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L’orlo di Sylvia Plath

di Andrea Galgano                                                                          Prato, 17 marzo 2013

POESIA CONTEMPORANEA

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L’orlo di Sylvia Plath / Poesia di Luigia Sorrentino, poesia.blog.rainews.it/

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L’11 febbraio 1963, Sylvia Plath (1932-1963) decise di togliersi la vita. Nata in un distretto di Boston da genitori immigrati tedeschi, perse il padre, un professore di biologia e entomologo per embolia a soli otto anni e già nel 1953, prima di laurearsi brillantemente con una tesi su Dostoevskij e dopo una eccezionale carriera scolastica, era stata sottoposta a un ciclo di elettroshock dopo aver tentato il suicidio.

In seguito descrisse questa crisi nel romanzo La campana di vetro (1953) sotto lo pseudonimo di Victoria Lucas, la cui protagonista, Ester Greenwood, straordinaria studentessa, non ancora ventenne, dello Smith College fa praticantato, a New York presso una rivista di moda femminile. Nel corso della narrazione si scopre che Esther ha una madre vedova e una storia d’amore agli sgoccioli con Buddy, diplomato a Yale e futuro medico.

Lo scontro tra l’afa newyorkese, nonostante la scintillante promessa di vita e la convenzione sociale, rivela il dramma di una mancata integrazione sociale e di un margine di esistenza.

Dopo la laurea, Sylvia ottenne una borsa di studio Fulbright per l’Università di Cambridge, continuando a scrivere poesia e a pubblicare presso giornali e riviste. A Cambridge conobbe il poeta Ted Hughes, che sposò nel 1956, andando a vivere successivamente negli Stati Uniti (insegnò allo Smith College e poi conobbe Robert Lowell), ma dal quale dovette separarsi, dopo che venne a sapere che lui era innamorato di un’amica comune, Assia Wevill, e dopo la nascita del secondo figlio. Sylvia ritornò a Londra con i suoi due figli e affittò lì un appartamento.

L’11 febbraio del ’63 Sylvia Plath si tolse la vita. Mise la testa nel forno a gas di casa, dopo aver scritto la sua ultima poesia Orlo, morendo all’età di trent’anni.

La tragedia e il dramma della sua esistenza, sulla quale è appena uscita un’interessante monografia, presso Castelvecchi, di Linda Wagner-Martin dal titolo Sylvia Plath, ha portato spesso l’attenzione della critica alla lettura della sua opera, in chiave sostanzialmente autobiografica, divenendo persino una figura di culto.

Il vortice fisso del suo grido, il suo bruciante percorso interiore, la frattura con la realtà, affermata, negata e colta appieno, con la sua sanguinante frattura e lacerata suggestione, avverte il dramma e lo spaesamento di un’autonomia, senza cercare riferimenti, seppur presenti e accesi, alla sua vita privata.

È necessario leggere la sua opera, non solo come zampillio fluttuante di estasi, entusiasmo e lacerazione di vita, ma prestando attenzione alla parola scritta, alla sua imponente forza espressiva che si intesse sì di vissuto e esperienza tragica, ma che porta con sé la corrosione di una sproporzione, di una domanda, di un parto espressivo.

La descrisse bene Giovanni Giudici: “L’altro equivoco è quello indotto dalla coincidenza fra taluni aspetti della biografia plathiana (il caparbio impegno contro le difficoltà di un’affermazione prima universitaria e poi letteraria, la lucida coscienza di una distorta interpretazione della femminilità nel quadro del costume vigente e le quotidiane frustrazioni della donna che deve conciliare lo scriver versi con le sue incombenze domestiche e di madre) e i corrispondenti temi dei vari movimenti di liberazione femminile; equivoco che forse avrà fatto andare a ruba il disco delle poesie dette dalla voce dell’autrice, ma che nello stesso tempo ha rischiato e forse rischia tutt’ora di umiliarne la statura al livello della più scontata confessional poetry…”

Come scrive in un lucidissimo articolo apparso il 15 marzo 2013 su «Avvenire», Maurizio Cucchi: “E i testi di Sylvia Plath ci coinvolgono anche se, paradossalmente, ci estraniamo dalla vicenda umana da cui sono sgorgati. E per almeno due ragioni. La prima è nella grande disciplina stilistica, nel rigore della scrittura che in lei si evidenzia fin dalle prove giovanili, e che ne sorregge sempre la tenuta. La seconda è nella potente visionarietà, nella concretezza densissima della sua parola e delle immagini che sa produrre, come un vero e proprio inarrestabile gettito di figure e situazioni”.

Seamus Heaney scrive che Sylvia Plath è “un poeta che crebbe fino al punto di permettersi l’identificazione con l’oracolo e si concesse come veicolo di possessione; un poeta che cercò e trovò uno stile di discorso immediato, animato dai toni di una voce che parla con concitazione e spontaneità; un poeta governato dalla immaginazione auditiva al punto che il suo congedo dalla vita consistette nell’annullare il sé in parole ed echi”: «Anni dopo/ le incontro per strada – / parole aride e senza cavaliere, / battito di zoccoli incessante. / Mentre/ dal fondo dello stagno stelle fisse/ governano una vita».

La libertà e la perentorietà di questi versi permettono, come ha giustamente notato Judith Kroll, una totale identificazione dell’io autobiografico. Ma la rarefazione non concede l’ordine e la classificazione di maniera, restituendo allo sguardo una dilatazione e un passo, che partendo dallo spazio interiore, dilata la sua luce, il suo solco e lo sfogo crudo e febbrile, come lei stessa scrive in questa lettera: «Ogni mattina, quando il sonnifero smette di fare effetto, sono in piedi verso le 5, nello studio col caffè, e scrivo come una pazza: sono arrivata a una poesia al giorno prima di colazione. Tutte poesie da libro. Roba incredibile, come se la vita della casalinga mi avesse soffocata».

La sferzata febbrile nasconde margini di cicatrice. Una poesia data, rapida, fulminea. Essa colora lo sfondo di un’immagine metamorfica ed estrema, con la potenza associativa di elementi vicini, stridenti, persino estremi.

L’impulso poetico di Sylvia Plath è una rabbiosa consapevolezza di tenebra, una confidenza di euforia che soffre e che tenta, senza esitazione, di mettersi in ascolto del mondo, percependolo fisicamente e coniugando la versatile potenza espressiva con la realizzazione, estrema, beffarda e sognante di sé. Il sé che può divenire clausura, come cifra personale e tremore nascosto, espresso in  un trasloco aggressivo, come annota Joyce Carol Oates: “A Sylvia Plath non piacevano gli altri; come molti perseguitati, si identificava in modo perverso con i suoi persecutori, anziché con loro che, al pari di lei, erano vittime. Ma non le piacevano gli altri perché fondamentalmente non credeva che esistessero; era razionalmente consapevole della loro esistenza, è ovvio, in quanto avevano il potere di farle del male, ma non credeva che esistessero nella stessa forma in cui esisteva lei, ovvero come individui in carne e ossa, capaci di soffrire”.

L’intonazione, come sibilo di stanze, «litania di sogni, di indicazioni e imperativi», presente in The Colossus, accenna il fervido immaginale di un antico suono lucido di ordine, come annota nei suoi Diari: « La scrittura è un rito religioso: è un ordine, una riforma, una rieducazione al riamore per gli altri e per il mondo come sono e come potrebbero essere. Una creazione che non svanisce come una giornata alla macchina da scrivere o in cattedra. La scrittura resta: va sola per il mondo. Tutti la leggono, vi reagiscono come si reagisce a una persona, a una filosofia, a una religione, a un fiore: può piacergli o meno. Può aiutarli o meno. La scrittura prova delle emozioni per dare intensità alla vita: offri di più, indaghi, chiedi, guardi, impari e modelli: ottieni di più: mostri, risposte, colore, forma e sapere. All’inizio è un atto gratuito. Se ti fa guadagnare tanto meglio. […] La cosa peggiore, peggiore di tutte, sarebbe vivere senza scrittura. E allora, come vivere con i mali minori e sminuirli ancora?»

Esiste sempre un orlo di chiusure al suo passaggio, a quel diluvio ondivago di parole che toccano, febbrilmente, il piano poetico, abitato da un grido e da un bisogno forte di amore, di salvezza che raccolga il pulsare ondoso e ventoso della risacca.

I suoi passaggi non temono cambiamenti di rotta dalla viscosità fangosa e torbida, il suo cielo si apre a un disperato tentativo di muoversi dal limbo escluso e staccato, al tempo dell’attesa, all’esplorazione di una identità vitale che distolga l’io dalla confusione scivolosa della distruzione  e della morte.

Si leggano i primi versi di Olmo che delineano un destino di sogno e di visione: «Conosco il fondo, dice. Lo conosco con la mia grossa radice: / è quello di cui tu hai paura./ Io non ne ho paura: ci sono stata».

Il fondo di Sylvia Plath è un intaglio di ombre, come l’eco nero finale e profondo di un passaggio da combattere, ed è respiro di una preveggenza libera: «Ho un buon io, che ama i cieli, le colline, le idee, i piatti saporiti, i colori brillanti. Il mio demone vorrebbe ucciderlo», perché «E io / sono la freccia, // la rugiada che vola/ suicida, fatta una con lo slancio/ dentro l’occhio/ scarlatto, il crogiolo del mattino».

L’accesso ai suoi luoghi rappresentano il battito e il respiro di un movimento libero e intenso, di una voce di ombra che interviene, raccoglie i vetri, racchiude la più profonda sofferenza, per tramutarla nell’ascolto di un esilio estraneo: «è il mare che senti in me, / le sue insoddisfazioni?/ o la voce del nulla, che era la tua pazzia?// L’amore è un’ombra./ Come lo insegui con menzogne e pianti. / Ascolta: ecco i suoi zoccoli: se n’è andato, come un cavallo».

L’intreccio fantastico si accompagna alla coscienza che si esprime, alla voce che si trasforma, all’intensificarsi di una vertigine di tramonti: «Ho patito l’atrocità dei tramonti./ Bruciati fino alla radice/ i miei filamenti rossi ardono ritti, una mano di fili di ferro».

Robert Lowell, nella prefazione ad Ariel, scrive: “è straziante, riandando al passato, capire che il segreto dell’ultima irresistibile fiammata di Sylvia Plath è nascosto nella discrezione, nel garbo estremo della sua penosa timidezza. Non è mai stata una mia allieva, ma per due mesi circa, sette anni fa, seguì il mio corso di poesia alla Boston University. La rivedo, opaca contro il cielo luminoso di una finestra priva di qualsiasi panorama (…) In queste poesie, scritte negli ultimi mesi della sua vita e spesso tumultuosamente composte in ragione di due o tre al giorno, Sylvia Plath diviene se stessa, diviene un’entità immaginaria, appena creata, non un individuo, nè una donna, nè certo un’altra ‘poetessa’, ma una di quelle grandi eroine classiche, più che reali, ipnotiche. (…) Tutto in queste poesie è personale, una confessione profondamente sentita, ma in lei il modo di sentire è una controllata allucinazione, l’autobiografia di una febbre. Brucia dall’ansia di muoversi, per una passeggiata, una cavalcata, un viaggio, il volo dell’ape regina, costretta ad avanzare dal battito ansante del suo cuore. Il titolo Ariel evoca il personaggio shakespeariano, lo spiritello adorabile ma curiosamente agghiacciante nella sua ambiguità virile, ma per la verità Ariel è qui il cavallo dell’autrice. Pericolosa, più potente dell’uomo, efficiente come una macchina grazie ad un duro allenamento, lei stessa ricorda un cavallo da corsa, che galoppa senza sosta tendendo spasmodicamente il collo, superando uno dopo l’altro ostacoli di morte. (….) Ma quanto vi è in lei di più eroico non è la sua forza, piuttosto la disperata semplicità del suo controllo, la sua mano d’acciaio dal tocco modesto, femminile”.

L’enigma e il naufragio colpiscono come un ricordo, “suono e senso si alzano come una marea dalla lingua per trascinare l’espressione individuale su una corrente più forte e profonda di quanto l’individuo potesse prevedere” (Seamus Heaney), il limite di un’assolutezza che si spinge fino all’estremo per tentare l’abbandono del ritrovo, per percorrere il cuore di Dio, visto solo idealmente, per ritrovare l’impolverata figura paterna e compiere il corpo, renderlo reliquia, traboccare in un fondale di rivelazioni: «C’è qualcosa che mi sta aspettando. Forse un giorno avrò una rivelazione improvvisa e potrò vedere l’altra faccia di questo enorme, grottesco scherzo. E allora riderò. E saprò cos’è la vita». Nel tentativo beffardo e consolatorio, il tocco del dono e della mediazione con la realtà risulta mancante. Intravvede solo squarci di divino nella quotidianità come un attracco forte e sicuro, che però la uccide e la soffoca.

La radice di questa assenza si rintraccia nell’infanzia, Sylvia sente il richiamo fragile della vita, ma non ha l’equilibrio per poterla affrontare adeguatamente.

L’intensità del rapporto con la figura paterna, morta quando lei aveva otto anni, ha significato il bisogno inesausto di avere un ‘porto’ di riferimento grande, forte e capace di salvarla.

I sentimenti che oscillano da una frustrazione, alla sottomissione filiale fino a una nostalgica contemplazione, lasciano lo spazio al disincanto rassegnato: «Di notte mi accoccolo nella cornucopia/ del tuo orecchio sinistro, al riparo dal vento,//E conto le stelle rosse e
quelle color prugna./Il sole sorge da sotto la colonna della tua lingua./Le mie ore sono sposate all’ombra./Non tendo più l’orecchio per sentire il raschio di una chiglia/ sulle pietre nude dell’approdo.». Se suo marito Ted Hughes ha sostituito la figura paterna come presenza maschile, il terrore dei suoi tradimenti rappresenta la eco di un fratturato rapporto familiare.

Anche Dio traspare da un’ossessione (non bastando l’ateismo dichiarato), e la propulsione di una domanda si distende verso Colui che ricerca e trova, poi perde, come descrive in Mistica:«L’aria è un mulino di uncini – / domande senza risposta, / luccicanti e ubriache come mosche/ il cui bacio punge insopportabilmente/ nei fetidi ventri d’aria nera sotto i pini d’estate. // Ricordo/ l’odore morto del sole sugli chalet di legno/ la rigidità delle vele, i lunghi sudari di sale./ quando si è visto Dio, qual è il rimedio? Quando si è stati afferrati e sollevati// senza che una sola parte sia tralasciata, /non un dito, non un capello, e usati, / usati fino in fondo, nelle conflagrazioni del sole, nelle macchie/che si allungano da antiche cattedrali/ qual è il rimedio?».

Come scrive in un bellissimo raffronto tra la Plath e Anne Sexton, Loredana Buccoliero: “La domanda è se dopo l’estasi si possa solo ricorrere a deboli rituali, incapaci di ricrearla, o alla memoria incapace di rievocarla: in ogni caso l’immediatezza dell’esperienza e la sua verità svaniscono e l’unione statica con Dio scema nella tenerezza.  Negli ultimi mesi della sua vita Sylvia è completamente sola, abbandonata, costretta alla vita domestica, «gli dei», bestemmia, «conoscono soltanto destinazioni». (…) Ted Hughes racconta che diverse volte nelle ultime due o tre settimane di vita dice cose come: «Ho visto Dio che continua a raccogliermi da terra» e «Sono piena di Dio». Ma in Years il Dio della Plath è vuoto, amnesia, indifferenza e lei non ha più parole da rivolgergli”.

La spasmodica ricerca di un amore protettivo e senza limiti, di un’accettazione e di un abbraccio sempiterni, quando si interrompono e terminano il dialogo, lasciano serpeggiare la consueta e intima necessità di morte.

Quando incontra l’amore, il Colosso della sua vita, nelle fattezze di Ted Hughes, tutto sembra dare risposta al bisogno ineffabile e inesausto di compimento. Si sbriciolerà tutto presto, dimostrando la debolezza di un tradimento.

Sylvia canta lo strazio di un abbandono che somma ferite e apre cicatrici mai risposte, toccando la verità dell’esistere, il limite e il conflitto: «Il significato cola dalle molecole/ I camini della città respirano, la finestra suda,/ i bambini saltano nei loro lettini./ Il sole fiorisce, è un geranio.// Il cuore non si è arrestato». Il significato deve colare dalle molecole, solo così anche il sole può fiorire.

Dal suo trauma e dalla sua notte fiorisce ed emerge il vincolo furente della sua poesia, «una specie di miracolo ambulante». Il desiderio di rinascita, espresso nella ricolma Lady Lazarus, afferma o meglio sembra affermare, nel suo messaggio estremo un groviglio di resurrezione e una membrana di aiuto. Quando si tolse la vita sigillò porte e si lasciò morire nel forno a gas, dopo aver preparato pane e burro e due tazze di latte da lasciare sul comodino nella camera dei bambini, affermando l’infinitesimo baluginio di una continuazione e di un respiro verso un approdo che abbia il volto di pace e di guida di mani.

 

L’inerzia di Oblomov

di Andrea Galgano                                                                Prato, 22 febbraio 2013

LETTERATURA MODERNA

pdf L’INERZIA DI OBLOMOV, short link

arton405-2821d ivan-aleksandrovich-goncharov-1874“Egli vive una sorta di infinito dormiveglia, veste sdrucite vesti da camera, vagabonda in pantofole, passa la vita sdraiato, lascia i libri a mezzo, si prova in un amore, ma si conosce incapace di amare e impossibile oggetto d’amore. Eppure non è triste, non è lamentoso, ha per stesso una sorta di pietà vergognosa, infantile,; ma intorno a lui, chi lo ha caro è colto da angoscia, da disperazione, e vuole, vorrebbe, fantastica di «salvarlo». Salvarlo da che? A quale scopo?”.

Questo passaggio di una solidissima nota di Giorgio Manganelli al capolavoro di Goncarov (1812-1891) Oblomov, contiene una nettezza di ritratto, introducendo un problema importante in quest’opera e nei passaggi letterari di gran parte della modernità: l’inerzia.

Oblomov è un piccolo aristocratico russo che tenta di vivere sulle spalle di miseri contadini, servi della gleba costretti alla durezza del lavoro nei campi nella sua contrada di Oblòmovka.

Quando Goncarov entra nella stanza di Oblomov descrive un uomo che vive da dodici anni sdraiato, avvolto in una sorta di statica e inerte espressione, assistito solo dal suo servitore. Non svolge alcun tipo di attività, non amministra la proprietà (rischiando persino di perderla, visto che è nelle mani del suo stàrosta), non frequenta il vicinato, non ha rapporti affettivi veri.

Tutto sembra immobile, fermo il tempo, niente tocca l’uniformità di una vita che ripete il suo gesto silenzioso. Mai muoversi, quindi, nemmeno di fronte all’arrivo di una lettera, nemmeno di fronte alle corse spensierate e gioiose dei bambini, e allora: «Quando, dunque, si potrà iniziare a vivere?», o ancora: «Che cosa, in particolare, non ti piace di questa vita? Tutto: le continue corse, l’eterno gioco delle meschine passioni, soprattutto l’avidità, il bisogno di tagliarsi le gambe l’un l’altro, le chiacchiere, i pettegolezzi, il punzecchiarsi a vicenda, quello squadrarsi da capo a piedi; se ascolti le conversazioni, ti gira la testa, ti senti stordito. A prima vista, ti sembrano tutti intelligenti, ti par di leggere tanta dignità sui loro visi, ma appena li ascolti: “A questo hanno dato quello, questo ha ottenuto l’appalto.” “Per quale ragione, di grazia?”, grida qualcuno. “Quello ieri sera al club ha perso tutto al gioco: quell’altro ha guadagnato trecentomila rubli!”. Che noia, che noia, che noia!… Ma dov’è l’uomo? Dove si è nascosto? Come fa a perdersi in queste futilità?”. “Il mondo e la società devono pur occuparsi di qualcosa”, disse Stolz, “ognuno ha i suoi interessi. È la vita…”.

Ma perché scrivere un testo in cui non accade nulla? Perché affrancarsi in uno specchio dove l’imperfezione di una vita-non-vita, senza volto né nome e di un ozio (oblomovismo si dice nel romanzo, come una sorta di apatica pigrizia metafisica della costruzione), diventano la scena vera di un soliloquio?. Non è solo un passaggio individuale quello che tocca il personaggio della storia, ma un dramma etnico che ha radici profonde nel ripudio e nell’abbandono stantii di una economia profondamente arcaica, che si scontrava con l’emergere di un cambiamento industriale e in esso trovava esilio, sconfitta e inerzia.

È l’esito di una soppressione delle istanze originarie del cuore umano. La pigrizia universale che lo attorciglia però non riesce a depositarsi sul fondo. Permangono tracce di una generosità mai spenta, di un fondale di umanità che non si de-finisce solo in un processo storico.

Il tessuto del suo cuore, la sua scorza, sembrano come rattrappiti, «Come se qualcuno avesse rubato e sotterrato nella sua anima i tesori portatigli in dono dal mondo e dalla vita. Qualche cosa gli impediva di gettarsi nell’arena della vita e volare in essa con tutte le vele dell’intelletto e della volontà. Un nemico segreto aveva messo su di lui la sua mano pesante al principio del cammino e l’aveva gettato lontano dalla diritta missione dell’uomo».

In Oblomov c’è un autoritratto del suo autore. È il suo autore, come lo descrive Angelo de Gubernatis o critici come Semën Vengerov: «Di mezzana statura, grosso, lento nel cammino e in ogni suo movimento, con la fisionomia impassibile e lo sguardo quasi spento, egli pare affatto indifferente per i travagli della povera umanità che si agita intorno a lui. E pure niente passa inosservato al suo sguardo penetrante[…]. Il solo suo sorriso bonaccio, e nello stesso tempo furbo, illuminando il suo volto con una momentanea animazione rivela la misura delle sue forze».

L’umbratile esistenza di Goncarov nella ghiacciata Pietroburgo si svolse nel ritiro di un piccolo appartamento e, neanche a Simbirsk che unisce il Volga alle steppe, ebbe mai un esiguo spazio edenico. Passò lì poco tempo, senza legami o rapporti che potessero creare un’identità o una verginità di domanda.

Scrive Remo Faccani: “Si direbbe che per Oblomov, come per il suo creatore, la curiosità turbi il fragile ordine delle cose, il precario equilibrio dei legami dell’individuo con l’ambiente che lo circonda. E si direbbe che la mancanza di curiosità rappresenti una specie di istintiva, naturale autodifesa dal rischio – innaturale – di essere coinvolti, di trovarsi obbligati a intervenire e interferire. Ma da tutto questo trapela anche dell’altro: un disagio, una vena di malessere provocati, per rifarsi all’ultimo Montale, da «una realtà incredibile e mai creduta».

Lo spaesamento di Oblomov,  il cui nome potrebbe alludere a oblomok che vuol dire “frantume” o “scheggia”, è un enigma muto.

Non si chiude nel retaggio di un passaggio di Storia, non si esaurisce in un decadimento di nobiltà, ma pone in essere un’inquietudine nascosta, che è un rischio, una tensione senza slancio, una nudità.

Il suo sincero amico, l’ “orgoglioso” Stol’c potrebbe ridestarlo, potrebbe fornirgli uno sguardo da imitare. È ai suoi antipodi: energico, vitale, costruttore concreto. Gli fa conoscere Ol’ga, giovane donna di cui si innamora perdutamente. Il suo riso, le arie e le romanze di questa elegante creatura, quasi si impadroniscono di quel torpore, l’accenno della prospettiva di una nuova bramosia era una pulizia di tugurio.

L’amore, pertanto, sembra detonare l’accidia indolente, come un imbuto, in cui egli permane. Ol’ga cerca di ridestare il fondale sopito, con una vita attiva e una primordiale e dura operosità che toglie il torpore brumoso di un sonno. Che però rimane e che non riesce ad esser vinto neanche da questo profondo e rafforzato palpito di esistenza. Ma il tentativo di cambiare la sua natura non ha più effetto, allorquando decidono di sposarsi. La paura di cambiare la sua naturale attitudine all’accidia, alla monotona indolenza continua ad avere il sopravvento. Quella gracile «tenerezza di colomba» è racchiusa in una mano tenuta alla mezza altezza del vivere. La cura della sua proprietà è in balia di due fraudolenti che lo portano sul lastrico e alla bancarotta.

Si affida ai suoi servi e alla padrona di casa dell’appartamento in cui ora abita, la vedova Agaf’ja Matveeyna, che lo accoglie nella sua casa, appassionandosi a lui in silenzio e in profondità, senza  lasciarlo distaccare dal suo lento e inesorabile stile di vita. Stol’c si sposa con Ol’ga. Riuscirà, dopo le spoglie dell’amico e il suo destino ineluttabile, a prendere con sé anche suo figlio Andrej.

In un bellissimo articolo sul Corriere della Sera del 30 luglio 2012, Pietro Citati, in riferimento alla cura della vedova dell’eroe di Goncarov, annota: “Aveva imparato la fisionomia di ogni sua camicia; aveva contato quante calze avevano i calcagni logori; sapeva con quale gamba Oblomov scendeva dal letto; quando un orzaiolo stava per crescergli in un occhio; quali pietanze amava; se era allegro o cupo; se aveva dormito bene o male; e tutti i sentimenti della padrona di casa prendevano la forma di quelli di Oblomov”.

Una esistenza che diventa imperturbabile e sconfinata, come un soffitto o il disegno di una fantasia in disparte. Non c’è odio, ma solo una estrema e incessante mitezza inerte. Una mitezza di astensione, limbica e timida.

Persino l’amore diviene una comodità che non trascina, irradia sì, ma non trascina. Sembra quasi che il fascino di questo personaggio non stia in quel che faccia o meno, ma nella tenera larghezza del suo fondo misterioso e lieto. La memoria arcadica del Sogno finale mantiene il ricordo di una floridezza di campagna e di vita. Le sospensioni e le attese lente dell’inizio del romanzo si appassionano al sogno di una memoria e di felicità perdute e immacolate, come quelle del villaggio che addensa la casa paterna, la dolcezza della madre, la nitidezza del cielo. Un angolo di braccia relegato e senza dolore. Il raggio di eternità che fissa il quotidiano, caro a Tolstoj qui appare mancante, ma la levità di Goncarov delinea il suo eroe in un sottofondo di vita e sogno assonnato e di confino, stendendo il suo letto pigro di veglia. Anti-Faust per eccellenza, Oblomov è l’esistenza in ritardo, la sonnolenza degli occhi, il ritratto della Russia al tempo degli zar, fatalista e rurale come le sue campagne distese e annuncianti. È un tipo universale, come scrisse Kropotkin, che è in bilico sulla scelta se esser vita o il suo oggetto, se esser flemma o fiamma, «sibarita» di domicilio e arresto che perpetua, coricandosi, il suo “fascino teologico” (Giorgio Manganelli).

La desinenza di Oblomov riconosce, pertanto, l’accento di una incapacità di vivere che manifesta l’estremità di un’opzione capovolta, un’ultima uscita dal mondo nel mondo.

 

 

 

 

Dante Gabriel Rossetti, il Preraffaellita poeta-pittore dell’abisso estetico

di Nicola di Battista                                                                                Prato, 17 febbraio 2013

IL PENSIERO IMMAGINALE

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rossetti - La Ghirlandata  1873  Oil on canvas  115 5 cm (45 47 in ) x 88 cm (34 65 in )  Guildhall Art Gallery London (England) Rossetti_selbstDante Gabriel Rossetti, secondogenito di quattro figli, nacque a Londra il 12 maggio 1828 da Gabriele Rossetti (Vasto, 18 febbraio 1783 – Londra, 16 aprile 1854), un poeta e critico letterario italiano originario di Vasto (in provincia di Chieti) il quale per il suo appoggio agli insorti dei moti liberali del 1820 fu costretto all’esilio – fu a Malta nel 1821, dove si legò d’amicizia con i fratelli Gabriele e Domenico Abatemarco, e da qui si spostò a Londra (1824), dove trascorse il resto della sua vita e divenne professore di lingua e letteratura italiana presso il King’s College di Londra (1831) e mantenne l’incarico fino al 1847 – e da Frances Polidori, una benestante dama britannica figlia di Gaetano Polidori (uno scrittore ed editore italiano originario di Bientina, attualmente in provincia di Pisa) e di Anna Maria Pierce (una governante inglese). Nonostante la sua famiglia e i suoi amici più stretti lo chiamassero “Gabriel”, adottò ben presto il nome pubblico di “Dante Gabriel”, desiderando un accento maggiormente letterario al proprio nome dati i suoi interessi nella poesia.

Fratello della poetessa Christina Rossetti e del critico William Michael Rossetti, si dedicò alla letteratura sin dalla tenera età, in particolare alla poesia. Tuttavia, il suo interesse per il Medioevo italiano lo spinse ben presto anche verso l’arte e la pittura: studiò presso la Ford Madox Brown e divenne anche amico di William Holman Hunt in seguito all’esposizione del suo dipinto “La vigilia di Sant’Agnese”, molto ammirato da Rossetti. Il dipinto illustrava alcuni versi di una poesia dell’allora giovanissimo John Keats, che Rossetti imitò con il suo “The Blessed Damozel” (La damigella benedetta).
Negli anni successivi, l’Italo-britannico Dante Gabriel Rossetti sviluppò insieme ad Hunt la filosofia della Confraternita dei Preraffaelliti, occupandosi in particolar modo dei lati più medievaleggianti. Pubblicò traduzioni di Dante ed altri poeti italiani medievali e iniziò una serie di dipinti con lo stile e le tecniche proprie dei pittori italiani prima di Raffaello, da cui il nome del movimento.

I suoi dipinti “Girlhood of Mary”, “Virgin” (Infanzia di Maria Vergine) e “Ecce Ancilla Domini” (Ecco l’ancella del Signore) rappresentavano entrambi Maria come una giovane emaciata e repressa, mentre la sua opera poetica incompleta “Found” (Ritrovato) è il suo unico dipinto con un soggetto moderno ovvero una prostituta riscattata da un possidente terriero che riconosce in lei il suo antico amore. Tuttavia, Rossetti fece evolvere la propria poetica e la propria pittura verso temi sempre più intrisi di simbologia e mitologia, tralasciando il realismo. La sua maggiore opera poetica è, oltre a “The Blessed Damozel” (1850), la collezione di sonetti chiamata “The House of Life” (1870-81). Pur avendo ottenuto il supporto del critico John Ruskin, l’accoglienza fredda ai suoi dipinti da parte del pubblico lo indusse a ritirarsi progressivamente dalle esposizioni pubbliche e a dedicarsi a pitture ad acquerello, che vendeva privatamente. Per questi lavori, intorno al 1850, trasse principalmente ispirazione dalla Vita Nova di Dante Alighieri, che Rossetti aveva tradotto in inglese, e dalla Mort d’Arthurdi Sir Thomas Malory. La sua particolare interpretazione del ciclo arturiano e dell’arte medievale ebbe particolare influenza anche su alcuni suoi amici dell’epoca, quali William Morris e Edward Burne-Jones, oltre ad essere ben accolta dalla committenza privata.
La sua vita subì una svolta terribile con la morte della moglie Elizabeth Siddal, che era stata in precedenza sua modella, morta suicida per una overdose di laudano, causata da una forte depressione; dopo aver dato alla luce un figlio morto. Rossetti seppellì un plico con le sue opere poetiche incompiute insieme al suo corpo e cadde in depressione: in questo periodo, avvertendo affinità con la propria vicenda, si dedicò soprattutto alle opere dantesche e al tema della morte di Beatrice. Risalgono a questo periodo opere come “Beata Beatrix”, pietra miliare del Simbolismo.
È questa la prima fase di un lungo percorso di idealizzazione della donna che interesserà l’intero movimento fino a John William Waterhouse: la sua successiva amante, Fanny Cornforth, venne quindi rappresentata come la personificazione dell’erotismo carnale, mentre un’altra delle sue amate, la moglie del pittore William Morris Jane Burden, venne esaltata quale Venere celeste.
Parallelamente a questo percorso sulla figura femminile, Rossetti iniziò ad interessarsi di animali esotici facendone in breve una vera e propria ossessione; in particolare il vombato attirò a tal punto la sua attenzione da fare della gabbia che ospitava tale animale allo zoo di Londra, in Regent’s Park, un luogo di incontro con gli amici. Nel settembre del 1869 acquistò il primo di due cuccioli di vombato, chiamato Top, cui il pittore si affezionò a tal punto da lasciarlo dormire sulla tavola durante le cene con gli amici. Pare che proprio il vombato di Rossetti abbia ispirato Lewis Carroll per il dormouse di “Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie”.

Durante questo periodo, gli amici di Rossetti lo convinsero a riesumare il plico di poesie dalla tomba della moglie, che egli pubblicò poi nel 1871. I versi, carichi di erotismo e sensualità, offesero l’opinione pubblica; in particolare uno dei poemi, “Nuptial Sleep” (Sonno nuziale), che descriveva il sonno di una coppia dopo un rapporto sessuale, venne stigmatizzato per un avvertito cattivo gusto da parte del gusto puritano britannico. A queste critiche fece seguito l’opera “The House of Life”, una serie di poemi che analizzavano lo sviluppo fisico e psicologico di una relazione amorosa. Successivamente, Rossetti si dedicò ad alcuni versi per i propri dipinti, come “Astarte Syriaca”, e lavorò con William Morris ad alcuni disegni per la loro manifattura (in particolare a motivi per vetrate e carta da parati). Verso la fine della propria vita, Rossetti cadde in uno stato di indolenza probabilmente a causa delle droghe di cui faceva uso: visse gli ultimi anni in solitudine e morì a Birchington-on-Sea (il 10 aprile 1882) nel Kent (contea dell’Inghilterra, a sud-est di Londra). Nelle opere di Dante Gabriel Rossetti è possibile osservare due opposte posizioni, che rendono le sue opere al tempo stesso trasparenti e opache, semplici e sfuggenti. Da un lato ogni suo dipinto discende da una attenta costruzione razionale, da una progettazione in cui, con minuziosità ossessiva, si intessono elementi ben precisi. Sono cosi presenti simboli ben studiati quali colori, stoffe, fiori e vasi, cosi come per gli scenari, le pose, i gesti, senza contare il rinvio a temi letterari, storici e mitologici (dalle saghe arturiane alle opere dantesche, dai miti classici fino ai sonetti dello stesso Rossetti). Tuttavia, dall’altro lato, su questo stesso telaio di significati, che sembra non dare spazio a nulla di istintivo, si colloca una sensualità carnale e appassionate, dove più niente è riflessione, dove tutto è tormentata e irrisolta emozione: è questo il doppio volto rossettiano, in cui vi è il procedere parallelo, reciprocamente non dialogante, tra percezioni vissute come “sensazione” e percezioni sperimentate come “sentimento”. Nelle opere pittoriche del Rossetti la pura sensazione sembra seguire una bellezza il più possibile incontaminata, laddove il sentimento riemerge elusivo ma penetrante, temuto quanto trionfante, melanconicamente perturbante, in cui armonia e difformità, luce ed ombra, equilibrio e caos, coesistono, pur allontanandosi grazie alle loro caratteristiche dicotomiche.

L’arte di Rossetti leviga infinite immagini di un eterno femminino che non è mai soltanto nitido e visibile, idealizzato, perché è anche il suo “doppio” apparentemente cancellato. Il periodo finale dell’ arte pittorica e poetiche di Rossetti lasciano intravedere in maniera netta questo doppio.
Il critico e saggista Walter Pater, amico dei preraffaeliti, nello scritto “Dante Gabriel Rossetti” (1883), poi inserito in “Aprecitions” (1889), afferma che questo artista “Non conosce alcuna ragione dello spirito che non sia anche sensuale, o materiale” e d’altronde lo sapeva convinto che “L’amore umano, legato alla bellezza fisica, rappresentasse la grande e innegabile realtà delle cose, l’unica a offrire istanti di solida consistenza a un esistenza altrimenti informe”.
L’immagine della donna è nell’arte di Rossetti, nonostante la staticità apparente, un nucleo nel quale confluisce un gioco interno di tensioni. La donna è da un lato la specifica modella di volta in volta in causa, con la quale spesso l’artista intratteneva o aveva intrattenuto una relazione sentimentale, dall’altro Rossetti intuiva nella condizione femminile anche la parte più in ombra, come la prostituzione o il delitto passionale, questioni scandalose per il vittorianesimo ma caratteristici di quella età. Nella serie di sonetti, composti tra il 1870 e il 1881, intitolati “The hause of life” – oggi considerati il capolavoro letterario di Rossetti – l’amata viene sovrapposta alla figura di Cristo, e descritta come “Il significato di ogni cosa esistente”. Diventa qui evidente quanto l’artista ricerchi nell’amore e nell’amata, ma in realtà entro se stesso, emozioni in grado di arginare una caotica instabilità.
Anche i dipinti sono essi stessi strumenti per ricercare interattivamente un’ affettività e una passione romantica e cavalleresca per la donna amata.

Il tema del tempo, insieme a quello dell’amore, è un altro fulcro dell’estetica di questo artista: pur se sembrano articolarsi con maggiore compiutezza nel versante letterario, raggiunge massime profondità nell’atto del dipingere. Accade che, riprendendo quando Lacan afferma nel “Seminario VII” (1959 – 1960) a proposito dell’amore cortese, che la donne ritratta da Rossetti sotto sembianze ideali diventi “inumana”, un’oggetto “spaventoso”, indicando come il vero fulcro attorno a cui ruota la rappresentazione, e con essa l’esistenza dell’autore, sia un’inconcepibilità fondamentale, assai prossima al mistero della morte. Secondo Salvator Dalì, nel 1936, le suntuose fattezze delle figurazioni femminili preraffaelite non inviterebbero affatto a un superficiale e luminoso godimento percettivo, ma esse ci invitano a osservare le nostre profondità viscerali dell’anima estetica. Da questo punto di vista è la produzione pittorica l’ambito in cui si vede meglio l’inconsapevole affiorare di un’affettività aleggiante, sempre attraverso il complesso rapporto che questo autore intrattiene con il comporre poesie. L’ autori oscilla tra la pittura e la poesia, non ponendo tra di esse particolari barriere. Sono innumerevoli i casi in cui il titolo e il tema di un dipinto sono gli stessi di un correlato sonetto, in quale poi andava spesso a inserirsi nel quadro, trascritto in qualche area della tela o nella sua cornice. Altre volte i sonetti sono ispirati a dipinti di altri pittori, mentre le tele, i disegni o le incisioni attingono a loro volta a opere letterarie.
Rossetti operava abitualmente in due regioni artistiche: in quella pittorica e in quella verbale, le quali gli permettevano di vivere all’interno e attraverso due forme di linguaggio. Ciò ha fatto definire l’artista dalla critica come un «Autore di una doppia opera d’arte». Tale ultima affermazione è possibile costatarla attraverso l’analisi della sua corrispondenza, in cui l’artista racconta nei minimi particolari molti dipinti, li riveste di parole, li spiega e li illustra con puntigliosa precisione. Ne deriva l’impressione di un impulso a intrappolare e dominare la spontaneità del linguaggio dentro ad una rete precostituita di significati. Eppure l’operazione compiuta da Rossetti è un’ altra: accade come se lui agisse un irrefrenabile tendenza a porre in forma scenica, e allo stesso tempo narrativa, ogni suo stato d’animo, quasi ne costruisse una drammatizzazione del tutto simile a quella del teatro, mediante una figurazione dove ogni oggetto o personaggio si interconnette e si armonizza per comporre un sentimento. Tale operazione oscilla tra due poli opposti: un eccessivo controllo razionale, che quasi sterilizza ogni emozione soffocandola al di sotto di uno stile ornamentale, e una prepotente intensità affettiva, grazie alla quale il mondo interno dell’artista traluce con massima e con magico splendore dall’intera drammatizzazione. Il comune denominatore tra il dipingere e il poetare sia in Rossetti la pulsione a disporre la propria affettività in forma di narrazioni drammaturgiche, animate a loro volta da un estetismo attento e raffinato e da in realtà evanescente – come accade, sostanzialmente, nel teatro o nei sogni. Rossetti affermava che essere più poeta che pittore, e il suo dipingere era sostanzialmente un atto per ottenere un guadagno. Intendeva nascondere a se stesso la maggiore evidenza affettiva che il colore, il segno, e altro ancora lasciano nei suoi dipinti, più che nelle poesie. Questa nascosta preminenza affettiva del dipingere trapela da una frase di Rossetti: «Se un uomo ha in sé della poesia dovrebbe dipingere, perché tutto è stato detto e cantato, ma lo si è appena cominciato a dipingere». L’idea che l’abuso di cloralio (un farmaco ipnotico), le cui avvisaglie risalgono al 1867, sia stato la causa primaria dei disturbi psicopatologici dell’ artista, dei deliri di persecuzione, del tentativo di suicidio (1872), della allucinazioni uditive, nasconde la realtà di una tossicodipendenza inconsapevolmente cercata, inconsapevole tentativo di curare in antecedente squilibrio, ma senza mai fermare l’artista fin all’ultimo giorno della sua vita.

Il purpureo petalo della Tulpenmanie

di Irene Battaglini                                                                                        Prato, 11 febbraio 2013

L’IMMAGINALE

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Rembrandt_Harmensz._van_Rijn_092Amsterdam 1637: scoppia la bolla speculativa sulla compravendita dei futures sui bulbi dei tulipani. Il prezzo del bulbo sale vertiginosamente e scende con altrettanta velocità. Lo scenario dell’Olanda è il teatro dell’esordio del capitalismo in Europa. Il commerciante di fiori si scopre prima negoziatore e poi speculatore, è motivato dall’istinto ad accaparrarsi i bulbi di tulipani che non sono ancora sbocciati, ad un determinato prezzo; e si impegna a rivenderne altrettanti ad un valore più alto: la logica di questo mercato si basa sul valore attribuito a questo meraviglioso turbante ubertoso di petali, che nel ‘600 diventa lo status symbol della classe dei ricchi mercanti dei Paesi Bassi. Il furibondo movimento di denaro apre la strada al desiderio incolmato di una ricchezza iniqua, che poggia sulla tensione all’avere.

Possedere non tanto un oggetto, quanto il suo valore fissato in un tempo, un valore-idea, un impegno-immagine che preclude la conoscenza diretta ma che vi allude continuamente, in una tensione dipendente che crolla in un craving rovinoso senza lutto: una fine imposta dalla legge intransigente di un mercato ingiusto come tutti gli dei. Esiste un punto in cui il valore di un bene, per quanto ambito e desiderato, smette di crescere. Questo punto è il frutto di una coartazione del desiderio che ha per sintomo la compulsione a “vendere!”, a disfarsi il più in fretta possibile proprio di quell’oggetto che pochi istanti prima era stato bramato con cattiveria.

Il dipinto I sindaci dei drappieri fu realizzato da Rembrandt (Rembrandt Harmenszoon van Rijn, (Leida, 15 luglio 1606 – Amsterdam, 4 ottobre 1669) nel 1662, pochi anni dopo l’imperversare della tulipomania e l’emorragia finanziaria che segna la prima grande crisi dell’economia liberista; e che, insieme alla famosissima Lezione di anatomia del Dottor Tulp (= tulipano),  rivoluziona il concetto tradizionale dello statico “ritratto di gruppo”, il “Doelenstuck”, genere pittorico diffuso nell’arte dei Paesi Bassi durante i sec. XVI e XVII: in entrambi i lavori la lucida cristallinità raduna un gruppo di persone in una condizione di “libertà” sorprendente, tanto perfettamente racchiusa nell’insieme – quasi che lo sguardo di Rembrandt, “l’incisore di luce”, si porti  nel quadro invadente come uno squarcio che  non tesse trame in segreto, –  quanto contrastata all’interno lungo una diagonale nella Lezione, e una sinusoidale ne I Sindaci. Attorno a questi capolavori stanno opere composte e serene, come La giovane donna alla toeletta, il Vecchio orientale e il ritratto della sorella Lijsbeth van Rijn. Oltre ai numerosi autoritratti: il triennio 1633-1635 ne annovera almeno sedici, in tutta la vita oltre settanta. Come a manifestare da una parte la ricerca delle coordinate che plachino la curiosità verso il mondo esterno – sostenuta dalle avide richieste dei committenti –, e dall’altra l’indagine verso il mondo interno, oscuro e sconosciuto, realizzati in una sorta di morbida “condensazione” in cui l’alternarsi dei solchi di luce e di ombra traduce la ricerca dell’armonia, ogni volta riscoprendo una irripetibile occasione di felicità trattenuta …

Rembrandt, raffinato e dolcissimo, nei Sindaci dei Drappieri sa fondere le strutture di maniera allo stupore di una luce fluida, trasfigurante, che permette di entrare nell’intima stanza dell’orchestra delle infinite sfumature. Una stanza abitata per puro caso dalla riunione dei contabili, sorpresi in un misurare di stoffe e di fiorini, tempestati dalle gemme degli sguardi acquosi sulle vesti castigate, a testimoniare un’intransigenza sociale, sopra il segreto della licenza mercantilistica. Lo stesso Rembrandt fu accusato di mercantilismo per aver collezionato oggetti d’arte, armi, disegni, stampe, stoffe, medaglie e porcellane orientali. Quell’ansioso bisogno di afferrare il transitorio, di congelare il fiore dai molti colori – e dai moltissimi volti – con l’azzardo maniacale, non è forse il desiderio di unirsi alla meraviglia impalpabile, di crollare ipnotizzati sotto il canto della sirena?

L’analisi radiografica de I Sindaci rivela il sovrapporsi e spostarsi di idee, e svela il processo di elaborazione di Rembrandt: sarà per lui l’ultima volta in cui affronta il “Doelenstuk. I Doelenstuck traggono origine dai ritratti dei fondatori delle corporazioni e in un primo tempo furono composti accostando i personaggi in modo che tutti risultassero in primo piano; anche nella Ronda di notte, i personaggi acquistano autonomia di posizione, di sguardo, di organizzazione. Il legame tra arte ed economia, lavoro ed estetica, è una doppia corda che si annoda e si snoda continuamente nell’arte di Rembrandt, a dimostrazione del fatto che l’arte concettuale non è un esclusivo appannaggio dei contemporanei. Se mai, nell’arte di allora, il pittore si fa non solo anima dolente e voce snervata, ma registra rivoluzionario con i suoi personaggi che denunciano il cambiamento di prospettiva, come i sindaci, appunto, ondeggiano nelle loro chiome fulve sotto un cielo di tappeti rubino.

I dirigenti della gilda (incaricati di verificare la qualità delle stoffe prodotte e vendute ad Amsterdam), sono colti in istantanea, e questo lavoro di imponderabile saggezza figurativa è possibile solo alla mano mercuriale dell’anziano maestro, che non teme più il giudizio ed è per questo che non si preclude di aprire ad una domanda analitica: è possibile per i sei uomini essere leggeri, sorridenti, sospesi come tulipani ad vento di mare e di tramonto nella luce trasfigurante che ne percorre i lineamenti, e nello stesso tempo puntare lo sguardo sull’aprirsi improvviso di qualche cosa, come se davanti ai loro occhi stesse sfiorendo, nemmeno troppo inatteso, il ritratto dell’ultimo Rembrandt?

Quindi i piani prospettici incontrano una trasmutazione a più dimensioni. L’oggetto ritratto si trasforma in una pubblica giuria che osserva disincantata e ironica la umile richiesta del pittore, quasi la domanda di un ultimo dolce piacere da parte di un vecchio; la domanda, la più disperata, d’amore, che sta dietro le facciate anonime e tutte uguali delle case dei puritani olandesi, febbricitanti di tentazione per l’ultimo tulipano.

“Stolti che vogliono solo bulbi di tulipano. Nella mente e nei cuori hanno questo unico desiderio. Assaggiamoli: scoppieremo a ridere scoprendo quanto sono amari”  (Petrus Ondius, pastore della chiesa di Amsterdam, 1621).

PDF 1. 11.2..2013 IL PURPUREO PETALO DELLA TULPENMANIE

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Il verso e l’obbedienza di Davide Rondoni

di Andrea Galgano                                                                                        Prato, 10 febbraio 2013

RECENSIONI

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Ho obbedito a una ferita interiore e alla bellezza gloriosa e delicata incontrata in tante opere e in tanti volti. Sempre indebitato, innamorato e inquieto ho fatto questo tratto del mio viaggio (…) Il mio destino è un mare all’alba.»

L’origine poetica di Davide Rondoni, uno dei più grandi poeti contemporanei, è un’obbedienza irrefrenabile. Il percorso che nel suo ultimo testo raccoglie versi e interventi su artisti dal Trecento ad oggi, pubblicata da Marietti, obbedisce allo sfarzo glorioso e povero di un gesto. Lo abita e lo trapassa.

Sostando sulla materia di questi versi, il cuore non ha riposo. In esso, anzi, si agita il guazzabuglio di un fermento e di un’inquietudine ferita, come palpito musaico e come abisso di luce.

Nella prefazione, accorta e profonda, Beatrice Buscaroli aggiunge che questi scritti: “Sono il grido ulteriore di un gesto fermo nella pietra, sono il rovello di tanti artisti quaranta o cinquantenni in cerca della strada, («la fatica, la irrefrenabile obbedienza di questi artisti è la mia forza», scrive l’autore nella Nota, e, oltre, «è della generazione, la stessa mia, che non sa come fare»), sono una terza voce che travalica i consueti rapporti tra “poesia” e “pittura”, interrogando l’artista stesso, oppure un protagonista sconosciuto, qualcuno che, fino a poco prima, era muto, o non esisteva”.

La poesia raccoglie l’Avvenimento della realtà e, allo stesso tempo, il magma della sub-creazione per usare un’espressione cara a Tolkien.

Tocca, sfiora, e infine si impregna di una tensione all’infinito, per cui la nostra stessa sostanza si riconosce e si afferma.

In questi testi il grido non è una solitaria espressione socchiusa, ma nasce da «spasmi, pianti e inabissamenti di fronte a loro», ossia l’avvenimento accade anche in chi scrive, come un gemito in un tempo che dialoga.

Nell’amore e nella passione per l’arte, la poesia si mette al suo servizio, la pagina si intesse di una sproporzione indicibile, di un’altezza di canto, fioca e potente, che attraversa l’ombra e il regno dei giorni: «devo/ dire di te, / di voi che nell’ombra restate in quella posizione/ non vi muovete da quell’ansa/ immobili come sicari», o ancora: «le mie figure non sorridevano mai, /dimmi perché, se lo sai…/ ora che vedi dall’altro lato/ dello specchio».

Figure come Lorenzo Lotto, Elisabetta Sirani, Caravaggio o Michelangelo rappresentano lo sguardo  e l’immersione delle mani nella conca del reale, l’estremità infinita e indicibile di un vertice umano a cui porre l’ascolto e l’esercizio della libertà.

L’urgenza di sfiorare e toccare i segni disseminati in queste opere è indice di un metodo libero, rigoroso, visionario, come una mano che attende il vivente, che cerca qualcosa che, pur non esistendo in natura, si afferma e si vede.

Nel lavoro dell’arte è il presentarsi dell’esistenza il volto a cui attingere, in quanto piena possibilità di attenzione, di visione, di cenno che invita e costringe a guardare.

Le opere a cui Davide Rondoni ha prestato ‘servizio’ di lettura e di ascolto divengono, per citare Maritain, lo spazio di una comunicazione ininterrotta tra cielo e terra, anche nello sperdimento di un dolore che sanguina, che reclama e che porta in grembo l’immagine e il bagliore di una gioia sopravvissuta e baluginante.

In questa inquietudine e smarrimento si gioca la partita ultima del teatro del mondo. I versi non accompagnano, non si sviluppano secondo un confine parallelo, ma indicano, si fondono, cercano le linee, i raspamenti e gli spostamenti ultimi di una vertigine di figura, di un abisso che ama transitare, persino nell’incompiuto, per ritornare all’origine, nascere di nuovo, arrendersi.

Non esiste un percorso parallelo, neanche riscrittura di opera, ma solo urgenza di resa e cammino di sguardo.

Davide Rondoni tocca il visibile del pensiero incarnato del verso per farlo sporgere dalla finestra del reale, sfiora la «primogenitura» dei colori e delle macchie dell’arte, per vivere e per esistere, in un’infinita tensione, in un segreto limite: «Incidi, /dividi con una linea di tempo/ dal niente, le figure/ dal bianco. / E dai branchi nebulosi della morte/ l’umile gloria, / l’esistente».

Le «crete appena vive o disegni» della «sfacciata opera » di Testori, il centro innocente della rappresentazione di Van Eyck con il «belato sperduto di Dio», le «rughe sul volto del viaggio» di Frisoni o le donne di Omar Galliani- solo per citare alcuni di questi bellissimi e sospesi attimi di vento-, non danno quiete, ma mettono in moto il fuoco dell’esperienza umana, che cade e si alza, che costringe a transitare sull’enigma dell’essere, a cogliere gli anfratti, a sospendersi nello stupore.

Il movimento dell’arte poetica di Rondoni è sospensione e cammino di occhi sulla realtà, una ricerca di tracce da antichi segni futuri, una compagnia di visione.

Essa diviene, pertanto, il fulcro permanente e sperduto di un bisbiglio al tempo, alla sua vertigine di accensione, all’illuminazione straziata del colpo al cuore, come il ridere di Bacon, voce di dura sostanza: «con il sorriso andato via da millenni sulla faccia d’oro/ come un dio maya in giacca di pelle, / ti hanno festa, e ora stanno togliendo grammo/ a grammo, velo a velo, l’infelicità dai tuoi quadri».

Ma nel segreto smisurato del gesto si avverte la pienezza di qualcosa che si sveli d’improvviso, la fame di un compimento che impasti la nostra povertà lucente e la vita che accade qui e ora.

In questo dettato di esistenza, duro e sognato, ampio e ricolmo di bagliore, c’è il nostro essere in ascolto, che vibra e che risuona e che chiede compimento.

La poesia di Rondoni si unisce a questi artisti potenti e fragili. Conosce la dismisura e l’immersione e si presenta povera e gemmata, nel suo cammino e nel suo abbandono, alla dolcezza dell’Infinito.

 

Nell’arte, vivendo.

di Davide Rondoni

Marietti, 2012, pp.292, euro 22

in presentazione al Polo Psicodinamiche di Prato il 15 febbraio 2013

 

William Faulkner e il proscenio della caduta

di Andrea Galgano                                                                  Prato. 3 febbraio 2013

LETTERATURA CONTEMPORANEA

77832“Nella decadenza di una famiglia del Sud, sembra che Faulkner voglia mettere in scena la vita come Caduta”. Scrive così nell’introduzione a L’urlo e il furore di William Faulkner (1897-1962), titolo che riprende atto V e scena V del Macbeth di Shakespeare, Emilio Tadini e la grande Flannery O’Connor lo definì “Dixie Limited”, treno rapido che tocca la profondità del Sud americano, correndo ininterrotto, come «a real son of a bitch».

Ma la scrittura del “Dixie Limited” è uno straniamento di viscere che si snoda da Melville e Joyce dalla autentica cultura barocca, -“ la migliore rivisitazione moderna – con l’Ulisse di Joyce appunto- dell’Amleto”(Nicola Lagioia)-  come l’immaginazione, che è imbevuta dalle date di una fotografia quasi ingiallita: 6 aprile 1928, 2 giugno 1910, 7 aprile 1928, 8 aprile 1928. Una materia viscerale  e oscuramente disperata, dove al centro c’è una famiglia bianca, i Compson con i loro quattro figli.

Nella  contea immaginaria  Yoknapatawpha, la stessa storia viene messa a fuoco da diverse voci monologanti, con dilatazioni, avvolgimenti, slittamenti, che custodiscono vertigini e memorie complesse.

L’ellissi di Faulkner è un flatus vocis di profonda musicalità che registra fatti, suoni, odori. Come se la materia del reale fuoriuscisse da un confondersi di nominazioni, si affermasse, sfarinandosi,  in un disordine narrativo e risorgesse continuamente dal suo magma, dalla sua intensa promiscuità di memoria, che in un istante lambisce il rettilineo e il complesso, l’effimero e l’eterno, la sequenza dei toni e dei timbri: “è una scrittura quella di Faulkner, capace di rappresentare in modo chiaro e distinto le cose – i nomi- che si conoscono per averli sperimentati. Ma nello stesso tempo, sulla stessa pagina, è anche una scrittura che si sforza di rappresentare le figure che ondeggiano confusamente dentro le prospettive vertiginose che si mettono in movimento non soltanto quando sogniamo, a occhi aperti o chiusi, ma anche, forse soprattutto, quando abbiamo semplicemente paura, non di qualcosa, paura e basta,e  allora, per un momento, quella paura cerchiamo di pensarla, e il pensarla ci porta, comunque, misteriosamente, dalle parti di qualche grandezza” (Emilio Tadini).

È il gesto elementare, come l’affetto di Benjamin per Candy, a evocare un valore originario e assoluto, come nell’evidenza dei lessemi memoriali: «Non vedevo il fondo ma potevo spingere lo sguardo molto in basso nel moto dell’acqua, prima che l’occhio si desse per vinto, e allora vidi un’ombra sospesa come una grossa freccia che andava contro corrente».

Il dramma si avvolge nell’ombra. Lo ripete l’idiota Benjy, furiosamente, in ogni suo passaggio. È l’ombra di Quentin su Caddy con il suo potente desiderio di possesso, è ombra l’idiota che incombe e infine il meschino e razzista Jason, con il suo odio per Dilsey: «avendo la massima considerazione solo per la polizia, temeva e rispettava unicamente la negra che cucinava il cibo che mangiava, sua nemica giurata dalla nascita».

Il divenire di Faulkner afferma, pertanto, una percezione scossa di temporalità, come se il tempo si sospendesse, per risultare assente, atono: «Soltanto quando l’orologio si ferma il tempo ritorna a vivere»

L’alternanza delle voci è lo strumento con cui la verità ama rivelarsi, persino nelle contraddizioni, negli spostamenti occulti, lasciando un varco al lettore, che, apparentemente smosso, si trova nell’azione in cui il testo avviene. L’indicibile ha bisogno di impastarsi con una voce che guizza, che scivola via dalle mani.

È piuttosto la fotografia sulla realtà, conservata nei segni di un’idiota, di una negra, di una biblioteca ricolma, a evidenziare “un presente mascherato” (J.P. Sartre).

La sospensione allucinatoria del tempo raccoglie il pungolo dell’insensatezza e della decadenza. È attraverso Benjamin, con i suoi mugolii e le sue strane comprensioni,  che Faulkner ci descrive «il suono grave e disperato di ogni muto tormento sotto il sole».

Una società strana, in deriva, oltraggiata e muta. Il presente eterno sconquassa il movimento della realtà, con la coltre di una nostalgia meccanica e insensata.

Sembra che il tempo di Faulkner, con la sua furia percettiva, debba sospendere il suo tratto, nonostante confluisca sempiterno e violento. Ama però il nascondimento, l’enigma che copre la zona del visibile, dei suoi tratti, dei suoi flutti.

Il respiro della tragedia greca pulsa, imperversando, nella potenza del destino e dell’incubo, nella instancabile e definitiva dissociazione dalla materia del mondo. Ma proprio quando l’impeto del non-sense convoglia l’immanenza, ecco Dilsey che afferma «Sono qui» in una pallida luce, riportando l’innocenza al suo santuario.

Spesso le cose sono percepite nella loro individualità e i personaggi di Faulkner vivono sotto questo cielo specifico di colpa. Ma sia Benjy sia Dilsey dissestano il disordine con la loro specificità.

Il primo con il suo non-sense conferma il lamento di una vertigine di vuoto, ma lui non lo sa, e poi c’è lei, la grande Madre Nera, che dona al tempo calma e amore.

Faulkner abita i miti primordiali. La sua voce di uomo sembra dilatarsi e poi scomparire nella fertilità della pagina. Andrè Malraux scrisse di Santuario che la tragedia greca stava irrompendo prepotentemente nel genere poliziesco, “un romanzo con un’atmosfera da detective-story ma senza detective”.

La procedura di spietato realismo dello scrittore è tale perché ricerca l’origine e i primordi di un movimento sconvolto e fertile. L’ingordigia e la malattia della società, che colpisce l’innocenza candida con la degenerazione, fino allo stupro, porta la miseria dello sfregio di uno splendore perduto e irrecuperabile. Il mito della morte e della rinascita si accompagna alla zona invitta del Sud e all’eterno agone di bene e male.

Ma al centro di questo romanzo non c’è l’atto in sé, quanto l’impossibilità di realizzarlo concretamente. Non c’è esplicita affermazione, né descrizione. La sospensione diviene un’allusione all’indicibile, alla predestinazione del simbolico: «Uno scrittore è troppo preoccupato di creare personaggi in carne e ossa che stiano in piedi per aver tempo di rendersi conto di tutto il simbolismo che può aver messo in ciò che ha scritto».

Il vuoto, espresso da uno stile “lussureggiante, rigoglioso, eccessivo (Clifton Fadiman), si coglie dai dettagli.  Quel santuario è il corpo stesso di Temple, così come il tribunale, la fabbrica clandestina dove verrà violentata, l’eccesso morboso dell’avvocato Horace Benbow.

Nel vortice caotico del vuoto, Faulkner rilascia un’impronta tenera di cielo, descritto come «prono e avvinto nell’abbraccio della stagione della pioggia e della morte», come se lottasse con la dispersione della pienezza ed egli, come scrisse di Sherwood Anderson, suo indimenticabile maestro: «Era come se scrivesse non per la sete logorante insonne implacabile di gloria per la quale qualsiasi artista normale è disposto a eliminare la propria vecchia madre, ma per ciò che egli considerava più importante e più urgente: non la mera verità, ma la purezza, la più esatta purezza (…) Gli si confaceva quell’annaspare in cerca dell’esattezza, della parola e della frase esatta nell’orizzonte limitato di un vocabolario controllato e persino represso da ciò che in lui era quasi un feticcio di semplicità, spremere parole e frasi insieme fino in fondo, cercare sempre di penetrare all’estremo confine del pensiero. (…) Ho imparato che, per essere uno scrittore, occorre essere prima di tutto ciò che si è, ciò che si è nati; che per essere americani e scrittori non è obbligatorio dover dare la propria adesione formale a chissà quale immagine convenzionale, come il granturco dolente dell’Indiana, o dell’Ohio, o Iowa (…) Basta ricordare ciò che si è.»

Quando nel 1950 gli venne assegnato il Nobel, pronunciò un discorso ampio e acuminato. Era il senso della sua avventura e della sua tensione narrativa: «Sento che il vero destinatario di questo premio non sono io come uomo, ma al mia opera – l’opera di una vita nell’agonia e nel sudore dello spirito umano, non per gloria e tantomeno per il profitto, ma per creare dai materiali dello spirito umano qualcosa che prima non esisteva. Perciò di questo premio sono il semplice custode».

Ma qual è il compito della scrittura? Egli stesso ce ne dà un assaggio in questo scritto del 1961, definendosi: «uno straniero cresciuto in campagna che ha seguito quella vocazione per centinaia di miglia, per scovare e cercare di catturare e imitare per un momento in una manciata di pagine stampate la verità della speranza dell’uomo nel dilemma umano».

Il mito primordiale degli antenati, come il colonnello Sartoris, figura vicina al nonno, o il magma incandescente dei tre racconti Absalom, Absalom! (1936), Palme Selvagge (1939) e Una rosa per Emily (1949-1950), frequenta gli spazi d’ombra di un viluppo grottesco e duro, che come disse T.S.Eliot, comunicano prima di essere compresi.

Eugenio Montale scrisse: “Sfondo perpetuo dell’arte di Faulkner è il Sud; motivo ricorrente, gli strascichi, l’eredità psicologica e perfino razziale lasciata dalla guerra civile. Ma il tutto, naturalmente non forma, come in Balzac, un ciclo unitario osservato con l’occhio di chi vorrebbe esaurire il quadro, bensì si estende con una fluviale lentezza nella spirali di una saga, di una leggenda, che noi immaginiamo potesse continuare all’infinito. Sudista nostalgico, odiatore della “terza razza” che si è formata nel Sud accanto agli aristocratici e ai negri (la razza “costituita dai figli degli ufficiali e dagli impresari e dei fornitori di guerra, da coloro che guidano in borghese o avvolti in manti di società segrete le folle al linciaggio”), Faulkner non è tuttavia come artista un conservatore”.

Ma egli, nella sua avventura misteriosa, parte dalla poesia, perché dal gesto e dalla parola poetica si muove l’arte sfarzosa e sottile della narrazione.

Le poesie del Mississippi esprimono la tragedia e la passione dell’esperienza dell’esistenza, l’approccio alla parola, la cui forza ha nella sua sostanza il compimento pieno.

Marco Missiroli, parlando della poesia di Faulkner, solamente di recente riproposta e riscoperta, scrive che essa: “è anche epica sentimentale: l’amore si fa mancanza e il desiderio si trasforma in sfida”. Il movimento di Faulkner è aspro e dolente, ma si dispiega, sempre, a d ogni istante.

Un legame sottratto, in cui intimità di voce, ansia e tempo presente si riuniscono, si racchiudono: «Dunque, le dirò: tra due fugaci palloni/ di sottane vidi le sue ginocchia, gravi calici/ fiorire in alto verso svenevoli nugoli di api/ nell’arnia dei fianchi di miele, minime lune».

C’è un’origine di scommessa in questo stradario di carne, un tentativo di riammissione in un legame. La memoria tenta, recupera, coinvolge, perché il ricordo è madre. Madre di ciò che dovrebbe essere, mancanza di ciò che è: «Tre stelle nel suo cuore quando si risveglia/ mentre il sonno invernale spezza il rigoglio nel diluvio/ e nella terra cavernosa lo strepito di una primavera s’agita, / come tra i suoi fianchi il seme dissodato e vivo».

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Stampa, leggi e conserva il Tuo articolo in pdf  1.03.02.2013 WILLIAM FAULKNER E IL PROSCENIO DELLA CADUTA Condividilo sui Tuoi social network. Lo short link di questa pagina è https://www.polimniaprofessioni.com/rivista/?p=257

 

 

The Inquiry of Edgar Allan Poe

By Andrea Galgano

27 January, 2013
Prato, Italy

filetype: pdf THE INQUIRY OF EDGAR ALLAN POE

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In a letter to the editor Thomas W. White of the “Southern Literary Messenger” of 30 April 1835, Edgar Allan Poe writes: «The history of all Magazines shows plainly that those which have attained celebrity were indebted for it to articles similar in nature — to Berenice — although, I grant you, far superior in style and execution. I say similar in nature. You ask me in what does this nature consist? In the ludicrous heightened into the grotesque; the fearful coloured into the horrible; the witty exaggerated into the burlesque; the singular wrought out into the strange and mystical».
It is, clearly, the passage of his work. Controversial, often not understood, but certainly seen as the crest of innovation and intelligence clear.
“Do you know why I translated Poe with so much patience – Baudelaire will write – because he looked like. The first time I opened a book I saw with fear and wonder, not only of the subjects that I had the same dream, but think of the sentences by me and written by him twenty years before”.
The exaggeration, the effect, the ignition of his deep run through the crevices of the dream and vision, where the units of effect is a vehicle for the condition fascinating and hypnotic art: «All that we see or dream/ Is but a dream within a dream». Here are found the qualities that give shape to the shape of grotesque horror. The ego, therefore, moves within a soul without respite. The origin of terror lairs in the depths of the soul and on the surface of the abyss.
As Antonio Chiocchi writes, in a beautiful article on Poe: “The immersion in the nightmares of reality is, for Poe, the only access to the mysteries of life and the human soul. He does not look for the language in which enclose the ugly, the grotesque, the bizarre, on the contrary, it beats looking for the language through which to express them freely”.
The dream state and visionary, while deliver its indefinite charm and cryptic, the other part in the scene of the literary text as a stabbing frenzy, like a puzzle that sinks its peaks.
Already his stories, like Ligeia, Morella, Eleonora – collect individually and anxiety primarily essential, a kind of cognition, for which the facts are not real but are true.
Women become guides mystical, metaphysical subject of investigation and above all ‘life in death’. Every female character in Poe expresses this power, with a power liturgical, invocative and magical.
They are creatures who act as “death, dying and moriture” (Giorgio Manganelli). In the conjugation of death, Poe expresses the consciousness of a transition into the world of chaos and ultimately the achievement and unveiling of an agnition metaphysics.
In it is revealed at the end of each literary experience, the ground of its voltage, the gate that scours its principium individuationis.
The irrational, therefore, borders on the rational, almost like a technique, especially in retail, take a drive wide, which conveys the expression of imagination and the sublime.
In it, Poe’s literary pass his experience of the event in the epiphenomenon, and in the waste and in the margins, says his «flash of higher things and eternal».
The lack of hierarchy among the objects in the scene reveals the hypnosis of an iteration visionary.
In one of his essays T.S. Eliot judges the visionary power of Poe as a primitive, immature and adolescent, suspended in the irresponsibility of the invention, the craze of the images, and the delight of margins.
But the Poe’s ego feeds, wrapping, contemplation, rhythm, order, even in the din of the nightmare darker: «Men have called me mad; but the question is not settled whether madness is or is not the loftiest intelligence — whether much that is glorious — whether all that is profound — does not spring from disease of thought — from moods of mind exalted at the expense of the general intellect».
«my passions always were of the mind», Edgar Allan Poe wrote in Berenice, such as the ego who is involved in the intelligence of the passions, in the story of delirium and in the track of beauty and death.
Indeed initiation metaphysics has always a double movement of paradise and unexpected, then revealed: «My youth was nothing but a dark storm, crossed here and there by sparse clouds. Thunder and rain have devastated much you have left in my garden but some flowers vermilion».
Giorgio Manganelli writes: “The horror is therefore a sign, an indication of the negative, it is folly to detect imminent and rejected, the stickiness of the nightmare replaced the cryptic clarity of the dream”.
The cold landscape stylish and spooky from his page, with rows of trees bent and majestic buildings and gloomy, is mounted perfectly in the solitary presence Gothic, forged by absence and excellent sensibility: « (…) while there will be someone who will find what to meditate on the characters that I carve here with a stylus of iron».
The delay of an irresistible attraction toward oblivion, suffering dark and muddy, like the wings of a raven, which in a stormy night looks out the window and the door of the soul of a man, awaken hidden sighs aspirations and desires betrayed, a dead woman, the existence of which is broken, a memory that is rampant in the cold, the drip of the supernatural.
The chronicle of events in Poe becomes a mythical sphere, as the creativity and imagination, as happened in Coleridge, meet and combine, rather it unfolds its harmony: « The truth is that the just distinction between the fancy and the imagination is involved in the consideration of the mystic … that spiritualizes the fanciful composition, and lifts it into the ideal ».
The word that follows the nightmare and its fascination with the play of contrasts that disrupts the soul that ultimately, arises as an effect.
It is the same word that discovers the identity of the character who lives in the multiplicity of its prospects, in the physical event and gesture. Here comes the vision, disclosing, penetrating, probing and returning the gaze analytical and imaginative in what she herself sums.
Even the metaphor of the journey of initiation and decisive in the dimension of being (The Narrative of Arthur Gordon Pym of Nantucket) stop on the substance unexplored, focuses on tremor that the unknown asserts in the days of the life and death as a baptism of shadows.
In them lies the nightmare, the hook deadly traps that does not mind the deception and simulation, but through its resolving power sheds light on the scene of the abyss.
When Paul Valery approaches the prose poem Eureka the formal symmetry of the universe, it means that the structural Poe’s system, near Kepler, Newton and Laplace, feeds on stress analysis and deductive methodology, since it is able to classify and reduce relations between things. His universe is full of theological impression, even in the livid lights or sudden.
In The Murders in the Rue Morgue, Poe introduces C. Auguste Dupin, detective who later inspired Arthur Conan Doyle, for his Sherlock Holmes.
On the basis of a real character Eugene Francois Vidocq, lived in Paris and that criminal and even spy became Chief of Police in Paris, Dupin fully embodies the visionary gaze of its author.
Dupin, therefore, baffles the prefect of police in Paris, thanks to its ability to reconstruct the mechanisms that led to the crimes: each clue is that a particular out of place and what he should have surprised is not the solution, but the problem itself.
The criminal investigation police officers make the mistake of applying the method of the moment, that is, to exchange “the unusual” with “abstruse.”
It is the reality, however, to be more encompassing and wide. When Dupin went to Rue Morgue to investigate a horrible and unusual murder of Madame L’Espanaye and daughter Camille, not only focuses atrociousness, which is the first piece of reality that appears, but the particular part in question, in this case unusual, for a warp intricate, that already in the scene that he sees solution. The murderess is an orangutan in Borneo, but the discovery will be a sense extra-ordinary, whose vision will determine the resolution.
Pietro Meneghelli writes: “The detective uses the mechanism of reason in order to brighten things and human affairs; heir to a tradition that dates back to the Enlightenment through rough paths up to Prometheus, wants to light up the darkness and to strengthen the rational capacities, bringing all the elements that elude rational understanding in a strictly logical dimension, bringing the irrationality in the dynamics of reason and intellect pushing beyond any limit of knowability”.
It is a world that is formed by the disorder, and that by reductio ad unum goes back to a primeval order, horrified by what, at that moment, it happens.
The clarity of Dupin is one reason that addresses the totality and disrupts the knowledge, to bring it to light. Here is the essence of detection, which consists of aligning elements messy, decipherable to collect the entirety of a visionary perspective, through the analysis and the opening logical-deductive.
Even in the story The Mystery of Marie Roget, also inspired by a true story bloody happened in New York, the ideal parallel universes cross their path with the real universe.
The dream world is transformed into symbolic language when it manifests the metaphysical delirium soul, or when, as the quote at the beginning of the work of Novalis: “You give ideal series of events which run parallel to real events. Rarely coincide. Men and circumstances generally modify the ideal sequence of events, so that is imperfect, imperfect and the consequences. “.
It’s a key mythical perception that, starting from the given reality, tends to merge with the dream, often in a maze-time or in a glossy piano death. Creativity and imagination become the instrument of a “supreme form of intelligence”. The invasion of the unconscious confirms gem of a analytical fantasy and not a transcription of a dream, as he writes in Berenice: «The realities of the world affected me as visions, and as visions only, while the wild ideas of the land of dreams became, in turn,—not the material of my every-day existence–but in very deed that existence utterly and solely in itself».
Police fails because it does depend on the solution of the criminal act only intelligence, or we might say, the “scientific” intellectual. T Dupin’s look is a trip of diversity in a criminal, torn and schizophrenic mind, however. Terror is inhabited by the soul and belongs to the soul. So the real investigation is a wedge between events, it sinks to access to external reality and to grasp the nature of others, stopping on the subject of their black gorges, halved and wandering.
Poe will write in The Tell-Tale Heart and The Man of the crowd, where the presence of the room of the protagonist is an abyss of dizzying occult and dark, evil and incommunicable. The sound of the heart is greater than the murderous plan, which is as if it were destroyed and surrendered. What undermines the murderess, not killing, but the destruction and consumption of itself. When the identity is destroyed or self-destructs there is no salvation, the soul is incomplete, distorted, prisoner.
Antonio Chiocchi marks: “The narrative snatches the horror from the realms of imagination and makes history. In this way, the horror is made observable with supreme detachment minute analysis. The power of words to evoke nightmares of the soul is also a singular power to exorcise and, gradually, making them family. (…) The power of words that delves into the nightmares of the soul is a drug of particular importance, because it allows them sounding liberating. The horror stories are, more properly, the stories of the nightmares of the soul, put into narrative form, become a context that we finally sighting, winning the secret impulse of repulsion that there “commands” to remove them. The history and narrative become so, the moving mirror of the soul, revealing the deep recesses and hidden movements. A dip into horror is a dip in the soul, to make it the foundation and the care of your life. Herein lies one of the secret springs of Poe’s stories”.
In The Pit and the Pendulum the protagonist, tortured and sentenced to death, loses consciousness after the formula of the inquisitors, everything takes on the form of the expansion of objects and faces, and as a spasm, she finds herself wrapped up in the endlessness of the night, empty and trembling.
What has become? What is living? He is blind? Or what else? After touching the cold walls, began to become aware of his prison and appears to be on the edge of a well to challenge the abyss and the moral horror of death. He’s trapped. A death trap preparatory to something much bigger, which begins with the lack of alternatives and ends up to see in her eyes, without control, or perhaps, the only way to choose how to die.
Waking up, he is linked to low wooden frame, are free his left hand and the head, with a little meat on a plate nearby, at the mercy of the rats. After seeing the top sees a strange picture of the time holding a pendulum, whose sharp blade is suspended above him, threatening and menacing.
A movement and risking that his chest is cut in half. Dipping the ties with the flesh and after the rats can gnaw the ropes, can save, but suddenly the prison walls, become hot, begin to move and become diamond-shaped to bring him into the pit, in the center of the scene. Will he still be saved to an external, will be the French of Lasalle to pull him to safety.
The madness pushes the boundaries and the extreme limit of existence. An immense eye that looks, a parallel dimension that bares and makes weak, a task that, threatening and extreme, becomes internal and terrifying, and at the same time, which an agnition that saves, in diverse and subtle ways, such as the ‘noise of the heart’.
filetype: pdf THE INQUIRY OF EDGAR ALLAN POE

L’indagine di Edgar Allan Poe

di Andrea Galgano                                                                                        Prato, 27 gennaio 2013

 

Edgar_Allan_Poe_2_croppedIn una lettera al direttore del “Southern Literary Messenger” Thomas W.White del 30 aprile del 1835, Edgar Allan Poe scrive: «La storia dei periodici chiaramente dimostra come tutti quelli che hanno conseguito celebrità, ne siano debitori ad articoli simili per natura a questa mia Berenice, anche se, senza dubbio, d’assai superiori per stile ed esecuzione. Ho detto ‘simili per natura’. Lei mi chiederà in che consista codesta natura. Nel buffo esaltato a livello del grottesco; il pauroso colorato di orrido; lo spiritoso esagerato così da dar nel burlesco; il bizzarro, nel fantastico e nel mistico».

È, a chiare lettere, il varco della sua opera. Controversa, spesso non compresa, ma senz’altro vista come crinale di innovazione e di chiaro ingegno.

“Sapete perché ho tradotto Poe con così tanta pazienza – scriverà Baudelaire- perché mi assomigliava. La prima volta che ho aperto un suo libro ho visto con spavento e meraviglia, non solo dei soggetti che avevo io stesso sognato, ma delle frasi pensate da me e scritte da lui vent’anni prima”.

L’esagerazione, l’effetto, le accensioni dei suoi abissi percorrono i pertugi del sogno e della visione, laddove l’unità di effetto è veicolo per la condizione fascinosa e ipnotica dell’arte: «Tutto quello che vediamo o sembriamo/ è un sogno in un sogno soltanto». Lì si rinvengono le sue qualità che danno forma alle forme del grottesco e dell’orrido.

L’io, pertanto, si muove all’interno di un’anima senza tregua. L’origine del terrore ha tana nei fondali dell’anima e nell’emersione dell’abisso.

Come scrive Antonio Chiocchi, in un bellissimo articolo su Poe: “L’immersione negli incubi della realtà è, per Poe, l’unica via di accesso ai misteri della vita e dell’animo umano. Egli non cerca il linguaggio dentro cui rinchiudere l’orrido, il grottesco, il bizzarro; al contrario, batte alla ricerca dei linguaggi attraverso cui farli esprimere liberamente”.

La condizione onirica e visionaria, se da un lato emette il suo fascino indefinito e criptico, dall’altro partecipa alla scena del testo letterario, come un lancinante delirio, come un enigma che sprofonda nelle sue vette.

Già i suoi racconti, come Ligeia, Morella, Eleonora – raccolgono singolarmente e precipuamente un’angoscia essenziale, una sorta di cognizione, per cui i fatti non sono reali ma sono veri.

Le donne diventano guide mistiche, oggetto di investigazioni metafisiche e soprattutto ‘vita in morte’. Ogni personaggio femminile di Poe esprime questa potenza, con un potere liturgico, invocativo e magico.

Sono creature che agiscono in quanto “morte, morenti e moriture” (Giorgio Manganelli). Nella coniugazione della morte, Poe esprime la coscienza di un trapasso nel mondo del caos e infine del raggiungimento e disvelamento di una agnizione metafisica.

In essa si rivela, alla fine di ogni esperienza letteraria, il terreno della sua tensione, il varco che scandaglia il suo principium individuationis.

L’irrazionale, pertanto, confina con il razionale, quasi come una tecnica che, specie nel dettaglio, assume un’ampia propulsione, che veicola l’espressività dell’immaginario e del sublime.

In esso Poe fa transitare la sua esperienza letteraria nell’epifenomeno dell’avvenimento, che negli scarti e nei margini, afferma il suo «sprazzo di cose superiori ed eterne».

La mancanza di gerarchia, tra gli oggetti della scena, rivela l’ipnosi di un’iterazione visionaria. In uno dei suoi saggi T.S.Eliot giudica la potenza visionaria di Poe come primitiva, immatura e adolescente, sospesa nell’irresponsabilità dell’invenzione, della mania delle immagini, della delizia dei margini.

Ma l’io di Poe si nutre, avvolgendosi, della contemplazione, del ritmo dell’ordine, anche nel fragore dell’incubo più fosco: «Mi hanno chiamato folle; ma non è ancora chiaro se la follia sia o meno il grado più elevato dell’intelletto, se la maggior parte di ciò che è glorioso, se tutto ciò che è profondo non nasca da una malattia della mente, da stati di esaltazione della mente a spese dell’intelletto in generale».

«my passions always were of the mind», Edgar Allan Poe scriveva in Berenice, come l’io che si coinvolge nell’intelligenza delle passioni, nel racconto del delirio e nel binario di bellezza e morte.

Anzi l’iniziazione metafisica ha sempre un doppio movimento di paradiso e di inatteso, quindi di rivelato: «La mia giovinezza non fu che un’oscura tempesta, traversata qua e là da rade schiarite. Tuono e pioggia l’hanno tanto devastata che non rimane nel mio giardino altro che qualche fiore vermiglio».

Scrive Giorgio Manganelli: “L’orrore è dunque segno, indizio del negativo; è la follia per la rivelazione imminente e rifiutata; la vischiosità dell’incubo sostituita alla criptica lucidità del sogno”.

Il freddo paesaggio elegante e spettrale della sua pagina, con i filari di alberi piegati e edifici maestosi e lugubri, si incastona perfettamente nella solitaria presenza gotica, forgiata dall’ assenza e da una sensibilità straordinaria: « (…) vi sarà pur qualcuno che troverà di che meditare sui caratteri che io incido qui con uno stilo di ferro».

La dilazione di un’irresistibile attrazione verso l’oblio, la sofferenza oscura e limacciosa, come le ali di un corvo, che in una notte di tempesta si affaccia alla finestra e alla porta dell’anima di un uomo, risvegliano reconditi sospiri: aspirazioni e desideri traditi, una donna morta, l’esistenza che si spezza, una memoria che dilaga nel gelo, il gocciare del sovrannaturale.

La cronaca degli eventi, in Poe diviene una sfera mitica, poiché la fantasia e l’immaginazione, come già accaduto in Coleridge, si toccano e si combinano, anzi quest’ultima dispiega la sua armonia: «L’esatta differenza tra fantasia e immaginazione sta in una adeguata considerazione del mystic…Esso spiritualizza la composizione della fantasia e la solleva all’ideale.».

La parola che insegue l’incubo e la sua fascinazione, il gioco dei contrasti che sconvolge l’anima, che. In definitiva, si pone come effetto.

È la parola stessa che scopre l’identità, che abita il personaggio nella molteplicità delle sue prospettive, nella fisica dell’evento e del gesto. Qui entra in gioco la visione, disvelando, penetrando, scandagliando e restituendo lo sguardo analitico e immaginativo a ciò che essa stessa sintetizza.

Anche la metafora del viaggio iniziatico e decisivo nella dimensione dell’essere (Le avventure di Gordon Pym) sosta sulla sostanza dell’inesplorato, si concentra sul tremore che l’ignoto afferma nei giorni del vivere e del morire, come un battesimo di ombre.

In esse si cela l’incubo, il gancio a trappole mortali che non disdegna la mistificazione e la simulazione, ma che attraverso il suo potere risolutivo fa luce sulla scena dell’abisso.

Quando Paul Valery accosta il poema in prosa Eureka alla simmetria formale dell’universo, significa che l’impianto strutturale di Poe, vicino a Keplero, Newton e Laplace, si alimenta di analisi e sforzo metodologico deduttivo, poiché è in grado di classificare e ridurre le relazioni tra le cose. Il suo universo si riempie di un’impronta teologica, persino nelle luci livide o improvvise.

Ne Gli assassini della Rue Morgue, Poe introduce C. Auguste Dupin, detective che ispirò successivamente Arthur Conan Doyle, per Sherlock Holmes.

Sulla scorta di un personaggio reale Eugene Francois Vidocq, vissuto a Parigi e che da criminale e spia divenne persino capo della Polizia parigina, Dupin incarna appieno lo sguardo visionario del suo autore.

Dupin, pertanto, sconcerta il prefetto della polizia di Parigi, grazie alla sua capacità di ricostruire i meccanismi che hanno portato ai delitti: ogni indizio non è che un particolare fuori posto e quel che avrebbe dovuto destare meraviglia non è la soluzione, ma il problema in sé.

I funzionari della polizia nell’indagine criminale commettono l’errore di applicare il metodo del momento, ossia lo scambiare “l’insolito” con “l’astruso”.

È la realtà però ad essere più totalizzante e ampia. Quando Dupin si reca a Rue Morgue per indagare sull’orrendo e insolito delitto di Madame L’Espanaye e della figlia Camille, non solo si sofferma sull’atrocità, che è il primo dato di realtà che appare, ma parte dal particolare in esame, in tal caso insolito, per un ordito intricato, che già nella scena che si vede ha soluzione. L’assassino sarà un orango del Borneo, ma la scoperta avverrà per un senso stra-ordinario, la cui visione sarà determinante per la risoluzione.

Scrive Pietro Meneghelli: “Il detective utilizza il meccanismo della ragione allo scopo di illuminare le cose e le vicende umane; erede di una tradizione che dall’Illuminismo risale attraverso accidentati percorsi fino a Prometeo, vuole rischiarare l’oscurità e rafforzare le capacità razionali, ricondurre tutti quegli elementi che sfuggono alla comprensione razionale in una dimensione strettamente logica, riportando l’irrazionalità nella dinamica del raziocinio e spingendo l’intelletto oltre qualsiasi limite di conoscibilità”.

È un mondo che si forma dal disordine, e che attraverso la reductio ad unum si riporta a un ordine primigenio, sconvolto da ciò che, in quel preciso istante, accade.

La limpidezza di Dupin è una ragione che affronta la totalità e sconvolge la conoscenza, per riportarla alla luce. Qui avviene l’essenza della detection, che consiste nell’allineamento di elementi disordinati, per raccoglierli nell’interezza decifrabile di una visione prospettica, attraverso l’analisi e l’ apertura logico-deduttiva.

Anche nel racconto Il mistero di Marie Roget, ispirato anch’esso da un fatto di cronaca cruento accaduto a New York, gli universi ideali paralleli incrociano il loro percorso con gli universi reali.

L’universo onirico si trasforma in linguaggio simbolico, quando manifesta il delirio metafisico dell’anima, ossia quando, come afferma la citazione di Novalis all’inizio dell’opera: «Si danno serie ideali di eventi che si svolgono parallelamente ad eventi reali. Raramente coincidono. Uomini e circostanze in genere modificano la sequenza ideale degli eventi, così che appare imperfetta, e imperfette le conseguenze.».

È una chiave percettiva mitica che, partendo dal dato di realtà, tende a unirsi con il sogno, spesso in un labirinto a-temporale o in un lucido piano di morte.

La fantasia e l’immaginazione divengono lo strumento di una «suprema forma di intelligenza». L’invasione dell’inconscio conferma la gemma di una fantasia analitica e non già trascrizione di sogno, come egli scrive in Berenice: «Le realtà del mondo mi impressionavano come visioni e niente più che visioni, mentre le folli idee delle regioni dei sogni erano divenute, più che la materia dell’esistenza quotidiana, la mia esistenza per se stessa in assoluto».

La polizia fallisce perché fa dipendere la soluzione dell’atto criminale solo dall’ingegno, o potremmo dire, dalla “scientificità” dell’ingegno. Lo sguardo di Dupin, invece, è un viaggio della molteplicità nella mente criminale, lacerata e schizofrenica.

Il terrore è abitato dall’anima e appartiene all’anima. Quindi la vera investigazione è un cuneo tra gli eventi, essa si inabissa per accedere alla realtà esterna e per afferrare la natura altrui, sostando sulla materia nera dei propri anfratti, dimidiati ed erranti.

Lo scriverà Poe ne Il cuore rivelatore e ne L’uomo della folla, laddove la presenza della stanza del protagonista è un abisso di vertigine occulta e cupa, incomunicabile e diabolica.

Il rumore del cuore è più grande del piano omicida, che è come se venisse annientato e arreso. Ciò che mette in crisi l’assassino, non è l’uccisione, ma l’annientamento e la consunzione di se stesso. Quando l’identità si distrugge o si autodistrugge non c’è salvezza, l’anima è mutila, distorta, prigioniera.

Annota Antonio Chiocchi:” La narrazione carpisce l’orrore dai regni dell’immaginazione e lo rende storia. In questo modo, l’orrore è reso oggetto osservabile con il supremo distacco dell’analisi minuta. Il potere delle parole di evocare gli incubi dell’anima è anche un singolare potere di esorcizzarli e, via via, renderli familiari. (…) Il potere delle parole che scava negli incubi dell’anima è un farmaco del tutto particolare, in quanto consente il loro scandaglio liberatorio. Le storie di orrore sono, più propriamente, storie degli incubi dell’anima che, messi in forma narrativa, diventano un contesto che riusciamo finalmente a traguardare, vincendo l’arcano impulso di repulsione che ci “comanda” di rimuoverli. La storia e la trama narrativa divengono, così, lo specchio mobile dell’anima, mostrandone i recessi profondi e i movimenti reconditi. Un tuffo nell’orrore è un tuffo nell’anima, per farne il fondamento e la cura della propria vita. Sta qui una delle molle segrete dei racconti di Poe”.

Ne Il pozzo e il pendolo il protagonista, torturato e in sentenza di morte, perde conoscenza dopo la formula degli inquisitori, tutto assume la forma della dilatazione di oggetti e volti, e come uno spasmo, si ritrova avvolto nella interminabilità della notte, vuota e tremante.

Cosa è diventato? E cosa sta vivendo? È cieco? O Cos’altro? Dopo aver sfiorato i muri gelidi, inizia a prender coscienza della sua prigione e sembra trovarsi sul bordo di un pozzo a sfidare il baratro e l’orrore morale della morte. È in trappola. Una trappola di morte preparatoria a qualcosa di ben più grande, che inizia con la mancanza di alternative e finisce per trovarsi a guardarla negli occhi, senza controllo, o forse, l’unico, di scegliere in che modo morire.

Svegliandosi si trova legato ad un basso telaio di legno, libere sono la mano sinistra e la testa, con un po’ di carne su un piatto poco distante, in balia dei topi.

Dopo aver visto la sommità si accorge di uno strano quadro del Tempo che regge un pendolo, la cui lama tagliente è sospesa sopra di lui, incombente e minacciosa.

Un movimento e rischia che il suo petto venga tagliato nel mezzo. Intingendo i legacci con della carne e dopo che i topi riescono a rosicchiare le corde, riesce a salvarsi, ma improvvisamente i muri della prigione, divenuto incandescenti, iniziano a muoversi e diventare a forma di rombo per portarlo nel pozzo, al centro della scena. Riuscirà a salvarsi ancora per un intervento esterno, saranno i Francesi di Lasalle a tirarlo in salvo.

La follia sospinge verso il confine e il limite estremo dell’esistere. Un occhio immenso che guarda, una dimensione parallela che denuda e rende deboli, una incombenza che, minacciosa ed estrema, si fa interna e terrifica, e allo stesso tempo, un’agnizione che salva, in modi disparati e tenui, come il rumore del cuore.

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Giacomo Leopardi: L’infinito e il “quasi” nulla

di Andrea Galgano

Poesia Moderna                                                                                            Prato, 15 gennaio 2013

Il genere degli iRecanati_1995-07-25-21-7890dilli, in Leopardi, è associato sul piano tematico alla meditazione sull’infinito, sul tempo e sulla “ricordanza”, e, in tal senso, il poeta recanatese declina questa forma poetica come un’esperienza che investe la sfera conoscitiva, oltre che quella emotiva. Esempio rappresentativo e decisivo di questa nuova forma di lirica è certamente L’Infinito (1819), espressione di una tensione o meglio di una ‘finzione’ immaginativa, strettamente collegata alle pagine zibaldoniane. Scrive Leopardi nel luglio 1820: «[…]alle volte l’anima desidererà ed effettivamente desidera una veduta ristretta e confinata in certi modi, come nelle situazioni romantiche. La cagione è il […] desiderio dell’infinito, perché allora in luogo della vista, lavora l’immaginaz. E il fantastico sottentra al reale. L’anima s’immagina quello che non vede, che quell’albero, quella siepe, quella torre gli nasconde, e va errando in uno spazio immaginario […].»Lo Zibaldone ripercorre ex post i temi fondamentali della lirica ed è questo stretto rapporto tra i versi e i materiali del diario che induce Binni a vedere nell’Infinito un canto sorretto  “da un sobrio e solido processo intellettuale, da un movimento di esperienza interiore, quasi un itinerarium mentis in infinitum”.

Nella lirica, il senso dell’illimitato, come patrimonio della fantasia, e la dolcezza dell’abbandono del pensiero, temporaneo naufragio nell’infinito stesso, sono espressione di una tensione poetica marcatamente esistenziale, vissuta in un contesto memorativo in cui la natura si rende corporea presenza e  si rivela nell’intervallo tra il vicino sensibile e il lontano immaginato, come annota Ferrucci: ”non per nulla i due deittici “questo” e “quello” acquistano nel sistema leopardiano una fortissima energia connotativi con la doppia tonalità, che può capovolgersi di continuo seguendo il desiderio dello sguardo incarnato in un corpo nello spazio vivente, della tenerezza e dello sdegno”.

La meditazione sull’infinito è infatti complicata da un’indicazione temporale al v.1: «Sempre caro mi fu quest’ermo colle», che collega fulmineamente un particolare momento contemplativo a precedenti, analoghe esperienze. In questa prospettiva, un’esperienza determinata nello spazio e nel tempo acquista la durata e l’intensità di una ‘storia dell’anima’, di una ricerca del tempo perduto, che, una volta ritrovato, si riversa e si rifrange nell’hic et nunc. Il “sempre” iniziale è dunque una sollecitazione della memoria, che, in modo analogo a quanto avviene nel sogno, annulla i limiti di spazio e tempo. Il passato remoto che segue, accentua il motivo dell’assuefazione del ricordo, che rende le immagini percepite nel presente familiari e care. Una funzione decisiva, nel processo che porta dall’intermittenza della memoria all’esito finale del dolce naufragio del pensiero nella vertiginosa finzione degli spazi e dei silenzi, ha l’introduzione dell’elemento acustico (“E come il vento | odo stormir tra queste piante […]”, vv. 8-9), che consente il passaggio dal motivo dell’infinito spaziale (e della sensazione visiva), che occupa la prima parte del testo, a quello dell’infinito temporale (“E mi sovvien l’eterno […]”, vv. 11-12), veicolato dalla sola sensazione uditiva.Inoltre, la capacità evocativa della lirica è alimentata, sul piano dei significanti, dalla preponderanza di timbri vocalici carichi di ‘immobilità’, aperti con funzione fonosimbolica (“interminàti”, “spàzi”, “sovrumani”,”immensità”ecc…), dalla frequenza degli enjambements e infine dalla posizione delle parole tematicamente più forti nell’economia del verso; sul piano semantico, dalla ricorrenza di parole legate all’idea di infinito (ancora “interminati”, “sovrumani”, “profondissima”) e dall’uso di aggettivi  aulici e “pellegrini”, come “ermo” del v.1, che, posto fra parole piane e consuete, contribuisce a isolare ed evidenziare, assieme alla posizione di fine verso, il termine “colle”, che è il centro fantastico di tutta l’immagine. Da notare, infine, sempre a proposito dell’incipit, la forza individualizzante del dimostrativo, “questo”, che precede la parola “colle”, che, senza la minima concessione al descrittivo, rivela da solo un rapporto di antica e affettuosa consuetudine. Facendo leva proprio sul senso di negazione, di esclusione che lo imprigiona, lo sguardo del poeta tende intensamente a un ‘oltre’, al “sublime matematico”, allo sdoppiamento dello sguardo sul mondo teso verso la facoltà di concezione indefinita (se ne ricorderà Montale ne L’agave sullo scoglio: “Sotto l’azzurro fitto | del cielo qualche uccello di mare se ne va; | né sosta mai: perché tutte le immagini portano scritto: ‘più in là!’ “), a un infinito che l’anima scopre non nelle cose, ma ripiegandosi in sé, nel proprio centro, e che può essere figurato come spazio interminato, quiete profondissima, sebbene inattingibile espressione del nulla e pascaliana sproporzione di fronte all’universo. Introducendo una notazione acustica, lo stormire del vento convoglia nel testo il senso del moto, i temi della vita e del tempo. La percezione del tempo delinea una nuova ‘siepe’, un nuovo limite che spinge il poeta all’intuizione di ciò che è al di là del tempo, cioè dell’eterno, che sembra sommergere e annullare la vita fragile dell’io in una nomade vita nello spazio immaginario, come scrive Antonio Prete: “La poesia di Leopardi ha dato una forma, e un pensiero, e un ritmo, a questa presenza in cui pulsa il tempo-spazio di un infinito che neppure la poesia può accogliere e rappresentare ma può soltanto raffigurare per le vie vicarie dell’indefinito (…) La linea dell’orizzonte, impedita dallo sguardo, può diventare sorgente di un’immaginazione che, dopo essersi avventurata per i mondi di uno spazio sconfinato, interinato, avverte uno spaurimento e, ancora dopo un altro movimento del pensiero che tenta la comparazione tra il senza tempo e il pulsare del tempo presente, tra l’eterno e le morte stagioni, fa naufragio.”

Il carattere vago delle immagini si rapporta teoreticamente nel “narrare col dipingere” mantenendosi in una sorta di negligenza la quale offre al canto la gratuità di un dono. Nell’infinito dunque, oggetto della rappresentazione non è tanto il paesaggio reale quanto quello immaginato. A partire dal 1821, Leopardi insisterà, nello Zibaldone, sull’“indefinito” come fonte di poesia e nella Storia del genere umano parlerà a questo proposito di “spasimo”, di cui gli uomini sono, insieme, “incapaci e cupidi”. Il sentimento dell’infinito coincide infatti con lo slancio dell’immaginazione e con il desiderio di felicità. Il solido nulla non è quindi mera negazione delle cose ma è un quasi niente che, negando l’ente, ne mantiene la congiunzione con l’essere aprendosi alla vanità del mondo. Pertanto, il paradosso ontologico per cui l’immagine riflette l’imprecisione dell’esistente lascia trasparire la porta dell’ultima possibilità dell’assolutamente perfetto.

Scrive Roberto Filippetti: “La siepe è questo segno-limite che mentre divide afferma la presenza di un “ultimo orizzonte”. (…) l’uomo vero ha un’autocoscienza ‘simbolica’: è creatura ferita che porta nella carne un’immedicabile cicatrice, la radicale attesa di un ‘Tu’ che compia la vita.» L’infinito temporale, evocato per contrasto dalla stessa determinatezza delle espressioni “questo colle” o “questo mare”, è inteso come una sorta di ‘punto di fuga’ delle cose, delle quali il colle rappresenta il momento dell’oggettività, mentre il mare, nel quale il soggetto naufraga, rappresenta una dimensione interiore, che però diventa essa stessa parte del paesaggio naturale e si presenta dunque come oggettiva, versione del limite, della traccia e del segno, come bilico essenziale del finito e dell’infinito (in cui uno è segno dell’altro e rimanda all’altro), come annota giustamente Remo Bodei: “Al pari di ogni altro essere vivente, l’uomo, secondo Leopardi, desidera in maniera categorica un piacere infinito, ‘senza limite’ per intensità e durata. Soffre quindi quando si accorge dei suoi limiti. Persino nei momenti di maggiore godimento vorrebbe che esso fosse ancora più intenso”.

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« Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quïete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare. »

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COVER FRONTIERA DI PAGINE N. 1 ANNO 1 - 10.02.2013_Page_1

1° gennaio 2013

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 N. 1 ANNO 1     FEBBRAIO 2013

 

 

Frontiera di Pagine è un’esperienza di sguardo e di confine che cerca di confrontarsi in modo ragionevole per conoscere il mondo e esplorarne gli anfratti. Studiando e approfondendo lo sguardo poetico e narrativo, psicologico e artisti stico rappresenta il segno di una tensione a ciò che compie, al dato dell’esperienza.

Nata nell’agosto del 2011 e approdata come inesauribile dialettica, tra le attività del Polo Psicodinamiche di Prato, rappresenta la relazione continua verso lo stupore e ciò che ridesta lo sguardo  a quel che ogni esperienza poetica, letteraria, artistica e psicoanalitica reca in grembo: la memoria e la visione. Due atti coniugati al presente per raccogliere il reale, nel suo significato di azione viva.

È un progetto culturale che nasce dall’esperienza e raccoglie iniziative reali, come presentazioni, lezioni e seminari, volti allo sviluppo del gesto creativo, come scoperta e sensibilità.

In questo passaggio di rubrica si scoprirà ciò che alimenta il respiro, in una narrazione presente, un abbraccio di occhi tra sangue e respiro, come uomini veri e liberi.