Al quadro “Psicoanalisi” di Filippo Bosser-Peverelli

 

 

Psicoanalisi

«Tu che mi leggi, sei sicuro d’intendere la mia lingua?»

La biblioteca di Babele, J. L. Borges

 

“Psicoanalisi” di Filippo Bosser è, apparentemente, una silloge di campiture, sfumature, tessere, figure. La necessità di una lettura che abbracci l’insieme di un’opera, che ne dia in qualche modo una chiave di lettura, è impresa assai ardua poiché si pongono diverse questioni legate al metodo e allo stile e che rimandano in prima istanza alla coordinata dell’eclettismo e solo dopo un’analisi più approfondita all’arte cinetica.

Il titolo, che vuole essere autoesplicativo, esercita un condizionamento troppo forte per non tenerne conto.

La tela risuona di un gioco di voci e di un movimento, che nell’arcobaleno che soggiace alla coda del “drago” rimanda a un’eco futurista. Anche il mosaico di iperboli e arcosecanti vorrebbe essere una trigonometria delle emozioni che invece intessono il carapace di un terribile organismo dotato di una lingua biforcuta, che a sua volta lambisce il capo dell’esile ominide inginocchiato – bianco e netto e ancora privo di identità – in un battesimo archetipico, su un fondo di tenebra: niente di più lontano dall’apollineo e dal logos di una rivoluzione linguistica nell’arte. “Psicoanalisi” si rivolge non alle forze di una pittura grammaticale dichiarata, ma vuole chiedere al suo pubblico di intervenire perché possa aiutare il pittore a spiegare se stesso. “Psicoanalisi” è quindi, tautologicamente, una domanda, come lo è, infatti, la psicoanalisi stessa: il processo analitico non acquisisce un proprio senso se non si annida nel suo fondo il dubbio di un grave errore di destino e di pensiero, che ci ha fortuitamente condotto alla fonte-battistero nella cava bocca dell’inconscio. E così è il quadro in parola è, propriamente una domanda in movimento, un titanico punto interrogativo che si perpetua in tutte le forme sgorgate dai segni lasciati sulla tela: una curva che sottolinea la necessità di contemperare margini e vuoti, paura e risposta.

In altre parole, il lavoro è bipartito nella gestione dello spazio e nell’attribuzione stilistica, e le parti generano un’architettura autonoma alla stregua con cui Artifici e Il giardino dei sentieri che si biforcano divengono scheletro, anima e carne delle Finzioni di Borges. La zona centrale è definita attraverso le forme, in cui il colore è usato come medium occasionale; le aree laterali sono definite attraverso le rappresentazioni e i cromatismi.

E proprio come nelle “finzioni”, il gioco di voci e movimenti, di colori e di forme, deve essere visto come un tradimento dell’origine, per potervi tornare con piena consapevolezza.

Lo spazio “colorato”, nel senso che “è stato colorato”, di forma complessivamente ovoidale rappresenta la materia inconscia, ogni frammento un elemento sconosciuto del versante visibile del dio ctonio, il dionisiaco che in questa accezione è declinazione di una Mater Tenebrarum, inglobante, cui offrire in costante sacrificio la logica espressiva della ragione. L’inconscio ha la forma di un uovo a simboleggiare l’origine, il big bang, quel caos indifferenziato dal quale scaturisce la vita. La foce – la bocca che invagina e che perpetua la generazione di soggettività desiderante di un volto riconoscibile – delimita il mondo interno, offrendo una possibilità come l’esperienza terapeutica può fare, dotata però di strumenti fallici minacciosi, espressione di un logos ancora primordiale.

Da una parte, quindi l’atto pittorico sembra acconsentire al “disvelamento” psicoanalitico, dall’altra sembra avvolgere le gamme dell’arcobaleno in un mistero ancora oscuro e colpevole, come a significare non una mancanza di luce ma una restrizione di onda: un obbligo perpetuo a relegare le note emotive su un pentagramma che sta in coda a tutte le altre partiture. Ed è per questo motivo che i confini assumono grande rilievo, come a contenere quella gravità ultramondana che però è indiscutibile e unica origine di vita, che sembra voler esplodere dai margini delle singole tessere.

L’Ombra pittorica di Bosser  potrebbe essere Cy Twombly, mentre l’Io oscilla come farebbe il ramo di una scultura di Alexander Calder.

Irene Battaglini

Giugno 2014

a cura di Andrea Galgano e Irene Battaglini