non abbandonarlo. ” Io sentivo uno giubilo” dice Caterina ”uno odore del sangue suo, e non era senza l’odore del mio, sentendo el timor suo, dissi: ‘Confòrtati, fratello mio dolce, chè tosto giognaremo alle nozze. Tu n’anderai bagnato nel sangue dolce del Figliuolo di Dio, col dolce nome di Gesù, el quale non voglio che t’esca dalla memoria, e io t’aspetterò al luogo della giustizia …’ Poi egli giunse come uno agnello mansueto … Posesi giù con grande mansuetudine; e io gli distesi il collo  … e rammentalli il sangue dell’agnello. La bocca sua non diceva se no Gesù, e, Catarina. E così dicendo ricevetti il capo nella mani mie … Riposto che fu l’anima mia si riposò in pace e in quiete, in tanto odore di sangue, che io non potevo sostenere di levarmi il sangue, che mi era venuto addosso, di lui” (Epistolario, 1940). L’odore del sangue è l’odore della vita che sta finendo e che impregna, indelebile, il corpo della santa.

Dunque nel mondo medievale la testa mozza possiede una vis evocativa straordinaria non solo rappresentativa della supremazia esercitata su qualcuno, ma anche come immagine simbolica ricollegabile all’idea stessa di giustizia. Lo sapeva bene Ambrogio Lorenzetti quando, nel Buon Governo, raffigurava la sua Giustizia , posta accanto alla Temperanza, con una spada nella mano destra, una corona nella sinistra e, appunto,una testa mozza in grembo. A rafforzare ulteriormente il senso del rapporto con la giustizia, ai piedi della virtus un gruppo di cavalieri e di armigeri appiedati recano, al cospetto del Bene Comune, dei malfattori saldamente legati.

Morte ai raptores

Un altro reato particolarmente grave  contemplato – e pesantemente sanzionato – dagli Statuti delle città medievali è la rapina. La figura del raptor è assai spesso presente e talora manifesta aspetti inquietanti. Gregorio VII, l’autore del Dictatus papae, chiama i cavalieri del suo tempo, noti per la loro brutalità, raptores  ossia predoni. E li invita alla conversio: “Nunc fiant Christi milites, qui dudum extiternat raptores”. Mettano dunque le proprie armi e la propria abilità guerriera al servizio di una buona causa – che sarà la liberazione del Sepolcro di Cristo – abbandonando quella malefica, violenta pratica che ha solo una ricompensa, la morte. Da queste parti della Toscana il raptor più noto fu sicuramente Ghino di Tacco, immortalato in una celebre novella di Boccaccio per aver sequestrato l’Abate di Clugny.

Anche per questo delitto la pena prevista è la morte: ma con una variante rispetto all’omicidio. Viene comminata per impiccagione: “…empicchase cum laccio per la gola in elle forche si et in tal forma che moga e l’annima se sepera dal corpo”, è scritto nello Statuto di Radicofani, il nido di Ghino. Molti anni fa, occupandosi della valenza simbolica della impiccagione, uno studioso della grandezza di Furio Jesi evidenziava come e quanto, dal punto di vista della mitologia dell’area mediterranea questa tipologia di pena – talora utilizzata anche in cerimonie iniziatiche in qualche modo connesse col culto degli alberi – andasse ” considerata per la sua capacità di significare il passaggio dalla condizione terrestre all’alterità espressa dall’aria …” (Jesi, 1989)

Per altro, questa di Jesi appare come una interpretazione, dotta, sottile. Mentre, dal punto di vista simbolico, doveva essere più facilmente colta la legge del contrappasso che, appunto, trovava una puntuale applicazione anche nel supplizio riservato al rapinatore. La valenza simbolica del laccio, da questo punto, è esplicita. Chi tiene legato a sé un altro, appunto attraverso un laccio, esercita su di lui un potere. Un potere che ne condiziona lo status. E’ arcinoto il potere che Cristo ha conferito a Pietro, il principe degli Apostoli:”E io dico a te, che tu sei Pietro e sopra questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non prevarranno contro di essa. E a te darò le chiavi del regno dè cieli: e qualunque cosa avrai legata sopra la terra, sarà legata anche nei cieli: e qualunque cosa avrai sciolta sopra la terra, sarà sciolta anche ne’ cieli ” (Matteo, XVI,19).

La corda utilizzata per l’impiccagione aveva un grande valore simbolico, specie per le Compagnie di Giustizia ed in particolare per la loro opera di “conforto”, ossia di assistenza e soccorso spirituale prestato ai condannati a morte, svolta sostanzialmente a partire dal XIV secolo in poi.  Molte di queste confraternite avevano l’usanza di custodire la corda usata per l’impiccagione che veniva bruciata – forse ritualmente – in occasione della ricorrenza del santo patrono. Santi patroni con un background culturale coerente alla funzione dei confortatori, come San Giovanni decollato a Siena; o Santa Maria della Morte a Bologna  (Prosperi, 1982).

E per restare sempre nell’ambito dell’immaginario simbolico come non sottolineare la forma della forca che doveva evocare, negli spettatori, l’idea di un orribile mostro pronto ad ingoiare nelle proprie fauci il condannato? Ancora nel Buon Governo di Lorenzetti c’è l’immagine di un impiccato, che per altro pende da una forca semplicissima, composta da due pali verticali uniti da uno ritto sul quale, appunto è effigiato, con le mani legate e le vesti svolazzanti, il suppliziato. Un angelo, l’angelo della Securitas, dalle belle forme muliebri la sorregge con la mano sinistra, mentre con la destra esibisce un cartiglio dalla scritta quanto mai eloquente. “Senza paura ognuomo franco Camini. E lavorando semini ciascuno. Mentre che tal Comuno. Manterra questa dona i Signoria. Chel alevata arei ogni balia.” Un manifesto esemplare, di facilissima comprensione.

Morte a maliardi, facitrici, streghe

Infine il più grave peccato, quello legato al mondo, oscuro, della magia. Bernardino  degli Albizzeschi nelle sue prediche sul Campo di Siena del 1417 ammonisce: “… el sicondo peccato che discende da la superbia, si è il peccato de li incanti e di indivinamenti, e per questo peccato Iddio manda spesso fragelli a le città” (B. degli Albizzeschi, 1989).  Opera “di quelle indiavolate maledette”: quelle “indiavolate maledette”, prima maliarde o facitrici, dalla fine del XIV secolo saranno sempre più spesso appellate streghe. Strega rimanda al latino striga, al greco striks, e indica il rapace notturno che affonda i propri tremendi artigli nelle carni degli sventurati per dilaniarle senza pietà e succhiarne avidamente il sangue. “E però dico”, continua indomabile Bernardino, “che là dove se ne può trovare niuna che sia incantatrice o maliarda, o incantatori o streghe, fate che tutte siene messe in esterminio per tale modo che se ne perdi il seme; ch’io vi prometto che se non se ne fa un poco di sacrificio a Dio, voi ne vedrete vendetta ancora grandissima sopra a le vostre case, e sopra a la vostra città … Sapete perché io temo più di voi che di niuno altro luogo? Perché mai non fu in luogo né in paese, che tanti e tante ne fussero, quanti ne so’ in questo vescovado.” (XXXV, 88)

La pena per chi si macchia di crimini tanto gravi, allora non può essere che la morte, come attestato dalla vicenda di Marta, moglie di Ranuccio muratore, strega e maliarda, messa al rogo nel 1446  – due anni dopo la morte di  Bernardino –  per ordine dell’inquisitore senese. La tragica vicenda di Marta è ricordata anche da Sigismondo Tizio nelle Historiae, dove racconta che la donna, riconosciuta colpevole di maleficio “veluti ex mulieribus una que se credunt cum Diana et Herodiade noctu equitare, que strige nuncupantur, cum falsa sit omnia in visione, ut comperuimus et legimus, illusiones huiusmodi patiantur, incendio consumpta est”. Diana è la regina delle streghe, che si riunivano, appunto, nella compagnia di Diana; Erodiade o Aradia sua figlia. Il lapidario “incendio consumpta est” costituisce un sigillo ammonitore di quella orribile storia (Ceppari, 1999).

L’episodio più raccapricciante ritrovato tra le carte della Inquisizione senese riguarda un frate aretino, fra Sisto da Verze, al secolo Serafino di Filippo Bazini, eremita agostiniano di ascendenza lombarda, accusato di necromanzia, avendo evocato il demonio. Si tratta per altro di una vicenda che già attiene all’età moderna – essendosi svolta nel 1541 – ma secondo canoni e modalità propri di quello che, convenzionalmente, viene chiamato Medio Evo. L’operazione di magia, magia nera, era stata possibile perché il frate aveva rapito ed ucciso una piccola mendicante che poi aveva smembrato in più parti, conservandone il cuore ed il grasso che, insieme al sangue di due malfattori giustiziati ed all’olio consacrato per la cresima, erano stati utilizzati “per costregnere il diavolo” (Ceppari, 2003).

Il processo fu condotto da un Tribunale laico, i c.d. Otto di Guardia, dopo aver richiesto ed ottenuto “per l’honor di Dio e benessere di questa nostra città” la grazia di godere della autorità necessaria “per mezo delle quale possiamo liberamente dar quel castigo a questo vitioso frate”. Il procedimento, conclusosi nel marzo del 1541, comminò la morte per Frate Sisto, stabilendo che l’esecuzione avvenisse nel Campo di Siena, il centro della città: l’uomo era moribondo, sfinito dagli interrogatori, da almeno due tentativi di suicidio e dal lungo digiuno. Nel centro della Piazza, era pronta la catasta di legna per il rogo. Ma Sisto non morì per il rogo perché fu strozzato dal boia che, dopo il primo, inutile tentativo, riuscì ad appenderlo, fino alla morte, ad una colonna. Assolto il suo compito, il boia appiccò il fuoco alla legna e le fiamme avvolsero quel corpo ormai esanime.Nel rogo furono gettati i libri di magia e la saccuccia che conteneva tutto il complesso armamentario del necromante.  Fin dal 1197 il re Pietro II d’Aragona aveva disposto che, nel suo regno, agli eretici fosse comminata la pena del rogo. Il IV concilio Lateranense (1215, can. 3) avrebbe confermato le precedenti disposizioni  stabilendo che “… gli eretici condannati siano abbandonati alle potestà secolari o ai loro balivi per essere puniti con pene adeguate …” E che “i chierici siano prima degradati della loro dignità …”Perché il rogo e non la decapitazione o l’impiccagione? In omaggio, ancora una volta, alla legge del contrappasso. Colui che, con le sue azioni ed il suo pensiero, aveva infettato l’ecumene doveva essere disperso, affinchè scomparisse ogni traccia della sue “eretica pravità” e fossero così purificati i luoghi dove aveva operato. Consumptus sit …

Preti e liturgie

E’ nota la tripartizione funzionale della società medievale, secondo l’organizzazione della società romana a suo tempo individuata da G. Dumezil  (Dumezil, 1955). Tre sono le componenti di questa società, gli oratores, i bellatores, i laboratores, ossia quelli che pregano, quelli che combattono, quelli che producono. Si tratta di ordini fra loro distinti nell’ambito dei quali il clero esercita la propria supremazia gerarchica. Inizialmente questo dominio compete ai monaci ma, con l’avvento delle città e la decadenza del feudalesimo, passa saldamente nelle mani del clero secolare e, più ancora, quando compaiono, ossia agli inizi del XIII secolo, degli Ordini Mendicanti. L’”organizzazione” dei funerali a Siena – come in qualunque altra città medievale – rispecchia fedelmente questa “egemonia” clericale.

Questa preminenza del clero si sostanzia in almeno tre diversi momenti:

A)    La liturgia, dove è sempre presente – come minimo – un sacerdote che officia la messa, “con intenzioni particolari a seconda che si trattasse di un uomo o di una donna, di un frate o di un canonico” (Corsi, 2003);

B)    Le celebrazioni post mortem, secunda, septima, nona et annualis, che segnava il definitivo distacco del morto e la fine della vedovanza (Turrini, 2003): si trattava cioè di una scansione di tempi sia “magici”, in quanto relativi al definitivo distacco dell’anima dal corpo; sia civili, in quanto la donna riacquisiva la capacità generatrice;

C)    L’ incameramento di (lucrosi) lasciti che servivano ad impinguare i già cospicui patrimoni del clero, tanto più frequenti dopo l’invenzione del Purgatorio.

Mors atra

Si è detto che la durata della vita dell’Uomo medievale è breve, falcidiata, come è da patologie di ogni genere, in larga parte dovute alla assenza di adeguate tutele igieniche e dall’altissima mortalità infantile. La situazione è ulteriormente aggravata dalla diffusione di epidemie che, proprio con la rinascita delle città, con lo sviluppo di  economie mercantili – e quindi scambistiche –  e con rapporti sempre più frequenti col Medio Oriente, espongono l’intero ecumene cristiano al rischio di contagi. Il più terribile di questi, una devastante pandemia di pestilenza colpì Siena – e molte altre città mercantili del bacino occidentale del Mediterraneo – nel 1348. Una malattia terribile, che viaggiava con gli opportunisti alimentari, i topi, sempre a contatto con l’uomo, le cui pulci, attraverso il bacillo Yersinia pestis trasmettevano l’agente patogeno. La pandemia si era scatenata  dopo che, sul finire del secolo XIII, un cambiamento climatico, noto come “piccola glaciazione”, aveva ulteriormente contribuito a spingere i roditori nelle città, alla ricerca di cibo. Era quello il tempo della morte nera, ossia della mors atra (letter. morte atroce) con la quale i cronisti danesi e svedesi del XIV secolo, colpiti dalla straordinaria virulenza del morbo, designavano la peste bubbonica.

Giovanni Villani raccontò nella sua Cronica quanto avvenne in quei tempi spaventosi. “E la detta mortalità fu predetta dinanzi per maestri di strologia, dicendo che quando fu il solstizio vernale, cioè quando il sole entrò nel principio dell’Ariete del mese di marzo passato, l’ascendente che ffu nel detto sostizio fu il segno della Vergine, e ‘l suo signore, cioè il pianeto di Mercurio, si trovò nel segno dell’Ariete nella ottava casa, ch’è casa che significa morte; e se non che il pianeto di Giove, ch’è fortunato e di vita, si ritrovò col detto Mercurio nella detta casa e segno, la mortalità sarebbe stata infinita, se fosse piaciuto a Dio. Ma noi dovemo credere … che Idio promette le dette pestilenze e ll’altre a’ popoli, cittadi e paesi per punizione de’ peccati, e non solamente per corsi di stelle, ma … quando vuole, fa accordare il corso delle stelle al suo giudicio … “(Villani, 1991)

La peste è punizione divina: il suo implacabile arrivo è “annunciato” dagli astri.

E non sonavano Campane, e non si piangeva persona, fusse di che danno si volesse, che quasi ogni persona aspettava la morte; e per sì fatto modo andava la cosa, che la gente non credeva, che nissuno ne rimanesse, e molti huomini credevano, e dicevano: questo è fine Mondo …” “Non si trovava chi seppellisse né per denari né per amicitia et quelli della casa propri li portava meglio che potea a la fossa senza prete, né offitio alcuno, né si sonava la campana. E in molti luoghi in Siena si fè grandi fosse et cupe per la moltitudine su morti … et ognuno gittava in quelle fosse e si cuprivono a suolo a suolo … e anco furo’ di quelli che furo’ sì mal cuperti di terra che li cani ne trainavano et mangiavano di molto corpo per la città, et non era alcuno che piangiesse alcuno morto”. Così Agnolo di Tura detto il Grasso, calzolaio, che nell’orrenda carneficina avrebbe perso cinque figli da lui stesso seppelliti, racconta ai posteri , nella “Cronaca senese”, come la città visse il tragico evento.

Il contagio era giunto a Siena da un’altra repubblica, marinara questa volta, Pisa: colpì la città per sette lunghissimi mesi, dall’aprile all’ottobre del 1348. Quella “grande mortalità, la maggiore e la più oscura, la più horribile” che la città abbia mai visto, avrebbe causato, a detta di Agnolo, il decesso di circa 80.000 buoni cristiani … Il numero è probabilmente esagerato, dal momento che gli storici propendono per circa 50.000 vittime a fronte di una popolazione di circa 80.000 “anime”. Morirono moltissimi artisti – tra i quali i fratelli Ambrogio e Pietro Lorenzetti – e le attività economiche, le relazioni sociali, le pratiche culturali subirono un lungo stop che provocò di fatto, per almeno una generazione, un grave stato di involuzione e di regresso causa prima del ritardo con cui fiorì compiutamente quella che sarebbe stata la straordinaria stagione dell’Umanesimo e del Rinascimento

 Corpi santi

C’è, infine, almeno un altro aspetto di grande rilevanza connesso alla dimensione della morte, ossia il “trattamento” delle reliquie dei santi. “Poiché dal fatto che alcuni espongono le  reliquie dei  santi per venderle, si è spesso presa occasione per detrarre la religione cristiana, perché ciò non  avvenga in futuro, col presente decreto stabiliamo che le reliquie antiche da ora in poi non siano messe in mostra fuori del reliquiario, né siano poste in vendita. Quelle nuove nessuno si azzardi a venerarle, prima che siano state  approvate dall’autorità del  Romano Pontefice. Per l’avvenire i prelati non permettano che chi va nelle loro chiese per venerare le reliquie  sia ingannato con discorsi fantastici o falsi documenti, come si usa fare in moltissimi luoghi per lucro”. Così stabiliva il LXII capitolo del IV Concilio Lateranense tenutosi dall’11 al 30 novembre 1215 per volontà di Innocenzo III, grande teologo e grandissimo giurista, approvatore della Regola di San Francesco e tutore di Federico II. La disposizione impartita faceva intendere bene le preoccupazioni della Chiesa – o almeno della sua parte più consapevole – non solo per il commercio delle reliquie, ma anche per l’uso che se ne faceva: sì che il richiamo a “discorsi fantastici” ovvero a “falsi documenti” fa chiaramente pensare ad un tipo di venerazione che tratta le reliquie stesse come potenti talismani, in grado di proteggere quei devoti cristiani che avevano la possibilità di vederle o, ancora meglio, di toccarle.

“La reliquia è, nella storia del patronato, materia e al tempo stesso segno della protezione elargita dal santo. La continuità del patrocinio ha il suo sigillo materiale nella presenza delle reliquie del santo che la comunità custodisce come un prezioso presidio, garanzia della presenza protettiva e della potenza taumaturgica del suo campione celeste”. Una vera e propria forma di “sacralizzazione del territorio” che, basti pensare al culto barese di San Nicola o a quello veneziano di San Marco, contribuisce alla formazione della identità di un popolo (Niola, 2007). A Siena questo tipo di culto è praticato verso Sant’Ansano, il battista della città, un romano di agiata famiglia (gli Anicii?), che sarebbe approdato sulle sponde dell’Arbia a metà del III° secolo.

Per altro a Siena la devozione cittadina si manifesta non verso uno, ma verso quattro santi diversi. Si tratta dei protettori, Ansano, Crescenzio, Savino e Vittore – tutti santi molto antichi, tutti martiri – il culto dei quali ammonta almeno all’XI secolo, come testimonia la loro collocazione nel presbiterio della cattedrale. Eppure, la “sanzione ufficiale della loro funzione civica sarà, almeno per l’iconografia, solo con la Maestà di Simone Martini del 1315 nel Palazzo pubblico”(Argenziano, 2003). Una operazione non solo devozionale, dal momento che coincide col definitivo impianto di una salda società borghese con forti esigenze identitarie, così sanzionate.

Credenze private e tracce di fede

Nonostante questo “tardivo” riconoscimento civico esistono testimonianze dell’attaccamento dei senesi verso “cadaveri eccellenti” con (presunti) poteri taumaturgici e in qualche modo collegati alla loro città. Così si spiegano  i contrasti con gli aretini per il possesso del corpo di Ansano, il (mitico) battista di Siena fino al 1107 interamente conservato ad Arezzo, e quindi, dopo lunghe trattative, “opportunamente” smembrato: il corpo a Siena e la testa ad Arezzo (Scorza Barcellona, 1991). La “popolarità” del santo era da attribuirsi, verosimilmente, alla sua capacità taumaturgica, che si estrinsecava attraverso l’acqua salutare – per la cute, l’intestino ed i polmoni – sgorgante nel luogo del suo martirio, dal nome evocativo di “Dofana” forse ricalcato sul latino duo fana, o forse riferimento al dio Faunus, spesso connesso a luoghi e sorgenti da cui emanano vapori di zolfo …

La testimonianza più rilevante di culto riservato alle reliquie di santi a Siena è comunque quella della testa e del dito di Caterina Benincasa, la santa dell’Oca. Appena tre anni dopo la sua morte, avvenuta a Roma nel 1380, il fedele Raimondo da Capua aprì il suo sepolcro in Santa Maria sopra Minerva e ne staccò i due resti oggi conservati a Siena, nella basilica di san Domenico. Fece bene perché “del suo corpo” rimasto a Roma “non resta molto”, in quanto “il sepolcro è stato saccheggiato nei secoli per ricavarne reliquie disseminate tra Roma, Firenze, Siena, Salerno” (Cattabiani, 1993). E’ evidente il motivo di questa pratica: si ritiene che, attraverso quelle reliquie, sia possibile ottenere l’intercessione della grazia da parte della Santa. Una vera e propria operazione border line tra fede e magia … 

Domenicani contro

E’ curiosa la circostanza che Caterina, santa legata al Terz’Ordine Domenicano, si sia in qualche modo “formata” nello stesso ambiente di un illustre maestro come l’inglese Riccardo di Knapwell. Magister ad Oxford, autore, nel 1285, della “Quaestio disputata de unitate formae” nella quale si sosteneva una discutibile (per i tempi) tesi antropologica: ossia “il ruolo decisivo dell’anima nella costituzione dell’identità personale.” Giacchè l’anima agisce “come forma” e poiché non è “concepibile un’attività formale senza un supporto materiale … l’anima, oltre ad avere attività intellettuali, identificava il corpo della persona …” (Santi, 2003).

Le conseguenze di queste affermazioni così dissonanti rispetto al comune sentire dell’epoca erano molto pesanti: solo con la forma data dall’anima il corpo era tale e quindi il corpo privo dell’anima non era altro che materia destinata alla putrefazione ed alla dissoluzione. “Ridiculum videtur quod propter solam materiam quae remanet post mortem debeat corpus mortuum tradi sepolturi in loco sacro”. Ossia è ridicolo che per la sola materia che rimane dopo la morte il corpo inanimato sia sepolto in un luogo sacro. E questo valeva anche per i corpi dei santi, giacchè i corpi autentici, quelli animati non sono sulla terra … Erano posizioni riprese da San Tommaso, ma non bastarono a risparmiare Riccardo dalla scomunica …

In fine, la filosofia di Cecco, ovvero inno gioioso alla vita

S’i’ fosse foco, ardere’ il mondo;
s’i’ fosse vento, lo tempestarei;
s’i’ fosse acqua, i’ l’annegherei;
s’i’ fosse Dio, mandereil en profondo;
s’i’ fosse papa, serei allor giocondo,
ché tutti ‘ cristiani embrigarei;
s’i’ fosse ‘mperator, sa’ che farei?
a tutti mozzarei lo capo a tondo.
S’i’ fosse morte, andarei da mio padre;
s’i’ fosse vita, fuggirei da lui:
similemente faria da mi’ madre
.
S’i’ fosse Cecco com’i’ sono e fui,
torrei le donne giovani e leggiadre:
le vecchie e laide lasserei altrui.
 (Cecco Angiolieri, S’i’ fosse foco)

BIBLIOGRAFIA

Agnolo di Tura del Grasso, Cronaca senese,detta la Cronaca maggiore, sta in  Cronache senesi, a cura di A. Lisini e F. Iacometti, Bologna, 1931-1939;

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M. A. Ceppari Ridolfi, Maghi, streghe e alchimisti a Siena e nel suo territorio (1458-1571), Siena, 1999;

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Tito Livio, Storia di Roma, V (Libri XXI-XXIII), trad. di C. Vitali, Milano, 1995;

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L. Valli, Il linguaggio segreto di Dante e dei «Fedeli d’Amore»,  Milano, 1994;

G. Villani, Cronica, voll.3, ed.critica a cura di G. Porta, Parma, 1991.

 

 

Il Segno e la Veggenza di René Magritte

di Irene Battaglini                              15 luglio 2013

L’Immaginale

pdf    Il Segno e la Veggenza  di René Magritte

«Quanto ai nomi, diciamo che nessuno di essi ha alcunché di stabile, e che nulla impedisce che le cose che ora sono dette rotonde vengano chiamate rette e che le rette vengano chiamate rotonde, e [diciamo dunque] che le cose non sarebbero meno stabili per coloro che ne mutassero i nomi e le chiamassero in modo contrario».

Platone, VII Lettera, 343a 9-b 4

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René Magritte, La clairvoyance, 1936La Clairvoyance è un autoritratto ad olio su tela del 1936 di Magritte. René Magritte (belga, 1898-1967) è il pittore contemporaneo più discusso, studiato e interpretato al mondo. La sua adesione al surrealismo è il movente per fare della sua arte un ampio scenario simbolico, linguistico, onirico e metaforico, prestandosi ad ogni forma di interpretazione psicoanalitica, di diagnosi per lo più ispirate alla dinamica, peraltro assai congrua, del trauma della morte della madre, avvenuta in circostanze mai del tutto chiarite.

René Magritte dipinse talmente tanto, soggetti ed elementi così diversi, utilizzando oggetti e “lemmi figurativi” così privi di un legame sintattico elementare, eliminando ogni logica “conscia” o “inconscia”, da far pensare ad almeno tre questioni di fondo: la prima, che non si tratti di oggetti e di soggetti scelti da Magritte, ma più verosimilmente di universi esperienziali, in cui immagine e parola sono connessi da un’intima storia di amore e di ontologia semantica; in secondo luogo, che si esime dalla triangolazione interpretativa per andare in una dimensione narrativa autonoma, dotata di coerenza interna, il cui unico condizionamento è determinato dalla scelta di utilizzare un mezzo (la figurazione, perché la pittura è probabilmente l’arte che gli è congeniale) connaturato ad esser visto, dotato di centralità espositiva – e pagandone il prezzo; in terza istanza, emerge una caratteristica portante di Magritte: il bisogno di far emergere con chiarezza e determinazione, con principi di trasparenza e bellezza, il proprio mondo interiore, – anche del trauma, ma non solo – diventando testimone fedele e docile di una condizione creazionista, di una cosmogonia geneticamente governata dal cromosoma dell’eleganza, dell’armonia, dell’ironia. Non una archeologia simbolica e insondabile, mistificante. Non è solo il mistero a far da contrappunto glorioso alla vividezza dei colori e al nitore delle forme; non è solo la diade vita/morte a far da trama liturgica alle simbolizzazioni; forse è l’espressività di un popolo – quello che abita l’isola di Magritte – di un’era antisimbolica, linguisticamente smembrato dai sostegni metaforici, alla ricerca di un nuovo punto euclideo, di un dio che ne definisca l’alfa e l’omega. L’impressione è che un universo extramondano abbia deciso di materializzarsi e di usare le nostre competenze linguistiche per avvicinarsi a noi, per farsi intravvedere, scorgere solamente, seppure manifestandosi con fervida abbondanza. Come se il dio avesse deciso di uscire dal tempio, ma non di rivelarsi nella sua piena identità. Venuto nel mondo, si lascia cullare dalla fantasia degli uomini, e desidera aprire una sfida scoprendo le carte con l’ambiguità – dosando con saggezza e astuzia impeto e quiete, favola e stigma, legge e verità – di chi vuole a lungo impiegare la scena che gli viene concessa, sapendo di dover prima o poi entrare nell’archivio museale delle cose dell’arte. Sostiene Collina, psicologa dell’arte:

«La realtà e la surrealtà delle immagini magrittiane, il senso e il nonsenso in cui si dibattono attraversando continuamente quel confine tra razionale e irrazionale che i surrealisti volevano abolire, nascono all’interno della struttura stessa della visione; egli non descriveva, come Dalì, i sogni, a lui bastavano le sue visioni e il mistero si genera dal cuore stesso della realtà, come la morte di sua madre; e una vasta letteratura internazionale dalla quale attingeva ispirazione, come le opere di Stevenson, Hegel, Kant, Baudelaire, Verlaine, Poe e Lautréamont. E proprio in quest’ultimo, di cui Magritte illustrò  i Canti di Maldoror, è da ritrovare la fonte della figura dello “stregone” come colui che, analogamente all’artista, è partecipe attore dei misteri del mondo».[1]

Ed è il mercuriale – che si maschera da stregone, briccone, sciamano, artista – a farci da guida nel grande gioco delle rappresentazioni di Magritte, che se è vero che rimandano sempre agli scacchi, al metafisico, all’arcano disegno, è vero anche che rimandano ad un ulteriore che ci appartiene sotto le scarpe, che abbiamo ad un centimetro dal naso, che possiamo scorgere con la coda dell’occhio: qualche cosa che non possiamo centrare del tutto, che non possiamo definire, ma che appartiene al quotidiano – perché adopera le strutture del nostro immaginario – e non al mitografico o al mistico.

Clairvoyance è segno e destino, è intelligenza metacognitiva, è intuizione e obbedienza. Eppure i protagonisti sono oggetti e soggetti “semplici”, dotati di autonomia scenica. Proviamo ad elencare i mattoncini della composizione, partiamo dai fondamentali, adottando il criterio del “rasoio di Ockham” e prendendo tutto l’insegnamento di Wittgenstein «non pensare, ma osserva!» (1967, 46): a volte l’indagine è investigazione, ma si deve basare sulla descrizione fenomenologica, sull’osservazione della realtà: un tavolino coperto da un drappo rosso, un uovo, un cavalletto, una tela; il pittore, in autoritratto e vestito con rigida eleganza, seduto compostamente su una sedia, con una tavolozza sulla mano sinistra, che “dipinge” una piccola aquila grigio-azzurra sulla tela. Qual è l’elemento che genera dissonanza? Che cosa è apparentemente incongruo, o – sempre con Claudia Collina:

«in prospettiva antropologica, [invece], l’immagine dell’artista che dona la vita, che anima con la sua materia, riporta alla spiritualità fideistica nella potenza creativa della divinità che alita il soffio vitale in forme di argilla, ma porta con se anche il suo ambivalente contrario, come ogni situazione: l’artista è mirabile, ma pericoloso.  È creatore possente, ma mago cattivo, che come alita la vita la pu  anche togliere. E da questo sincretismo d’origine antropologica alla lettura psicanalitica della psicogenesi del creare, indissolubilmente legata al suo opposto del dialettico distruggere, il passo è breve.  Magritte, come si vede dalla fotografia e dal dipinto Doppio autoritratto – Magritte mentre dipinge la chiaroveggenza e La chiaroveggenza, si autocelebra in veste di mago chiaroveggente portatore di messaggi simbolici sinonimi di presagio e messaggi celesti, come l’uccello che è anche latore di stati spirituali e superiori dell’essere; deux artifex in piena onnipotenza confermato anche dal ritratto da Terapeuta in veste magica di viandante e custode dello spirito».

Sappiamo anche che Magritte non amava l’interpretazione psicoanalitica. Negli Scritti:  «L’arte come la concepisco io, è refrattaria alla psicanalisi: essa evoca il mistero senza il quale il mondo non esisterebbe, ossia il mistero che non si deve confondere con una sorta di problema per quanto difficile sia. Io mi sforzo di dipingere se non immagini che evochino il mistero del mondo. Perché ciò sia possibile devo essere ben vigile, ossia devo cessare di identificarmi interamente con idee, sentimenti, sensazioni».[2]

Come facciamo a liberare Magritte dal destino indesiderato della psicoanalisi – seppure legittimo, utile, essenziale ad agevolare la lettura delle opere? Leggere le opere come un test proiettivo è ingiusto. Abilitare i quadri a insegnanti di linguistica è un’operazione altrettanto impropria. Danno suggerimenti, elicitano fantasmi, emozioni e forme, aprono un discorso. Ma noi dobbiamo capire che cosa stia facendo Magritte. Escludiamo la celebrazione narcisistica del self-portrait: sarebbe una condizione ovvia e a priori di ogni qualsivoglia autoritratto, e l’artista belga aveva il talento per ritrarsi in ogni guisa, in ogni condizione desiderata, con ogni mezzo espressivo disponibile. Dobbiamo chiederci perché lo faccia in quel modo, con la meditata tecnica dello storyboard, in cui non si lascia nulla a al caso. Escludiamo la volontà oniromantica: è ovvio che dentro un uovo si celi l’embrione di un oviparo, che sia un rapace o un gabbiano, è un fatto meramente incidentale. Quello che non è ovvio è perché un pittore debba interrogarsi su cosa dica un uovo. Infatti egli non lo fa. Egli non si interroga, ma si pone nel gesto del “sentire”, in una dimensione come di ascolto attivo dei movimenti all’interno dell’involucro gestazionale. Osserva con grande umanità il piccolo uovo, tende l’orecchio, è “professionale” e al tempo stesso “familiare”. Fa da tramite, da diaframma, da cassa di risonanza? Neppure, o comunque non si esaurisce in questo la funzione mantica, e non è neppure utile al processo di differenziazione senza l’apporto del soggetto che trova la propria strada di individuazione. L’aquila azzurrognola deve avere la sua parte nella storia.

… Il protagonista solo apparentemente dipinge. Di fatto sta osservando e ascoltando l’uovo, e non solo dipingendo. È l’aquila a farsi dipingere perché sembra averlo deciso: è tutt’altro che appena nata. Esce fuori, vuol volare. Egli guarda l’uovo perché è là dentro che stanno il genoma, il disegno, la mappa del viaggio. Ma non è un chiaroveggente, perché come abbiamo detto non occorre esserlo per sapere che dall’embrione si manifesterà l’individuo: vuole dirci che il chiaroveggente si lascia vedere dentro e mette in forma scritta, figurativa o verbalizzata i suggerimenti non già dell’uovo, ma di quell’individuo che là dentro è costretto ad albergare. Egli libera. Non è dunque solo stregone, ma ostetrico: disegna il parto autoctono di un individuo ben differenziato, in grado di dire delle cose precise, dotato di esperienza e dignità. Eppure manca ancora qualche cosa, non è necessario l’ostetrico se non alla presenza incombente di una puerpera. Ebbene, il pittore-veggente è cavità endometriale, è luogo di attaccamento e prima base sicura, è nido e valva di perla. Ma è sopra ogni cosa la scena primaria del delitto dell’essere-nel-mondo: una colpa priva di fondamento che è fondamento del codice morale.

Quindi è il processo di re-metaforizzazione e non l’immagine a far da quaderno per il nostro apprendimento. È un materno indiscutibile, che non si offre nella struttura standardizzata – rotonda, concava, toroidale, neppure nell’identità orientale vuoto = forma. Salta la metafora e salta il dominio target della metafora. Chi vuole comprendere, si accosti con silenzio e con attenzione, si liberi dalle preordinate e – seppur pertinenti ed eleganti – restituzioni lacaniane sulla natura che imparenta linguaggio ed inconscio. Il problema è l’archetipo, la sua qualità non frammentaria ma densamente unitaria, che deve essere scissa per essere analizzata, interrogata, segmentata e resa utile allo psicologo.

Il mercuriale – la qualità visionaria e trasformativa – è mescolato (e non invischiato) allo ctonio, al materno, al generativo, in una unità compositiva di magistrale forza espressiva, anche per le felici proprietà degli elementi: tre supporti quadrati (tavolino, tela, tavolozza), tre esseri viventi (uovo, pittore, aquila), tre supporti “bucati” (cavalletto, sedia, tavolozza), con un unico piccolo pennello a far da strumento chirurgico, da estensione della mano-levatrice: non è forse la Chiaroveggenza di Magritte, una retorica intorno all’arte della maieutica? Il valore dell’opera, se diamo credito a questa nostra ipotesi, diventa il cuore di una questione conoscitiva che intende andare nella direzione filosofica e morale, restituendo alla pittura una funzione non solo decorativa e sentimentale ma intellettiva, non solo linguistica e comunicativa ma morale in senso alto, di costruzione di tematiche proprie di ogni universo. In altre parole, il processo è protagonista, la relazione è decisiva, la mappa è centrale, mentre oggetto, soggetto e segno sono periferici, strumentali. Non si tratta quindi di una abolizione della metafora, ma della istruzione di processi di metaforizzazione complessi, riordinati, ristrutturanti del pensare, del nominare, e in definitiva del “vedere”. Quindi non è solo una riparazione della ferita portata dalla madre-morte del piccole René, ma della grande occasione di cogliere nei segni dei fatti della nostra vita quello che è il cuore della ricerca dell’oggetto perduto e dell’oggetto ritrovato. Una poetica dello sperdimento e un colore acceso a celebrare la nascita come apertura al mondo della logica e della semiotica: perché se l’aquila viene al mondo pronta per volare, tesa verso un “alto”, l’omo nasce animato dal desiderio dell’ “oltre”, dell’autentico Sé che è «bisogno di libertà di vivere», per dirla con David Foster Wallace.

Sostiene Arturo Martone, filosofo del linguaggio:

«Di là dalle questioni interne al testo wittgensteiniano (Voltolini: 2003), la pratica del vedere come, almeno in questa lunga notazione di LW, concerne sempre e soltanto il vedere A come B, ovvero A nei termini di B, concerne cioè tutti quei casi – percettivi, immaginativi e fantastici, interpretativi o infine propriamente conoscitivi -, nei quali accade come uno spostamento o trasferimento di senso, da A a B e viceversa (nel senso dell’interazionismo di Black: 1983), nel senso cioè che, proprio come s’era richiamato per il processo di metaforizzazione, anche qui un topic viene ridefinito nei termini di un vehicle, ovvero un dominio fonte viene ri-categorizzato nei termini di un dominio target. Dicendolo appena diversamente, certe proprietà vengono sia mutuate, o per riprendere quella già vista terminologia jakobsoniana, selezionate a partire da un dominio target o vehicle, e sia riferite ovvero combinate ad altre proprietà, quelle del dominio fonte o topic. E però, e sarà proprio questo uno dei punti conclusivi di questo contributo, è ammissibile che oltre al vedere A come B, si dia anche un vedere A come A (o anche, certo, un vedere B come B)? Che vuol dire questa domanda? Con essa ci si interroga sul senso, ammesso pure che se ne dia uno, di quelle cosiddette proposizioni identiche ovvero tautologie che, com’è noto, sempre Wittgenstein riteneva, se non propriamente insensate, come appartenenti tuttavia al simbolismo della logica (1964: 4.46, 4.461, 4.4611, 4.462, 4.463, 4.464).» [3]

Alla luce della logica, tutto appare nominabile: archetipi, figure, simboli. Ad esempio: l’uovo è simbolo della vita, della nascita. Il viaggio invece nel simbolismo della logica e nel processo di evoluzione metaforica che è interno a tutti i linguaggi, è un viaggio a ritroso, a dover nascere e camminare su un sentiero magmatico, nella luce crepuscolare dello sguardo del maestro-veggente. È un viaggio ai margini della poetica di Magritte, che ci apre alla vastità e al precipizio come fa l’uomo di Friedrich affacciato al mare di nebbia. Si affida alla natura, sorella simbolica, ma non troppo. Sorella di fatto, capace di attendere che il poeta e il pittore si annidino dentro i suoi millenni alla ricerca del vero Sé.



[1] Claudia Collina, Università degli Studi di Bologna, “Didattica & Ricerca  a.a. 2006-2007”, Gli autoritratti di René Magritte alla luce della psicoanalisi,

http://www.psicoart.unibo.it/Interventi/Interventi%20Collina%20Magritte.pdf

[2] René Magritte, Scritti, traduzione a cura di L. Sosio, Milano, Abscondita, 2001

[3] Arturo Martone, Università degli Studi L’Orientale di Napoli, Tra metaforizzazione e nominazione. Una ipotesi di ricerca.   http://www.unior.it/userfiles/workarea_477/Martone%20LZ%202%2029-12-2010.pdf  [Grassetti miei].

Anthropos, Signore nel Regno della Forma

di Irene Battaglini                                                                                           Prato, 12 maggio 2013

Recensioni

pdf: Vinicio Serino – Antropologia delle forme simboliche

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La-ruota-di-Siena

«In effetti, noi intendiamo qui i sacramenti come dei segni o delle figure; ma queste figure non sono le virtù, ma i segni delle virtù, e ce ne serviamo come di una parola scritta per gli insegnamenti. Fra i segni, gli uni sono naturali, gli altri positivi, sul che si dirà cosa sia un sacramento, nella quarta parte di questa opera, sotto la settima particella del canone, alla parola mysterium fidei (mistero della fede)».

Guillaume Durand de Mende (1230-1296), vescovo francese della Chiesa Cattolica. Rationale divinorum officiorum, (lib. I-V, Prefazione. II. I segni)

Antropologia delle forme simboliche è un viaggio negli incunaboli della forma che “si fa” simbolo. Il figlio dell’Uomo esce dai ruoli ascritti dalla condizione umana e diventa protagonista di una storia che investe il suo passato remoto ma che è ancora viva e piena di domande: la storia della sua psicologia e della sua tensione a comprendere se stesso, ad abitare e arredare tutta la sua casa multidimensionale cui aderisce in ogni angolo dell’esistenza. E proprio brandendo questo candeliere che spande molte e diverse luci,  il lavoro di Vinicio Serino è scientifico, storico, seducente, poetico e un po’ mistico: si investe di questa necessità plurima di esplorare.

Il professore senese è antropologo e docente di Antropologia alla Scuola di Psicoterapia Erich Fromm e alla Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università di Siena. Autore di oltre settanta lavori tra articoli, testi critici e saggi, con Antropologia delle forme simboliche ci fa dono di un’opera che racchiude una vita dedicata alla studio delle declinazioni del pensiero, del linguaggio  e della creatività dell’uomo.

Se l’antropologia (antropo-, dal greco άνθρωπος ànthropos = “uomo”; -logia, dal greco λόγος, lògos = “parola, discorso”), è una scienza di proporzioni universali che risponde al bisogno dell’uomo di conoscere se stesso – di spiegare a se stesso e ai suoi compagni di viaggio il mistero delle proprie origini e del proprio destino – Ànthropos e sua sorella, la Terra, costruiscono secondo l’autore un progetto di reciprocità ontologica, in cui gli affondi di Jung con l’inconscio collettivo sono arginati dalla felice visione sistemica e interdipendente di Durand. Questa lettura non può che aprire al dramma della contraddizione che è antropologica e che oggi potremmo chiamare matrice di conflitti individuali e sociali.

In questa traversata di rinnovate interpretazioni, l’autore non dimentica mai la profonda solitudine che l’uomo è chiamato a sperimentare, e il suo delicato quanto feroce bisogno di attaccamento, di essere protetto, di ingraziarsi il dio, di vantare diritti sull’altro per garantirsi una sopravvivenza, di accaparrarsi il partner più forte e fecondo e al tempo stesso di proteggere gli elementi deboli del nucleo. Egli si nasconde in una foresta e nello stesso tempo compone mosaici, vive dolci sentimenti di amore che scompigliano le sue azioni dettate da un primigenio comportamentismo, studia le forme delle onde, delle bestie e dell’orizzonte, il movimento degli astri e il suo spostarsi, il suo cercare, il suo meditare nella sosta eppure essere nomade, sopravvive alla decimazione delle malattie e si aggrappa a quel retaggio orale che sarà la sua nave senza porto: tutto questo imparando il segno e incrementandone ad ogni ricodifica l’ampiezza di significazione. Scrive le note musicali, applica le regole della numerazione, innalza piccoli altari che diverranno templi millenari, impara a declinare i ruoli in modelli. I modelli sono forme della mente e del comportamento. Dal caos perviene all’ordine, dalla confusione sedata con la violenza della sopraffazione esprime con le gerarchie – forme sociali – i campi d’azione del potere dentro e fuori i confini del gruppo e del territorio che si assegna per investitura, per necessità di stare, di restare.

In questa avventura si cala questo splendido saggio di antropologia e di filosofia della forma.

Il testo non è solo uno strumento meramente utile allo studioso e al ricercatore. È scrigno ingemmato di immagini e di riferimenti, scritto con generosa semplicità e con opulenza di contenuti e di rimandi. La vasta bibliografia è seguita dall’indice dei nomi e dei luoghi (facendo del testo un manuale versatile e una fonte proficua di informazioni) e la veste editoriale è arricchita da una copertina effetto “tela” che ha ancora il profumo dei veri libri con i quali è piacevole accompagnarsi.

Ogni capitolo aggiunge qualche cosa allo studio della formazione e della produzione del simbolo, senza mai allontanarsi dal nucleo centrale, che è l’attesa dell’autore stesso nei confronti della prospettiva antropologica. Una prospettiva nella quale crede con la fermezza dello scienziato e la passione dello studioso con il cuore volto al mistero.

Vinicio Serino ci trascina dentro la storia dell’Uomo a partire dai suoi primi movimenti di pensiero, di riflessione, di socializzazione, offrendo una visuale rilevante anche alla posizione del femminile all’interno del processo immaginativo, partendo dalla storia delle aree del Karadag, dove si sarebbe sviluppata la tecnica della domesticazione delle piante (7000-3000 a.C.):

«citazioni simboliche della sessualità nelle “Veneri” preistoriche,  (…) che si ritrovano tutte nelle rappresentazioni dell’Antica Madre Generante, la Grande Dea delle popolazioni destinate a diventare le artefici della Rivoluzione agricola, il più grande passo in avanti realizzato dalla Umanità nel corso della sua storia perché, da allora in poi, avrebbe prodotto direttamente quanto necessitava alla propria esistenza.

(…) “La dea manifestava le sue innumerevoli forme attraverso varie fasi cicliche che vigilavano sul buon andamento di ogni cosa; molti erano i modi in cui si rivelava, nei mille accadimenti della vita”. (M. Gimbutas, Le dee viventi, 2005).  L’ipotesi formulata da Gimbutas [“una sola dea in molte forme”], affascinante per quanto tutt’altro che unanimemente raccolta dagli studiosi, ipotizza una centralità della donna nella religione della Euro/Asia antica …» (Antropologia delle forme simboliche, p. 99 e segg.)

Il fulcro di tutta l’opera è il tentativo di spiegare e di comprendere, in un valzer di doppi passi ermeneutici, come l’Uomo si sia prima coinvolto e poi sempre di più specializzato nella sua attività culturale,  linguistica, comunicativa, con l’intento di cementare i legami sociali e consolidare le posizioni acquisite, nella natura e nel mondo, come nelle relazioni, attraverso lo sviluppo di traiettorie di conoscenza e di ritualizzazione, alla luce dei fattori genetici, evoluzionistici e storici che ne hanno determinato il destino e il progresso. Il tema delle relazioni è centrale nel discorso di Serino ed è per questo che Antropologia delle forme simboliche è indispensabile nella libreria dello psicologo e del sociologo, ma anche del medico e dello studioso di lettere. In ogni biblioteca che detenga una sezione “Umanistica”, sarà necessario fare spazio a questo volume, proprio perché tenta ad ogni rigo di andare oltre il “classico” programma di antropologia per addentrarsi nella dinamica di interiorizzazione del simbolo, sia dal punto di vista del pensiero logico-argomentativo sia dal pensiero immaginale e intuitivo. Quest’apertura rigorosa, scientifica e tagliente allo studio del rapporto interno della psiche, di questo binomio affascinante e insidioso, rende questo testo ulteriormente originale e intimamente connesso alla psicologia dinamica e alla psicologia dell’arte.

Lo studio di Serino è innovativo perché lascia una pietra angolare nel panorama delle pubblicazioni intorno a Ànthropos. Per sorreggere le tesi proposte, non esita a chiamare in causa i filosofici classici e gli ermetici, i santi e gli iniziati, gli psicologi di ogni casta (da Freud a Vigotskij a Gombrich, fondatore della psicologia dell’arte), poeti e scrittori da Petrarca a Yourcenar, passando per autori discussi come Carl Gustav Jung,  Gilbert Durand, Mircea Eliade, René Guenon.

Questo slancio narrativo fa del libro un punto di partenza per il destino dell’antropologia, che si vuole ancora porre come carrefour tra le scienze sperimentali e quelle umanistiche.

«Si tratta, dunque, di penetrare in una scienza la quale, occupandosi sia delle variazioni biologiche dell’Uomo, come pure dei “parametri che definiscono o che controllano il manifestarsi dei tratti biologici” (cit. Ponte e Bizard, 2006), si presenta alla stregua di una disciplina di confine. Non più limitata, da questo punto di vista, alla dimensione della natura, ma che si colloca, piuttosto, tra il biologico e il sociale. In sostanza, allora, l’antropologia moderna – senza alcuna ulteriore specifica – può essere intesa come quella disciplina orientata ad occuparsi sia dei meccanismi genetici dell’evoluzione che dei processi di socialità – nell’ambito dei quali gioca un ruolo fondamentale la cultura, e quindi il simbolo – nella consapevolezza che, per capire davvero l’Uomo, non basta ricostruirne le tappe segnate dalle scansioni evolutive, ma occorra anche considerarne la condizione di “animale sociale” (cit.)». (Antropologia delle forme simboliche, pp. 13-14)

Si conclude così il primo capitolo, dando a tutto il lavoro l’imprinting di una carta programmatica che coinvolge moltissime aree della conoscenza.

Le otto tappe che seguono, dal secondo alle conclusioni, rappresentano un vero e proprio processo di trasformazione: si parte dalle origini della cultura e della socialità, si affrontano il politeismo e il monoteismo sul piano delle trasformazioni e delle culturali, per arrivare al cuore del simbolo, alle strategie di decodifica dei messaggi che l’uomo ha saputo mettere a punto, “attraversando” i sentieri iniziatici, alla ricerca di nuove correlazioni tra ermetismo e forme simboliche, all’interno di una nuova alchimia, illuminata dai quadri del Lorenzetti e dai versi stupendi della Tavola Smeraldina.

«Nella senese Sala della Pace colui che entrava veniva immediatamente colpito dalle vivaci tonalità cromatiche dell’affresco e da quella congerie di personaggi, reali e simbolici: percepiva subito il messaggio in maniera unitaria, il pensiero era l’immagine, l’immagine era il pensiero, secondo una tecnica che, probabilmente, l’alchimista e filosofo Raimondo Lullo avrebbe chiamato, nel contesto della propria Ars magna, combinatoria. Combinatoria appunto di immagini e di pensiero in grado, attraverso la loro compenetrazione, di esprimere – adeguatamente – un significato.

D’altra parte, come dice E. Wind, in un’opera ancora in grado di emozionare l’attento lettore, il simbolo “in virtù della sua obliquità”, ossia il mostrare una cosa per intenderne un’altra, “conserva suggestioni recondite che un’affermazione semplice e chiara elude e dissolve…”. Il meccanismo vale sia per le metafore che per i simboli, perché, aggiunge Wind, “le metafore hanno nel linguaggio lo stesso ruolo che i simboli hanno nelle arti visive: sostituiscono una cosa per un’altra e parlano per allusioni”. In tal modo, aggiungiamo recuperando ancora da Wind, il messaggio (nascosto) è più compatto, perché in grado di condensare, efficacemente, ciò che il “creatore culturale” intendeva comunicare». (Antropologia delle forme simboliche, p. 262 e segg).

Il viaggio di Vinicio Serino include due soste essenziali alle significazioni simboliche delle Cattedrali Cristiane, e prende a coordinate l’affresco del Buono e del Cattivo Governo di Lorenzetti nel Palazzo Pubblico di Siena nella prima metà del ‘300, e il cammino iniziatico, con la ricostruzione del “labirinto delle Sibille” nella Cattedrale di Siena. Entrambe le opere possono essere considerate punti cardine del processo esoterico.

Sempre Durand de Mende:

Tutte le cose che appartengono agli uffici, agli usi o agli ornamenti della Chiesa, sono piene di figure divine e di mistero, e ognuna, in particolare, trabocca di una dolcezza celeste, quando nondimeno incontri un uomo che le esamini con attenzione e amore, e che sappia trarre il miele dalla pietra e l’olio dalla più dura roccia. Chi conosce tuttavia l’ordine del cielo, e ne applicherà le regole alla terra? Certo, colui che vorrà scrutarne la maestà sarà schiacciato dalla sua gloria, poiché si tratta di un pozzo profondo, e io non ho di che attingervi, a meno che colui che dona a tutti abbondantemente e senza rinfacciarlo, non mi offe a l’occasione di bere pieno di gioia alle fontane del Salvatore, l’acqua che cola al centro delle montagne. Tuttavia, non si può dare ragione di tutto quello che ci è stato trasmesso dai nostri antenati (Dt 32, Gb 38, Pr 25, Gv 4, Gc 1, Sal 103, Is, 12 Ap 3, Ct 2, Es 25, Sap 10, Gv 3); giacché è necessario anche toglierne, il che non ha delle ragioni. E, per questo dunque che io, Guillaume Durand, nominato vescovo della santa Chiesa di Mende per sola concessione di Dio, io busserò, e non smetterò di bussare alla porta, se tuttavia la chiave di Davide si degni di aprirmela, cosicché il re mi introduca nella cantina dove egli sorveglia il suo vino, e dove  mi sarà rivelato il modello divino che fu mostrato a Mosè sulla montagna, sino a che io possa spiegare, in termini chiari e precisi, che cosa significhino e che cosa racchiudano tutte le cose che si riferiscono agli uffici, agli usi e agli ornamenti della Chiesa, fissandone le regole dopo che questo mi sarà rivelato da colui che rende eloquente la lingua dei fanciulli e il cui spirito soffia dove vuole, distribuendolo a ciascuno come più gli piace per la lode e per la gloria della Trinità. (Guillaume Durand de Mende (1230-1296), vescovo francese della Chiesa Cattolica, Rationale divinorum officiorum, lib. I-V, Prefazione, I. Il miele dalla pietra e l’ordine del Cielo)

Le 56 tarsie marmoree che ricoprono il pavimento furono realizzate tra il 1369 e i 1547.  Il primo grande riquadro rappresenta Ermete Trismegisto, il “tre volte grandissimo” (recita il cartiglio sotto la figura: “Contemporaneo di Mosé”), che secondo le tradizioni non appartiene alla cultura cristiana. È la figura che accoglie il pellegrino-visitatore appena varcata la soglia del sagrato, dove sono raffigurati i simboli del lac (latte) e del mel (miele). Simboli che richiamano il nutrimento del Cielo nel Regno di Dio.

      Antropologia delle forme simboliche        Antropologia delle forme simboliche, di Vinicio Serino

Angelo Pontecorboli Editore, Firenze

279 pp., Euro 22,50