Archivi categoria: Frontiera di Pagine

CapoVersi #1#2#3

di Andrea Galgano 16 settembre 2019

leggi in pdf  ASHBERY-CHODASEVIC-PARRA

Si intitola capoVersi, la nuova collana della Bompiani, con i primi tre titoli: Autoritratto entro uno specchio convesso di John Ashbery, Non è tempo di essere di Vladislav Chodasevič e L’ultimo spegne la luce di Nicanor Parra.

JOHN ASHBERY: L’INELUDIBILE LIMINALE

John Askbery photo by Lynn Davis

Autoritratto entro uno specchio convesso[1] di John Ashbery, vincitore del Premio Pulitzer nel 1976, del National Book Award e del National Book Critics Circle Award, a cura di Damiano Abeni e con un saggio di Harold Bloom, rappresenta una frantumazione linguistica che tenta di esplorare, raggiungere e rappresentare il reale, in ogni sua forma compulsiva, negli anfratti che segnano il Tempo, attraverso l’ordito della figurazione quotidiana, la scompaginazione della prospettiva e il territorio dello spazio mentale.

Già nel 1983, Garzanti pubblicò, nella storica traduzione di Aldo Busi, impreziosito da una introduzione di Giovanni Giudici che ne sottolineò la genesi germinale del Tempo, obbligato e cadenzato dal reale: «In Ashbery la coscienza umana, nella ricerca di dare senso al fluire inarrestabile dell’esistenza, resta vuota, frastornata e attonita, tuttavia carica di un’energia che sfavilla, lasciando intendere sogni, scommesse, emozioni, desideri e chissà quali speranze di felicità[2]».

John Ashbery avverte tutto il potere dei passaggi liminali, non soltanto nella diffrazione tra presente e intonazione passata, ma nella convessità del tempo e nei suoi dispositivi:

«Quelle intricate versioni del vero vengono / sbrogliate, i ringhiosi grovigli estirpati / e sparpagliati. Dietro la maschera / permane una comprensione continentale / del bello, che s’appalesa di rado e quando lo fa già / muore sulle ali del vento che l’ha portato sulla soglia / della parola. Racconto consunto dal raccontare. / Tutti i diari s’assomigliano, limpidi e gelidi, con / la prospettiva di un gelo interminabile. Vengono collocati / in orizzontale, paralleli alla terra, / come i morti che non ci intralciano. Giusto il tempo di rileggere / e il passato ti scivola tra le dita, augurandosi che tu sia con lui».

Il sole si sfarina, il volo aspro delle parole come una pienezza in uno sguardo di specchi aumentano il desiderio di pienezza e separatezza, immedesimazione, ombra e riflesso di una leggibilità nascosta, laddove il mondo non viene rappresentato bensì è esso stesso proprietà, avviluppo e inconoscibilità:

«dalla notte affiora il ricordo / le sue foglie come uccelli che si posano all’unisono sotto un albero / raccolto e scosso di nuovo / messo giù in rabbia fiacca / sapendo come lo sa il cervello che ciò non si può mai inverare / non qui non ieri nel passato / solo nella lacuna dell’oggi che colma se stessa / mentre il vuoto è suddiviso / nell’idea di che ora sia / quando quell’ora è già passato».

In tale inconoscibilità che non ammette conclusione nette e risposte preconfezionate, il challenging di Ashbery squilibra le pupille del senso, in un universo di perfezione che non teme irresolutezza e luci dissipate, e che, nel dono essudato della parola, pone la sua linea, il tatto che si sottrae, la scatola intonsa di un monologo ritagliato:

«Uno sguardo di specchio ti arresta / e tu passi oltre scosso: ero io il percepito? / Mi hanno notato, stavolta, così come sono, / o tutto è ancora rimandato? I bimbi / ancora intenti ai giochi, nuvole che salgono con agile / impazienza nel cielo pomeridiano, per dissiparsi / quando scende il limpido, denso crepuscolo. / Solo in quel colpo di clacson / là in fondo, per un attimo, ho pensato / che l’insigne evento formale stesse iniziando, orchestrato, / i colori addensati in uno sguardo, ballata / che abbraccia il mondo intero, adesso, ma con dolcezza, /ancora con dolcezza, ma con ampia autorità e tatto. / La prevalenza di quei fiocchi grigi che cadono? / È pulviscolo di sole. Hai dormito al sole / più della sfinge, ma non ne sai più di prima. / Entra. Ho pensato che un’ombra tagliasse la soglia / ma era soltanto lei venuta a chiedere ancora una volta / se intendevo entrare, e in caso contrario di prendermela calma. / La lucentezza della notte s’insedia. Una luna dal pallore cistercense / ha scalato la vetta del firmamento, vi si è installata, / socia adesso nell’affare del buio. / E un sospiro sale da ogni minuscola cosa terrena, / da libri, carte, vecchie giarrettiere, dai bottoni di sottomaglie e mutandoni / riposti in una scatola di cartone bianco chissà dove, e tutte le versioni / inferiori di città rase al suolo dalla livella della notte. / L’estate troppo esige, troppo prende, / ma la notte, schiva, reticente, dona più di ciò che sottrae».

Anche il dettaglio partecipa alla scena. Un dettaglio frazionato e scomposto che aggredisce dolcemente la pagina. Se di postmoderno si tratta, il postmodernismo presunto di Ashbery è un oltre di senso disfatto e raggiunto, laddove l’orizzonte spazio-temporale conosce i salti e l’incorruttibilità e l’inerzia.

Il colore si accompagna alla stasi sconvolta, per schernire luci ventose e planare con l’acuto diaframma della distopia, della forma scomparsa ma emersa all’improvviso e dell’inconscio sottaciuto nei nomi che germinano e nell’attesa piena. Le parole sono anti-figura, effigiano spaesamenti, mimano immanenze. Sotto l’elusività esiste la necessità di una materia cangiante, come

«qualcosa di incandescente, di urgente, di vero, e che anzi questa verità si possa cogliere solo rinunciando a quella sorta di coazione alla coerenza che costituisce in fondo una della illusioni fondanti del cogito: se la poesia di Ashbery, come ha scritto qualcuno, rischia di «far sentire stupidi», questo andrà considerato come il primo necessario passo per una maturazione profonda che implica persino, come dichiara lo stesso poeta americano in una risposta alle mie domande, un accrescimento di sapienza o di saggezza[3]»:

«Vede i quadri alle pareti, / mero campione del vero. / Ma non se ne ha mai abbastanza. / Il vero non appaga. / In una vaga stanza d’albergo / le sfilze di chiazze lievitate / dal crepuscolo erano giorni e notti / e al largo sul mare / perdurava il desiderio di essere un sogno a casa / nuvola o uccello assopito nell’abbeveratoio / d’acque digressive».

Il territorio della poesia raggiunge gli argini della mitopoiesi e della metalinguistica, li alterna, sfrangia i codici, frequenta la parodia e la dissacrazione come riflessione fatale:

«Come un temporale, diceva, le trecce di colore / mi dilavano e non sono per niente d’aiuto. O come chi / a un banchetto non mangia, perché non sa scegliere / tra i piatti fumanti. Questa mano amputata / impersona la vita e per quanto vaghi, / est o ovest, nord o sud, è sempre / un estraneo che mi cammina accanto. O stagioni, / bancarelle, chaleur, ciarlatani dai capelli scuri / ai margini di qualche fête rurale, / il nome che buttate lì senza mai dirlo è il mio, mio! / Un giorno mi rivarrò su di voi per quanto logoro / sono a causa vostra ma nel frattempo il giro / continua. Si uniscono tutti al giro, / pare. E poi, che altro ci sarebbe?»

Spingere la parola, partendo dall’abisso della cifra ricolma ed orfica di Whitman, dalla densità separata di Emily Dickinson, dalla nudità suprema di Emerson e Wallace Stevens, al battito surreale e improvviso della Beat o l’impronta rinascimentale, fino all’amato Raymond Roussel e ai Surrealisti degli anni ‘20, cercando però un’espressione che sia distruzione convenzionale e celamento, è il suolo poetico di Ashbery, dove il sotterraneo rivelato si unisce al visibile:

«L’ombra della veneziana sulla parete dipinta, / ombre di sansevieria e cactus, animali di gesso, / inquadrano la tragica melancolia dello sguardo che acceso / fissa il nulla, un buco simile ai buchi neri nello spazio. / In reggiseno e mutandine raggiunge leggera la finestra: / zip! S’alza la tenda. Un fragile teatrino di strada si palesa / con ostie di pedoni che sanno dove andare. / La tenda scende lenta, lente si schiudono le lamelle. / Perché deve sempre andare a finire così? / Un podio con donna che legge, con il parapiglia dei capelli / e il non-detto di lei che ci riattira a lei, con lei / nel silenzio che la notte di per sé non può spiegare. / Silenzio della biblioteca, del telefono con il suo blocco- note, / ma nemmeno questi li abbiamo dovuti reinventare: / se ne sono andati nella trama di un racconto, / nella parte sull’“arte” – sapere quali dettagli di rilievo lasciar fuori / e il modo in cui si costruisce un personaggio. Cose troppo reali / per porvi troppo pensiero e quindi artificiali, eppure ormai sparse a coprire la pagina. / L’interno con l’esterno che diventa parte di te / nel vedere che non hai mai smesso di ridere in faccia alla morte, / lo sfondo di tralci scuri sul contorno della veranda».

Anche per Ashbery vale la tela verbale di un ipotetico dripping pollockiano, composto di epifanie spaiate, dove la poesia diventa possibilità, ritratto di luce e sua eventuale esplosione:

«Vivere con la ragazza / venne gettato a pedate nella zolla delle cose. / Ci fu una gran scenata a fine giugno, / gente che va e viene / prima che si lasci perdere la faccenda. / Ma rimane, come lei che accenna appena / ad accigliarsi, o le foglie che sgocciano / di rabarbaro e malvone, / anch’esse temporanee nella sconfitta. / Nessuno ride ultimo».

O ancora la cifra della torva fecondità:

«Quasi subito l’olio ha / preso il posto del / buio che ti circonda. Tutto è andato / come predetto, ma / comunque non è mai suonato bene: / una frazione qui, una lisca dove non aveva importanza. / Va offerto / attraverso un varco inappellabile: peri e fiori / un supremo muro resinoso / che si crogiola nel clima temperato / della tua identità. Torva fecondità / da tenere d’occhio».

Costruzione e non già distruzione, quanto filo invisibile:

«Così ciascuno si trovò preso in una rete / come una moda, e ogni sforzo per districarsene / lo avviluppava di più, inesorabilmente, visto che tutto / là esisteva per essere raccontato, sparato / da confine a confine. Qui c’erano pietre / che si leggevano come chiazze di sole, c’era il racconto / dei nonni, del giovane campione vigoroso / (le battute un tempo assegnate a un altro, adesso / restituite al nuovo oratore), cene e riunioni, / la luce nella vecchia casa, il modo segreto / delle stanze di sfociare l’una nell’altra, ma tutto / era circospezione del tempo che contemplava se stesso / poiché nulla nell’intricato racconto si espandeva di fuori: / la grandiosità nell’istante del narrare restava irrisolta / finché la sua sovrabbondanza di eventi, dolore commisto a piacere, / non sbiadì nell’attimo esatto dell’esplodere / in fioritura, la sua crescita statico lamento».

Il titolo della raccolta, che riprende l’opera del Parmigianino del 1524, raggruma il richiamo della deformità dello specchio convesso alla limpida costruzione dello spazio geometrico e lineare. La mano della tela sovrappone due dimensioni di realtà, due spazi prospettici. Essa entra nel quadro, come una vasta porzione:

«Come lo fece Parmigianino, la mano destra / più grande della testa, protesa verso lo spettatore / mentre con naturalezza sfugge, come a proteggere / ciò che sfoggia. Qualche vetro piombato, travi antiche, / pelliccia, mussola pieghettata, un anello di corallo confluiscono / in un movimento che sostiene il volto, che fluttua / avvicinandosi e allontanandosi come la mano / tranne che è a riposo. È quel che è / sequestrato».

Harold Bloom commenta:

«Il gesto difensivo della mano è una formazione reattiva o illusio teorica, dato che ciò che si vuol dire è che la mano agisce come per promuovere ciò che protegge. Qui lo sfuggire è un’altra modalità del riposo, così che la difesa non tanto protegge quanto sequestra, termine il cui antecedente tardo-latino aveva il significato di “rinunciare per mettere al sicuro”. Ashbery cita la descrizione di Vasari della sfera di legno tagliata a metà su cui Parmigianino ha dipinto quella che il poeta descrive come l’ “onda reiterata / d’arrivo” del volto[4]».

Il dualismo dell’anima e del corpo segna la sovrapposizione del ritratto. È un attimo di rêverie che soggiace a un indizio di melanconia alchemica, tra le mani dell’arte. La poesia-specchio del mondo che, pur rendendo temporale il gesto, lo eternizza. Essa richiama, rinvia, sfugge la propria genesi come uscio interminabile («Può darsi la mano / abbia volontà sua di ingigantirsi sul muro, / di farsi più grande e greve e forte / del muro; e che la mente / ricorra ad allegorie solo sue e proclami: / “Quest’immagine, quest’amore, di questi / mi compongo. In questi mi manifesto esteriormente, / in questi, mi vesto d’un lindore essenziale, / non come nell’aria, che tende all’azzurro acceso, / ma come nel possente specchio del mio desiderio e volontà”»):

«L’anima instaura se stessa. / Ma fin dove può fluttuare lontano attraverso gli occhi / e ancora tornare sana e salva al proprio nido? Essendo / la superficie dello specchio convessa, la distanza aumenterà / considerevolmente; vale a dire quanto basta per asserire /  che l’anima è un prigioniero, trattato in modo umano, tenuto / sospeso, incapace di incedere molto oltre / il tuo sguardo che intercetta il dipinto».

Ancora Bloom:

«Ashbery va a caccia dell’anima, seguendo Parmigianino, e trova solo due entità disparate, una mano “grande abbastanza / da sfasciare la sfera”, e un vuoto ambiguo, una stanza senza recessi, solo alcove, uno studio che resiste a ogni cambiamento, “stabile / nell’instabilità”, un pianeta come la nostra terra, in cui “non ci sono parole per la superficie, cioè, / nessuna parola per dire ciò che è in realtà”[5]».

La caccia dell’anima è mutila d’interezza. Un incanto distopico e intenso che racchiude tagli, luci e simboli. Nella superficie avviene quel che c’è, senza cui nulla può esistere, nemmeno il corso del tempo. La superficie è orizzonte profondo e instabilità stabile di analessi. Il suo dislocamento rimane una protrusione di sogno, simile al vivere, o meglio al gesto vivente e la sua kenosis, per dirla alla Bloom:

«La kenosis è la ratio prevalente in Ashbery, e tutta la sua poetica sta nell’“[esalare] la propria forma con un gesto che esprime quella forma”. Cos’altro, se non la forza del passato, il vigore della sua tradizione poetica, avrebbe potuto portare Ashbery alla sua soglia successiva, allo stacco disgiuntivo o attraversamento del solipsismo che lui oltrepassa tra il terzo e il quarto paragrafo in versi? La transizione avviene “dal sogno alla sua codifica” fino alla sorpresa angelica o demoniaca del volto di Parmigianino/Ashbery. Il Portentoso o Sublime fa il suo ingresso sia attraverso la repressione del ricordo del volto sia attraverso un ritorno del represso grazie a ciò che Freud ha definito Negazione».[6]

Ecco Ashbery:

«Mentre comincio a scordarmene, / ripresenta il suo stereotipo / ma si tratta di uno stereotipo inconsueto, il volto / all’àncora, scaturito dai rischi, che di lì a poco / altri ne avrebbe abbordati: “piuttosto angelo che uomo” (Vasari). /  Forse un angelo ha le sembianze di tutto / ciò che abbiamo scordato, intendo dire di cose / scordate che non paiono familiari quando / ci imbattiamo di nuovo in esse, perdute indicibilmente, / seppur nostre, una volta».

La frammentazione degli istanti è il sussurro, la rimembranza fuori dal tempo. La frattura e il tormento, la stanza radiosa, la luce di aprile e il limite raccontano la precocità precaria di un abisso che si consegna, immolando tutta la sua totalità:

«Ogni cosa accade / sul suo balcone e viene ricapitolata al suo interno, / ma l’azione è il freddo flusso sciropposo / di una sfilata in maschera. Ci si sente troppo limitati, / setacciando in cerca di prove la luce di aprile, / nella pura immobilità della serenità del suo / parametro. La mano non regge alcun gesso / e ogni parte dell’insieme si deteriora / e non può sapere di aver saputo, se non / qui e là, in gelidi recessi / di rimembranza, sussurri fuori dal tempo».

[1] Ashbery J., Autoritratto entro uno specchio convesso, a cura di Damiano Abeni, con uno scritto di Harold Bloom, Bompiani, Milano 2019.

[2] Affinati E., L’energia di Ashbery il più grande poeta di quest’epoca, in “Roma Sette”,  18 settembre 2017.

[3] Gezzi M., Benvenuti in un mondo che non può essere migliore. Intervista a John Ashbery, in «Poesia», XXII (2009), 234, gennaio 2009.

[4] Bloom H., Frantumare la forma, cit.

[5] Id., cit.

[6] Id., cit.

 

 

 

 

 

 

 

Vladislav Chodasevič: la frattura del buio

In Non è tempo di essere[1], a cura di Caterina Graziadei, che contiene testi da Giovinezza (1908), La casetta felice (1914) e Raccolta dei versi (1927), Vladislav Chodasevič (1886-1939) osserva il mondo, contemplandone l’oscurità separata, la non-appartenenza, la scissione martire e la frattura abbuiata che respira finestre di tempo come distanze.

La studiosa afferma:

«La finestra è centro di uno stralunato universo, lente e focus di un occhio testimone, di un poeta che è soprattutto sguardo. […] Discrimine fra interno ed esterno, la finestra diverrà nel tempo soglia creativa, trasparenza da cui si vede e si è visti, duplicità dello sguardo riflesso, che accoglie in sé i molti significati dell’occhio, della rifrazione. Infine, già nell’infanzia, essa prefigura la costante attrazione per la vertigine all’ingiù, per il suicidio. Di un’accidentale e fortunosa caduta dalla finestra scriverà nella prosa autobiografica Infanzia (1932), stilizzata sul modello baudelairiano delle Fusées o del Peintre de la vie moderne, dove il poeta ricorda il primo formarsi del gusto, il viluppo di inclinazioni e sensi che formeranno poi l’ordito di molta sua poesia e di altrettante scelte di vita».[2]

Morto in esilio nel 1939, a Parigi, nella vigilia del secondo conflitto mondiale, schiacciato dal lungo calvario che toccò anche Mandel’stam e Pasternak, nella ideale triade che ne fece Renato Poggioli, negli anni ’40 e ’50, egli è il poeta che, diacronicamente, avverte il peso dell’eclisse dello sradicamento, in quella meraviglia complicata, come disse Nabokov, che rimane lacerto di ferita insanguinata ma che resiste nella sua tramontata e scabra perfezione, annunciando, così, la vertigine dell’orrore degli specchi infranti, la rifrazione dello sguardo nella notte europea del secolo[3] e il tremore della morte.

E nella intonazione insonne della sua malattia,  come «Baudelaire “dandy précoce”, egli partecipa della qualità androgina che da quel mondo deriva e sembra distinguere l’artista, il funambolo, o il ballerino[4]».

Chodasevič avverte la dissonanza come febbrile esecuzione dell’anima[5], l’infero che diviene dimora in un universo doppio, in una disgregante armonia di suono e disvelamento, ed è nella morte che tocca la sua ferita aperta e febbrile, che si afferma  la sua luce attardata e intiepidita («Come tedio si riversa / nel fumaiolo gelato – l’urlo del vento! / Attorno a me si stringe il cerchio, / attorno alla fronte Angoscia intreccia / il mio fatidico serto»), come uno scarto di sogno inchiodato che scandisce la storia («Solo, fra le anse del fiume, / allo stridìo di attardate gru, / oggi di nuovo apprendo / la muta sapienza dei campi. / Si fanno più occulti, più gravi i pensieri, / più cauto il fruscìo della canna. / Alla foglia caduta nel letto sabbioso / offre il fiume tetra sepoltura»).

In un dittongo impronunciabile, essa decifra il percorso di una «una psicanodia, percorso dell’anima che aspira a abbandonare l’involucro del corpo per rientrare alla patria celeste e insieme narrare le sue sofferenze, le difficoltà di questo accidentato cammino. Un itinerario all’insù che volge in uno sciagurato precipizio: se il volo d’Icaro era fallito per arroganza, l’anima invece si perde per lo sconforto[6]».

Chodasevič compone il suo territorio di vastità immemori ed escluse, fondendo il volto del fato in danza incerta e verticale di metafisica e di respiro quotidiano, muovendosi «lungo una dinamica costante di attrazione-repulsione, alto-basso, cielo e terra; spesso con uno scarto irritato per la volgarità e l’usura dei giorni feriali rovescia la divagazione filosofica, la visione ultraterrena nello stretto orizzonte del cortile, comprime e riduce la tensione metafisica nei logori stampi di una trivialità cittadina, quotidiana[7]»:

«Come una silhouette sull’azzurro lunare, / nereggia un ramo in merletto bruciato. / Come un fantasma sei sorto sull’erba, – / come una silhouette sull’azzurro lunare, – / hai levato al fogliame incurante / immote braccia contorte in meandri… / Come una silhouette sull’azzurro lunare, / nereggia un ramo in merletto bruciato. // II  Da dietro i tronchi la riviera immemore / dondola chiazze di puntillismo lunare. / Oh, quanto pura, quieta, spensierata / da dietro i tronchi – la riviera immemore! / Oscura arrivasti da lontano / in cerca di oblio, di una sosta alla culla lucente. / Da dietro i tronchi la riviera immemore / dondola chiazze di puntillismo lunare…».

Ecco, dunque che il destino del poeta diviene furtivo e rarefatto. Un’oscura e solitaria lacrima di incontro. Come scagliato dall’abisso respira l’inestinguibilità del suo vocabolo di fuoco, vibrando il suo stelo sottile che non vacilla nell’aria diafana.

Vi è, allora, un offuscamento nel suo gesto lirico che tocca gli occhi esausti degli ardori primaverili: una lunga passeggiata che cerchi pace e possa portare all’anelito dell’anima, come una quieta salmodia di tenebre che risale fino a Puškin.

L’imprevedibilità dei suoi contrasti dissipa gli orientamenti in una calibrata vertigine calante, dove i sogni dell’anima attraversano tende arabescate e segni cifrati che varcano il tempo e lo spazio, fino alla calamità dei cretti:

«È bello che al mondo / ci siano magiche notti, / il ritmico scricchiolio dei pini, / l’aroma di comino e camomilla / e la luna. / È bello che al mondo / ci siano ancora bizzarrie del cuore, / che la principessa, pur senza amare, / conceda un bacio impresso / sulle labbra. / È bello che in forma di ali / sullo stradello d’argento, / si sciolga in ombra lieve, / e oscillando si afflosci, / un nastro nero. / È bello sorridendo pensare / che la principessa (pur senza amare!) / non dimentichi la notte di luna, / né i baci, e me neppure, – / ora né mai!».

Il suo scavo insegue la densità della materia, entrando nella penombra del tempo incerto e maturo, sconfinato nella morte e nel varco della ultimità e del rinnovamento: «Brilla d’oro nel suo palmo il chicco di grano / nella terra nera destinato a cadere. / E là dove cieco il verme si apre il cammino, / in un tempo segreto morrà per germogliare. / Così va la mia anima per la via del grano: / scesa nel buio morrà – per rivivere ancora. / Tu pure, mia terra, e tu con lei, suo popolo, / traversando questo anno morrete a nuova vita, – / poiché una sola saggezza ci fu data: / tutto il vivente vada per la via del grano».

In Chodasevič, troviamo la cifra di un allarme imminente: « Anche in sonno l’anima non ha riposo: / sogna la veglia, inquietante, terrena, / e attraverso il sonno odo un delirio, / che a stento la vita del giorno mi ricorda».

È come se tutta la radiosa trama del paesaggio fosse minacciata da un sabotatore interno, un’anima inquieta, una nera coltre socchiusa e acrobata che disgrega gli inizi di ogni corso segreto, di ogni attesa leggera e di un fuoco che fa chiudere gli occhi:

«Come accade / quando col remo stacchiamo la barca / dalla riva sabbiosa; ancora il piede / tocca netta la terra sotto la chiglia, / e vicino appare il verde della riva, / la catasta di legna; poi una scossa – / e la riva si allontana; più piccolo / si fa il boschetto dove noi vagavamo; / sale dal bosco un fumo; ed ecco – oltre / gli alberi già la radura appare col rosso / capanno termale. / Così me stesso / vidi in quell’istante, come quella riva; / vedevo d’un tratto di lato, quasi / guardassi un poco dall’alto, a sinistra. / Sedevo, le gambe incrociate, sprofondato / nel divano, la sigaretta ormai spenta / tra le dita, pallido e smagrito. / Gli occhi erano aperti, ma la loro / espressione non potevo vedere. / L’altro me stesso, seduto di fronte, / non percepivo. Mentre chi mi guardava, / con occhi forse incorporei, a suo agio / sembrava, leggero e tranquillo. / E l’altro, seduto sul divano, / mi apparve soltanto un amico di sempre, / estenuato da un lungo viaggiare. / Quasi fosse venuto mio ospite, / e, di colpo, ammutolito nel quieto discorso, / scuotendosi, morisse in un solo sospiro. / L’amaro sorriso abbandonava il volto / rasserenato. / Così vidi me stesso per poco: certo / la lancetta dei secondi non aveva / compiuto un quarto del giro dovuto. / E come prima non per mio volere / avevo abbandonato quell’involucro – / così di nuovo vi tornai. Pure / duravo pena e fatica al ritorno, / sgradito persino allo stesso ricordo. / Non diversa angustia patisce e pena / il serpente costretto a inguainare / di nuovo la pelle appena scrollata… / Di nuovo / rividi innanzi a me i libri, / riudii le voci. Mi era fatica / ancora sentire quel corpo, le mani… / Così, lasciati i remi e balzando a riva, / ci sentiamo a un tratto più gravi. / Fluiva in me nuovamente il languore / come di un lungo remare, – nell’orecchio / suonava indistinto un rumore, un’eco / prigioniera di vento lacustre o di mare».

Il suo abito di sogno avverte la ruvidezza del corpo fiaccato e della finitudine. Il suo orizzonte proclama il riflesso di una imminenza di fine frustrata, ricolma di dissonanze e senso disperato: «È la mia anima come una luna piena: /  limpida e fredda. /  In alto splende e risplende – / né le mie lacrime asciuga; / non si dà pena della mia sventura, / né ascolta il gemito delle mie passioni; / l’anima che brilla non mette cura / a quanto mi fu dato patire».

La luce di Chodasevič diviene un fulcro di gemme flebili e aggrottate, il ricordo del meriggio è materia finita che percorre le linee della immota realtà, il mysterium tremendum il buio di luna verde e anima che vacilla e sgambetta sulla scena azzurro-lunare. È la conclusione della sua nigredo che tutto ammanta e fa perire:

«Ogni suono mi tormenta l’udito, / gli occhi ferisce ogni raggio. / Comincia a spuntare lo spirito / come un dente fora la gengiva gonfia. /  Spunterà, spogliandosi della scorza consunta. / In mille occhi svanirà nella notte, / non in questa notte cinerina. / E rimarrò qui lungo disteso – / banchiere trafitto da un apache – / con la mano premendo la ferita, / a gridare e dibattermi nel mondo vostro».

O ancora: « Guardo dalla finestra, e disprezzo, / Guardo me stesso, pure disprezzato. / Invoco tuoni sulla terra, / senza credere al cielo. Avvolto dal fulgore diurno, / vedo solo un buio senza stelle… / Così sull’aiuola si torce il verme, / reciso dalla vanga pesante».

Caterina Graziadei commenta:

«La diffrazione dello sguardo scaturisce da una prospettiva metafisica che altera e separa, sdoppia la realtà. È un demone che propaga dissonanza nell’anima e nei versi del poeta. Ed essa risulta artificio strutturale della poetica di Chodasevič, presiede alla dicotomia dei due emisferi in cui è spezzato il mondo, aiuola dove il poeta si torce come «verme reciso da una vanga pesante» (Guardo dalla finestra, e disprezzo…). Dissonante è l’inframondo terreno, popolato di piccoli demòni stolti, opposto all’empireo inattingibile dell’anima, oppure il quotidiano che d’improvviso irrompe nella speculazione metafisica, secondo uno schema a contrasto in cui spesso la stanza o il distico finali contraddicono il senso dei versi precedenti, con effetto sentenzioso o sarcastico, fissato nella brevità dell’aforisma: «… ma stràppati: pietra da una fionda, / stella, spiccata nella notte… // […] Chissà cosa borbotti fra te e te / in cerca delle chiavi o del pince-nez» (Travalica, trasalta…)».[8]

L’inerzia malevola della realtà stringe gli strati della terra, il fruscìo del requiem, la mano estranea assiderata, dove volge la cifra del tormento flebile come risveglio trascinato e minacciato che affronta gli ossimori di anima e corpo, come un’anamorfica erma bifronte: «Allora le cose attraversano il corpo fisico del poeta e ne invadono, aggrediscono lo spazio interiore, psichico: la centralità dell’io è dislocata ai margini con violenza, il voyerismo è il segno della sua perversione[9]».

La poesia diventa così presagio di angoscia e di pena, un vicolo lontano dove l’acero ingiallisce e il nero cappello si rotola sulla sabbia, e dove «anche attraverso l’afa spiri / dell’Ade la frescura».

Il verso è disadorno e nudo, l’anima essenziale, dimessa e disadorna la linea che prosciuga il vivente in un frattale oppositivo, quasi sentenzioso, per far affiorare la dimensione interna o ciò che si affaccia all’esistere, come può essere una strada.

È il sintomo del suo esilio:

«Alla mia mano non è dato sollevare / il velo dell’occulta Maia, / ma prodigioso un mondo si specchia / nella tua pupilla dilatata. / Là con unione inconcepibile / si palesano l’amore e la strada: / l’ardere dell’etere fiammante / insieme al disgelo di primavera. / Un cosmo luminoso vi affiora / dalla mossa cortina delle ciglia, / vortica e fiorisce come la stella / dei raggi in una bicicletta».

Lì si innerva la sua misura, spesso luttuosa e recisa, dove il mondo ctonio emerge in tutta la sua innervata tenebra, in cui il dialogo con Dio ha il sapore di una consegna di anima che liberi il corpo, nonostante Egli diventi spesso un rivale, divenendo però il tramite per una trasfigurazione simbolica.

Solo lì l’anima acrobata afferma il momentaneo orizzonte della leggerezza, il suo precario spirito che crepita. Chodasevic afferma il suo esilio fioco e orfico: «Risplendi nel fulvo riverbero, / e strida la penna solerte. / Vive nel suo rapido crepitio / tutto l’anelito del mio essere».

L’anima è divisa. Le certezze sono labili come il tempio della vanitas di tutto ciò che c’è, salvate da un lieve affioramento di schegge antiche e pesante lira: «I piedi alla infera fiamma, / la fronte alle stelle vaganti».

È come la sua Pietroburgo disseminata di cielo ed ombre, tramortita dal buio tombale della Russia. Tutte le sue slogature interiori passano da un selciato dismesso, consegnano la lingua umana, contrassegnata da una libertà severa.

La Musa de La notte europea è inquietante, laddove il supplizio sensoriale si esplica nella minaccia della città, nelle sfere estranee dell’essere, nel cielo cieco e nella notte che estende il giorno.

In una tragica Berlino (il poeta l’aveva raggiunta nel 1922 con Nina Berberova), che assomiglia tanto a San Pietroburgo, Chodasevič sente tutto il peso della sua finitudine tragica. Non solo per la conformazione della città e il suo grigio-brunastro invernale, ma per il senso di troncamento, di tenebra e di ombre allungate. Un bagliore secco e fosco che genera doppi, trasfigurazioni mostruose e stridore cacofonico di un mondo altro:

«L’Ade, sempre così prossimo ai versi di Chodasevič, appare adesso come una realtà quasi tangibile, Berlino diviene anche per lui antiporta del Tartaro, prefigurazione dell’Apocalisse che travolgerà l’Europa fatiscente sotto la spinta della nuova barbarie, attesa e preconizzata da alcuni intellettuali europei prima del nazismo. Nella Berlino “meccanica”, come a Saarow, vicino luogo di

villeggiatura dove Chodasevič è ospite di Gor’kij, anche la natura non offre consolazione: è matrigna, infuoca e arroventa una «erba sbiancata, mezzo tramortita», oppure bagna, fradicia, imputridisce».[10]

Nel suo colore smarginato come una sorta di anti-paradiso, nella catabasi di illusione e vitale prospettiva, nella malìa come sospensione fotografica, nello straniamento distorto, Chodasevič colloca la sua creazione ammutolita e il piombo dell’inattingibile sul sogno deluso: «Non è tempo di essere, ma di sostare, / non tempo di vegliare, ma di dormire, / come dorme l’embrione dall’erta fronte, / e nella molle eternità di nuovo / ravvolgersi come dentro un utero».

 

[1] Chodasevic V.F.., Non è tempo di essere, a cura di Caterina Graziadei, Bompiani, Milano 2019.

[2] Graziadei C., Un’intonazione senile, in Chodasevic V.F.., Non è tempo di essere, cit., p.7.

[3] De Michelis C.G, L’undicesimo poeta russo, in “La Repubblica”, 23 luglio 1993.

[4] Graziadei C, cit., p.7.

[5] Id., La dissonanza nella poesia di Vladislav Chodasevic, in «Europa Orientalis», 4, 1985.

[6] Id., Un’intonazione senile, cit., p.9

[7] Graziadei C., La dissonanza…, cit., p.82.

[8] Id., cit, p.9.

[9] Id., cit., p.84.

[10] Id., cit., p. 11.

 

 

 

 

 

 

 

Nicanor Parra: il poeta sceso dall’Olimpo

Nicanor Parra (1914-2018) esplora la prolifica sperimentazione laica della poesia, attraversando la vertigine terragna dell’essere e, come scrive Matteo Lefèvre, nella raccolta L’ultimo spegne la luce[1], appena edita da Bompiani,

«ha saputo condurre agli estremi le possibilità della creatività in versi, inaugurando il “genere” dell’antipoesia e riuscendo a scardinare dall’interno il sistema delle lettere sudamericane grazie a una beffarda, ostinata azione corrosiva. Ed è andato anche oltre: da questa violazione, dal lavorìo ai fianchi di Calliope e dei suoi sacerdoti e adepti, ha dato vita a un nuovo modo di concepire la scrittura lirica, alimentando una musa prosaica in grado di accogliere nel suo regno quanto in precedenza da esso era proscritto poiché intollerabile a livello di linguaggio e di argomento, inaudito in termini di motivi e protagonisti».[2]

L’erosione della cultura poetica tradizionale, la frantumazionedisincantata della forma lirica, lo scompaginamento della retorica e dello stile, la sapida mordacità, il Cile come patria tracimata (nacque a San Fabián de Alico, vicino a Chillán, nella regione centrale del Paese, da una famiglia della piccola borghesia di provincia) segnano il gesto poetico di Parra, visto non già nell’opposizione poetica, ma come agone a una certa idea paludata di poesia, ristretta in uno stantio e processuale iter poematico, in cui il poeta smette di avere un crisma di profezia, divenendo margine precario e vitale e dando voce alla bellezza impenetrabile delle metropoli latinoamericane, guidato

«dal desiderio sessuale più che dal trasporto amoroso, da una fame picaresca più che dalla coscienza di classe, dal culto dell’opportunità materiale più che da qualsiasi anelito trascendente. Nell’opera di Parra sfila dunque un’umanità sbilenca, spesso senza storia e senza memoria, una moltitudine di figure antieroiche che fanno dei bisogni primari e di un’esistenza ordinaria, triviale, la propria bandiera; e tra costoro si inserisce anche lo stesso autore, il quale nei suoi vari autoritratti si definisce perlopiù come un individuo sgangherato, un uomo qualunque, materiale e prosaico, un soggetto dimesso, nient’altro che un “insegnante in un liceo oscuro”, un impiegato “abbrutito dalla cantilena / di cinquecento ore a settimana”».[3]

Lefèvre afferma ancora:

«I versi di Nicanor Parra mettevano in crisi un sistema che in Cile si era retto per decenni su un comodo, rassicurante equilibrio degli opposti, su un pantheon di figure accreditate che rappresentavano sia la linea conservatrice sia il suo rovesciamento più o meno polemico in nome di uno stanco epigonismo delle correnti primonovecentesche oppure di una poesia organica al dogma politico e sociale di turno. Per intenderci, da un lato resistevano vecchi moduli modernisti accanto ai temi senza tempo della lirica (amore, morte, Dio, natura ecc.), abbinati spesso al culto delle radici storiche del paese e dell’intero continente, dalla mitologia indigena ai luoghi selvaggi della Patagonia; dall’altro si trascinavano stancamente linee di scrittura e compromesso che riprendevano una sperimentazione ormai trita oppure gli assiomi propugnati dall’ideologia, specialmente quella socialista, che cominciava a dare alla letteratura patria anche una visibilità su scala globale».[4]

L’antipoeta è un funambolo provvisorio che abita il ciglio dell’essere, lo vive nel’abisso della dimora e dell’incontro con figure di ogni risma estrema, dove il feroce affresco si unisce al territorio fantasmatico della volubilità, della transitorietà dei passaggi e dell’ontologia distorta.

Il poeta stesso diventa, dunque, persino parodia non di se stesso, ma dell’aurorale sacralità del suo messaggio, inscenando il teatro dei segni, mostrando inquietudine e visceralità, ritratto e acume di sogno caustico.

Nella o-scena demitizzazione della poesia, egli compie un’anti-missione, una vertigine anti-tradizionalista, dove il contrario, l’ossimoro, l’opposizione si aggrappano al relitto divino, allo smascheramento borghese della società, e dei suoi relitti, denudati davanti allo specchio: «Non gettiamoci polvere negli occhi / L’automobile è una sedia a rotelle / Il leone è fatto di agnelli / I poeti non hanno biografia / La morte è un’usanza collettiva / I bimbi nascono per essere felici / La realtà tende a scomparire / Fornicare è un atto diabolico / Dio è un buon amico dei poveri».

L’individuo diviene l’incisione irrigata della realtà, il limen navigato, la meta viandante e spericolata di una umbratile tensione conoscitiva, dove il tessuto paradigmatico e paradossale si spinge oltre l’apparenza, la cifra stilistica e la creazione, per divenire radicata suspension of disbelief.

Parra rappresenta la traslazione della fuga attraverso l’azzardo, l’alternanza di codici, la taglio della poesis, l’embrione della parola corrosiva che si appropria della quotidianità per diventare linea lapidaria e spesso ironica, urgenza e gesto vivente di domanda fino all’oblio azzurro («Oggi di primavera è un giorno azzurro, / Credo che morirò io di poesia, / Di quella malinconica ragazza / Io non ricordo ormai neppure il nome. / So solo che passò per questo mondo / Come una colomba fuggitiva: / Io l’ho dimenticata, lentamente, Come tutte le cose della vita»):

«Questo indistinto signore assomiglia / A una figura da museo di cere; / Guarda attraverso le tendine logore: / Che vale di più, l’oro o la bellezza? / Vale di più il ruscello che si muove / O la pianta ben salda sulla sponda? / In lontananza si ode una campana / Che apre un’altra ferita, o che la chiude: / È più reale l’acqua della fonte / O la ragazza che si specchia in essa? / Non si sa, ormai la gente non fa altro / Che costruire castelli di sabbia: / Conta di più il bicchiere trasparente / O la mano dell’uomo che lo crea? / Si respira una fragile atmosfera / Di cenere, di fumo, di tristezza: / Ciò che è stato una volta non sarà / Più così, dicono le foglie secche. / Ora del tè, pane tostato, burro, / E tutto avvolto come in una nebbia».

Se la ricerca poetica abbraccia ogni contatto, lo svolge attraverso un indocile apprendistato (Huidobro, Pablo de Rokha, Gabriela Mistral e il giovane Neruda, fino ad Alberti e Lorca), avvertito in Cancionero sin nombre (1937), successivamente inizia a comporre la sua fertilità eversiva, come avverrà in Poemas y antipoemas (1954), prima cifra di una luce nuova, in cui emerge il signum contradictionis della sua parola, che unisce oscurità e suolo umano («Guarda la gamba umana che pende dalla luna / Come pianta che cresce verso il basso / Quella gamba temibile che galleggia nel vuoto / Illuminata appena dal bagliore / Della luna e dall’aria dell’oblio!»), come avviene in questo Epitaffio:

«Statura nella media, / La voce né sottile né profonda, / Primo figlio di un maestro elementare / E di una sarta di retrobottega; / Magro fin dalla nascita / Pur se devoto della buona tavola; / Dalle guance scavate / E dalle orecchie piuttosto ingombranti; / Con un volto squadrato / Nel quale gli occhi si aprono a stento / E un naso da pugilatore creolo / Scende a una bocca da idolo azteco / – Tutto questo condito  Da una luce tra il perfido e l’ironico – / Né troppo furbo né scemo completo / Io fui così: un misto / Di buon olio da tavola e di aceto / Un insaccato d’angelo e di bestia!».

Parra alterna registri, dall’invettiva al ritorno alla primordialità, dalla meta-letteratura, avvertita nella sotterranea vocazione senza regole, alla instabilità creativa che deve divenire ultimità incresciosa e disposizione umana.

Esiste nella poesia di Parra un conflitto irrisolto tra la pars destruens e quella construens come infinita spaccatura e fuoco solitario. Non solo di stile o lirica che sembrano rinnovarsi e ampliarsi in un gioco linguistico, bensì strutturate o in una luce sinistra, ribelle e scientista (spesso idiosincratica e avversativa, si pensi all’imbonitore di Sermones y prédicas del Cristo de Elqui), o in una istantanea conversativa e distopica, o in una irredimibile confessione che entra nelle trame affettive proponendo la rievocazione, il tempo irriso e riletto.

Il valore del cardine poetico diventa ineliminabile, ma in un contesto comune, nei particolari di ogni giorno, nasce nel cuore del cuore, vive della nudità di spighe e di occhi. È poesia dell’alba, della terraferma. Essa scende dall’Olimpo per porgersi come ombra umana e creaturale di un «rumore moltiplicato dal silenzio: media aritmetica tra il tutto e il nulla».

Il linguaggio si lacera, rappresenta frammenti senza battesimo. In un universo disaggregato, Parra concepisce una salmodia come una lunga sequenza che aggrega polifonie, immagini, sentenze, parola rimestata, numerologie, collage di asprezze e nomi sparsi (Alonso de Ercilla e Gabriela Mistral, Octavio Paz e Juan Rulfo, Ernesto Cardenal, Tomás Lago, Che Guevara):

«Signore e signori / Questa è la nostra ultima parola / – La nostra prima e ultima parola –: / I poeti sono scesi dall’Olimpo. / Per i nostri padri / La poesia è stata un oggetto di lusso / Però per noi / È un bene di prima necessità: / Non possiamo vivere senza poesia. / A differenza dei nostri padri / – E dico questo con tutto il rispetto – / Noi sosteniamo / Che il poeta non è un alchimista / Il poeta è un uomo come tanti / Un muratore che costruisce un muro: / Un costruttore di porte e finestre. / Noi conversiamo / Nel linguaggio di tutti i giorni / Non crediamo in segni cabbalistici».

Matteo Lefèvre commenta:

«Il valore essenziale della poesia, qui accostato a un “bene di prima necessità”, è ricondotto nell’alveo della normalità, delle urgenze concrete dell’essere umano e coincide altresì con un provvidenziale abbassamento della missione dell’artista, a cui non si tributa un sovrappiù di responsabilità morale o anche solo estetica rispetto alla massa; nell’antipoesia non c’è spazio per alchimie linguistiche e concettuali né per alcun privilegio di casta, poiché il poeta “è un uomo come tanti”, è aperto alla vita, al lavoro e alla lingua di tutti i giorni».[5]

La morte rappresenta, come affermato anche da Roberto Bolaño, il segmento apotropaico di una rivelazione che, ironicamente, data anche la longevità dell’autore, diventa una consegna, una smorfia, una sottile concessione. O come accade nei 4 Sonetti dell’Apocalisse, una interminabile successione di croci si evidenzia sulla pagina. L’intima espressione di un sacrificio segnico. Il cuore di una scrittura finale.

[1] Parra N., L’ultimo spegne la luce, traduzione e cura di Matteo Lefèvre, Bompiani, Milano 2019.

[2] Lefèvre M., Un antipoeta alla corte della poesia, in Parra N., L’ultimo spegne la luce, cit.

[3] Id., cit.

[4] Id., cit.

[5] Id., cit.

 

 

 

 

 

 

Ashbery J., Autoritratto entro uno specchio convesso, a cura di Damiano Abeni, con uno scritto di Harold Bloom, Bompiani, Milano 2019, pp. 240, Euro 18.

Chodasevic V.F.., Non è tempo di essere, a cura di Caterina Graziadei, Bompiani, Milano 2019, pp. 400, Euro 20.

Parra N., L’ultimo spegne la luce, traduzione e cura di Matteo Lefèvre, Bompiani, Milano 2019, pp. 432, Euro 20.

 

Ashbery J., Autoritratto entro uno specchio convesso, a cura di Damiano Abeni, con uno scritto di Harold Bloom, Bompiani, Milano 2019.

Chodasevic V.F.., Non è tempo di essere, a cura di Caterina Graziadei, Bompiani, Milano 2019.

Parra N., L’ultimo spegne la luce, traduzione e cura di Matteo Lefèvre, Bompiani, Milano 2019.

De Michelis C.G, L’undicesimo poeta russo, in “La Repubblica”, 23 luglio 1993.

Graziadei C., La dissonanza nella poesia di Vladislav Chodasevic, in «Europa Orientalis», 4, 1985.

Moscardi I., Due poeti (e un antipoeta), in “Corriere della Sera – La Lettura”, 8 settembre 2019

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Le anime inquiete di Isabella Cesarini

di Andrea Galgano 22 agosto 2018

leggi in pdf LE ANIME INQUIETE DI ISABELLA CESARINI

Anime inquiete[1] di Isabella Cesarini, edito da Auditorium, è una ferita di abissi lucenti. Non soltanto per la molteplice galleria creaturale di voci che ne compone l’atto e  la sfida, quanto piuttosto per lo splendore lacerato e umbratile che ordina il mosaico, in cui la mano è attraversata da una voragine e da una sospensione, e, allo stesso tempo, da una mediata testimonianza che si lascia restituire, che si porge, non ostenta, lasciando un sospiro e un grido di esistenze plurime[2].

L’inquietudine è la cifra del limite, che prende coscienza della finitudine e della propria insoddisfatta sospensione, ma che allo stesso tempo, attraverso la precipua Unheimlichkeit[3], varca la caduta di senso e tenta un approdo sconfinato, anche vivendo, come accade in Bernardo Soares, anima estrema e improbabile di Fernando Pessoa:

«Poco a poco ho trovato in me lo sconforto di non trovare niente. Non ho trovato una ragione e  una logica se non a uno scetticismo che non era neppure alla ricerca di una logica per giustificarsi. Non ho pensato di curarmi da questa cosa – perché mi sarei dovuto curare? E che cosa significa  essere sani? Quale certezza avevo che quello stato d’animo dovesse appartenere alla malattia? Chi ci dice che, pur essendo una malattia, la malattia non sia più desiderabile, o più logica […] della  salute? E se la salute era preferibile, per quale altro motivo io ero malato se non per il fatto di  esserlo naturalmente, e se lo ero naturalmente, perché andare contro la Natura, che per qualche  scopo, ammesso che abbia uno scopo, mi avrebbe voluto certamente malato?».[4]

Un mosaico di corpo e gesto nel tempo, quindi, che vibra come uno stemma di domanda o una parola-corpo che si concreta. Per cui la pagina diventa l’esito di questo abisso di vibrata esistenza, diventa il libro dell’essere che ha vissuto, ha sofferto e ha sentito l’oblio e l’amore. Nella prefazione Pasquale Panella, appunto, scrive:

«Questo libro di ritratti non è un libro, è la realizzazione di un sogno, un sogno ingenuo ossia un sogno di tutti, un sogno vero. Questo libro rende invisibile chi legge, invisibile e capace di volare, così chi legge vola e, impercettibile, entra nelle finestre, in tutte le finestre – delle stanze, delle epoche, dei mondi – e vede i corpi. Perché sono corpi, queste anime inquiete».[5]

E l’autrice afferma:

«Sono le “anime inquiete”, protagoniste di immagini ingemmate dal tempo, accese dal cuore di un romanzo che si scrive prima dell’opera stessa. Una tela, sguarnita dall’ornamento di un bordo, custodisce l’esclusiva possibilità di estendersi in qualsivoglia direzione, disarcionare lo spazio e il tempo per planare sulla nuvola del cosmo. […] Raffigurati da un moto inquieto, i personaggi che accadono in queste pagine disegnano suoni ritmati da un solo metronomo: la nota inconfutabile della loro esistenza. Presenza vissuta con l’accento sulla prima emissione artistica e il punto come un cappello perduto nel tempo dei vicoli del mondo. Spiriti non comuni, lanciati in velocità sul bosco fitto, e a tratti oscuro, della vita. Impudentemente, si compiono prima nel divenire creature eccezionali e, in seguito, nella straordinarietà del farsi artisti. L’arte ammanta l’istante dello scrivere, il guizzo del dipinto, il palpito del canto in una zona dal sapore ansante, cadenzata dalla non appartenenza».[6]

La voluttà finale di Lou von Salomé, figlia di un generale dell’esercito imperiale russo, amata da Friedrich Nietzsche e Paul Rèe, amante di Rainer Maria Rilke, ammaliante femme intellectuelle, è un indizio di libertà slacciata, di una scolpita fragilità padrona che però non sconfina nel femminismo o nella rivendicazione. È la luce unica e rarefatta di una estensione narcisista e rifratta che nell’eros percepisce solitudine e carnalità, sovversione e inferno, come l’ultima parola depositata sulla pagina di Rilke, nel loro carteggio.

Sibilla Aleramo è un tormento di gioia stremata. È «poeta» come la definì la Duse, destinata all’esistenza compiuta, in cui l’esposizione «alle arene umane» diventa pagina trascritta di un fremito ribelle, di una passione intima che si risolve nel dramma miracoloso. Come nell’amore vertiginoso con Dino Campana, il poeta degli appunti lasciati nella notte, dei viaggi, dello stupore orfico, ma anche dei balbettii, dell’universo e del suo cinema, raccontano di una segreta incandescenza terragna.

E poi ancora Egon Schiele e il suo dardo lento dell’orrore, la malinconia e l’erotismo, il destino della morte che imbratta le tele, come una malattia, un grido o un faro, che invadono lo strazio nudo del corpo e il sigillo dell’essere. O l’ossimoro narciso di Pierre Drieu La Rochelle, condensato nella firma di morte e nella sua piega irrisolta, nel grido autentico e nella dannazione.

La scrittura di Isabella Cesarini coglie il tratto, la dinamica e l’orlo delle incursioni, non restituendo una ferma galleria, bensì ricomponendo un volto unico, in cui l’inquietudine diventa il mai sobrio agone di un corpo a corpo con la pagina. Qualcosa che visita e irrora, che si annida nei più esili crepacci di abissi e mari della mente, per farsi sinuosa scrittura, incurvatura dell’essere e, infine, vertigine.

L’esile incarnato di Jeanne Hébuterne, le soufflé de Modì, la “Noix de coco”, racconta il vuoto e l’attenzione, la fusione e l’osmosi di arte e dedizione, nella Parigi notturna, ai tavolini della Rotonde, e diventa

«l’affermazione dell’amore sulla vita e sulla morte, l’urto atavico con il cosmo tutto, l’opera d’arte totale con l’aggiunta dell’elemento umano. Jeanne è la madre, l’amica, l’amante e il femmineo. Jeanne è il prolungamento vitale e infine mortale di Modì. Jeanne è la forza di Modigliani. Jeanne è l’espressione massima del sentimento la rinuncia al tutto per innalzarsi proprio sopra quel tutto».[7]

L’edace inquietudine di Dalì e la sua visione fluttuante, quasi non consumata, il principio assoluto e definitivo di Gustavo Adolfo Rol e la sua amicizia con Fellini, fino alla spossessata angoscia di Emil Cioran, abitata dal regno del nulla, fronteggiata dalla sopravvivenza, acuita dal senso di limite e di morte. Oppure il travestimento kierkegaardiano di Leonor Fini e la sua orgasmica vitalità incontenibile:

«Leonor disegna una vera e propria calamita sensuale e nel centro della sua opera figurano, oltre ritratti di personaggi illustri risalenti alla sua infanzia, maestose fogge di donne. Sono creature avvenenti e inquietanti, avvolte in atmosfere oniriche, conduttrici di un mistero che resta festeggiato ai bordi della tela. La pittrice è la creatività eterodossa che vive e germoglia, come prolungamento in altri artisti».[8]

L’arcipelago di Isabella Cesarini esplora ogni cromatura di suono, ogni efferato abisso, inoltrandosi nella musica, come la leopardiana Édith Piaf, canto che dimora «nell’antinomia di un tormento che oscilla tra la discesa e la risalita», l’oro grigio di Ingmar Bergman e il suo strenuo agone con il sigillo della morte, che attraversa lo spazio e il tempo, si fa viaggio, si depone attraverso la fatale campitura umana del dubbio, dell’attesa e del vuoto.

La parola che accade, che si sospende, che si fa carne trova in Clarice Lispector, il vocabolario creaturale più vero. Diventa epifania avida, luminosa oscurità, tela di nervi e densità dell’istante. Lo diventa, allorquando, è parola-donna, disincanto di un crepaccio unico e mancante (Françoise Sagan), selciato di un meraviglioso spavento dell’umanità (Diane Arbus) o invenzione inidonea di realtà, come in Sylvia Plath:

«La poesia di Sylvia Plath (1932-1963) è abitata da un grido[9] di stanze sfumate che inseguono la traccia intrisa e bruciante di una gemma interiore in cui consistere, nata nella sopravvivente cicatrice di segno doloroso, che si sacrifica nella sua anarchia depositata, che sconvolge le linee e si appropria del mistero della realtà e acuisce la dinamica sospesa dell’esistere».[10]

Così come negli spigoli di dolore di Agota Kristóf, in cui si affermano gli schermi della frattura e della resilienza. Irene Battaglini, a tal proposito, scrive:

«Aguzzino e salvatore si dispongono docilmente sullo schiacchiere poetico di Agota Kristof. Le rappresentazioni drammatiche si vestono di sole, luce che imbianca il sepolcro della memoria, dentro la quale, al pari dei chiaroscuri delle celle petrarchesche, si conservano i pensieri “dominanti e lugubri” a far da scrigno solido ai ricordi. «sii felice di essere sola nella primavera», ad esempio, è il quadro evidente in cui figura e sfondo, vittima e carnefice, si schiudono al cielo di alberi abbattuti e freddi che stanno dietro, che stanno prima, che non si «vedono» ma che sappiamo bene quanto siano presenti nel cuore dolente e livido della Kristof. L’amalgama della materia degradata e silenziosa delle parole avviluppate ai fili, tese come panni al vento, è di fatto l’incidente probatorio dell’organizzazione «al limite» della personalità poetica di Agota Kristof. Scrittrice di inviolato talento, ebbe a scegliere il francese come lingua narrante, per misurarsi costantemente, consapevolmente, con i limiti che altrimenti il suo genio non avrebbe incontrato mai con la “lingua madre”, l’ungherese. Scelse una lingua difficile e composita, irrequieta, dotta, per sentire dentro di sé vivo l’anelito ad essere adottata da un genitore idealizzato, e dunque mai carente, disposto e aperto sempre a nuove sfide dialettiche».[11]

Nella malinconia leggiadra come uno specchio, Bruno Lauzi parla d’amore, segna gli angoli di Genova e le pieghe di ogni sistole e diastole del vivente, nel roco titanismo affettivo di Franco Califano racconta la sua libertà indomita, nella disabitata bellezza di Françoise Dorléac, nel prodigio distruttivo e disperato di Janis Joplin e nel dionisiaco abisso di Syd Barrett, il diamante pazzo di oblio e follia, e nella intimità violata, come sacrificio, di Maria Schneider, Isabella Cesarini porta alla congiunzione l’apollineo e dionisiaco, visitando l’acqua indocile delle loro vite che diventano:

«Nomi scolpiti nella potenza di essere al mondo e dentro la possibilità di disperdersi in assenzio, bourbon, inclinazioni meste e morse artistiche. L’arte, nell’affermarsi di tali personalità, è vita e morte, un dialogo tragicamente bello che attraversa gli anni e giunge sino a oggi. Sovraccaricati da emozioni infiammate, corrono sul filo provvisorio che lega il cuore al pensiero e il pensiero al crepitìo di esserci a qualunque costo, sino a trovare la vita nella morte».[12]

[1] Cesarini I., Anime inquiete.23 storie per mancare la vittoria, Edizioni Auditorium Haze, Milano 2018.

[2] Cfr. Iannone L., «La penna è il mio corpo in piena». Intervista a Isabella Cesarini (http://blog.ilgiornale.it/iannone/2018/07/27/la-penna-e-il-mio-corpo-in-piena-intervista-a-isabella-cesarini/), 27 luglio 2018.

[3] Freud S., Il perturbante (1919), in Galimberti U., Dizionario di Psicologia, UTET, Torino 1992, pag. 683.

[4] Pessoa F., Il libro dell’inquietudine, (ed. postuma 1982), Newton & Compton, Roma 2006, pag. 10.

[5] Panella P., Ritratti di parola, in Cesarini I., cit., p.7.

[6] Cesarini I., cit., p.15.

[7] Id., cit., p.46.

[8] Id., cit., p. 64.

[9] Cfr. GHIDINI F., Abitata da un grido. La poesia e l’arte di Sylvia Plath, Liguori, Napoli 2000.

[10] Galgano A., in Id.-Battaglini I., Frontiera di Pagine II, Aracne, Roma 2017, p.435.

[11] Battaglini I., Lezioni alla Scuola di Psicoterapia Erich Fromm di Prato, a.a. 2017-2018, in Galgano A., I chiodi di Agota Kristof (http://www.cittadelmonte.it/wordpress/i-chiodi-di-agota-kristof/), 7 maggio 2018.

[12] Cesarini I., cit., p. 17.

Cesarini I., Anime inquiete. 23 storie per mancare la vittoria, Edizioni Auditorium Haze, Milano 2018, pp. 156, Euro 14.

Cesarini I., Anime inquiete.23 storie per mancare la vittoria, Edizioni Auditorium Haze, Milano 2018.

Battaglini I., Lezioni alla Scuola di Psicoterapia Erich Fromm di Prato, a.a. 2017-2018, in

Freud S., Il perturbante (1919), in Galimberti U., Dizionario di Psicologia, UTET, Torino 1992.

Galgano A., I chiodi di Agota Kristof (http://www.cittadelmonte.it/wordpress/i-chiodi-di-agota-kristof/), 7 maggio 2018.

Ghidini f., Abitata da un grido. La poesia e l’arte di Sylvia Plath, Liguori, Napoli 2000.

Iannone L., «La penna è il mio corpo in piena». Intervista a Isabella Cesarini (http://blog.ilgiornale.it/iannone/2018/07/27/la-penna-e-il-mio-corpo-in-piena-intervista-a-isabella-cesarini/), 27 luglio 2018.

Pessoa F., Il libro dell’inquietudine, (ed. postuma 1982), Newton & Compton, Roma 2006.

Viaggio terrestre e celeste di Madonna Pia

di Vinicio Serino 12 agosto 2017

leggi in pdf Viaggio terrestre e celeste di Madonna Pia

immagine

Chi era la Pia

Uno degli episodi più belli e fascinosi della Divina Commedia è, sicuramente, quello del Canto V del Purgatorio, quando Dante incontra una misteriosa Pia che, insieme al fanese Jacopo del Cassero, combattente a Campaldino tra le fila dei Guelfi ed a Buonconte da Montefeltro, combattente nella stessa battaglia alla testa delle milizie ghibelline – dove trovò la morte – condivide il secondo balzo dell’Antipurgatorio. Là dove sono confinate le anime dei “negligenti” che perirono per morte violenta e che solo “all’orlo della vita” (Casini, 1892) si pentirono dei propri peccati. “Ricorditi di me che son la Pia”, raccomanda quella donna misteriosa al Poeta, quando ritornerà nel mondo dei vivi. Aggiungendo che “Siena mi fè, disfecemi Maremma”, lo sa bene “colui che ‘nnanellata pria/disposando m’avea con la sua gemma” (Purgatorio, V, 133-136): ossia il suo (ignoto) sposo. Null’altro.

Come è noto i commentatori più antichi furono concordi nell’identificare quella donna misteriosa nella moglie di Nello della Pietra, ossia di Paganello Pannocchieschi, figlio di Inghiramo, signore del Castel di Pietra, Potestà di Volterra e di Lucca e futuro consorte di Margherita Aldobrandeschi, la donna dai molti mariti tra i quali il celebre  – e spietato – Guido di Montfort, vicario di Carlo D’Angiò.

Per Pietro Alighieri, uno dei primi commentatori della Commedia, ”Ista domna Pia de Tholomaeis de Senis fuit uxor domni Nelli de la Petra de Senis qui eam occidit …” Ossia questa donna – nel senso di domina, signora – Pia dei Tolomei da Siena andò sposa a Nello senese signore di Castel di Pietra che la uccise. Si tratterebbe dunque della discendente di una delle più potenti famiglie di Siena, i Tolomei, appunto, mercanti e banchieri. Secondo quanto vuole la tradizione Nello Pannocchieschi, per un imprecisato sentimento di gelosia, ovvero per impalmare Margherita Aldobrandeschi, ultima esponente di una delle famiglie più potenti del centro Italia, avrebbe deliberato l’assassinio della “sua” Pia facendola precipitare dal proprio maniero di Castel di Pietra, nel cuore della Maremma.

A partire dal XIX secolo la critica dantesca ha messo in crisi questa storia. In un recente lavoro, Roberta Mucciarelli, ricercatrice dell’Università di Siena, rifacendosi a quanto sostenuto da alcuni studiosi ed eruditi dello scorso secolo – Decimo Mori, Alessandro Lisini e Giulio Bianchi Bandinelli – riconosce la Pia in una nobildonna discendente dal lignaggio dei Malavolti che avrebbe sposato, tra il 1282 ed il 1283, un Pannocchieschi. Non Nello, ma Tollo, dei signori di Prata, nei pressi di Massa Marittima il quale, il 19 Aprile del 1282,  aveva sottoscritto un atto di sottomissione a Siena e che, nel 1283, impalmava la sua Pia, appunto dei Malavolti. Appena due anni dopo, nel 1285, Tollo veniva ucciso per mano dei tre nipoti, scatenando quindi la reazione dei senesi che solo nel 1289 avrebbero ripreso il suo castello. Nessuna traccia della Pia (dei Malavolti), però (cfr. Mucciarelli, 2011). Sì che il mistero rimane ancora …

Dubbi e nuove strade

Per cercare di ricostruire la vicenda terrena della Pia dantesca occorre quindi fare (saldamente) ricorso ad una (sana) categoria, il dubbio. Dubbio sulla sua identità; dubbio sull’atto commesso e configurato come peccato, e che Dante condanna come negligenza; dubbio sulle modalità della sua morte che, sempre attingendo alla Commedia dantesca, sarebbe avvenuta per atto violento (cfr. per tutti Mucciarelli, 2011). D’altra parte, come diceva un grande magister, Abelardo, con buona pace di San Bernardo e della sua mistica, “dal dubbio ci muoviamo alla ricerca, e attraverso la ricerca percepiamo alla verità”.

Visti i risultati, quanto meno non esaurienti, ottenuti dai medievisti moderni e dagli eruditi del passato che, nei secoli, si sono cimentati nel tentativo di dissolvere questi tre dubbi, proviamo a seguire una strada diversa da quella della ricerca storica. Seguiamo le tracce – e le suggestioni – dell’immaginario collettivo, ossia quello straordinario contenitore di rappresentazioni, di simboli, di ideologie che, ci dice J. Le Goff citando il padre Chenu, appartengono alla storia della coscienza di un popolo (Le Goff, 1988).

Proviamo dunque con una indagine intorno alla mentalità diffusa in un tempo – il Medioevo – ed uno spazio, quello di una delle più dinamiche città stato dell’epoca e del suo territorio, Siena. Una ricostruzione non erudita eppure “reale” di quello che lo stesso Le Goff definisce Umanesimo medievale, fatto di “imprese economiche”, di “alte creazioni culturali e spirituali”, configurate in un corpus capace di far emergere le “immagini profonde, più o meno sofisticate secondo la condizione sociale e il livello di cultura dell’universo mentale degli uomini e delle donne dell’Occidente medievale” (Le Goff, 1988).

Per comprendere bene questo invito a seguire la via dell’immaginario basta pensare alla cattedrale gotica, alla congerie di messaggi veicolati attraverso la sua pietra.”La cattedrale”, dice G. Duby, “… è proclama pubblico, discorso muto che si rivolge alla autorità del popolo fedele , e innanzitutto dimostrazione di autorità”, l’autorità dei due poteri associati, quello laico del principe, o della città; quello del vescovo espressione della Chiesa universale (Duby, 1987). Una lingua “chiara e sublime”, in grado di “parlare all’anima dei più umili come a quella dei più colti” (Fulcanelli, 1972). Una dimensione entro la quale si sono “accatastati” modelli culturali molto diversi, ed alla apparenza persino inconciliabili, dove si incontrano rappresentazioni, simboli, allegorie del mondo cristiano con quello “pagano”.

Cattedrale di Siena, straordinario liber mutus che parla attraverso il messaggio del simbolo

Cerchiamo allora di penetrare il “mistero della Pia” col ricorso all’immaginario, ed in particolare ad un immaginario per così dire arturiano, fatto di molte citazioni, dirette ed indirette, al mondo della cavalleria medievale e del c.d. amor cortese. Un mondo al quale, forse, qualche manifestazione archetipica, non è del tutto estranea.

Sulle orme della Pia

Usiamo allora i canoni dell’immaginario ripercorrendo il viaggio della Pia, attraverso due dimensioni spaziali antitetiche, Siena che la “fece” e la Maremma che la “disfece”. Ed è nel mezzo di questi due estremi che occorre ricercare battendo, appunto, la strada dell’immaginario. E’ teoricamente possibile ricostruire questa strada che la Pia ha preso per raggiungere, secondo la tradizione, Nello Pannocchieschi, suo sposo, in quel di Castel di Pietra. Una via ancora esistente – e quindi rintracciabile – che si sviluppa attraverso luoghi, scenari, contrade di grande significato: un autentico spazio dell’immaginario, capace di creare straordinarie suggestioni …

immagine3
Ambrogio Lorenzetti, particolare da Effetti del Buon Governo in città

Il viaggio inizia da Siena, dal Palazzo Tolomei, probabilmente, presso il punto dovesi toccavano i termini dei tre Terzi … poco lungi dalla Croce del Travaglio presso alla gran piazza del campo , celebre per la svelta altissima torre detta del Mangia , per il palazzo pubblico e per il gioco più popolare e più allegro di quanti contar ne può tutta Italia; e costà dove i due poggi riuniti tornano a biforcare in due rami, uno de’ quali dirigesi a scirocco verso la Porta Romana, mentre l’altro verso libeccio sale al Duomo , al Castel vecchio, e di là sino alla Porta S. Marco , donde esce la strada regia Grossetana”(Repetti, 1833). Così il Repetti nel suo celebreDizionario Geografico Fisico e Storico della Toscana”.

Da qui, Costa Fabbri  al di sotto del monastero di Sant’Eugenio, già  Abbazia di S. Eugenio in  Pilosiano : ”forse … la più antica Abazia della Toscana Granducale, avvegnachè la sua fondazione risale all’anno 730 per opera del Longobardo Warnifredo castaldo regio di Siena, che generosamente la dotò” (Repetti, 1833). Di ascendenza longobarda era la famiglia di Nello …

Il percorso della Pia si sviluppa quindi da Certano, antico possesso di S. Eugenio, alla Fonte al pino (costeggiando le tombe etrusche), per il Ferratore, fino a Ponte al Rigo e Palazzaccio (Proprietà Bonsignori). Finalmente Ponte allo Spino  in prossimità del castello di  Sovicille. Qui si erge la pieve di Ponte allo Spino, vero e proprio (piccolo) libro di pietra dove si consuma, attraverso immagini di forte valore simbolico, una contaminazione culturale tra il cristianesimo e gli antichi culti delle prime popolazioni abitanti il territorio, etruschi e romani …

immagine4
Pieve romanica di Ponte allo Spino, Sovicille (SI)

Ed ecco, dopo la località di Malignano, dove è stata rinvenuta una piccola necropoli etrusca, costeggiando il padule di Rosia – oggi non più esistente – che si giunge al castello di Rosia. “Fu il castel di Rosìa insieme con altri vicini castelletti di Brenna, di Stigliano, di Orgia ecc. signoreggiato dai conti dell’Ardenghesca finché con lodo del 27 maggio 1202 quei conti dovettero dichiararsi tributarj del Comune di Siena insieme con i vassalli ad essi soggetti … “ (Repetti, 1833). Di qui, a circa un miglio, il fatidico ponte, ora detto della Pia, ma fino agli anni ’30 più noto come ponte di Santa Lucia.

immagine5
Il ponte della Pia

Un ponte a schiena d’asino, probabilmente ricostruito nel Medioevo là dove insisteva un precedente manufatto romano. L’opera, che sembra risalga all’ XI secolo, consentiva di raggiungere il vicino eremo di Santa Lucia, collocato entro una suggestiva vallata. Quella strada è denominata “Strada Manliana“ e, sulla fede del Repetti, sappiamo che doveva esistere, nei pressi di Gavorrano, ossia nell’area di Castel di Pietra, “l’antica mansione di Maniliana, ossia Manliana, per ragione che essa vedesi segnata nella tavola Teodosiana fra Populonia e la Bruna, con tutto ciò sino al secolo XII …” (Repetti, 1833)

Il ponte possiede una straordinaria valenza simbolica, è un intermedio che, come sapeva bene il ”Pontifex maximus” e come sa la Chiesa Cattolica, mette in comunicazione due dimensioni diverse, due mondi diversi, la terra col cielo: in questo caso il passato, Siena e il futuro, la Maremma. La tradizione vuole che Madonna Pia, nell’attraversarlo, abbia avuto come una premonizione e che, sospirando, si sarebbe girata (per l’ultima volta) in direzione della sua amata città. Al “simbolismo del passaggio” si affianca “il carattere frequentemente pericoloso di questo passaggio”(Chevalier, Gheerbrant, 1989) a designare l’ignoranza che il viaggiatore ha del suo approdo.

immagine6
Notturno sul Rosia

A sottolineare la forte valenza simbolica che il ponte ha in questa storia basterà citare una diffusissima credenza: si vuole che  qui, nelle notti senza luna, compaia una bianca figura di donna, vestita di bianco, con la testa coperta da un velo e  circondata da una soffusa luce bianca. E’ il fantasma della Pia, ormai consapevole della fatale scelta che ha compiuto quando è transitata su quell’antico passaggio. Una manifestazione che avrebbe sicuramente suscitato l’interesse di Jung, convinto come era che quelle forme eteree ed impalpabili andavano intese quali esteriorizzazioni della grande mole di materiale arcaico contenuto, ab origine, nell’inconscio collettivo … Ma c’è di più …

Assonanze arturiane

Rileva, dal punto vista dell’immaginario, il riferimento ad un’altra dama bianca, sicuramente molto più nota della Pia, Ginevra, la consorte di Artù. Il suo nome rimanda, con molta verosimiglianza all’antico gallese, l’impronunciabile Gwenhwyvar che, appunto, significa bianco spettro, spirito bianco. Ma le somiglianze non finiscono qui: Ginevra è rapita da un cavaliere straniero, il malvagio Meleagant, che la rinchiude nel suo castello.

immagine7
Archivolto della Porta della Pescheria, Winlogee (Ginevra) prigioniera di Mardoc, Cattedrale di Modena

Solo un cavaliere valoroso come Lancillotto, racconta Chrétien de Troyes nel suo “Il cavaliere della carretta”, saprà liberarla: ma, per compiere l’impresa, sarà costretto a salire sulla carretta, infamante, dei malfattori, perché, come gli rivela il nano che la guida, è il solo modo per giungere alla diletta dama.

Ginevra, anche in virtù dell’ impresa di Lancillotto, consumerà l’adulterio col più valoroso dei cavalieri: colpevole – come la Pia dantesca ?- del tradimento del proprio consorte, Artù, da arkto, orso. Intrigante la possibile etimologia del nome Lancillotto che non avrebbe radici celtiche evidenti: forse  Lance ap Lot (“Lance, figlio di Lot“). O forse dall’ebraico “Aziloth” (ovvero “Nobile”) che diventando “L’Aziloth“ esprime l’animo del Cavaliere, “Il Nobile”. Il che apre ad una serie teoricamente infinita sui rapporti tra modelli culturali molto diversi … eppure coesistenti …

La vicenda, narrata da Chrétien de Troyes –  autore anche del Perceval, il primo dei romanzi del Graal – viene ricostruita tra il 1170 ed il 1180 su richiesta di Maria, contessa di Champagne, figlia di Eleonora d’Aquitania. Dunque in una dimensione molto evocativa sul versante dell’immaginario, perché riferibile al contesto del così detto amor cortese, uno straordinario movimento culturale in lingua d’oc e d’oil, che si sviluppa nella seconda metà del XI secolo nelle corti dell’Aquitania e della Provenza, ad opera dei trovatori, trobadours e dei trovieri, trouvères, dal verbo trobar (trovare), da riconnettere a sua volta al tardo latino tropare (sinonimo di invenire).  Si tratta di poeti che compongono  liriche piene di passione, portatori di una idea dell’amore – molto diversa da quella, castigata, dell’Alto Medioevo – ispirata, in parte, alla Ars amandi di Ovidio. E che disciplinava, in una maniera assolutamente nuova, il rapporto d’amore tra la dama e il cavaliere, il “tema dell’amore per una dama superiore ed irraggiungibile, destinataria dell’omaggio e del canto di un io lirico che ama” (Meliga,1991).

Nel “Cavaliere della carretta” ritroviamo due singolari assonanze con la vicenda della Pia dantesca. Il rapitore di Ginevra è il malvagio cavaliere Meleagant – che sarà poi ucciso da Lancillotto – il cui nome assomiglia tanto – ovviamente è solo una suggestione – a quel “Magliata da Piombino” che, secondo l’anonimo chiosatore del Codice Laurenziano XL 7 (risalente al secolo XIV), sarebbe il sicario di cui si servì Nello Pannocchieschi per liberarsi della sua sposa, facendola precipitare dal Castel di Pietra.

Un’altra singolare assonanza, quella del ponte con tutta la sua forte valenza simbolica. Il ponte, “tagliente come una spada”, grazie al quale Lancillotto raggiunge il castello nel quale è rinchiusa la sua dama. Lo stesso che Parzival attraversa per ritornare  al castello del Graal.

immagine8
Il ponte-spada di Lancillotto, miniatura del XV secolo

Anche Galgano, il santo che infigge la spada nella pietra di Montesiepi, inizia la sua vicenda “visionaria” superando, sotto la guida dell’Arcangelo Michele, patrono della Cavalleria, un ponte “che non poteva attraversare per eccessiva difficoltà” e al di sotto del quale“un mulino con una ruota che girava, sembrava gridare”.

Superato il ponte sul Rosia madonna Pia raggiungerà, dopo un breve tragitto sulla via Manliana, l’eremo di Santa Lucia. Ai suoi inizi un semplice romitorio che si vuole fondato, alla fine del XII secolo, dall’eremita Bonaccorso, il quale, unitamente ad un gruppo di asceti che si erano uniti a lui, avrebbe iniziato la costruzione del suggestivo edificio, anche grazie al patrocinio ed al sostegno degli Spannocchi, proprietari del luogo. La chiesa, dedicata a Santa Lucia la santa protettrice degli occhi e della vista, dovrebbe risalire al 1252 e la sua consacrazione al 1267. Per tutto il medioevo il complesso fu importante punto di riferimento per viaggiatori e pellegrini che da Siena si recavano verso le Colline Metallifere e la Maremma.

immagine9
Eremo di Santa Lucia, Montagnola senese

Santa Lucia è la fanciulla di Siracusa, vissuta alla fine del III secolo che, ottenuta per intercessione di Sant’Agata la guarigione della madre, decise di mantenere la propria verginità consacrandosi al Signore. Denunciata dal promesso sposo come cristiana, e mentre il carnefice la sottoponeva al supplizio dell’accecamento, dichiarò che il suo sacrificio avrebbe tolto i non credenti dal buio in cui li aveva costretti la loro superbia. Forse, grazie a lei, simbolo per Dante della Grazia illuminante, Madonna Pia potè “vedere” la triste sorte che l’attendeva.

Dianzi, ne l’alba che procede al giorno,
quando l’anima tua dentro dormia,
sovra li fiori ond’è là giù addorno
venne una donna, e disse: “I’ son Lucia;
lasciatemi pigliar costui che dorme;
sì l’agevolerò per la sua via“ (Purgatorio, IX, 52-57).

Così Virgilio al risveglio del poeta gli rivela che, mentre era addormentato, una “donna” è venuta per aiutarlo a trovare la sua via …

Con la forza della sua luce la santa è in grado di risvegliare, ossia di “aprire gli occhi” degli uomini altrimenti accecati dall’orgoglio e della passioni …

Nei romanzi del Graal, poi, la figura dell’eremita compare spesso per consigliare i cavalieri dubbiosi sulla loro missione, indirizzandoli sulla via della virtù e della saggezza, come fa Trevrizent con Parsifal, suo nipote che, nel racconto di Wolfram von Eschenbach, ammonisce rammentandogli che la sua gioventù potrebbe indurlo “a mancare alla virtù della rinuncia”.  Proprio questa capacità di rinunziare al “mondo” ed alle sue lusinghe consente agli eremiti di condurre una vita ascetica – da ascesis, esercizio – che li prepara alla unione mistica con Dio rendendoli degni, attraverso il distacco delle cose terrene, della sua illuminazione.

Anche madonna Pia, transitando lungo l’eremo di Santa Lucia, avrà incontrato questi uomini solitari, che cercano – e trovano – la propria strada nella solitudine, nella foresta come quella che si stende lungo il corso del Rosia . Un luogo, la foresta che, nell’immaginario  è, al tempo stesso, deserto ed rifugio.  Un luogo inospitale, una terra desolata, popolata di esseri ostili e, soprattutto,di demoni tentatori. Gli eremiti vi si ritirano per contrastare e dominare, in quel mondo carico di oscure minacce, la forza delle proprie passioni. E’,dunque, il loro campo di battaglia, dal quale possono uscire sconfitti o radiosi vincitori. E se vi riescono aprono davvero la vista a coloro che incontrano,(Le Goff, 2007), magari interpretandone il linguaggio oscuro dei sogni, o manifestando  una straordinaria capacità profetica  Alvar, 1998).

Castelli e castellani

Dopo l’eremo di S. Lucia, ecco Spannocchia in Val di Merse, “Villa signorile, già Castello o casa torrita, con fattoria omonima della nobile famigli senese de’conti Spannocchi nella parrocchia di S. Maria ai Monti di Malcavolo, ora a Frosini, Comunità Giurisdizione e circa 9 miglia toscane a libeccio di Chiusdino, Diocesi di Volterra, Compartimento di Siena. La tenuta di Spannocchia fa parte della Montagnola posta alla destra del torrente Rosia e della strada che viene da Chiusdino, poco al di sotto di Castiglion Balzetti, ch’è al suo libeccio nel popolo di Brenna, mentre esiste al suo grecale dentro la tenuta medesima la chiesa profanata degli Eremiti Agostiniani di S. Lucia a Rosia con annesso claustro attualmente ridotto ad uso di casa colonica” (Repetti, 1833). La famiglia degli Spannocchi, destinati a diventare grandi banchieri, possedeva quella tenuta già nel XIII secolo, dunque al tempo della Pia. Il riferimento a Castiglion Balzetti, ossia Castiglion che Dio sol sa per la difficoltà che si ha nell’individuarlo, rimanda a tenebrose credenze popolari che vuole quello come il luogo dove “si marchiavano” le streghe  che poi volavano alla volta di Siena (Biliorsi, 1995). Forse un rito di iniziazione alla pubertà femminile che si teneva nel fitto impenetrabile di quei boschi.

Madonna Pia dovette quindi giungere a Pentolina, “Casale con chiesa plebana (S. Bartolommeo) nella vicaria foranea di Rosia, Comunità e 6 miglia toscane a grecale di Chiusdino …”

immagine10
Casale di Pentolina, Montagnola senese

Qui “ebbero signoria i conti Pannocchieschi fino dal principio del secolo XIV almeno, stantechè il potente milite Nello d’Inghiramo signor del castel di Pietra in Maremma con testamento del 21 febbrajo 1321 lasciò allo spedale di S. Maria della Scala di Siena un legato di mille lire compresi tutti i suoi diritti e beni che possedeva nel castello e corte di Tatti a condizione fra le altre cose di doversi erigere nella villa di Pentolina un sufficiente spedalelto per i poveri” (Repetti, 1833).

Il riferimento alla generosità post mortem di Nello, evocata dal Repetti,  quel Nello che la credenza vuole abbia fatto uccidere la Pia, sua sposa, è molto interessante. Dal suo testamento, vergato in Gavorrano, avanti al notaro Francesco di Bizzino da Massa Marittima, si apprendono, con ricchezza di particolari “le … malefatte. Il maltolto e le usure, le violenze e le rapine, le relazioni illecite … (Mucciarelli, 2011). Nello, consapevole dei suoi delitti – tra i quali la soppressione della Pia ? – aspirava evidentemente ad una collocazione benevola nell’al di là. Difficilmente il Paradiso, per quante ne aveva fatte, ma con buone probabilità di approdare al Purgatorio, il luogo di purgazione delle anime penitenti, scoperto, o inventato come dice Le Goff, dalla Chiesa solo nella seconda metà del ‘200.

immagine11
Domenico di Michelino, Il Purgatorio, particolare da “Dante e il suo poema”

Più facile se la penitenza comportava sostanziosi lasciti a chi aveva il potere del lasciapassare per questa dimensione intermedia, e provvisoria, tra Inferno e Paradiso. Una dimensione dell’immaginario religioso che ironiche considerazioni aveva indotto in quella mala penna di Giovanni Boccaccio.

Chissà se la Pia, transitando per il castello di Pentolina, di proprietà Pannocchieschi, avrà incontrato il serpente dalla testa di Uomo che, secondo la tradizione popolare, avrebbe abitato nelle fitte selve che circondavano – e circondano – il castello? Una ibrida creatura che, dice M. Biliorsi, un cercatore di funghi avrebbe visto, in età moderna, penzolare da un albero, mentre mugolava strane parole”  (Biliorsi, 1988). Una evidente citazione del “cifero serpente” nella versione che, ad esempio, ne dà Michelangelo nell’episodio della tentazione dei nostri (dissennati) antenati.

Da qui la Pia deve aver raggiunto Mulinaccio e poi, percorrendo l’ antica strada maremmana, costeggiato l’ Abbazia di San Galgano, costruita ai piedi di Montesiepi, là dove è conservata la spada nella roccia legata alla vicenda di un cavaliere la cui storia presenta un’ impressionante consonanza con quelle dei romanzi del Graal, di Artù e dei suoi cavalieri: aprendo quindi una serie di importanti quesiti quali, tra i tanti, il fatto che il primo di questi romanzi, il Perceval di Chrétien de Troyes è stato composto sicuramente dopo il 1181, data della morte di Galgano. Come era stato possibile?

immagine12
Abbazia di S. Galgano

Nella fraternità guglielmita

Il percorso della Pia si snoda quindi lungo il Piano di Campora (antica area etrusca); passa per la  Pieve di Luriano, dove si fermò il cavallo di Galgano, inducendone la conversione nel giorno del solstizio d’inverno del 1180; raggiunge le Osterie delle macchie e il paese di Torniella, “villaggio che fu Castello, con chiesa plebana (S. Gio. Battista) … dominato un tempo da una consorteria di nobili detti i signori di Torniella e di Sticciano …” (Repetti, 1833). Da qui al bivio ora di Sassofortino (valle del torrente Bai) e, finalmente, all’antica abbazia di Giugnano …

“GIUGNANO (BADIA DI) nella Valle della Bruna in Maremma. Quest’antico monastero di monaci eremiti”, dice il Repetti, “era situato in mezzo ai boschi sul fosso delle Venaje, tributario del fiume Bruna, fra Monte Lattaja, Monte Massi e Roccastrada, in luogo detto attualmente le Casaccie, nella Comunità Giurisdizione e circa 4 miglia toscane a libeccio di Roccastrada  … Poche notizie di questa badia restano fra le carte degli Eremiti Agostiniani di Siena, ai quali furono riuniti gli eremi di Val d’Aspra, dell’Ardenghesca, e di Val di Rosia de’Pannocchieschi, che sino dal secolo XIII possedevano la badia di Giugnano con le sue foreste.  … Era una piccola badìa dei Cisterciensi di S. Galgano concessa loro dal Pontefice Innocenzo IV, e quindi ai medesimi confermata dall’Imperatore Ottone IV con privilegio spedito all’abate di S. Galgano lì 31 ottobre 1209” (Repetti, 1833).

immagine13
Cripta dell’abbazia di Giugnano

Cripta dell’abbazia di Giugnano

La vicenda della abbazia di Giugnano è complessa. Verosimilmente  la sua fondazione si deve ai Benedettini, e solo agli inizi del 1200 passerà sotto i cistercensi di S. Galgano ma … Per un breve indeterminato periodo quel luogo fu appannaggio dei Guglielmiti, uno straordinario ordine monastico di forte connotazione cavalleresca che si fa risalire a Guglielmo della Malavalle e, soprattutto, al suo discepolo Alberto, che ne raccolse gli insegnamenti nella “Regula” . E’ con molta verosimiglianza che  qui fosse “accolto … in un collegio di circonvicina fraternità di servi di Dio e di chierici”, dopo essere stato inizialmente respinto, Galgano, da cavaliere divenuto eremita.

E’ forse nella vicenda di Guglielmo la chiave per comprendere il peccato di negligenza commesso, secondo Dante, dalla Pia. Guglielmo proviene dall’Aquitania. In talune circostanze é definito persino Duca d’Aquitania.

immagine14
Mattia Preti, San Guglielmo di Malavalle in meditazione

E nel periodo della sua esistenza terrena,ossia nella prima metà del XII secolo, l’Aquitania ha avuto come Duca un Guglielmo, Guglielmo IX – che naturalmente non é il santo di Malavalle – un importante, se non il più importante dei Trovatori provenzali, autore di composizioni cortesi che esaltano la dottrina d’amore, dell’amore cortese.

immagine15La donna, la Dama diventa un simbolo, l’idea stessa di un mondo che é quello delle corti provenzali. Molto libere, molto affascinate da dottrine anche eretiche, come quelle catare, forse non aliene dalla conoscenza delle antiche culture precristiane – e quindi pagane – dei luoghi …

E’ forse attraverso personaggi come Guglielmo di Malavalle che il fantastico mondo dell’amor cortese è giunto in questa parte di Toscana?

Amor cortese e servizio d’amore

Cosa c’entrano i Trovatori con la Pia? Forse la Pia non potrebbe essere stata la Dama corteggiata – ancorchè più o meno felicemente maritata – da qualche fascinoso nobile cavaliere  secondo i principi e le modalità dell’amor cortese, di cui i trovatori sono, con le loro canzoni, gli incontrastati produttori? Circostanza che allora giustificherebbe la “gelosia” di Nello. Amor cortese significa servizio d’amore e culto della dama da parte del suo cavaliere: il legame che li unisce non ha un valore carnale, ma costituisce una sorta di visione, nella quale l’amante pensa all’amato “come il mistico a Dio, fa tutto per lei e per mezzo di lei; dall’amore nascono tutte le virtù, esso è fonte di ogni ricchezza interiore e progresso morale. La femminilità è esaltata dunque come forza morale, spirituale e nobilitante. L’idea centrale è che questo rapporto d’amore è il principio motore che muove e attiva tutte le forze spirituali portando al compimento di atti meritevoli …” (Orlando,S.I.D.).

Dunque un gioco, forse ambiguo, dove non prevale – ovvero non dovrebbe prevalere – la sensualità ma un desiderio inestinguibile di crescita spirituale, una sorta di iniziazione all’Amore  “che muove il sole e l’altre stelle”, dove il rapporto tra l’amata e l’amante è lo stesso che corre tra il Signore – l’amata – e il vassallo, l’amante. Esemplare la storia attribuita al trovatore Jaufré Rudel perdutamente innamorato della contessa di Tripoli (forse Melisenda, figlia del re Baldovino II di Gerusalemme), della quale avrebbe sentito parlare da alcuni pellegrini di Antiochia senza averla mai vista e per la quale si fece Crociato. La storia vuole che si ammalasse proprio a Tripoli e che fosse spirato tra le braccia della contessa vista per la prima ed ultima volta .

immagine16Jaufré  Rudel, uno dei più noto trovatori, nel suo “ Amore di terra lontana”, così descrive la sua infelice passione.

“ … Triste e gioioso me ne partirò,
dopo averlo visto, l’amore lontano:
ma non so quando la vedrò,
perché le nostre terre sono troppo lontane :
vi sono molti valichi e strade,
e perciò non posso indovinare quando la vedrò:
ma sia tutto secondo la volontà di Dio!

… Dice il vero chi mi chiama ghiotto
e desideroso dell’amor lontano,
che null’altra gioia tanto mi piace
come il godere dell’amor lontano.
Ma ciò che voglio mi è negato,
che così mi dette in sorte il mio padrino,
che io amassi e non fossi amato.
Ma ciò che voglio mi è negato.
Sia sempre maledetto il mio padrino,
che mi ha dato la sorte di non essere amato …”

Il  modello ispirativo di questo “gioco” è il De Amore, un  trattato in tre libri ad opera di Andrea Cappellano (1150-1220), vera  summa dei precetti dell’amor cortese, composto in latino attorno al 1185, verosimilmente presso la corte di Maria di Champagne, protettrice di  Chrétien de Troyes  e nipote di Guglielmo IX di Aquitania, nonché figlia di Eleonora di Aquitania, la madre di Riccardo cuor di leone.. Un gioco che è anche culto per l’amata, nella consapevolezza che quel sentimento resterà inappagato, nonostante la sua sensualità che lo distingue dal c.d. amor platonico.  Di qui la sofferenza del cavaliere consapevole di non poter giungere al possesso dell’amata.

 “Amor, ch’a nullo amato amar perdona,/mi prese del costui piacer sì forte, che, come vedi, ancor non m’abbandona”… fa dire Dante a Francesca da Polenta nel Canto V dell’Inferno. E’ la storia d’amore impossibile tra la dama ed il cognato, Paolo Malatesta, detto il bello, giovane aitante, già Capitano del popolo a Firenze nel 1282, quando Dante era un giovinetto. L’attrazione erotica si consuma mentre i due stanno leggendo, “per diletto, /di Lancellotto, come amor lo strinse”. E’ allora, dice Francesca, “quando leggemmo il disiato riso/esser baciato da cotanto amante, / questi, che mai da me non fia diviso,/la bocca mi baciò tutto tremante” (Inferno, Canto V,127-128 e 133-136).

immagine17
Alexandre Cabanel, Morte di Francesca da Rimini e di Paolo Malatesta

Quel libro fu Galeotto, e Galehaut, galeotto appunto, era il siniscalco di Ginevra che ne aveva favorito l’amore adulterino

Forse madonna Pia potrebbe aver partecipato ad un gioco d’amore con qualche ignoto cavaliere, ma senza cadere preda della passione per il piaceri carnali; come quelli provati da Paolo e Francesca che scontano per l’eternità il loro peccato travolti dal vento impetuoso ed inarrestabile che tormenta le anime dei lussuriosi. Forse questo “gioco” potrebbe spiegare, con riferimento all’immaginario dell’epoca, la gelosia di Nello e, quindi, al di là del suo desiderio di impalmare Margherita Aldobrandeschi, la volontà omicida. Non lo sapremo mai …

E forse la condanna di Dante, l’attribuzione del peccato di negligenza, potrebbe essere dovuta al suo modo di intendere il “dolce stil novo”, quello espresso dallo stesso Dante con la celeberrima Canzone “Donne, ch’avete intelletto d’Amore”, la prima della “Vita nova”. Non più l’amore inteso, alla maniera dei provenzali e dei siciliani, come sudditanza feudale dell’uomo alla donna, ma come straordinaria tensione dell’animo. Un desiderio, inarrestabile ed infinito, per una Donna che non è più reale ma, come Beatrice, angelicata, vero tramite, che nulla possiede di terreno, tra Dio e l’Uomo.  “Beatrice tutta ne l’etterne rote/fissa con li occhi stava; e io in lei le luci fissi, di là sù rimote … Trasumanar significar per verba/non si poria; però l’essemplo basti/a cui esperienza grazia serba” (Paradiso, I, 64-66 e 70-72)

Il peccato della Pia

Allora, in una prospettiva di immaginario medievale, la colpa di Pia può essere stata quella di essersi dimostrata negligente nei doveri coniugali perché presa dal gioco d’amore dei trovatori provenzali, giunti anche in questa parte di Toscana come sembrerebbe autorizzare la vicenda di Guglielmo di Malavalle, prima della sua conversio. Dal castellare di Lattaia, sulla piana di Maremma, passando da Pian del Bichi (Palazzo della Dogana), attraverso la valle del Bruna, madonna Pia, superata Casa di Pietra, giungeva infine a quel Castel di Pietra dove, secondo la tradizione, si sarebbe consumata la tragedia. “Rocca rovinata resa celebre dall’Alighieri per la tragica fine della Pia moglie di Nello Pannocchieschi signore di cotesta prigione” diceva ai suoi tempi il Repetti.

immagine18
Castel di Pietra (GR), veduta aerea

Da qui la Pia aveva iniziato il suo viaggio celeste,

“… Contessa, che è mai la vita?

E’ l’ombra d’un sogno fuggente.

La favola breve è finita,

il vero immortale è l’amor…”

(G. Carducci, Jaufré Rudel)

Ringraziamento: un sentito ringraziamento all’architetto Andrea Brogi per la competente assistenza prestata nella ricostruzione del percorso di madonna Pia.

BIBLIOGRAFIA

Alighieri D., La Divina Commedia a cura di Tommaso Casini, presentazione di Francesco Mazzoni, Firenze 1957;

Alighieri D., Vita Nova, a cura di Luca Carlo Rossi, Milano 1999;

Alvar C., Dizionario del ciclo di re Artù, Milano 1998;

Andrea Cappellano, De amore, versione romana, Codice Barberiniano Latino 4086, Biblioteca dei classici italiani di Giuseppe Bonghi, sta in http://www.classicitaliani.it/;

Biliorsi M., Al di là di Siena, Firenze 1988;

Biliorsi M., L’ora delle streghe, Firenze 1995;

Boccaccio G., Decameron, a cura di Vittore Branca, Torino 1952;

Cattabiani A., Santi d’Italia, Milano 1993;

Chevalier J. e Gheerbrant A. (a cura di), Dizionario dei simboli, Milano 1989;

Chretién de Troyes, Il cavaliere della carretta (Lancillotto), traduzione di Pietro G. Beltrami, Alessandria 2004;

Chiarini G., Jaufré Rudel. L’amore di lontano, Roma 2003;

Duby G., L’Europa nel Medioevo, Milano 1987;

Evola I., Il mistero del Graal, Roma 1972;

Fulcanelli, Il mistero delle cattedrali, Roma 1972;

Jung C.G., Gli archetipi e l’inconscio collettivo, sta in Opere, Vol.IX, Torino 1997;

Le Goff, Il meraviglioso e il quotidiano nell’occidente medievale, Roma-Bari 2007;

Le Goff J., La civiltà dell’Occidente medievale, Torino 1981;

Le Goff J., L’immaginario medievale, Roma – Bari 1988;

Le Goff J., La nascita del Purgatorio, Torino 1996;

Meliga W., Trovatori e trovieri, sta in Enciclopedia UTET, vol.XX, torino 1991;

Mucciarelli R., Io son la Pia. Un enigma medievale, Siena 2011;

Orlando V., Un gioco serio: l’amor cortese, http://www.valentinaorlando.it/pubblicazioni, S.I.D.;

Pasquazi S., voce Antipurgatorio, sta in Enciclopedia Dantesca, Roma 1970;

Repetti E., Dizionario Geografico Fisico e Storico della Toscana, http://stats-1.archeogr.unisi.it/repetti/;

Susi E., L’eremita cortese. San Galgano tra mito e storia nell’agiografia toscana del XII secolo, Spoleto 1993;

Varanini G., voce Pia, sta in Enciclopedia Dantesca, Roma 1970.

 

 

La memento mori di Andy Warhol

di Irene Battaglini

L’Immaginale

articolo in pdf La memento mori di Andy Warhol

 

.
andywarhol-self-portrait-1986

Andy Warhol – autoritratto (1963-64)
 

The integrated internal combined object learns from experience in advance of the self and is almost certainly the fountainhead of creative thought and imagination.  (Donald Meltzer, The Claustrum, 1992)

Odio e amore sono  differenti aspetti della stessa costellazione emozionale e necessitano di esser esperiti simultaneamente perché siano costruttivi. La chiave dello sviluppo è passione e turbolenza, su di una scala qualitativa, piuttosto che quantitativa – gli incrementi possono essere anche minuscoli. Mentre il concepire le relazioni intime sia nella vita che nell’arte come prive di conflitti, risulta ad un’indebolita, eccessivamente liberale, mentalità “soft umanista”(Meg Harris Williams, 1986)

Si è soliti pensare che la percezione del volto umano si modifichi per due ragioni, per lo più: per il trascorrere del tempo, invecchiando, e per il “passaggio” mimico delle espressioni, delle emozioni, dei pensieri, degli elementi paralinguistici della comunicazione. Naturalmente il volto può cambiare anche a causa di un trauma, o transitando dall’infanzia all’adolescenza, subendo variazioni antropometriche significative che possono influire sull’immagine di sé di chi ne è portatore, anche a livello dell’identità. Andy Warhol (Pittsburgh, 6 agosto 1928 – New York, 22 febbraio 1987) entra nel mito dell’iconografia con l’innesto di un nuovo livello di rappresentazione del volto: il cambiamento avviene a livello di organizzazione topologico-cromatica, attivando connessioni tra “aree” facciali che solitamente non vengono “prese insieme” per la qualità (i colori) dai centri del sistema nervoso dedicati al riconoscimento dei volti ma per i rapporti dimensionali. Egli stesso, in realtà, non fa che diventare il volto dell’arte contemporanea, sebbene egli stesso in continuo mutamento di immagine e di concettualizzazione del proprio lavoro.

Andy Warhol afferma l’esordio della grande arte contemporanea americana anche attraverso i suoi famosissimi ritratti, e con questi attua il grande cambiamento (a partire dagli anni ’60) anche al livello del genoma linguistico della stessa Pop Art. Se Andy Warhol nei ritratti sancisce una modalità completamente nuova di interpretare il volto umano, con un cambiamento radicale delle tracce neurali che vanno a “comporre” una identità attraverso la faccia, è vero anche che attraverso questo complesso meccanismo di ristrutturazione cognitiva, percettiva ed emozionale consacra l’immortalità di quei volti, di quegli esseri umani ritratti, transitando con un salto psicologico di proporzioni titaniche da una dimensione mondana ad una dimensione iperuranica con cui ci dice qualche cosa a proposito del rapporto con la morte e la caducità della vita umana. Dice Antonio Spadaro:

<<La morte del padre, quando Warhol era ancora molto giovane, lo aveva profondamente segnato. Ma consideriamo pure che egli si salvò da un tentativo di omicidio per mano della fanatica femminista radicale Valérie Solanas. Molti sono i segni di morte o decadenza che lo accompagnarono nella sua breve vita. […] Warhol esorcizza il timore della perdita e della dissoluzione ostentando la morte nella sua riproducibilità mediatica. C’è qualcosa di elusivo e di «scivoloso» nell’opera warholiana. È vero: Warhol ci ha ingannati, il suo è un camuffamento. Chi considera la sua opera come il trionfo delle merci, dei colori del consumo e del successo mondano, perde di vista il gusto amaro dell’effimero che appare evidente, in realtà, considerando le sue «icone» di Marylin Monroe (che era appena morta) o di Jacqueline Kennedy (ritratta dopo la morte del marito), Liz Taylor (malata di alcolismo), Elvis Presley, ma anche Lenin, che viene ritratto a morte e imbalsamatura avvenute. La felicità sembra essere il retro della tragedia>>.[1]

Andy Warhol si avvicina al ritratto con astuzia mercuriale, attraverso una potentissima opera di elusione delle regole pittoriche, tanto è vero che egli non è da tutti considerato un artista nell’accezione classica del termine ma più verosimilmente un fenomeno di tipo socioculturale e mediatico. C’è da dire che “artista” è una parola ambigua e spesso diventa il contenitore per le persone il cui contributo esce dalle cornici delle forme fino a quel momento conosciute. In ogni caso le sue opere sono un elemento centrale nelle dinamiche dell’arte contemporanea e direi della Storia dell’arte più in generale.

<<C’è un quadro di Klee, – dice Walter Benjamin nelle “Tesi sul concetto di storia” (1939-40, Sul concetto di storia, Einaudi, 1997), – che si chiama Angelus Novus. Vi è rappresentato un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui ha fisso lo sguardo. I suoi occhi sono spalancati, la bocca è aperta, e le ali sono dispiegate. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e riconnettere i frantumi. Ma dal paradiso soffia una bufera, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che l’angelo non può più chiuderle. Questa bufera lo spinge inevitabilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle, mentre cresce verso il cielo il cumulo delle macerie davanti a lui. Ciò che noi chiamiamo il progresso, è questa la bufera>>.[2]

Nella Storia dell’arte i ritratti di Andy Warhol sono una sequela di declinazioni fisiognomiche dell’Angelus Novus incarnatosi nei personaggi profetici ivi rappresentati. Quando muore Marilyn Monroe, nell’agosto del 1962, Warhol rende omaggio all’attrice con una serie di opere che partono da una fotografia diffusa dalla stampa di tutto il mondo del viso ormai mitico della star. Dal 1972 si dedica soprattutto al ritratto: personaggi famosi della moda e del jet set (Giorgio Armani, Carolina di Monaco…), politici (Mao Tze Tung…), attori (Liz Taylor…), cantanti (Mick Jagger…), artisti (Keith Haring, Basquiat…) e se stesso. Quei volti sono sembianze, “sembianti”, sembrano e non sono, potremmo dire, ma vogliono dire. Vogliono esporre un tentativo di rappresentare il passato di quelle vite in una prospettiva storiografica mercificatoria dell’identità. L’ottica di Warhol non ha alcun intento moralizzatore. Egli è scaltro, ineffabile, attento ai bisogni dei clienti, al pari di un ineguagliabile couturier. L’identità espressa nei ritratti è “passata”, la vita è “trascorsa”, sfiorando quel corpo eletto a simulacro e divenuto oggetto della compravendita dei diritti di servitù per il passaggio di accesi colori stesi “a zona”. Nulla vieta che il patchwork possa produrre coperte che scaldano, ma è complicato fare del patchwork qualche cosa di veramente nuovo, perché si tratta di pezzetti presi qua e là da cose conosciute e consumate. Diventa nuovo se genera un insieme diverso dalle parti di cui è composto, ma non soltanto perché è qualche cosa di più della somma delle parti. Voglio parlare dell’immagine che si costella a partire dal mosaico di elementi accostati che presi singolarmente non alludono al tutto, poiché quel tutto è qualche cosa di nuovo che non sarebbe esistito senza quel preciso modo di mettere insieme le parti e che non dipende tanto dalle parti quanto dall’equazione compositiva che sta nella mente del mosaicista. I colori usati da Warhol sono già conosciuti nel mondo della moda, i volti sono di vite consumate dalla fama, dalla vita, dal successo. Come ha potuto egli arrivare ad un volto completamente nuovo, ad esempio, di Marylin, senza svilirne l’eleganza e senza utilizzare elementi ulteriori? Probabilmente con la potenziale spinta necrofila di chi deve mantenere in vita ciò che vivo non è. Attraverso l’illusione del venditore. L’illusione tra l’immagine emergente e la sua verità sottostante (che afferisce alla memoria di quel volto nell’immaginario comune) genera uno iato di senso difficilmente catalogabile. Se la forma resta identica (il volto), se il nome resta invariato (ad esempio Marylin), perché immediatamente ricaviamo l’idea di qualche cosa di completamente diverso, che si proietta nel futuro alla stregua di una icona museale? In altre parole, perché una fotografia semplicissima del volto di Marylin all’improvviso dovrebbe assomigliare ad un vaso cretese elegantemente decorato, in cui il vaso perde la sua funzione di utensile per addivenire il palco della narrazione di una storia? E che storia racconta il ritratto di Marylin? Parla di lei o più verosimilmente parla di quello che lei NON è stata?, ovvero racconta quelle cose del suo volto di cui non ci eravamo accorti? La sua bellezza ubertosa viene stravolta a favore della possibilità di consumarla attraverso l’utilizzo del quadro sulla scorta dei bisogni dello spettatore. Esattamente come avrebbe fatto lo spettatore nelle sue fantasie private, ma tuttavia in questo caso alla piena luce, gettate in faccia, eliminando la componente di Ombra, l’elemento “segreto”. La privatezza della proiezione – una sorta di autonomia iconologica che ciascuno di noi coltiva nel proprio dominio psicologico – viene sostituita dalla valenza “sociografica” dell’idea di Marylin, che si fa oggetto seriale un po’ come un articolo di consumo, un barattolo della Campbell. Non a caso dagli anni ’60, Warhol trova altre fonti d’ispirazione, lontane dai prodotti dei negozi lussuosi e si rivolge agli articoli di consumo di massa americani venduti nei supermercati del Bronx e di Brooklyn. Il fenomeno di appiattimento che deriva dall’eliminazione della profondità volumetrica – o dalla rimozione dell’ombra in senso stretto, o dell’Ombra in termini archetipici – fa fuori in un solo colpo diversi secoli di dominazione della prospettiva di Brunelleschi e di conseguenza attiva l’associazione per cui ciò che è seriale è anche privo di futuro e di spessore, è privo di personalità ed è controdipendente, è un soldatino implotonato, un dispositivo sociale utile alla collettività. Tutto questo utilizzando i colori in semplici campiture piatte. Certo! Tuttavia non sono le campiture piatte di un allievo inesperto, ma le implosioni cromatiche di un genio creativo della moda e della comunicazione, che si fa in questo caso “artista del suo tempo”, inquieto anfitrione della sua Factory, un polo d’attrazione per la scena culturale newyorkese. Molti artisti si ritrovano in questo atelier ed è lì che nasce il gruppo rock Velvet Underground.  Con Roy Lichtenstein, Claes Oldenburg, Robert Rauschenberg e Jasper Johns, egli fonda incolpevolmente la discussa Pop Art americana. Il suo contributo è qualche cosa di assimilabile all’idea di “rumore” del filosofo austriaco Heinz von Foerster (1911-2002), da cui il paradossale “principio dell’ordine dal rumore”: in un sistema complesso, il rumore non è sempre fonte di disordine, ma può invece portare a una crescita di organizzazione. Perché non è tanto l’arte contemporanea ad essere “sconvolta” da questo “perturbante”, quanto il mondo dell’arte. Sostiene Philippe Daverio: «All’inizio degli anni Sessanta la Pop Art conquistò l’Europa e oggi non si può prescindere da questa corrente artistica per indagare l’arte dei nostri giorni, comprese le sperimentazioni delle giovani generazioni d’Italia». Il mondo dell’arte infatti, attraversa a partire dalla Pop Art – e non solo per mano della Pop Art, ma in risposta ad una tensione interna irrisolta –una dinamica regressiva che porta alla dissoluzione della materia nell’opera d’arte. Se Picasso in Europa compie la stessa operazione “ferendo” la figura, e chiudendo pressoché definitivamente il capitolo millenario del dominio della forma, Warhol non ferisce ma, si potrebbe dire ab-usa, usa illecitamente e smodatamente non tanto la forma quanto l’immagine che stabilisce una nominazione: il nostro volto è l’istanza primaria che si collega al nostro nome, ma anche la Brillo Box identifica un mondo, una categoria, e Warhol stravolge non il significato ma la rappresentabilità di quell’istanza. Sempre Spadaro:

<<Se guardiamo i quadri di Warhol avendo presenti le icone orientali verifichiamo che sono molti gli aspetti comuni. Il fondo oro delle icone si traduce nel fondo dal colore astratto, vivido e acceso, dei suoi ritratti. La staticità della rappresentazione orientale[3] è data dal senso di «fermo immagine» che si sperimenta guardando le sue opere, sia che rappresentino persone, sia che rappresentino oggetti. La decontestualizzazione è massima rispetto al contesto visivo e a quello storico. Così è anche evidente la mancanza di coinvolgimento emotivo. I contrasti sono accesi. Il confronto tra le icone e i quadri di Warhol può sembrare ardito, ma diventa piuttosto naturale se condotto avendo davanti agli occhi le immagini. I quadri di Warhol sono vere e proprie «icone pop», com’è stato detto. I suoi ritratti sono quelli dei «santi» pop. Accanto a queste figure però, è da notare che nella sua produzione è sempre ben presente il tema della morte e della caducità della vita. […] Non fu possibile per Warhol sottrarsi a una sorta di costante memento mori>>.[4]

Decontestualizzare equivale ad estirpare, sradicare, se in gioco è l’identità. Una componente aggressiva che mal si coniuga al tema della spiritualità (ripreso anche da Arthur C. Danto in Quotidianità e sacralità nell’arte di Andy Warhol)[5]  in cui dovrebbe essere sublimata, canalizzata. L’affettività ne risulta coartata, perversa, autodistruttiva. La grandezza di Warhol sta principalmente nell’aver trasformato il conflitto estetico di base in una appassionata contrapposizione tra notorietà e originalità, da una parte, e riproducibilità e serialità, dall’altra. Lo stesso Gianni Mercurio in una intervista a www.ilsussidiario.net:

<<Il rifiuto dell’unicità sembra in effetti una delle sue più «diaboliche» invenzioni, non so se consapevole o no, ma con Warhol l’inconsapevolezza è assai remota perché in lui di casuale c’è ben poco. Egli si appropria ed estremizza il famoso concetto di Walter Benjamin della riproducibilità. Benjamin era di matrice marxista e l’annullamento in lui dell’aura di unicità propria dell’opera d’arte in qualche modo era bilanciata in favore della popolarità dell’arte, che doveva raggiungere le classi meno abbienti. Warhol fa la stessa cosa ma al servizio, in qualche modo, del capitalismo. Spoglia della matrice marxista la molteplicità di Benjamin, e la riveste con un matrice di tipo capitalista>>.

Tuttavia la critica d’arte e le teorie formaliste sembrano non possedere gli strumenti diagnostici per comprendere il cambiamento avvenuto nell’arte contemporanea, per capire e spiegare quello che di nuovo si trova davanti, e per “leggere” opere come la Brillo Box o l’orinatoio “Readymade” di Marcel Duchamp. Liquidare il tutto con un editto, dichiarare che “non sono opere d’arte”, non spiega perché tra le due scatole di detersivo Brillo, quella di Warhol trovi posto nei musei, e quella “originale” (che è però “seriale”) trovi spazio sugli scaffali dei supermercati. Tiziana Andina, nella recensione di The Abuse of Beauty di Arthur Danto, sostiene che «in questa prospettiva, l’inafferrabilità della Pop Art è, in fondo, un problema eminentemente filosofico, anzi a ben guardare, metafisico».[6] In estrema sintesi Danto vorrebbe offrire

<<una teoria essenzialista. In che significa che se prescindiamo dal punto di partenza, che può sembrare quanto di più storicamente determinato si possa immaginare, Danto intende fornire una definizione universale dell’arte, vale a dire una definizione che non si veda costretta a mutare storicamente seguendo i mutamenti dei suoi oggetti. Per questo, la definizione che Danto ha in mente deve essere sufficientemente ampia e flessibile da poter includere anche le scatole Brillo e da poter giustificare l’inclusione o l’esclusione della bellezza dall’arte contemporanea>>.[7]

Infatti il problema è fondazionale, e il critico, a partire dal pretesto della Brillo Box, si trova incagliato in una palude di contraddizioni, che hanno per oggetto principale il tema della Bellezza e i suoi assunti. La riflessione di Danto non si esaurisce  all’interno di categorie filosofiche ma tiene conto degli aspetti storici e sociologici: «La tesi di Danto, estremamente coerente negli anni, è che il formalismo non colga nel segno nella misura in cui non tiene conto della dimensione storica delle opere. La Brillo Box non avrebbe potuto avere il valore e il significato che ha se, poniamo, Warhol avesse avuto la stessa identica idea nel 1864».[8] Ed è il sociologo Howard S. Becker – noto per la “teoria dell’etichettamento sociale” – a dare sostegno a questa lettura: nell’opera I mondi dell’arte (1982; Il Mulino, 2004), egli propugna una «sociologia del lavoro applicata all’attività artistica» al posto di una «sociologia dell’arte». L’approccio etnografico inaugura quindi il grande fiume delle teorie contestuali. Utilissime, e rischiose: ci allontaniamo dall’urgenza di Danto di trovare una definizione si flessibile, ma universale, senza tempo, di opera d’arte. Il problema quindi si pone come una costante che si sposta continuamente, aprendo ad uno scivolamento relativistico. Una zattera, il cui intreccio porta con sé il background socioculturale del naufrago-inventore, in cui la validazione del processo artistico è definita dalla tenuta di mare della zattera, la cui “bellezza” sarà il frutto dell’apprezzabilità pratica. In altre parole Warhol ridefinisce il “contenuto” dell’opera d’arte a partire da due elementi costitutivi: la “cassetta degli attrezzi” e l’accessibilità agli occhi del mondo.

Tuttavia, questo non è sufficiente a comprendere come, ad un certo punto, si sia dovuto cambiare il modello interpretativo per far fronte alla nuova realtà, connotata dalla destrutturazione della forma e dell’immagine, dalla smaterializzazione, e dall’inclusione delle tecniche più svariate e innovative, negli atelier e nelle scuole, in cui il gesto e l’azione sostituiscono la contemplazione, lo studio, il duro lavoro di bottega. A quale esigenza non tanto dell’artista ma dell’uomo, risponde questo fenomeno? Qual è quell’uomo che non ha più bisogno della forma classica, ma che sente come affine al suo gusto la forma destruente, l’immagine dissonante, l’installazione rarefatta, che si priva dei maestri (e quindi degli allievi) per far posto agli artigiani estetici? Perché la Pop Art non avrebbe una così grande rilevanza se non avesse sradicato la pittura dalla storia. E se non avesse inaugurato la trasformazione del Dna dell’arte il cui sviluppo è oggi ad un intricato crossing-over: un punto di non ritorno, una perdita della tradizione e della conoscenza che, con le nuove generazioni, non sarà possibile recuperare. Ma il nostro occhio deve essere addestrato al disincanto, poiché tutto è in perenne divenire, e nulla di ciò che osserviamo è privo di un suo precipuo inconscio.

La deriva narcisistica che sta alla base della dinamica dissociativa, che tende a separare l’oggetto dal soggetto, offre possibili sponde interpretative non solo di Andy Warhol ma di molta arte contemporanea. Partiamo dal «conflitto estetico» di Donald Meltzer: «Il conflitto estetico è quel conflitto suscitato dalla bellezza del mondo e dalla sua rappresentazione primaria»;[9] «… la madre bella che si offre agli organi sensitivi… (del bambino)… e il suo interno enigmatico che deve essere costruito attraverso l’immaginazione creativa»[10]. Si tratta di andare a comprendere l’impatto estetico che la “vista” della madre-arte ha sulla psicologia dei figli-artisti. Questa madre sembra come assente, sorda, cieca, taciturna, assorbita dalla sua necessità di generare e diffondersi, mentre all’uomo il grave peso di insegnare, imparare, insegnare, imparare. Migliorare, accendere, pregare, servire, trasferire conoscenza, incendiare città, costruire città, attraversare oceani, essere pronto a salpare ancora. È priva, questa madre-arte, di una “visione” longitudinale del destino dell’uomo-apprendista, tutta protesa com’è a estendersi, a ramificarsi, a decorare tutte le chiese, a ornare le case, a farsi storia, guerra, società, organizzazione, impresa. Il ripiegamento dell’uomo su se stesso, la sua solitudine, si riflettono sulla sua capacità simbolica. Meg Harris Williams:[11]

<<Usando una vecchia metafora (di Platone) spesso ripetuta dai poeti, Bion dice che la conoscenza è derivata per mezzo di LHK,[12] che costituisce “cibo per la mente”. Questo cibo prende la forma dei simboli, che incorporano la conoscenza nella personalità. In questo la teoria psicoanalitica è in linea con la poetica Romantica, rappresentata da Coleridge quando dice che «un’idea non può essere trasmessa se non da un simbolo» (Coleridge, 1816). Anche la Klein aveva riconosciuto che la formazione dei simboli era la base per tutte le attitudini (e come è risultato dal suo lavoro con i bambini, era ben consapevole che un simbolo non necessariamente è verbale, ma è un mezzo per l’espressione di una fantasia inconscia in ogni mezzo) – l’immaginazione, come i sogni, e così il teatro emozionale degli oggetti interni e di oggetti parziali. […] Don [Donald Meltzer] ha preferito non allontanarsi dai termini tradizionali kleiniani della madre interna e dell’oggetto combinato. I poeti inglesi, similmente, vedevano la loro musa come “mediatrice” tra la massima divinità e l’anima infantile che sta per ottenere una personale “identità” (Keats, 1819). […] Nella critica letteraria «l’ansia da influenza» (Bloom) si riferisce a quel tipo di competitività maschile provata nei confronti di un poeta precedente. In ogni caso, nello scrivere genuinamente e con ispirazione, questo è abbandonato a favore di una rispondenza tra oggetti interni (Williams). Invece di suscitare zoppicanti dubbi e sospetti, il predecessore raggiunge un livello più alto di astrazione – ciò che Bion chiama la «compagnia divina interna» e Meltzer «i santi e gli angeli della realtà psichica» (Meltzer 2005, 428). Tutto ciò non è compiacenza dell’idealizzazione; al contrario, provoca dedizione alla causa della promulgazione della bellezza di tali idee e del contributo al «frutto del mondo» (come dice Keats). Don ha descritto la propria ispirazione a Bion in Studi di metapsicologia allargata (Armando ed.). Qui egli riporta come abbia capito che la costellazione emozionale di L, H, K corrisponda all’impatto della bellezza della madre sul neonato, inizialmente ad un livello di oggetto parziale: «In principio era l’oggetto estetico e l’oggetto estetico era il seno e il seno era il mondo» (Meltzer 1986, 204)>>.

Andy Warhol è l’uomo che esprime appieno la contemporaneità dell’artista privato del conflitto estetico, si muove in una direzione apparentemente caotica. La bellezza della Grande Madre-Arte è estraniante, metamorfica, il suo seno è inafferrabile e forse troppo lontano: la vecchia Europa con le sue cattedrali è inaccessibile, soverchiante di bellezza nelle segrete e nelle catacombe, chiusa a difendersi dalle minacce della guerra. La società “occidentale” diventa la madre presente, che consente l’unica possibile simbolizzazione attraverso la distruzione della bellezza negata. La reciprocità di proiezione tra arte e oggetto dell’arte si costella come unica forma di identità, segnando il destino autoreferenziale e narcisistico dell’arte che seguirà negli anni successivi, in America come in Europa. Warhol sembra utilizzare quindi il potenziale emozionale negativo di dotazione, per neutralizzare l’impatto della bellezza sulla sua fragile e bizzarra struttura polimorfica. Il suo merito è quello di aver reso “accessibile”, come un oggetto sostitutivo, l’inafferrabile. Marylin, inafferrabile. Detersivi e scatole di minestra, scarpe e poltrone, residui di memoria di una madre-altrove.


[1] Antonio Spadaro S.I., Quale religiosità nell’arte di Andy Warhol?, La Civiltà Cattolica 2007 III 54-60 quaderno 3769 (7 luglio 2007)

[2] http://www.filosofico.net/benjamin.htm

[3] Spadaro qui si riferisce alla considerazione di Gianni Mercurio per cui «Si resta sconcertati dal fatto che pochi critici negli anni passati, ma soprattutto nel periodo in cui Warhol era vivo, abbiano notato l’evidente richiamo, anche stilistico della sua opera con le icone delle tradizioni tardo bizantina e russo ortodossa», in G. Mercurio, Andy Warhol ci ha ingannati, in Andy Warhol. Pentiti e non peccare più!, 2006, Skyra

[4] Antonio Spadaro S.I., Quale religiosità nell’arte di Andy Warhol?, La Civiltà Cattolica 2007 III 54-60 quaderno 3769 (7 luglio 2007)

[5] Quotidianità e sacralità nell’arte di Andy Warhol in Andy Warhol. Pentiti e non peccare più!, 2006, Skyra

[6] Tiziana Andina, Arthur Danto, The Abuse of Beauty, 2003, in “2R – Rivista di Recensioni Filosofiche”, vol. 6, 2007 www.swif.uniba.it/lei/2r

[7] ibidem

[8] ibidem

[9] p. 493, Sinceridad y otros trabajos, Spartia, Buones Aires, 1997

[10] Amore e timore della Bellezza, 1989, Borla (The apprehension of Beauty, 1988)

[11] Meg Harris Williams, (2005, 2011), Genesis of the ‘aesthetic conflict’, www.harris-meltzer-trust.org.uk/ papers;  traduzione a cura di Teresa Tona

[12] Meg Harris Williams si riferisce qui alla griglia dei “vertici” del potenziale emozionale positivo di Wilfred Bion, in contrapposizione alla “griglia negativa” di -L, -H, -K che corrispondono alla negazione dei fatti emozionali.

——————————————————————————————-

Ringrazio il prof. Franco Bruschi per i contributi bibliografici offerti alla mia ricerca dalla sua libreria.

© articolo stampato da Polo Psicodinamiche S.r.l. P. IVA 05226740487 Tutti i diritti sono riservati. Editing MusaMuta®  www.polopsicodinamiche.com     www.polimniaprofessioni.com

Irene Battaglini “La memento mori di Andy Warhol”, 10 marzo 2014

Il gesto in piena di Cy Twombly

di Irene Battaglini

Prato, 30 settembre 2013

Cy Twombly

 

«Art is the triumph over chaos». John Cheever,  The Stories of John Cheever (1978)

articolo in pdf  IL GESTO IN PIENA DI CY TWOMBLY

 
 
 
 

The Four Seasons, Spring, Summer, Autumn and Winter, 1993-1994, Cy Twombly 2The Four Seasons, Spring, Summer, Autumn and Winter, 1993-1994, Cy Twombly 3The Four Seasons, Spring, Summer, Autumn and Winter, 1993-1994, Cy Twombly

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

The Four Seasons, Spring, Summer, Autumn and Winter, 1993-1994, Cy Twombly 4

The Four Seasons: Spring, Summer, Autumn, and Winter. 1993-94, Synthetic polymer paint, oil, house paint, pencil and crayon on four canvases

L’arte di Cy Twombly è un grido sull’America. Un richiamo di sangue e di cieli densi di fiori che si rompono in un boato crespo di farfalle contaminate. La sua pittura è un fiotto che rompe gli argini dell’armonia, è un soffio che imprime voli per mete non raggiunte, non possibili. La pittura di Twombly (Virginia, 1928-Italia 2011), esprime il fallimento delle utopie moderniste. Illeggibile, incoerente, improbabile. Eppure è vera e bellissima. Bisogna capire come sia stato possibile creare questa unione violenta e irreversibile, come un aereo in velocissima precipitazione che prende fuoco sulla coda, e nell’atto di avvolgersi su di sé diventa una stella cometa. Quadri di una straordinaria epifania cromatica, di luce che esplode. In cui segni, colori e forme sono gli strumenti dell’agrimensore in un pianeta desertico di cui scongiura l’imminente deflagrazione. Sono il canto e la preghiera di un ultimo uomo verso Dio i cui occhi, che per dirla con McCarthy, un altro americano dignitario della più alta contemporaneità, «tradivano non disperazione, ma soltanto quell’insondabile, profonda solitudine che è l’impronta più tipica di questo mondo». (da Oltre il confine)

Tutta l’arte di Cy Twombly (pittore, incisore, disegnatore, scultore) è notte inoltrata che deflagra nell’aurora, è il “linguaggio dimenticato” di Erich Fromm su una lavagna stridente, è ardesia che si sbriciola a creare forme improbabili, è gemmazione di scarabocchi di luce bruciante dalle forme svelte, come le braccia di un nuotatore esperto che farfugliano nell’abisso e che nell’inconscio tumulto non smarriscono – nello smarrirsi – l’eleganza di quanto hanno appreso.

Il “quadro” deciso da Cy Twombly è una forma concreta di non-pittura, è una decisione spasmodica di andare verso la crisi linguistica e di immergersi in questo spasmo come all’imbocco della neoplasia che ha corroso velocemente l’universo percettivo del cui declino siamo attori, costretti alla visione monoculare della realtà dell’emarginazione o alla confusione conglobante e regressiva dei social-network. È una pittura di voci che si affollano ad un crocevia, dove è obbligato a stare l’artista contemporaneo che deve organizzare e riorganizzare continuamente immagini, metafore e rappresentazioni nella stanza della propria coscienza, che si affligge del proprio paradosso esistenziale, per dover essere nello stesso tempo figlio e dio, creatura e creatore.

Cy Twombly sembra aderire, per far fronte allo stress della devastante mitologia unilaterale del mondo contemporaneo, ad una tradizione “anticreativa”, come se il suo atelier fosse una prestigiosa accademia in cui lo scranno più alto è perennemente disabitato. La sua originalità è così potente che deve per forza nascondersi a se stesso, per capire qualche cosa della sua stessa talentuosa e indisciplinata arte del segno. La tecnica che lo vuole maestro nello sfocare la linea del contorno dal disegno è l’espressione di una strategia di attacco ai fianchi dell’ortodossia, è un modo per dire che l’infante è più indipendente del dio e più arrogante, più violento, più demoniaco. Del resto, il desiderio di unione deve essere spostato in una fuga in avanti verso la dimora della perfezione, verso la quale il puer muove con incessanti cadute e inappagato desiderio.

La proiezione sul futuro, su quello che sarebbe stato un disegno di Cy Twombly se egli ci avesse donato le forme belle del suo immane talento pittorico a detrimento della sua scelta di uomo autentico che decide di farsi scenario del mito della luce del mondo post-industriale, comincia già a costellarsi nel controverso ambiente del ventre materno dell’espressionismo, in cui nascono le sue prime opere, non in ordine ad una casualità, ma ad un divenire in prospettiva mitica del dramma della propria vita lacerata in cui segno e disegno, contorno e ombra, sono scissi eppure appaiati in un affiancamento in cui sembrano alloggiare danzatori solitari. Dice Adolf Guggenbühl-Craig nel libro Il bene del male. Paradossi del senso comune (Moretti&Vitali, 1998, pp. 27 e 28):

«Abbiamo [quindi] a che fare con due tradizioni: da un lato la creatività viene fatta oggetto di ammirazione, dall’altra essa viene ritenuta un attributo esclusivo di Dio e, per quanto riguarda gli uomini, la si considera soltanto una forma di hybris, di tracotanza. Sia quel che sia, con la creatività noi giungiamo faccia a faccia con Dio. E che cosa succede con l’indipedenza? Sicuramente possiamo ritenere che l’unico essere davvero indipendente in questo mondo sia Dio. Per definizione Dio è indipendente da tutto e da tutti, e tutto è dipendente da lui. Egli è l’inizio e la fine, alfa e omega del creato; […]. Noi stessi cerchiamo di raggiungere questo tipo di divinità, cadiamo vittima del complesso di Dio».

La prospettiva mitica fu, per Twombly, forza e sembianza, significato e bellezza. Il pittore amava nutrirsene, e fare dei suoi disegni “veicoli per contenuti letterari”,[i] dai quali cercava di liberare le figure.

L’opera di Twombly, se fosse tutta ordinata su piani paralleli, mostrerebbe una morfologia simile ad una stratificazione geologica intra-psichica in cui sembrano essersi fissati i marcatori del processo alchemico. Gli esordi, agli inizi degli anni ’50, sono connotati dall’influenza di Kline e Paul Klee, e sono prevalentemente pennellate gestuali-espressioniste, in un originale e morbido intreccio di tratti, parole, numeri e porzioni (“frazioni”) di oggetti. È molto attratto dall’Italia, dove si stabilisce definitivamente nel 1960, anno in cui allestisce la prima mostra alla Galleria di Leo Castelli.

Leda and the Swan, 1962, Cy TwomblyGli anni ’60 sono caratterizzati dai cosiddetti “Quadri della Lavagna”, opere di grande dimensioni in cui usava la tecnica calligrafica dei graffiti su sfondi solidi di colore grigio, marrone o bianco (una tecnica a metà tra la pittura e l’incisione), in cui la scrittura viene svestita del suo ruolo comunicativo e trasferita nel campo semantico del gesto, fino a costellare appieno l’action painting, ricco di citazioni come Leda e il cigno (1962, fig.1) o la famosa battaglia di Lepanto. In questo periodo, che è estremamente proficuo, comincia a creare le sue prime sculture astratte, le quali, sebbene varie nella forma e nel materiale, erano sempre ricoperte di pittura bianca. Twombly utilizzerà (e sarà scultore di quest’arte povera per tutta la vita) materiale preso a prestito dal fabbro, dal maniscalco, dal falegname, per dare altezza a forme semplici dalla struttura assemblata, a ricordare l’arte dei mastri antichi nel forgiare gli strumenti del lavoro: un omaggio alle cose, che si liberano della condizione di oggetti utili (come le lettere e la parola scritta) per diventare il simbolo del proprio servilismo: l’oggetto svilito dalla sua destinazione strumentale diventa un soggetto di bellezza silenziosa e perenne, come  in un processo di mummificazione, in cui gesso, vernice, legno, cartone, metallo, carta, stoffa, spago, matite, diventano elementi del lavoro manuale che, ricoperti di vernice bianca e opaca, subiscono l’ultimo trattamento immortale.

Nella metà degli anni ’70 Twombly realizza opere “multistrato”, vere e proprie creature che rappresentano la piena realizzazione del suo repertorio anticonvenzionale, costruite assemblando il collage di fogli ad altri media pittorici.

Gli spazi “vuoti” sono il collante necessario al dipanarsi di una creatività splendente, che attinge spietatamente alla linguistica, piratandone i sistemi di base. Il segno diventa “lemma” e spesso è contratto in un calco filologico: come se un bambino geniale avesse la capacità improvvisa di comunicare attraverso un linguaggio in cui verbo e immagine convergono in una bocca vulcanica fatta di meraviglie e di delicatezze, che vengono alla luce con estrema cura, a  volte con riferimenti geografici, come la serie dei quadri Bolsena (il lago vulcanico vicino a Viterbo).

Apollodoro from the portfolio Six Latin Writers and Poets, 1976-76, Cy TwomblyIn questi lavori, gli elementi grafici si fondono con forza tecnica sempre più rilevante in una sorta di dissoluzione vorticosa, di totale imprendibilità, ma sono talvolta caratterizzati da un nitore fantasmatico, come una sorta di alfabeto decifrabile dalla perizia di pochi eletti, come ad esempio in Apollodoro, (fig. 2), fino a raggiungere negli anni ’90 l’acme estetico di eleganti esemplari floreali che in qualche modo lo ricongiungono, in una sorta di re-unione con il principio, ai Fauve che ne connotarono gli inizi del percorso mezzo secolo prima, nel periodo americano, in cui fu della scuola dei grandi Robert Rauschenberg e Jasper Johns.

Un esempio folgorante è quello delle Quattro Stagioni, giganteschi pannelli che sembrano dimorare tra lo spazio scenico e quello architettonico, in una sorta di danza dei colori che si raccordano in chiazze in perenne tentativo di scendere verso il basso, trattenute contro la tela da invisibili fili, come mani che tentano di mitigare l’urlo di una dea di bellezza arcaica, maestra delle pitture rupestri.

L’ interno delle tavole è carico di una fortissima tensione, di una conflittualità invadente e di una cripticità linguistica che rimanda alla costante alternanza tra violenza e silenzio, tra sessualità e gioco, tra luce e fondale, in un rapporto emotivamente coinvolgente con lo spettatore: al quale non è difficile desiderare di balzare dentro il quadro e affondare gli occhi in quel coacervo di colore.

I fiori sono, in alcuni lavori, vere e proprie esplosioni e non è un caso se appartengono all’ultima parte del viaggio pittorico di Twombly. Artista ricchissimo e avido, così viene descritto, non fu mai collocato dalla critica americana nella Pop Art; questa sua ostinata originalità stilistica fu la sua fortuna: i suoi quadri sono valutati milioni di dollari e ambiti dai maggiori galleristi.

Non essendo “schematico”, si può solo ripercorrere a ritroso il suo progetto e intercettarne alcune coordinate, con una visione dall’interno, che sembra l’unica via percorribile, proprio come farebbe quello spettatore curioso e invadente. E tornando a quel processo alchemico stigmatizzato nella geologia delle opere, non è difficile individuare un alternarsi di strati di bianco, di rosso, di nero. La qualità dinamica dell’opera di Twombly si interseca con quella statica di depositaria del messaggio, è quindi un’opera magistrale che separa l’oro dal fango, e aggiunge un’aura di mistero e di sapienza, per quella inusuale competenza del maestro a rendere coscienti e ricchi sia il nero che il rosso l’uno dell’altro, stretti al confine tra il simbolico e l’astratto, uniti dall’invisibile catena dell’espressione del colore in piena luce, che sembra poter dire tutto, ma che di fatto rimanda sempre ad altro in un infinito specchio di rappresentazioni.

La catalogazione in “espressionismo”, infatti, è sempre relativizzante, perché non fa altro che dire continuamente che sotto l’espressione c’è una volontà di manifestare, di dire, di esprimere. Il messaggio “espresso” da Twombly è ancora totalmente indecifrato. Un’idea, un desiderio, di destituire il mito restituendo al sogno gli eroi e le anfore di un tempo passato.


 

 

 

Il Segno e la Veggenza di René Magritte

di Irene Battaglini                              15 luglio 2013

L’Immaginale

pdf    Il Segno e la Veggenza  di René Magritte

«Quanto ai nomi, diciamo che nessuno di essi ha alcunché di stabile, e che nulla impedisce che le cose che ora sono dette rotonde vengano chiamate rette e che le rette vengano chiamate rotonde, e [diciamo dunque] che le cose non sarebbero meno stabili per coloro che ne mutassero i nomi e le chiamassero in modo contrario».

Platone, VII Lettera, 343a 9-b 4

 short link

René Magritte, La clairvoyance, 1936La Clairvoyance è un autoritratto ad olio su tela del 1936 di Magritte. René Magritte (belga, 1898-1967) è il pittore contemporaneo più discusso, studiato e interpretato al mondo. La sua adesione al surrealismo è il movente per fare della sua arte un ampio scenario simbolico, linguistico, onirico e metaforico, prestandosi ad ogni forma di interpretazione psicoanalitica, di diagnosi per lo più ispirate alla dinamica, peraltro assai congrua, del trauma della morte della madre, avvenuta in circostanze mai del tutto chiarite.

René Magritte dipinse talmente tanto, soggetti ed elementi così diversi, utilizzando oggetti e “lemmi figurativi” così privi di un legame sintattico elementare, eliminando ogni logica “conscia” o “inconscia”, da far pensare ad almeno tre questioni di fondo: la prima, che non si tratti di oggetti e di soggetti scelti da Magritte, ma più verosimilmente di universi esperienziali, in cui immagine e parola sono connessi da un’intima storia di amore e di ontologia semantica; in secondo luogo, che si esime dalla triangolazione interpretativa per andare in una dimensione narrativa autonoma, dotata di coerenza interna, il cui unico condizionamento è determinato dalla scelta di utilizzare un mezzo (la figurazione, perché la pittura è probabilmente l’arte che gli è congeniale) connaturato ad esser visto, dotato di centralità espositiva – e pagandone il prezzo; in terza istanza, emerge una caratteristica portante di Magritte: il bisogno di far emergere con chiarezza e determinazione, con principi di trasparenza e bellezza, il proprio mondo interiore, – anche del trauma, ma non solo – diventando testimone fedele e docile di una condizione creazionista, di una cosmogonia geneticamente governata dal cromosoma dell’eleganza, dell’armonia, dell’ironia. Non una archeologia simbolica e insondabile, mistificante. Non è solo il mistero a far da contrappunto glorioso alla vividezza dei colori e al nitore delle forme; non è solo la diade vita/morte a far da trama liturgica alle simbolizzazioni; forse è l’espressività di un popolo – quello che abita l’isola di Magritte – di un’era antisimbolica, linguisticamente smembrato dai sostegni metaforici, alla ricerca di un nuovo punto euclideo, di un dio che ne definisca l’alfa e l’omega. L’impressione è che un universo extramondano abbia deciso di materializzarsi e di usare le nostre competenze linguistiche per avvicinarsi a noi, per farsi intravvedere, scorgere solamente, seppure manifestandosi con fervida abbondanza. Come se il dio avesse deciso di uscire dal tempio, ma non di rivelarsi nella sua piena identità. Venuto nel mondo, si lascia cullare dalla fantasia degli uomini, e desidera aprire una sfida scoprendo le carte con l’ambiguità – dosando con saggezza e astuzia impeto e quiete, favola e stigma, legge e verità – di chi vuole a lungo impiegare la scena che gli viene concessa, sapendo di dover prima o poi entrare nell’archivio museale delle cose dell’arte. Sostiene Collina, psicologa dell’arte:

«La realtà e la surrealtà delle immagini magrittiane, il senso e il nonsenso in cui si dibattono attraversando continuamente quel confine tra razionale e irrazionale che i surrealisti volevano abolire, nascono all’interno della struttura stessa della visione; egli non descriveva, come Dalì, i sogni, a lui bastavano le sue visioni e il mistero si genera dal cuore stesso della realtà, come la morte di sua madre; e una vasta letteratura internazionale dalla quale attingeva ispirazione, come le opere di Stevenson, Hegel, Kant, Baudelaire, Verlaine, Poe e Lautréamont. E proprio in quest’ultimo, di cui Magritte illustrò  i Canti di Maldoror, è da ritrovare la fonte della figura dello “stregone” come colui che, analogamente all’artista, è partecipe attore dei misteri del mondo».[1]

Ed è il mercuriale – che si maschera da stregone, briccone, sciamano, artista – a farci da guida nel grande gioco delle rappresentazioni di Magritte, che se è vero che rimandano sempre agli scacchi, al metafisico, all’arcano disegno, è vero anche che rimandano ad un ulteriore che ci appartiene sotto le scarpe, che abbiamo ad un centimetro dal naso, che possiamo scorgere con la coda dell’occhio: qualche cosa che non possiamo centrare del tutto, che non possiamo definire, ma che appartiene al quotidiano – perché adopera le strutture del nostro immaginario – e non al mitografico o al mistico.

Clairvoyance è segno e destino, è intelligenza metacognitiva, è intuizione e obbedienza. Eppure i protagonisti sono oggetti e soggetti “semplici”, dotati di autonomia scenica. Proviamo ad elencare i mattoncini della composizione, partiamo dai fondamentali, adottando il criterio del “rasoio di Ockham” e prendendo tutto l’insegnamento di Wittgenstein «non pensare, ma osserva!» (1967, 46): a volte l’indagine è investigazione, ma si deve basare sulla descrizione fenomenologica, sull’osservazione della realtà: un tavolino coperto da un drappo rosso, un uovo, un cavalletto, una tela; il pittore, in autoritratto e vestito con rigida eleganza, seduto compostamente su una sedia, con una tavolozza sulla mano sinistra, che “dipinge” una piccola aquila grigio-azzurra sulla tela. Qual è l’elemento che genera dissonanza? Che cosa è apparentemente incongruo, o – sempre con Claudia Collina:

«in prospettiva antropologica, [invece], l’immagine dell’artista che dona la vita, che anima con la sua materia, riporta alla spiritualità fideistica nella potenza creativa della divinità che alita il soffio vitale in forme di argilla, ma porta con se anche il suo ambivalente contrario, come ogni situazione: l’artista è mirabile, ma pericoloso.  È creatore possente, ma mago cattivo, che come alita la vita la pu  anche togliere. E da questo sincretismo d’origine antropologica alla lettura psicanalitica della psicogenesi del creare, indissolubilmente legata al suo opposto del dialettico distruggere, il passo è breve.  Magritte, come si vede dalla fotografia e dal dipinto Doppio autoritratto – Magritte mentre dipinge la chiaroveggenza e La chiaroveggenza, si autocelebra in veste di mago chiaroveggente portatore di messaggi simbolici sinonimi di presagio e messaggi celesti, come l’uccello che è anche latore di stati spirituali e superiori dell’essere; deux artifex in piena onnipotenza confermato anche dal ritratto da Terapeuta in veste magica di viandante e custode dello spirito».

Sappiamo anche che Magritte non amava l’interpretazione psicoanalitica. Negli Scritti:  «L’arte come la concepisco io, è refrattaria alla psicanalisi: essa evoca il mistero senza il quale il mondo non esisterebbe, ossia il mistero che non si deve confondere con una sorta di problema per quanto difficile sia. Io mi sforzo di dipingere se non immagini che evochino il mistero del mondo. Perché ciò sia possibile devo essere ben vigile, ossia devo cessare di identificarmi interamente con idee, sentimenti, sensazioni».[2]

Come facciamo a liberare Magritte dal destino indesiderato della psicoanalisi – seppure legittimo, utile, essenziale ad agevolare la lettura delle opere? Leggere le opere come un test proiettivo è ingiusto. Abilitare i quadri a insegnanti di linguistica è un’operazione altrettanto impropria. Danno suggerimenti, elicitano fantasmi, emozioni e forme, aprono un discorso. Ma noi dobbiamo capire che cosa stia facendo Magritte. Escludiamo la celebrazione narcisistica del self-portrait: sarebbe una condizione ovvia e a priori di ogni qualsivoglia autoritratto, e l’artista belga aveva il talento per ritrarsi in ogni guisa, in ogni condizione desiderata, con ogni mezzo espressivo disponibile. Dobbiamo chiederci perché lo faccia in quel modo, con la meditata tecnica dello storyboard, in cui non si lascia nulla a al caso. Escludiamo la volontà oniromantica: è ovvio che dentro un uovo si celi l’embrione di un oviparo, che sia un rapace o un gabbiano, è un fatto meramente incidentale. Quello che non è ovvio è perché un pittore debba interrogarsi su cosa dica un uovo. Infatti egli non lo fa. Egli non si interroga, ma si pone nel gesto del “sentire”, in una dimensione come di ascolto attivo dei movimenti all’interno dell’involucro gestazionale. Osserva con grande umanità il piccolo uovo, tende l’orecchio, è “professionale” e al tempo stesso “familiare”. Fa da tramite, da diaframma, da cassa di risonanza? Neppure, o comunque non si esaurisce in questo la funzione mantica, e non è neppure utile al processo di differenziazione senza l’apporto del soggetto che trova la propria strada di individuazione. L’aquila azzurrognola deve avere la sua parte nella storia.

… Il protagonista solo apparentemente dipinge. Di fatto sta osservando e ascoltando l’uovo, e non solo dipingendo. È l’aquila a farsi dipingere perché sembra averlo deciso: è tutt’altro che appena nata. Esce fuori, vuol volare. Egli guarda l’uovo perché è là dentro che stanno il genoma, il disegno, la mappa del viaggio. Ma non è un chiaroveggente, perché come abbiamo detto non occorre esserlo per sapere che dall’embrione si manifesterà l’individuo: vuole dirci che il chiaroveggente si lascia vedere dentro e mette in forma scritta, figurativa o verbalizzata i suggerimenti non già dell’uovo, ma di quell’individuo che là dentro è costretto ad albergare. Egli libera. Non è dunque solo stregone, ma ostetrico: disegna il parto autoctono di un individuo ben differenziato, in grado di dire delle cose precise, dotato di esperienza e dignità. Eppure manca ancora qualche cosa, non è necessario l’ostetrico se non alla presenza incombente di una puerpera. Ebbene, il pittore-veggente è cavità endometriale, è luogo di attaccamento e prima base sicura, è nido e valva di perla. Ma è sopra ogni cosa la scena primaria del delitto dell’essere-nel-mondo: una colpa priva di fondamento che è fondamento del codice morale.

Quindi è il processo di re-metaforizzazione e non l’immagine a far da quaderno per il nostro apprendimento. È un materno indiscutibile, che non si offre nella struttura standardizzata – rotonda, concava, toroidale, neppure nell’identità orientale vuoto = forma. Salta la metafora e salta il dominio target della metafora. Chi vuole comprendere, si accosti con silenzio e con attenzione, si liberi dalle preordinate e – seppur pertinenti ed eleganti – restituzioni lacaniane sulla natura che imparenta linguaggio ed inconscio. Il problema è l’archetipo, la sua qualità non frammentaria ma densamente unitaria, che deve essere scissa per essere analizzata, interrogata, segmentata e resa utile allo psicologo.

Il mercuriale – la qualità visionaria e trasformativa – è mescolato (e non invischiato) allo ctonio, al materno, al generativo, in una unità compositiva di magistrale forza espressiva, anche per le felici proprietà degli elementi: tre supporti quadrati (tavolino, tela, tavolozza), tre esseri viventi (uovo, pittore, aquila), tre supporti “bucati” (cavalletto, sedia, tavolozza), con un unico piccolo pennello a far da strumento chirurgico, da estensione della mano-levatrice: non è forse la Chiaroveggenza di Magritte, una retorica intorno all’arte della maieutica? Il valore dell’opera, se diamo credito a questa nostra ipotesi, diventa il cuore di una questione conoscitiva che intende andare nella direzione filosofica e morale, restituendo alla pittura una funzione non solo decorativa e sentimentale ma intellettiva, non solo linguistica e comunicativa ma morale in senso alto, di costruzione di tematiche proprie di ogni universo. In altre parole, il processo è protagonista, la relazione è decisiva, la mappa è centrale, mentre oggetto, soggetto e segno sono periferici, strumentali. Non si tratta quindi di una abolizione della metafora, ma della istruzione di processi di metaforizzazione complessi, riordinati, ristrutturanti del pensare, del nominare, e in definitiva del “vedere”. Quindi non è solo una riparazione della ferita portata dalla madre-morte del piccole René, ma della grande occasione di cogliere nei segni dei fatti della nostra vita quello che è il cuore della ricerca dell’oggetto perduto e dell’oggetto ritrovato. Una poetica dello sperdimento e un colore acceso a celebrare la nascita come apertura al mondo della logica e della semiotica: perché se l’aquila viene al mondo pronta per volare, tesa verso un “alto”, l’omo nasce animato dal desiderio dell’ “oltre”, dell’autentico Sé che è «bisogno di libertà di vivere», per dirla con David Foster Wallace.

Sostiene Arturo Martone, filosofo del linguaggio:

«Di là dalle questioni interne al testo wittgensteiniano (Voltolini: 2003), la pratica del vedere come, almeno in questa lunga notazione di LW, concerne sempre e soltanto il vedere A come B, ovvero A nei termini di B, concerne cioè tutti quei casi – percettivi, immaginativi e fantastici, interpretativi o infine propriamente conoscitivi -, nei quali accade come uno spostamento o trasferimento di senso, da A a B e viceversa (nel senso dell’interazionismo di Black: 1983), nel senso cioè che, proprio come s’era richiamato per il processo di metaforizzazione, anche qui un topic viene ridefinito nei termini di un vehicle, ovvero un dominio fonte viene ri-categorizzato nei termini di un dominio target. Dicendolo appena diversamente, certe proprietà vengono sia mutuate, o per riprendere quella già vista terminologia jakobsoniana, selezionate a partire da un dominio target o vehicle, e sia riferite ovvero combinate ad altre proprietà, quelle del dominio fonte o topic. E però, e sarà proprio questo uno dei punti conclusivi di questo contributo, è ammissibile che oltre al vedere A come B, si dia anche un vedere A come A (o anche, certo, un vedere B come B)? Che vuol dire questa domanda? Con essa ci si interroga sul senso, ammesso pure che se ne dia uno, di quelle cosiddette proposizioni identiche ovvero tautologie che, com’è noto, sempre Wittgenstein riteneva, se non propriamente insensate, come appartenenti tuttavia al simbolismo della logica (1964: 4.46, 4.461, 4.4611, 4.462, 4.463, 4.464).» [3]

Alla luce della logica, tutto appare nominabile: archetipi, figure, simboli. Ad esempio: l’uovo è simbolo della vita, della nascita. Il viaggio invece nel simbolismo della logica e nel processo di evoluzione metaforica che è interno a tutti i linguaggi, è un viaggio a ritroso, a dover nascere e camminare su un sentiero magmatico, nella luce crepuscolare dello sguardo del maestro-veggente. È un viaggio ai margini della poetica di Magritte, che ci apre alla vastità e al precipizio come fa l’uomo di Friedrich affacciato al mare di nebbia. Si affida alla natura, sorella simbolica, ma non troppo. Sorella di fatto, capace di attendere che il poeta e il pittore si annidino dentro i suoi millenni alla ricerca del vero Sé.



[1] Claudia Collina, Università degli Studi di Bologna, “Didattica & Ricerca  a.a. 2006-2007”, Gli autoritratti di René Magritte alla luce della psicoanalisi,

http://www.psicoart.unibo.it/Interventi/Interventi%20Collina%20Magritte.pdf

[2] René Magritte, Scritti, traduzione a cura di L. Sosio, Milano, Abscondita, 2001

[3] Arturo Martone, Università degli Studi L’Orientale di Napoli, Tra metaforizzazione e nominazione. Una ipotesi di ricerca.   http://www.unior.it/userfiles/workarea_477/Martone%20LZ%202%2029-12-2010.pdf  [Grassetti miei].

L’apertura di René Char

di Andrea Galgano                                                                                               26 giugno 2013

Poesia Contemporanea

short link

pdf   L’apertura di René Char

char4

Non c’è poema di René Char, scrive Jean Starobinski:

«che non ci dia il senso dell’apertura. Uno spazio accresciuto appare dinanzi a noi, si illumina in noi, si offre ai nostri occhi aperti. Questo spazio non ha gli agi del sogno: è il volume brulicante e rude del nostro soggiorno terrestre, è l’istante del nostro respiro presente, rivelati nella loro piena estensione. Un luogo abitato imperiosamente s’annuncia; e la sua ampiezza ci è resa sensibile dall’empito di un’emozione che non sopporta di sentirsi disgiunta dalle grandi energie naturali: riconosciamo l’avvento della «materia-emozione istantaneamente regina».

L’ora presente che promuove il suo accrescimento di prospettiva, di luogo e di sguardo, si sviluppa nell’originaria spazialità inaccessibile e pronunciata, si sofferma sulla nominazione designata e integra, che si ammanta di lontananze e assenze.

La parola che afferma il suo annuncio, appartiene all’indicibile del linguaggio, all’assoluto intervallo della contemplazione estatica e della sottrazione: «La poesia è, di volta in volta, parola e provocazione silenziosa, disperata, del nostro desiderare una realtà che non teme eguali. Immarcescibile. Imperitura, no; perché corre i rischi di tutti. Ma la sola che visibilmente trionfa della morte materiale. Tale la Bellezza: apparsa fin dai primi tempi del nostro cuore, ora risibilmente cosciente, ora luminosamente attento».

Char continua, nel suo empito e nella funzione della poesia, a «fronteggiarsi dei contrari» e «raccoglierne la sofferenza e il frutto», come sostiene Starobinski, permanendo nella conciliazione e nella ferita, come squarcio silente e amoroso, che vive di guerra e di pace e in cui la poesia diviene «essenza del poema, […] messa di fronte a se stessa e resa visibile nella sua essenza, attraverso le parole che la ricercano» (M. Blanchot).

Quando essa si serra nella custodia di un precetto e di una definizione, l’assenza e la lontananza celebrano l’indefinibile, si affrancano in una liberazione che soggiace all’humanisme e all’allargamento di senso e di foglio: «Quando la nostra missione è quella di svegliare, si comincia col lavare se stessi nel fiume».

Giorgio Caproni, analizzando il vortice poetico di Char, scrive: «fra tutte le “poesie” da me lette ed amate in questi ultimi anni, è la più lontana dall’ “idea di poesia” che ciascuno di noi (per tradizione, per educazione, per abitudine) possiede, e la più stretta al cuore della poesia stessa, dove la letteratura o la poesia-che-si-sapeva-già non porgono più alcun soccorso al lettore, e questi, coinvolto da capo a piedi in quei bouts d’existence incorruptibles che sono i poèmes, rimane perfettamente solo a sentirsi investito d’un potere – d’interiore libertà: d’uno slancio vitale e d’un coraggio morale – che per un istante egli crede di ricevere femminilmente dall’esterno, mentre poi s’accorge che tale ricchezza era già in lui, sonnecchiante ma presente, come se il poeta altro non avesse fatto che risvegliarla, non inventando ma scoprendo; e quindi suscitando un moto, più che d’ammirazione, di gratitudine. Ho sottolineato i tre vocaboli non per ammiccare, ma perché possono essere, penso, tre piccoli sesamo, offerti dallo stesso Char».

Il suscitatore di vita celebra la forma contratta del mondo («Il poeta, / custode degli infiniti volti di tutto ciò che vive»), il cielo illuminato che riserva l’intensità del moto vivente («Bandita dai nostri occhi, la luce si è nascosta / da qualche parte nelle nostre ossa. La cacciamo / a nostra volta, per restituirle la corona»), la folgorazione dell’istante che ama lacerare i lacerti del silenzio («Non apparteniamo a nessuno, se non al lampo / di quella lampada ignota, inaccessibile, / che tiene svegli il coraggio e il silenzio») e della attesa, per ricomporsi, rigenerarsi, sostare nell’asserzione del presente, che, come scrive ancora Caproni: «è forse l’unica voce costruttiva, e vorrei dire, in senso proprio, edificante, nel cuore del generale sfacelo. È la voce viva e quasi magica, nourriture semblable à l’anche d’un haut-bois [nutrimento simile all’ancia di un oboe], d’un datore di speranza: d’un fautore acerrimo di libertà, nel più vasto e limpido senso laico. E nel più umano. D’un umanesimo che pianta le radici nello stesso suolo d’origine del poeta (L’Isle-sur-la-Sorgue, Valchiusa, circondario d’Avignone, dove Char è nato nel 1907) e che trae la sua maggior forza di vivo alimento proprio dalla catastrofe della guerra e dall’oppressione nazista, duramente sofferta e ormai sfondo morale del poeta, più d’ogni altro fratello dei suoi fratelli nel cristallo del proprio amore infinito. Sfondo, insieme con quello della lucente bellezza della terra (Char ha saputo ben fare sa toilette dans la rivière: e ogni sua parola è un essere vivente, uomo o albero o fiume o trota o allodola che sia), che nemmeno nelle poesie più schiettamente amorose verrà meno, sempre espresse con un tal sentimento etico della parola da trovare pochi termini di confronto».

La designazione di una meta per la parola richiede il superamento dell’ostacolo notturno, la falla dura e fulgida di un humus di fondo, oscuro e doloroso, che serpeggia nei recessi dell’indistinto e nella tenebra delle frasi.

Ma non si rinviene una nostalgia decorosa e fragile, non c’è fascino di origine o retrospettiva di slargo («Somigliamo a quei rospi che nell’austera / notte delle paludi si chiamano e non si vedono, / piegando al loro grido d’amore / tutta la fatalità dell’universo»), bensì tenta di strapparsi all’origine, alle regioni dell’inconscio, e, come sostiene Starobinski: «si manifesta come un sollevamento che, lasciandosi alle spalle una regione notturna, punta, attraverso la pura chiarità del giorno, verso un rischio ulteriore».

È nella chiarità densa dell’istante che la durata delle sue transizioni scorrono, nella temporalità disgiunta e rotta che sale la sua immagine interiore, come origine di arcipelago, urto, balzo, ascensionalità: «Oggi ho vissuto l’istante della potenza / e dell’invulnerabilità assolute. / Ero un alveare che migrava / verso le sorgenti del cielo / con tutto il suo miele e tutte le sue api».

Il movimento della poesia e della parola si accompagnano al moto del poeta, fusi e discinti nella accettazione di un pericolo smosso, nella massima intensità di un’altitudine franta che non ha terrore di lasciare lo spazio alla bellezza e al suo «cono d’ombra»: «Non c’è spazio, nelle nostre tenebre, per la Bellezza. / Tutto lo spazio è per la Bellezza», o ancora «Ognuna delle lettere che compongono il tuo nome, Bellezza, / nel posto d’onore dei supplizi, sposa la distesa semplicità / del sole, s’iscrive nella frase immensa che copre il cielo, / e si accompagna all’uomo impegnato a ingannare il destino / col suo opposto indomabile: la speranza».

In questi passaggi, la memoria prenatale di Char insegue le sue regioni segrete, come la notte, appunto, la terra, l’angoscia e la roccia.

Nell’antagonismo dell’ uomo «incerto dei suoi fini», si espone la gemma della diversità che frequenta il fondo sotteso delle tenebre, l’astro che si impone nelle braci, lo splendore numinoso della fecondazione antagonista, che percuote lo strappo e la ferita del respiro: «Proprio l’istante in cui la bellezza, / dopo essersi fatta lungamente attendere, / sorge dalle cose consuete, / attraversa il nostro campo rigoglioso, / lega tutto ciò che può essere legato, / illumina tutto ciò che deve essere illuminato / del nostro retaggio di tenebre».

La rigenerazione rievocativa dell’infanzia, come densità nata realmente per la nostra stoffa umana, slanciano la noncuranza e lambiscono il dolore della veglia, del ritardo dinamico dell’essere: «Porteranno fronde gli ostinati a limare la notte nodosa che precede e segue il baleno».

La «macchia di purezza / al di là della scrittura insozzata» è salvarsi dal naufragio di «un passante intento a passare» che spia l’alba cremisi e non annulla, per nessun motivo, la densità dei contrari, l’opposizione del limite tragico e slanciato di un istante imprevisto e di un palpito guardingo.

Commenta Starobinski: «Al limite estremo del sollevamento poetico, ritroviamo una nuova soglia, ma una soglia proibita che non può essere valicata. La cima non è una mèta conquistata e posseduta. Se il poema si slancia verso la sua più grande altezza – e accade che vi giunga con stupefacente celerità – vi si ritroverà meno ricco del suo acquisto che anelante a ciò che gli manca e ancora gli sfugge. La sommità è cosa di un istante, in cui l’ignoto, il futuro, il silenzio si manifestano col loro stesso sottrarsi».

Come ha aggiunto Adriano Marchetti, nella introduzione di Mulin premier e Au-dessus du vent, per cui «René Char, come Mandel’štam, che lui stesso ha tradotto, e Paul Celan da cui è stato tradotto, appartiene a quella generazione di poeti che è rimasta segnata dagli orrori del totalitarismo europeo e che tuttavia non ha abbandonato il cammino della resistenza dimorando nella tensione della poesia, compiendo un gesto che Simon Weil avrebbe chiamato action non agissante», la poesia di Char afferma il culmine di una costrizione: dapprima alla verità, poi alla cartografia dell’accumulo di una dimora possibile e il poeta, come egli scrive, «traducendo l’intenzione in atto ispirato, convertendo un ciclo di travagli in carico di resurrezione, costringe l’oasi del freddo a trapassare per ogni poro i vetri dello scoramento e crea il prisma, idra dello sforzo, del meraviglioso, del rigore e del diluvio, con le tue labbra per saggezza e il sangue per predella».

Come sostiene Stefano Raimondi, per cui

«Le immagini chariane sono una vera e propria mappatura dello spirito iconico nel corpo dell’espressione. Egli le costruisce per comprensione del mondo, per decifrazione delle cose e del circostante che lo invadono e lo coinvolgono negli istanti rivelatori che si forgiano nel farsi del poema stesso. La forza delle sue immagini scaturisce dalla certezza di un rapporto con una parte reale che lo orienta, che lo inizia, come un substrato oggettuale che lo perimetra e lo affranca. Nel procedere per apparizioni, Char è perfettamente conscio del rischio che corre, della possibilità di non poter più riprendere il suo carnet tra le mani, per raccontare il proseguire del giorno, delle ore drammatiche.

Nella stratificazione del dolore naufrago, nella polvere di una situazione, il frammento chariano non geme nell’inerzia di una vertigine, ma si pone come atto fiero, in cui il poeta fa fronte all’ignoto e resiste («Resistenza è solo speranza. Così la luna d’Ipnos, con tutti i suoi quarti stanotte, domani visione sul passaggio dei poemi.»), si pronuncia nell’attualità drammatica sospesa nella scansione dell’istante violento e dell’ascesa meridiana: «Mi faccio violenza per conservare, malgrado l’umore, questa mia voce d’inchiostro. Sicché, è con penna a testa d’ariete, senza posa spenta, senza posa riaccesa, concentrata, tesa e d’un sol fiato che scrivo questo, tralascio questo. Automa delle vanità? No, sinceramente. Necessità di controllare l’evidenza, di farla creatura».

Scrive Vittorio Sereni: «Nel suo insieme antielegiaca, antinarrativa, antidiscorsiva la poesia di Char è poesia d’illuminazione, ellittica, oracolare. Ha le radici nell’istante e nel fenomenico e dunque – contro ogni apparenza – nel quotidiano. Ma non è, in alcun modo, poesia del quotidiano nella misura in cui rifiuta di essere gestione poetica della quotidianità»

La violenza e la tenerezza della sua immagine colgono la sospensione miracolosa e vivente verso un orizzonte mai neutro che si protende al tempo rinviabile e leggibile, poiché «il poema è sempre sposato a qualcuno».

Annota Starobinski: «L’unità dell’amore non si compie nella fusione dei simili, ma nel rapporto asimmetrico in cui il desiderio fa fronte alla parte d’ignoto e d’assenza che, nella fortuna offerta, non smette mai di sfuggirci».

È la densità dell’istante che avviene a cogliere il tempo della vita e della scrittura, come i rosai selvatici, che da scomparsi, appaiono fulgidi e perseveranti, o la Francia delle Caverne, rischio essenziale di una sproporzione libera e generosa: «M’incanta il popolo dei prati. La sua bellezza esile e priva di veleno, non mi stanco di narrarmela. Il topo campagnolo, la talpa, oscuri bimbi perduti nella chimera dell’erba, l’orbettino, figlio del vetro, il grillo, pedissequo quant’altri mai, la cavalletta che schiocca e conta i suoi panni, la farfalla che simula ebbrezza e stuzzica i fiori coi silenziosi singulti, le formiche fatte sagge dalla verde distesa, e , immediatamente sopra, le rondini meteore … Prateria, sei lo scrigno del giorno».

Commenta ancora Starobinski: «La terra incrociata dai voli degli uccelli, la marcia sull’immutabile cammino, o ancora: il corso del fiume. Sono tutte immagini esemplari, precetti sensibili che insegnano l’alleanza tra la fissità e il movimento, tra l’essere radicati e il fluire. Il poeta trova nel mondo le grandi figure che rispecchiano il suo destino d’uomo dilacerato e di conciliatore, delle quali il poema dovrà ripetere il tracciato».

Decifrare il mondo nel tessuto del poema è «ritrovare, / in egual numero, gallerie nascoste, stanze armoniche, / e, nello stesso tempo, lembi di futuro, portici al sole, / sentieri insidiosi ed esistenze che si riconoscono alla voce. / il poeta è il traghettatore di tutto ciò che plasma un ordine. / Un ordine insorto».

La laconica espressività di Char diviene l’emblema di un passaggio di dimore, forgiate dall’alone esile e forte, in cui l’azione si fa natura, parola-veggente che si deposita nel fondo dell’esperienza e nel suo fascio di tenebre, come immagine tolta al nulla e restituita al campo radioso dell’essere: «Temo la scalmana non meno della clorosi degli anni che terranno dietro alla guerra. Presento che l’unanimità salutare, la bulimia di giustizia avranno solo una durata effimera, una volta sottratto il laccio che annodava la nostra lotta. Qua uno si prepara a rivendicare l’astrattezza, là un altro reprime ciecamente quanto è suscettibile da alleviare la crudeltà della condizione umana di questo secolo e di permettergli d’accostarsi con passo fiducioso al futuro. Già il male è dovunque in lotta con il suo rimedio. I fantasmi moltiplicano i consigli, le visite, fantasmi la cui anima empirica è un cumulo di muco e nevrosi. Questa pioggia che penetra l’uomo fino all’osso, è la speranza d’aggressione, la scolta del disprezzo. Ci si precipiterà nell’oblio. Si rinunzierà a scartare, a tagliare e guarire. Si supporrà che i morti sepolti abbiano noci nelle tasche e che un giorno, per caso, l’albero sorgerà […]».

 

 

char r., Ritorno Sopramonte e altre poesie, a cura di Vittorio Sereni, con un saggio di Jean Starobinski, Mondadori, Milano 2002.

id., Poesia e prosa, prefazione e traduzione di Giorgio Caproni, Feltrinelli, Milano 1962.

blanchot m., La follia del giorno. con due poesie di Georges Bataille e René Char, L’obliquo, Brescia 2005.

raimondi S., Il male del reticolato. Lo sguardo estremo nella poesia di Vittorio Sereni e René Char, CUEM, Milano 2007.

 

Anton Raphael Mengs e l’Arcadia del Mito

L’Immaginale                                                Prato, 16 giugno 2013

short link

pdf: Anton Raphael Mengs e l’Arcadia del Mito 

 di Irene Battaglini

«Ut pictura poësis»

Quinto Orazio Flacco

 

«La bellezza consiste nella perfezione della materia secondo le nostre idee. Siccome Iddio solo è perfetto, la bellezza è perciò una cosa divina. Quanto più la bellezza si trova in una cosa, tanto più è la medesima animata. La bellezza è l’anima della materia. Siccome l’anima dell’uomo è la causa del suo essere, così anche la bellezza è come l’anima delle figure; e tutto quello che non è bello è come morto per l’uomo.

Questa bellezza ha un potere, che rapisce ed incanta; ed essendo spirito, muove l’anima dell’uomo, accresce, per così dire, le sue forze, e fa sì che si scordi per qualche momento di essere racchiusa nel ristretto centro del corpo. Da ciò nasce la forza attrattiva della bellezza: subito che l’occhio vede un oggetto assai bello, l’anima ne risente, e desidera unirvisi; onde cerca l’uomo di avvicinarvisi, ed accostarvisi.

La bellezza trasporta i sensi dell’uomo fuori dall’umano: tutto si altera, e si commuove in lui talmente che, se questo entusiasmo è di qualche durata, egli degenera facilmente in una specie di tristezza, allorchè l’anima si avvede non esservi che la mera apparenza della perfezione».

Anton Raphael Mengs

 

Avvicinarsi a Anton Raphael Mengs (Aussig 1728 – Roma 1779) significa due cose: farsi sorprendere dal Neoclassicismo ed esplorare con occhi nuovi il crinale del mito. «Il termine Neoclassico contiene un duplice rimando, il primo al classico e il secondo al rinnovamento, due parole che sono oggi di uso facile e quindi in un certo senso degradate», sostiene Steffi Roettgen nell’Introduzione a Mengs, la scoperta del Neoclassico, (Marsilio Editori, Venezia 2001).  Non è un deja-vu, ma un appropriarsi di stilemi che appartengono ad un tempo passato, del quale non vi è stata ancora piena elaborazione.

La sfrangiatura dei critici contemporanei a discredito del Neoclassicismo ha gettato un’ombra lunga sull’apporto di autori di grande spessore, tra i quali un ruolo significativo è giocato dallo il pittore Anton, lo storico dell’arte Johann Joachim Winckelmann (che fu con Mengs il teorico del Neoclassicismo), gli scultori Antonio Canova e Bertel Thorvaldsen, il pittore francese Jacques-Louis David, i pittori italiani Andrea Appiani e Vincenzo Camuccini, e il grande incisore Giovan Battista Piranesi che, con le sue incisioni a stampa, diffuse il gusto per le rovine e le antichità romane. A Roma si stabilirono scuole ed accademie di tutta Europa, divenne la città dove avveniva l’educazione artistica di intere generazioni di pittori e scultori.

Fu un movimento di “risposta”, caratterizzato dall’adesione ai principi di armonia, equilibrio, compostezza, proporzione e serenità che l’Uomo Moderno intravvide nell’arte degli antichi greci e romani, e dal “rifiuto” dell’arte barocca, segnata da un destino di gestione dell’eccesso e della ridondanza.

Stefano Susinno (in Steffi Roettgen, cit.):

 «[…] Tale gruppo di intellettuali – da Giovanni Cristofano Amaduzzi ad Aurelio de’ Giorgi Bertola, da Ippolito Pindemonte ad Antonio Di Gennaro, duca di Belforte, per non dire dei due più noti esegeti e biografi mengsiani, Gian Ludovico Bianconi e José Nicolas de Azar – si colloca significativamente all’interno di quella istituzione accademico-letteraria, allora quasi centenaria che, nata per promuovere una riforma del gusto in opposizione agli “eccessi” del Barocco, dalla sua fondazione nel 1690, con il programmatico nome di Arcadia, incoraggiava uno stile poetico basato sulla conoscenza dei grandi classici dell’antichità e della tradizione italiana fino al Cinquecento. Questi erano riproposti a modello per trattare con verità e naturalezza non solo i vari generi della poesia ma anche argomenti di religione, di scienza, di filosofia».

 Un movimento artistico di “necessità” è sempre dinamico e porta con sé gli elementi di una psicologia difensiva,  dovuta alla modalità con cui i suoi protagonisti affrontarono quel particolare bisogno sociopolitico, estetico, linguistico. La necessità di liquidare gli effetti estetici di “troppo” dell’arte barocca generò un’equazione spuria: l’eliminazione di ciò che è “oltre” attraverso il ritorno a ciò che è “puro”. Questa operazione coincise con l’immagine del potere imperiale di Napoleone, che ai segni della romanità affidava la consacrazione dei suoi successi politico-militari. «Considerando il Neoclassico come corrente di moda si riesce almeno ad intuire in una certa misura per quale motivo esso potesse venir infine spodestato da un atteggiamento antagonista preannuciantesi già con il Romanticismo» (S. Roettgen, cit.).

 La caratterizzazione dinamica del Neoclassicismo trova conferma nella l’opera di divulgazione data dallo stesso Piranesi alle campagne di scavo archeologico, che permisero lo studio del rapporto tra arte greca e arte romana. Una “terapia” del bello, che va a risanare le ferite di una decadenza stilistica e sociale qual è quella dell’età barocca: il frutto di una degenerazione spettacolare e illusoria, ubriaca di sé, virtuosistica, qualche cosa che oggi definiremmo irregolare, kitch, trash, superstizioso, ingannevole. Un effetto d’Ombra che l’Illuminismo tenterà di chiarificare con il ricorso apollineo alla ragione, alla scienza.

La riabilitazione neoclassica vede uscire l’arte romana più debole dal confronto con quella greca: la plastica statuaria di Fidia, Policleto, Mirone, Prassitele, Lisippo, sono esempi senza tempo cui fare riferimento per ottenere la bellezza «ideale» contraddistinta da «nobile semplicità e calma grandezza», ovvero un’arte come espressione di «un’idea concepita senza il soccorso dei sensi» (Winckelmann, 1755 Considerazioni sull’imitazione delle opere greche nella pittura e nella scultura; Storia dell’arte nell’antichità, 1763).  La qualità elegante della forma, la bellezza dei volti, la dolcezza lontana degli sguardi: un’arte ispirata alle virtù, quasi a coniugare temperanza, giustizia, pace, abbondanza,  l’effetto di un buon governo estetico governato da Armonia. Tuttavia i valori rinascimentali erano di matrice umanistica e non illuministica, e diedero all’uomo una centralità storicopolitica, religiosa ed economica che mal si coniuga con la razionalità neoclassica che tendeva a liberare l’uomo dalla retorica, dalla licenza e dalla sregolatezza barocca.

La pittura del tedesco Rafael Mengs (ammesso all’Arcadia romana con il nome di Dinia Sipilio), – l’artista di corte di Spagna pagato con cifre oggi miliardarie, critico d’arte e principe dell’Accademia di San Luca a Roma, solo per citare un paio degli alti riconoscimenti a suo favore – è uno dei più luminosi esempi di arte neoclassica. «Il monumento all’amicizia tra Mengs e Winckelmann è il Parnaso della villa Albani, al quale Winckelmann ha dedicato un elogio esorbitante e smisurato e non privo di zelo patriottico» (S. Roettgen, cit.), pubblicato nel 1764 in Storia delle arti del disegno.

Il Parnaso è di una bellezza indiscutibile. Tuttavia vi è un’altra opera di un incanto straordinario, che è il dipinto Perseo e Andromeda (olio su tela 227 x 153,5 cm, Ermitage di San Pietroburgo) con il cui acquisto segreto Caterina ii di Russia ebbe ad appagare il suo desiderio: «Verrà alla fine quel giorno, in cui io potrò dire di aver visto un’opera di Mengs?», avrebbe scritto l’imperatrice nel 1778 in una lettera a Melchior Grimm, figura centrale del xviii secolo come mediatore tra pubblico e privato nel processo di riforma illuminata delle corti, agente e mercante d’arte.

Il grande quadro segue di alcuni anno la pittura monocroma che porta lo stesso titolo, di piccole dimensioni, e che è accolto presso la Pinacoteca Manfrediana del Seminario Patriarcale di Venezia. È un bozzetto creato per la preparazione, che durò almeno sette anni, del pezzo principale. L’opera è di una eleganza non ascrivibile ad un movimento artistico: è senza tempo, e documenta una fase della composizione in cui non è ancora avvenuto il totale e auspicato distacco percettivo che caratterizza l’opus magnum finale con il suo stampo inequivocabilmente neoclassico.  Gli sguardi di Perseo e Andromeda e del fiero Imeneo sono testimoni di un attimo, di una storia vissuta. La composizione è intima e narrativa, intrisa di una tenerezza che Mengs più volte riuscirà a codificare segretamente nel gioco di luci che gli occhi dei suoi ritratti tradiranno. Si pensi alla Sibilla, che è potentemente allusiva, all’allure contemporanea di una spavalda Maria Luisa di Parma principessa delle Asturie – che il Goya ritrasse in modo ripugnante con un pennello impietoso, ai molteplici autoritratti che sfuggivano alla tendenza a eliminare ogni forma di personalizzazione.

Il grandioso Perseo e Andromeda fu oggetto di numerosi studi critici. Steffi Roettgen (cit.):

 «Mengs ha scelto per la sua composizione diversi modelli antichi, che possono essere individuati senza fatica ad un osservatore con una certa esperienza. Appare evidente il legame con il rilievo, proveniente dalla collezione di Alessandro Albani, del Museo Capitolino di Roma, che raffigura la stessa scena. Gli atteggiamenti delle figure richiamano il modello rappresentato dal mosaico antico con la Liberazione di Esione, che il Cardinale Albani aveva acquistato nel 1761 per la sua collezione privata di villa Albani. Oltre a questo modello, riconosciuto da Mario Praz, si nota infine l’influenza che l’Apollo del Belvedere (Roma, Musei Vaticani) ha esercitato direttamente sull’atteggiamento di Perseo. Con questi riferimenti diretti all’antichità, Mengs andò ben oltre l’iconografia rinascimentale relativa al tema tratto dalle Metamorfosi di Ovidio (iv, 670 ss.), che prediligeva per lo più la lotta di Perseo contro il drago, rispetto alla liberazione di Andromeda dalla rupe. I motivi del destriero Pegaso guidato da Perseo e dal fanciullo dell’imeneo che lo precede correndo con una fiaccola, possono stati essere presi da un dipinto di Peter Paul Rubens, raffigurante lo stesso soggetto, che raffigurava lo stesso tema, e che Mengs conosceva probabilmente per averlo osservato nella collezione del conte Brühl (oggi San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage)».

Nel saggio “Pensieri sulla bellezza e sul gusto nella pittura” (Gedanken über die Schönheit und über den Geschmack in der Malerei) pubblicato nel 1762 a Zurigo, Raphael Mengs, il “Mozart della pittura”, teorizzò il concetto del bello ideale che trascende la natura, perfezionandola. Tre erano gli assiomi del pensiero neoclassico di Mengs:  il primato dell’antico e la sua imitazione non servile; la scelta e il concetto della «bellezza ideale»; il primato dell’intellettualismo del disegno contro il sensualismo del colorito.

Il concetto di bellezza ideale postulato da Mengs poggia le basi sull’impianto filosofico di Platone. Scrive lo stesso Anton Raphael[1]:

«La natura ha perciò prodotte molte bellezze graduate, affine di tener lo spirito umano colla varietà in una commozione eguale, e continuata. La bellezza attrae tutti, perchè la sua potenza è uniforme, e simpatica all’anima dell’uomo; chi la cerca, la trova su tutto, e da per tutto, poichè ella è la luce di tutte le materie, e la similitudine della stessa divinità.  […] Nella bellezza l’arte può superare la natura L’arte della pittura vien detta una imitazione della natura: laonde sembra che nella perfezione debba ella esserle inferiore; ma ciò non sussiste se non che condizionatamente. Vi son delle cose della natura, che l’arte non può affatto imitare, ed ove questa comparisce assai fiacca, e debole in confronto di quella, come, per esempio, nella luce e nell’oscurità. Al contrario ha l’arte una cosa molto importante, in cui supera di gran lunga la natura, e questa è la bellezza. La natura nelle sue produzioni è soggetta ad una quantità di accidenti: l’arte però opera liberamente, poichè si serve di materie del tutto flessibili, e che niente resistono. L’arte pittorica può scegliere da tutto lo spettacolo della natura il più bello, raccogliendo e mettendo insieme le materie di diversi luoghi, e la bellezza di più persone: all’incontro la natura è costretta a prendere, verbigrazia, per l’uomo la materia soltanto alla madre, ed a contentarsi di tutti gli accidenti; onde è facile che gli uomini dipinti possano essere più belli di quello che sieno i veri. […]».

Gli “sfondi” di Roma, Parigi, Dresda, Londra, San Pietroburgo fanno da scenario al confronto del mondo naturale con il modello ideale dell’antichità.

L’arte contemporanea a volte “prende” da quell’immane serbatoio, fregiandosi di stile e chiarezza, di pulizia compositiva. Bellissimo poter contare su questa certezza, su queste basi.  Marc Augé ha affrontato il problema dell’atteggiamento dell’uomo nei confronti di queste “memorie e macerie”, facendo riferimento al concetto di sûrmodernité, ampiamente caratterizzata dalla spettacolarizzazione delle immagini. Il rapporto tra spazio e tempo, tra realtà e rappresentazione, sono temi propri della filosofia e dell’antropologia contemporanea.

I Neoclassici nell’Europa dei Lumi diedero spazio ad un tentativo rigoroso e disciplinato di una rifondazione dell’arte e della cultura tutta partendo dalle strutture e dalle immagini classiche, consapevoli che la grandezza di un Mengs e di un Canova non era da meno di quella di un greco antico. Erano orgogliosi del proprio atteggiamento, e lo difesero con molti argomenti e studi. Non vollero saccheggiare né distruggere, ma solo fronteggiare la vertigine della libertà con la misura semplice e sicura del bello e del buono, come ci insegnano i grandi filosofi classici.

 «Questi è il Monti, poeta e cavaliero, gran traduttor de’ traduttor d’Omero».

Ugo Foscolo

«Come il creatore della natura ha posta una perfezione in ogni cosa, e ci fa apparir tutta la natura bella, ammirabile e degna di lui; così deve anche il pittore mettere e lasciare in ciascuna espressione, in ciascuna pennellata un contrassegno del suo spirito e del suo sapere, acciò l’opera sua sia sempre e da tutti stimata degna di un’anima ragionevole».

Anton Raphael Mengs

William Carlos Williams e le vene dell’America

di Andrea Galgano                                                                  Prato, 6 giugno 2013

Poesia Contemporanea

short link

pdf    William Carlos Williams e le vene dell’America

 

4996-author10

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

lo scrittore statunitense William Carlos Williams (1883-1963) nacque a Rutheford, New Jersey, il 17 settembre 1883, da padre americano di origini inglesi e madre portoricane di origini basche e ebraico-olandesi.

Dopo aver frequentato la scuola secondaria a New York, a Ginevra e Parigi e nel 1902 si iscrisse a Medicina presso l’Università della Pennsylvania, dove conobbe Pound e Marianne Moore. In Europa per la specializzazione, si spostò a Lipsia, Londra, Spagna e Italia.

Nel 1912 sposò la sua compagna del liceo Florence Herman (detta «Flossie») e svolse l’attività pediatrica dedicandosi alla classe operaia di Paterson, nel New Jersey, città importante, poiché darà il titolo alla sua opera principale.

Nel 1949 gli fu assegnata la prestigiosa cattedra di Poesia presso la Biblioteca del Congresso, subito revocata per via del maccartismo nascosto nei suoi scritti considerati sovversivi.

In un suo testo, dal titolo «Di nuovo pane e caviale. Un consiglio al nuovo scrittore», scrive: «Ne abbiamo fin sopra i capelli della cantilena secondo cui l’artista è un debosciato nato, le sue opere sono provocate dalla nevrosi, dalla sublimazione, dalle fughe dal brutale contatto con la vita che egli, povero cristo, paventa terribilmente».

La ribellione nei confronti dell’immagine dell’artista che trova la fonte di ogni ispirazione soltanto nell’evasione, nel rifugio assolato di un pensiero distante, trova la possibile strategia di una risposta: «tanto dipende / da / una carriola / rossa / smaltata di / pioggia / presso bianche / galline» (The Red Wheelharrow).

Il celeberrimo assioma no ideas but in things, niente idee se non nelle cose, trova nella poesia una proporzione netta, in cui le cose, qui rappresentate dalla carriola e dalle galline, vengono raccolte nello sguardo che unisce la vivezza del rosso, smaltato di pioggia, all’indistinta presenza del bianco. Essi uniti dalla pioggia, rinascono nella chiarezza e nelle affermazione degli oggetti.

La semplicità nasce dalla combinazione e la poesia non vive se non nella stoffa del mondo: «La provincia della poesia è il mondo / Quando il sole sorge, sorge nella poesia / e quando il buio scende al tramonto / la poesia è buia».

Il valore dell’immagine assume consistenza solo nella espressione concreta e la sua operazione poetica, persino nelle suggestioni della poesia cinese e giapponese, come scrive Cristina Campo «ha origine nello sguardo: fisso, con meravigliosa costanza, più che all’oggetto alla sua metamorfosi».

La dedizione di Williams all’Immagismo rappresentò il contorno preciso di una traduzione di oggetti e nel rigore della bellezza, molto simile all’inscape di G.M. Hopkins, come fine ultimo della ricerca.

Le incursioni vitali dell’essere si muovono in una geografia di arcipelaghi, per usare una immagine cara alla Campo, che tenta di raggiungere le cose fuori dell’io, fino a immergersi nella datità che egli vede: «Al di fuori / al di fuori di me / c’è un mondo, / mormorò egli, soggetto alle mie incursioni / – un mondo / (per me) in riposo, / cui mi accosto / concretamente».

L’immaginazione permea il concreto contatto con le cose, con una forza che distrugge la rigidità della materia e che il poeta paragona alla fusione: «è la fusione, il divenire fluido dell’immaginazione che segnala come la mente stia entrando in una dimensione creativa. Dev’esserci fusione perché ci sia creazione, fluida, priva di qualsiasi impedimento».

La parola si fa materia fluida, come traboccante. Essa stessa si fa visione, fino ad assumere una potente valenza simbolica. Il valore della poesia sta in questa energia tremenda e spaziale che fissa il mondo in una mimesi grafica luminosa e chiara: «Una rosa è una rosa / e una poesia la eguaglia / se è ben fatta».

Lo stupore si afferma nella intuizione di un germoglio, di un vasto aprirsi di pupille e pazzie tattili: «uno scoppio d’iris così / scesi per la / colazione / esplorammo tutte le / stanze in cerca / di / quel profumo dolcissimo e da / prima non riuscimmo a / scoprirne la / sorgente poi un azzurro / come / di mare ci / colse / in sussulto improvviso di / tra gli squillanti petali» (Iris).  

È nel frammento, nella scaglia d’orizzonti che si scopre la meraviglia, la miscela del sangue che lascia il campo allo stupore che conosce: «Ciò che era vasto ma / pareva depredato del / potere di versare sul mondo / la sua onda di splendore / nuovamente trabocca in ogni / angolo».

La forza delle parole ama sostare nell’abbandono, nella sognata allegria dolorosa di una voce che deborda ma non riesce ad abbracciare tutto.

Solo un sigillo infinito che reca quel «sapore massimo di ogni parola», come scrive in una lettera, Cristina Campo: «Prima di cominciare avevo un profondo disgusto delle parole. Ero rimasta per mesi lontana da ogni cosa scritta. Lei mi ha restituito le parole al momento in cui ho riaperto il suo libro».

Lo stupore della visione può assumere un valore laudativo e salvifico di liberazione e rinascita, resistenza e fioritura: «Non ho trovato altra cura / per i malati / che questo fiore storto / che solo a guardarlo / ogni uomo / guarisce. Questo / è quel fiore / al quale ogni uomo / canta in segreto / il suo inno di lode», o ancora «è come se Michelangelo / ne avesse tratto / l’idea dei suoi Prigioni – / o lo avrebbe potuto. / non fece forse / fiorire il marmo?».

Si tratta in sostanza, scrive W.C.Williams, «di prendere i materiali della vita di ogni giorno (o anche altri) e usarli per elevare la consapevolezza della nostra esistenza a un più alto livello estetico e morale per mezzo dell’arte».

Egli, spingendosi oltre la dinamica immagista, tenta la via di una tensione, nella inquietudine dinamica e corposa della città americana e nella «grazia dell’abbandono dell’azzardo […] vive della propria perenne tramutazione, del proprio instancabile ritorno, di salmone controcorrente, alle sorgenti della parola, di quel sapore massimo d’ogni parola che dicevo in principio».

L’attitudine «a sviluppare interiormente verso la pienezza del significato il dato grezzo e bruciante di una sensazione o di un sentimento iniziale», come afferma Vittorio Sereni, è il grido di un biografia poetica, che congedandosi dall’astratto rimane fedele alla cosa osservata, ai suoi contorni, alle sue dilatazioni.

La poesia che fa nascere idee dalle cose costruisce il suo edificio in una complessa densità di immagini e di relazioni tra le idee, potenziate fino alle estremità luminarie, fino a raggiungere significato e figura pieni.

In Paterson, egli descrive la “biografia” della città omonima, percorrendo un processo concreto e simbolico che unisce l’antropomorfismo alla concatenazione di immagini, come quella dell’uomo-città, della donna-collina, del fiume-flusso della vita.

Scrive Antonio Spadaro: «Le città americane, a differenza di quelle europee, non si presentano come elementi di una tradizione: esse sono come schegge di un presente esploso in direzione del futuro. Così, se in Europa le cattedrali sono il deposito della tradizione cristiana e gli antichi templi sono le opere della civiltà greca e romana, le grandi città americane e le loro periferie sono vestigia viventi del loro peculiare presente proiettato verso il futuro, nonostante tutta la sofferenza e la delusione possibili».

Il dinamismo di Williams è il colore dell’epica, in cui rifluisce la tradizione del mito, del passato, del modello che si fa incipiente e caratterizza il tempo, come egli scrive in White Mule, a proposito di Flossie, figlia di operai, non senza un tocco di ironia: «Entrò, grondante come Venere, dal mare. L’aria l’avviluppò, la sentiva tutt’intorno a sé, che la palpava, la destava. Se Venere, una volta sottrattasi alla pressione del grembo marino, non aveva pianto rumorosamente entrando in contatto con il nuovo e più leggero flusso che le dirompeva in petto – questa invece sì. Torcendo il suo faccino imbrattato, cacciò tre grida convulse – e giacque immobile. Basta piangere, disse la signora D., dovresti essere contenta di uscire da quel buco».

Il contatto con la provincia rappresenta un valore aggiunto e decisivo per la sua inner poetica, nei fatti, negli oggetti, nella quotidianità che diventa epica e nei margini sociali depressi.

Anche la sua professione medica, se da un lato contribuisce a una prospettiva umana più attenta, dall’altro fornisce materiale per le storie che egli racconta: «La bambina mi divorava con quei suoi occhi freddi e fissi, il viso privo di espressione. Non si muoveva e sembrava che dentro di sé fosse tranquilla; una bimba insolitamente graziosa e, all’aspetto, robusta come un vitello. Ma aveva la faccia arrossata, il respiro affannoso, e mi resi conto che aveva la febbre alta. Aveva magnifici capelli biondi, foltissimi. Una di quelle bambine da fotografie pubblicitarie che appaiono spesso sui manifesti e nelle pagine illustrate dei giornali della domenica» (L’uso della forza).

Commenta ancora Spadaro: «I racconti registrano dunque sia il clima e le tensioni legate al mondo del lavoro, sia le vicende di un’esperienza umana ordinaria, tesa sempre tra la percezione della propria vulnerabilità, il bisogno di guarigione e la speranza di riscatto. La figura del medico è attentamente esaminata in tutte le sue reazioni: dal fastidio all’attenzione, dal cinismo all’empatia, dalla furia all’ostinazione. Tutta l’emotività che questi racconti necessariamente contengono per la loro materia (affetti, dolore, rabbia, speranza, fallimenti…) assume una forma chiara, netta, senza ombra di patetismo o sentimentalismo».

La terra di Williams è più vicina a Steinbeck che a T.S.Eliot, in essa oltre a scoprire la depressione economica si evince una sorta di innocenza ignota e perduta (alcuni critici hanno parlato di uno sfondo di catholic vision): «Siamo semplicemente mortali / ma essendo mortali / possiamo sfidare il nostro destino. / Possiamo / per caso a noi esterno / perfino vincere!».

l’assedio della scrittura. W.C. Williams insegue la scrittura vivificante, l’evento che popola il tempo, il linguaggio e il simbolo che devono essere racchiusi nelle «venature dell’ambra».

È nella radici storiche e sociali, nelle «vene d’America» che si realizza la prospettiva del suo sguardo che cerca le primizie dell’origine, la traccia degli uomini che toccano terra: «Avevo cominciato a pensare di scrivere Nelle vene dell’America, uno studio in cui avrei tentato di scoprire per me stesso che cosa potesse significare la terra dove, più o meno accidentalmente, ero nato … Il progetto era di entrare nella testa di alcuni fondatori o, se volete, “eroi” americani, attraverso l’esame delle loro testimonianze. Volevo che non ci fosse niente fra me e i documenti della loro vita: la traduzione di una saga norvegese, The Long Island Book, il caso di Eric il Rosso, sarebbero stati l’inizio; poi il diario di Colombo; le lettere di Hernán Cortés a Filippo di Spagna; l’autobiografia di Daniel Boone, e così via, fino a una lettera scritta da John Paul Jones a bordo del Bon homme Richard dopo la sua battaglia con la Serapis».

Commenta acutamente Spadaro: «il bisogno di raccogliere la biografia del Nuovo mondo e di toccarne il nucleo originario certamente affonda nel desiderio di ritrovare il respiro delle proprie origini, legate più a una geografia reale e ideale che a una genealogia corrente».

Nel respiro delle origini affonda la sua zolla di terra, nel crogiolo incandescente di un senso di appartenenza che salva peculiarità e singolarità, in un retroterra di lingua e identità messo a fuoco in una espressione poetica netta e piana. Cogliere la realtà del mondo è la sillabazione rafferma della visione dell’esistenza in un unico flusso verbale, in un unico principio sensibile e misurato che coglie i movimenti e le deviazioni della vita, per generare «parole, lente e veloci, affilate / nel colpire, quiete nell’attendere, / insonni. / – a conciliare con metafore / le persone e le pietre».

L’atto d’amore per l’essere umano si risolve in un’attesa profonda, nella tensione verso il destino che invoca compimento e promessa di eterno nei miti, nei linguaggi, nelle dinamiche del presente, come il fiore che aspetta di sbocciare, anche se deve spaccare la pietra.

Williams c.w., Poesie, Einaudi, Torino 1967.

ID., La tecnica dell’immaginario. Saggi sull’artista e l’arte dello scrivere, SugarCo, Milano 1981.

ID., Paterson, Accademia, Milano 1972.

ID.- CAMPO C.- scheiwiller v., Il fiore è il nostro segno. Carteggio e poesie, Scheiwiller, Milano 2011. 

ID, Nelle vene d’America, Adelphi, Milano 2002.

Cambon G., Verso “Paterson”: William Carlos Williams: dalla lirica all’epos, Marra, Rovito 1987.

CRAWFORD H.T.,  Modernism, medicine & William Carlos Williams, University of Oklahoma Press, Norman 1993.

GAREGNANI UNALI L., Mente e misura. La poesia di William Carlos Williams, Storia e letteratura, Roma 1970.

LINATI C., Scrittori anglo-americani d’oggi, Corticelli, Milano 1932.

QUIAN Z., Orientalism and modernism: the legacy of China in Pound and Williams, Duke University Press, Durham 1995.

SPADARO A., «”Nelle vene dell’America”. William Carlos Williams (1883-1963)», in «La Civiltà Cattolica», III, 2003.

STEFANELLI M. A., Figure ambigue. Disgiunzione e congiunzione nella poesia di William Carlos Williams, Bulzoni, Roma 1993.WELLS H.W., The American Way of Poetry, Columbia University Press,  New York 1943.  

I pastelli di Giovanni Boldini. Di Anima e di Ombra

di Irene Battaglini                                                                       Prato, 1° giugno 2013

L’IMMAGINALE

short link

pdf I pastelli di Giovanni Boldini, di Anima e di Ombra

boldini-donna-in-nero-250 boldini-pastello-bianco

Pittore complesso che lascia aperta la domanda sulla fine dell’eros nell’arte contemporanea, italiano di Ferrara che si impose a Parigi dalla metà dell’Ottocento fino a tutta la Belle Epoque. Una storia ottuagenaria, quella di Giovanni Boldini, alimentata dalla immane bibliografia epistolare in cui sono raccontate le vite e le opere, le passioni e i piccoli fatti quotidiani, di molti protagonisti di quel periodo: Edgar Degas, Telemaco Signorini, il mercante Goupil, il pittore Paul César Helleu, il caricaturista Georges Goursat Sem. Storie mediate dalle scritture di Cristiano Banti (amico intimo e mancato suocero di Giovanni), del fratello Gaetano Boldini, dell’ultima compagna e biografa Emilia Cardona, che divenne sua moglie ed erede universale di tutte le opere del ferrarese.

Fine psicologo della mente femminile, che conosce in ogni inclinazione di seta e in ogni misura dell’iride, ritrattista senza pari della voluttà, della sfida e dell’ironia, magnifico pittore dei fasti della Vecchia Europa che sembrano difendere, come sentinelle di broccato e di luce, le “divine” e i ricchi signori, dei fiori policromi che invadono i giardini come stelle che si aprono al sole, dei cieli splendenti di azzurri di cui la natura stessa ancora gli chiede ragione, egli fu maestro silenzioso, non ebbe allievi significativi, ma estimatori e molti acquirenti, e molti amici nella Parigi sfolgorante di quel tempo. Un tempo che Giovanni Boldini seppe dipingere facendo di ogni quadro un incantesimo, uno stratagemma percettivo in grado di sospendere ogni giudizio nello spettatore. Irascibile, sardonico, geniale, fecondo oltre misura con la sua monumentale produzione, trasformò il privilegio di ritrarre nel suo studio a Plaine-Monceau ereditato da Sargent le più facoltose donne europee e americane, nella sfida a spogliare l’arte da ogni tradizione “ottocentesca”. Il suo rapporto con le avanguardie ricalca il conflitto interiore e il carico di giudizio e di sentimento che agitò gli attori di quel clima di grande trasformazione che andava degradando nella grande guerra. Di lui disse con sagacia Ardengo Soffici, – «testimone spietato del suo tempo, un superbo cronista al quale sono preclusi però i sacri e profondi recinti dell’arte», secondo Fernando Mazzocca, (Il genio inafferrabile di Boldini e la sua discussa fortuna, in Boldini, cit.) – su «La Voce»:

«Il Boldini, non è infatti né un creatore né un poeta, e si può persino dubitare che sia un pittore; […] non si cura di cullare con l’armonia l’anima del riguardante né di elevarla verso una nuova concezione del mondo: egli si contenta di denunziarne il carattere dei suoi modelli. Più che un pittore-poeta egli è un dunque un verificatore, tutt’al più un commentatore. Anzi un commentatore malevolo, […] che deve considerare la gente del bel mondo – questi nemici tradizionali della sua razza – con occhi ostili, freddissimi; cercarne e scoprirne, soprattutto, le tare fisiche e morali. […] Grande? Chi dice che sia grande? Io no di certo. Io dico che è vivo, che esprime spiritosamente ciò che cade sott’occhio in quella spregevole società in cui vive – e che tutti i Sargent, tutti i la Gandara e tutti gli Helleu di questo mondo, non sono che dei miserabili pappagalli a petto a questo italiano, che fu un ragazzaccio a Montemurlo cinquant’anni fa, e che è ora un arbitro delle eleganze parigine» (marzo 1909).

Famoso, acclamato, coinvolto in tutte le manifestazioni mondane e artistiche parigine, ma non solo, non amava esporre in mostre personali la sua ricca produzione.

Francesca Dini: «Quanto a Carlo Placci, rinomato “maestro di cosmopoli”, egli non ebbe nessuna difficoltà a definire Boldini, nei primi anni del Novecento, “il nostro miglior artista italiano” per i suoi “quadri a fuochi d’artificio”, per le sue “tele spruzzate, piene di talento”, per il “diabolismo delle sue strambe linee”; sebbene umanamente gli apparisse poco interessante in quanto “poco intelligente nel parlare, così invidioso, acre, dispettoso, gnomico” (M.-J. Cambieri Tosi, Carlo Placci, maestro di Cosmopoli nella Firenze tra Otto e Novecento, Firenze 1984). La deformità fisica di Boldini, la sua condizione di straniero in terra di Francia avrebbero potuto farne un sopravvissuto della cinica società francese di fine secolo, ed invece proprio tali limiti resero più efficace quella maschera di terribilità attraverso la quale il ferrarese riuscì vincente sulla società a lui contemporanea, sedotta dalla forte personalità, prima ancora che vinta dagli innegabili meriti della sua pittura.

Si è forse mancato di riflettere su come, a fronte della dettagliata biografia del Nostro, non si abbia notizia di una mostra personale, se si esclude naturalmente quella allestita in occasione del suo viaggio a New York, nel 1987, presso la filiale americana di Boussod, Valadon and Co. È come se l’artista, in virtù del suo essere peintre mondain, deliberatamente si sottraesse al giudizio di quella società francese che lo venerava e lo temeva, “cattivo e indiscreto fino alla villania” (J.-P. Crespelle, Les Maîtres de la Bella Epoque, Parigi 1966); difetti questi che secondo taluni furono all’origine dello strepitoso successo dell’italiano, in un’epoca in cui la perfidia era conveniente. Vero e proprio domatore, il ferrarese cavalca le cronache mondane del tempo». (Francesca Dini, Dalla “macchia” alla Belle Epoque: il geniale virtuosismo di Boldini, in Boldini, a cura di Francesca Dini, Fernando Mazzocca, Carlo Sisi, Ed. Marsilio, Venezia 2005)

Rubò a Degas – come fecero De Nittis e Zandomeneghi – l’uso del pastello di cui divenne padrone, anticipò gli informali con le “sciabolate” di colore e per il critico Ragghianti seppe sintetizzare le influenze del Seicento e del Settecento (studiò Tiepolo, – e con lui Guardi, Piazzetta e Magnasco – Rembrandt, Bernini, ma soprattutto Frans Hals, Menzel e Anders Zorn) in una

«stenografia convulsiva, in cui ogni referenza cade per mettere a nudo l’esplosione di un movimento che ha una violenza turbinosa e un’irresistibile forza d’impulso [che porta a farne] il precursore di Boccioni, e qual precursore;  [innestando la questione, ripresa non sempre con misura dalla critica successiva, se era legittimo potergli assegnare] la tessera retrodatata di futurista: sta poi a vedere se l’avrebbe accettata, come non vorrebbe oggi esser considerato un “gestuale” avanti lettera, separando la coscienza lucida del suo io da ogni automatismo nervoso-muscolare» (C.L. Ragghianti, Le acrobazie di Boldini, «L’espresso», 1963).

Jean Boldini, come lo chiamavano fuori dall’Italia, seppe calcare le scene del ritratto internazionale con brillante savoir faire, con la sicurezza tecnica di un grande tra i più grandi. La figura, il volto, gli spazi, non ebbero segreti per la mano e l’occhio di Giovanni Boldini. Si può sottolineare a Boldini una certa disinvoltura da pagina lucida, una scivolata troppo svelta nella seduzione che il corpo femminile esercita con il suo incedere sempre doppio, ma non la «pittura futile e piacevolastra» che critici come Tinti gli assegnarono con disprezzato sussiego, come avrebbero fatto anche con De Nittis. Soltanto Jean-Louis Vaudoyer e la moglie Cardona ne elaborarono fino alla fine la visione a tutto tondo che gli sarà tributata nel Novecento, anche dalla picassiana Gertrude Stein: «Tutta la nuova scuola è nata da lui perché egli per primo ha semplificato la linea e i piani. Quando i tempi avranno situato i valori al giusto posto, Boldini sarà considerato il più grande pittore del secolo scorso», consacrandolo così all’alba della più transeunte contemporaneità.

Il grande ritratto “borghese”, dunque, fu tutt’altro che un trampolino per essere à la mode. Egli sperimentò con abilità straordinaria il ritratto macchiaiolo, sovrapponendo la pittura di impressione alla componente classica, ma la cifra che viene delineandosi si fa interprete di una sensibilità estroversa e visionaria, innamorata del colore, corrispondente al concetto di Montesquiou[1] – definito da Proust «Principe della Decadenza»:

«Pariginismo, Modernità, sono le due parole scritte dal maestro ferrarese su ogni foglia del suo albero di scienza e di grazia. […] Modernità, secolare antico richiamo, che fu il filo di perle di un Coello, la gorgiera di un Pourbus, la piega di un Watteau; che poi sarà quel tal bolero di un Boldini, quel tal drappo di Bernard, un abito da sera di Whistler».

Dipinse la sensualità e l’eros rilevando dagli occhi, dalle labbra, dalle spalle della modella tutte le istanze che la fortunata neppure sapeva di portare nel proprio destino, protagonista assoluta del suo amore fatto di pastelli, canti italiani, luci sferzate dall’uso di un nero le cui “lamate” ricordano la più violenta pittura del Novecento. Nella scena dell’atelier, Boldini si dedica completamente alla sua missione interpretativa, chiedendo alla creatura, timida ma in qualche modo ansiosa di essere ri-velata attraverso lo sguardo vorace e sensibile dello “gnomo”.

È uno psicoanalista della pittura, sapiente conoscitore del transfert erotico: Boldini saggia la seduzione della dama-modella, l’arma principale di una creatività che si esprime per sublimazione. Egli ama le sue modelle, le mette al centro di una relazione esclusiva, di delicata confidenza affettiva, in cui intervengono variabili latenti a dimostrazione del fatto che la componente panica è sempre presente nei lavori, anche quelli mirabilmente velati di  un bianco trasparente degno di una sposa.

Pensiamo alla Donna in nero che guarda «Il pastello bianco» (1889), e al Pastello bianco, dell’anno precedente, che ritrae Emiliana Concha de Ossa, una «giovinetta di 18 anni bella come un amore» (G. Boldini, lettera a Cristiano Banti, 1888), la minore delle tre sorelle nipoti del diplomatico – e amante dell’arte – il cileno Ramon Subercaseaux. Entrambi i lavori costituiscono in realtà un unico capolavoro di “architettura d’interni”, in cui Boldini introduce elementi rivoluzionari, come a inserire nella scena un osservatore silenzioso seduto in poltrona – un voyeur rispettabile; un rispecchiamento in ombra con una sconosciuta madame noir, una creatura sublime ed eterea appoggiata ad un punto sospeso nello spazio di un angolo di un salotto autorevole, significato dalla presenza di una poltroncina dal velluto turchese, dotando il personaggio principale – la diciottenne Emiliana – di una straordinaria compresenza teatrale nel vuoto scenario di una vita ancora da scrivere. Egli la sa descrivere con una perizia psicologica straordinaria, chiamando in causa gli archetipi junghiani a testimoni di una grazia che può essere solo trascendente. La luce pervade ogni spigolo, sebbene sia totalmente artificiale, con una freschezza sognante, nuziale.

I lavori hanno grandezza naturale, e sono di una bellezza che stordisce. Il primo, Il pastello bianco, è Anima allo stadio più perfetto. Le cronache e le lettere provano che sarà lo stesso Boldini il primo a restarne ammutolito e turbato (tanto da conservare per sé il lavoro, non volendosene privare, ma preparando un secondo originale per il committente), non solo per la innegabile meraviglia che in lui destava quella ragazza che inaugurò il ciclo delle «divine», quanto per la forza inaudita che dal pannello – completamente ricoperto di pastello usato con la superbia stilistica di Liotard, Mengs, Rosalba Carriera – sembrava emanare. Quella dolcezza era sprigionata dalla declinazione dei bianchi che descrive benissimo la scrittrice Colette nel 1932, ricordano una visita all’atelier del ferrarese: «Era da quel bianco generico che stavan nascendo, sulla tela, una pennellata dietro l’altra, i bianchi di crema, di neve, di carta lucida, di metallo nuovo, i bianchi degli abissi e dei confetti, i bianchi esasperati».

Questa “variabilità”, questa sensualità sacralizzata, sono il frutto di un’operazione che non può essere fatta senza l’aiuto del divino, una sorta di sublimazione all’interno di un processo in cui Boldini sembra padroneggiare perfettamente gli stadi del femminile. Tuttavia il costellarsi così “rapido” e incontrollato di Anima dovette invaderne la consueta sicurezza, al punto da destare il bisogno di tornare ad Ombra, a uno stadio precedente, una condizione meno pericolosa, in cui fosse ancora il “domatore”, com’era appellato, di quelle dame intelligenti e capricciose che frequentano il suo studio per anticipare, sulle tele magnifiche (che Whistler definì «sinfonie»), l’ardita bellezza dallo sguardo fiero e diretto della donna del Novecento. Alcuni critici hanno fatto riferimento al tema del Doppio, nella visitazione di questo lavoro di una complessità frattalica, influenzati anche dalla necessità di collocare in un rimando letterario (si pensi al ritratto di Dorian Gray) l’escamotage del pittore. Più lo si osserva, più aumentano i particolari che fanno pensare ad un Giovanni Boldini non solo geniale ritrattista ma anche intrigante, intelligente, riflessivo, avveduto pensatore dei processi di transfert che governano la dinamica, mai sufficientemente indagata, tra pittore e modella, tra artista e modello, tra soggetto e oggetto relazionale. Il campo è di una vastità tale che merita di essere studiato a fronte di una domanda via sull’eros e il narcisismo nell’arte contemporanea.


[1] conte Robert de Montesquiou-Fézensac, più comunemente noto come Robert de Montesquiou (Parigi, 7 marzo 1855 – Mentone, 11 dicembre 1921) è stato un poeta, scrittore e celebre dandy francese.

 

220px-Giovanni_Boldini01Giovanni Boldini