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"Frontiera di Pagine Magazine on Line" Rivista di Arte, Letteratura, Poesia, Filosofia, Psicoanalisi, ... Lo sguardo poetico vive sempre di un’esperienza di confine. Ma è allo stesso tempo un modo ragionevole di conoscere il mondo, di esplorarne gli anfratti. Un fenomeno umano che si lascia sorprendere e invita a un viaggio e a una meta. La pagina scritta è il segno di una tensione a ciò che compie, al dato dell’esistenza. Attraverso questo strumento conoscitivo e antropologico, ciò che desta la nostra attenzione è sì un’esperienza di confine, spesso fratturata, ma è, per dirla con le parole di Luzi: un atto di “onore” per la realtà. L’esperienza del limite non appartiene solo al poeta in quanto tale, ma è caratteristica precipua di ogni esperienza umana. L’io ha bisogno del tu per completarsi e mettersi in relazione, e che possa, in qualche modo, vincere questa mancanza. Un qualcosa che poggia sull’oltre e che sia riconoscimento di una domanda. Un dono, un appiglio, un gancio. Oltre all’esperienza di stupore e di obbedienza devota, per dirla alla Auden, ciò che ridesta lo sguardo, con i gomiti appoggiati all’orizzonte, ci sono due termini decisivi per ogni esperienza poetica e letteraria: memoria e visione. Due atti coniugati al presente per raccogliere il reale. Si scrive ricordando, come messa a fuoco della memoria. Intesa nel suo significato di azione viva, per inseguire ciò che non si sa. Inseguimento duro che non si inventa. Un ricordo che non ricorda, scriveva Piero Bigongiari, per cercare la fodera di ciò che c’è e vederla, appunto. In questo passaggio di rubrica si scoprirà ciò che alimenta il respiro, in una narrazione presente, un abbraccio di occhi tra sangue e respiro, come uomini veri e liberi.

Else Lasker-Schüler, l’immersione nelle stelle

di Andrea Galgano  24 agosto  2022

Else-Lasker-Schüler

La sradicata tensione, la caduta come legame, la sfrontata immersione lirica che abbacina sogno e vitalità disperata («Con la Sua spina dorsale Dio formò la Palestina / Con un solo osso: Gerusalemme. / Cammino come attraverso mausolei – Pietrificata è la nostra Città Santa. / Pietre riposano nei letti dei suoi laghi morti / […] / Gli abissi fissano con durezza il viandante – […] / Ho paura, e non riesco a vincerla»), porgono il tempo di Else Lasker-Schüler, in tutta la sua dolorosa parabola.

Il suo magnetismo trasfigurato, lo sfarzo della lingua, come ebbe a dire Gottfried Benn, che esprime la eveniente sopravvivenza della nostalgia, segnano Il pianoforte blu[1], edito da Ibis, con cura e traduzione di Michele Gialdroni, l’ultimo libro di poesie, pubblicato in Palestina nel 1943, dove la poetessa tedesca di famiglia ebraica visse dal 1939, dopo che la Svizzera le revocò il permesso di soggiorno: «A casa ho un pianoforte blu / Ma non conosco una sola nota. / Sta al buio, dietro la porta della cantina, / Da quando il mondo s’è imbarbarito. / Suonavano quattro sideree mani / – La donna-luna cantava sulla barca – / Ora i ratti ballano nello stridore. / In pezzi è la tastiera… / Io piango la defunta blu. / Ah, cari angeli, apritemi / – Ho mangiato il pane amaro – / Già in vita la porta del cielo, / Anche contro il divieto».

Poesia di esilio, sentimento di feritoie[2] e dislocamenti, come gioco e dramma, la sua solitudine non è balba è magnetica. Qui la voce, come afferma Roberto Galaverni:

«appare quella di una sopravvissuta: alle speranze della giovinezza, agli anni d’oro della vita, al sogno di una superiore civiltà (l’armonizzazione tra le culture europea, ebraica, orientale), alla perdita degli amori, degli amici, e ancor più dell’unico figlio (Paul, morto non ancora trentenne di tubercolosi […]) […] Il senso d’abbandono e di posterità sono anzi così forti che questa sopravvissuta non sembra nemmeno poi così sicura di esserlo».[3]

Michele Gialdroni, nella postfazione, scrive:

«Il pianoforte blu è il giocattolo dell’infanzia, uno strumento che non si suona nella realtà (ed Else Lasker-Schuler effettivamente non sapeva suonare), eterna fonte di ispirazione per dei versi di purissima nostalgia e musicalità. Ma il calore umano della raccolta definitiva di Else Lasker-Schuler è tutto condensato nella soglia del libro: il disegno in copertina che la ritrae come Principe Yusuf nella stretta cerchia dei suoi amici, nella dedica in cui promette loro eterna fedeltà. E nella prima poesia “Ai miei amici”, che non rivela nomi e permette ai lettori passati e presenti e futuri, di essere ammessi alla corte del principe di tebe, quella corte che può essere nella casa di famiglia a Eberfeld, in un caffè berlinese o in una povera stanza d’albergo di Gerusalemme, e di rendere omaggio alla sua lucida follia, alla sua imprudente e vana promessa di vita eterna».[4]

La sua luce è fuorilegge, un fiore segnato, un dramma calibrato e fermato da una sproporzione, colta nella desolazione infiammata, in cui l’avversione è un contrasto di sguardo, un’opposizione lirica o un franamento, come un lampo che annusa le cose, si scontra con il nulla, si impasta con quel nulla mai innocuo, così vicino alla nascita e alla saturazione di nubi. Il tempo è un rovescio che appartiene al passato, all’infanzia, alla giovinezza. È il territorio del buio, del sonno, della morte:

«Non la morta quiete – / Son già riposata dopo una placida notte. / Oh, espiro il soffio del sonno, / Mentre ancora cullo la luna / Tra le mie labbra. / Non il sonno della morte – / Già discuto con voi / Celestiale concerto… / E prorompe di nuovo la vita / Nel mio cuore. / Non il nero passo dei sopravvissuti! / Sonni calpestati frantumano il mattino. / Stelle coperte da un velo di nubi / Nascoste al mezzogiorno – / Ritrovarci così ancora e ancora. / Nella casa dei miei genitori / Abita ora l’angelo Gabriele… / Vorrei proprio celebrare lì con voi / In una festa la beata quiete – / Si mischia l’amore con la nostra parola. / Dal molteplice addio / salgono stretti l’un l’altro i filamenti dorati, / E non c’è giorno che non sia dolce / Tra il bacio melanconico / E il rivedersi! / Non la morta quiete – / Così amo essere nell’alito divino…! / Sulla terra con voi già in cielo. / Dipingere di mille colori su sfondo blu / La vita eterna!».

Fausta Antonacci, a tal proposito, scrive:

«La sua infanzia ha una funzione salvifica e risanatrice, vi torna sempre per lenire le sue molteplici ferite, nel corso della vita. Una infanzia che viene recuperata attraverso il ricordo, ma poi trasfigurata dal linguaggio poetico, una infanzia vissuta nuovamente e trasmutata per bonificare il ricordo e rendere il presente sopportabile. Non si tratta tuttavia di una finzione, ma di un processo di eufemizzazione, che tiene insieme l’immaginazione (come facoltà del possibile) e la memoria (come facoltà di rielaborazione)».[5]

I rapporti con l’arte selvaggia e ossessiva di Kokhoschka, Kraus e la sua esattezza, Benn e il sottosuolo lirico, Marc e il tragico azzurro di Trakl recano incisività alla sua poesia, che porta il senso del ritorno e della contraddizione e scaraventa aridità e nudità di luoghi:

«Potessi tornare a casa – / Si spengono i lumi – / Si estingue il loro ultimo saluto. / Dove devo andare? / Oh madre mia, lo sai? / Anche il nostro giardino è morto!… / Giace a terra un grigio mazzo di garofani / In un angolo della casa materna. / Aveva ricevuto ogni cura. / Coronava il benvenuto ai cancelli / E si è consumato tutto nel colore. / Oh cara madre!… / Emanava rosso di sera, / Al mattino soffice nostalgia – / Prima che il mondo finisse nell’infamia e nelle pene. / Non ho più sorelle né fratelli. / L’inverno giocò con la morte nei nidi / E la brina gelò tutte le canzoni d’amore».

Ma l’apice di Else è il suo Heimat, la sua agnizione, la sua catarsi nata in esilio, scontratasi con il vento violato, le strade chiuse, la percezione avvolta di un dolore, vissuto nello scioglimento lessicale, nella necessità di una concordia oppositorum. Il suo contro-orizzonte, come dice Galaverni, vive lo sperdimento della separazione dei preludi, la patria negli occhi («Bisogna percepire l’attimo dell’amore, / Quando vediamo reciprocamente la patria negli occhi. / Dolce miraggio sul pendio del nostro amore, / Fiorisce dai cactus la regina della notte»).

L’appartenenza, il disorientamento («Viene la sera e mi immergo nelle stelle / Per non disimparare nell’animo la strada di casa / Anche se il mio povero paese da tempo si è velato a lutto»), la passione naturale, l’ispirazione verso l’invisibile si concentra nella parola, nel volto e nella luce del suo sguardo, che toglie ogni aratura davanti al Divino, respirando la tensione dell’eterno e della sua trasfigurazione, del lavoro archetipico dell’anima, della infinita rastremazione dell’io.

Fausta Antonacci afferma:

«L’appartenenza e il disorientamento, l’Oriente e l’Occidente, la notte e il giorno, l’amore e la solitudine, il riconoscimento e l’abbandono, sono tra i poli più faticosi che ardono, nelle sue parole, in cerca di conciliazione. Tale tensione è carica di sofferenza, perché la passione amorosa di Lasker-Schüler è intrecciata alla passione per la natura, per il creato, per Dio, che testimoniano sempre una distanza, uno scarto, una impossibilità di sostare nell’unione mistica, alternando la felicità più folle all’angoscia e alla disperazione. […] Il poeta non è immune dall’ansia di sentire una concreta rispondenza nel cuore del lettore, di sentirlo palpitare all’unisono col proprio battito creatore. Lasker-Schüler, come ogni artista sente una incommensurabile distanza tra il suo desiderio di comunicare e le sue capacità espressive. E sente che nella sua opera, pure intrecciata tra diversi linguaggi (poetico, figurativo, performativo), persiste una distanza tra le cose e la loro dicibilità, permane un non detto, impermeabile a qualunque forma espressiva. Eppure questa distanza non placa la sua fame di contatto col mondo che rimane assoluta, feroce, iperbolica».[6]

Nel cuore giocano paradisi[7], nonostante il sentimento della fine, del dolore in terra («Il mio cuore riposa stanco / Sul velluto della notte / E sulle mie palpebre si posano stelle…») e l’amore stellato induce la veglia al riposo, alla stretta, allo schiudersi delle labbra. Else fiancheggia l’amore («Io barcollo sul prato dorato del tuo corpo, / Brilla lungo il sentiero d’amore la ghiaia adamantina / E anche al mio grembo / Portano turchesi d’ogni colore»): «Io sogno così lontano da questo mondo / Come se fossi morta / E non fossi più incarnata. / Nel marmo del tuo gesto / la mia vita si ricorda più vicina. / Eppure io non so più le vie. / Ora la sfera scintillante mi avvolge / Gravemente nell’abito di diamante. / Ma io annaspo nel vuoto».

 

[1] Lasker-Schüler E., Il mio pianoforte blu, cura e traduzione di Michele Gialdroni, Ibis, FINIS TERRAE, Como – Pavia 2022.

[2] “Io costeggio l’amore, da tanto tempo vivo dimenticata – nella poesia”: vorrei accarezzare la povertà di Else Lasker-Schüler (www.pangea.news/else-lasker-schuler-ritratto/?fbclid=IwAR0FRoyi7p7tHnHS7sFrWrR4N080Axsn7sav6beVSn05ChjXJxjbo).

[3] Galaverni R., Il lirismo che unì ebraismo e tedesco, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 14 agosto 2022.

[4] Gialdroni M., Amici per sempre, in Lasker-Schüler E., cit.  p.99

[5] Antonacci A., “In vita muoio e con le immagini rinasco”. Il cuore poetico di Else Lasker-Schüler (http://www.metisjournal.it/metis/anno-vi-numero-2-122016-cornici-dai-bordi-taglienti/192-saggi/871-in-vita-muoio-e-con-le-immagini-rinasco-il-cuore-poetico-di-else-lasker-schueler.html?fbclid=IwAR0Mr0CRvP0mFu8Q7qWZsrylA42xLDjs0MM-nltkNW7z812oX1jCa9vdCUA).

[6] Antonacci A., cit.

[7] «Sono profondamente scossa, la mia anima si è dissolta, da essa sgorgano smeraldi e rubini e zaffiri, anche pietre di luna come sorgenti variopinte. […]. Non ho quindi più nessun segreto, il mio cuore non riesce più a conservarne alcuno e il mondo può disporne. Onde marine portano a riva i suoi segreti, si risveglia all’alba e muore al tramonto. Ma il mio cuore è sempre di seta, lo posso chiudere a chiave come un portagioie». (in Lasker-Schüler, Il mio cuore e altri scritti, traduzione e nota critica di Margherita Gigliotti e Enrica Pedotti, Giunti, Firenze 1990, p. 71).

Lasker-Schüler E., Il mio pianoforte blu, cura e traduzione di Michele Gialdroni, Ibis, FINIS TERRAE, Como – Pavia 2022, pp.106, Euro 12.

Lasker-Schüler E., Il mio pianoforte blu, cura e traduzione di Michele Gialdroni, Ibis, FINIS TERRAE, Como – Pavia 2022.

  • Il mio cuore e altri scritti, traduzione e nota critica di Margherita Gigliotti e Enrica Pedotti, Giunti, Firenze 1990.
  • Ballate ebraiche e altre poesie, introduzione, traduzione e note di Maura Del Serra, Giuntina Firenze, 1985; II ed., ivi 1995, con nuova introduzione ed alcune variazioni testuali e bibliografiche.

“Io costeggio l’amore, da tanto tempo vivo dimenticata – nella poesia”: vorrei accarezzare la povertà di Else Lasker-Schüler (www.pangea.news/else-lasker-schuler-ritratto/?fbclid=IwAR0FRoyi7p7tHnHS7sFrWrR4N080Axsn7sav6beVSn05ChjXJxjbo).

Antonacci A., “In vita muoio e con le immagini rinasco”. Il cuore poetico di Else Lasker-Schüler (www.metisjournal.it/metis/anno-vi-numero-2-122016-cornici-dai-bordi-taglienti/192-saggi/871-in-vita-muoio-e-con-le-immagini-rinasco-il-cuore-poetico-di-else-lasker-schueler.html?fbclid=IwAR0Mr0CRvP0mFu8Q7qWZsrylA42xLDjs0MM-nltkNW7z812oX1jCa9vdCUA)

Belski, F., Wo soll ich hin? Else Lasker-Schüler e i luoghi della poesia. Aracne, Roma 2009.

Galaverni R., Il lirismo che unì ebraismo e tedesco, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 14 agosto 2022.

Beatrice Viggiani, la superficie del vento

di Andrea Galgano  22 agosto  2022

Beatrice Viggiani

Oreste Lo Pomo, a ragione, quando parlando della visionaria e fulminea poesia di Beatrice Viggiani afferma, da un lato, l’importanza del «racconto di una elegia con l’alfa privativa il cui risultato è il rifiorire di una stagione dei ricordi e degli affetti senza gli stereotipi che spesso li accompagna e l’approccio di “contrattazione e razionalità”, dall’altro della poesia del mondo, che appartiene al mondo, non già di due mondi, come spesso la critica sostiene.

I poeti abitano i mondi dell’indicibile, dell’invisibile e del visibile, sostengono la fisica della realtà, ricercano l’essenziale, che è il mistero che solca segni, visioni, cifre e smottamenti dell’anima: «L’acqua era pura come il cielo / e la stella lasciò segni / dove ti fermasti amore / stringesti i miei capezzoli / turbasti la mia virtù e il mio sangue / per poi spegnerti come candela / e raddoppiare / il circolo implacabile / della solitudine».

O ancora: «e noi / avvolti in nastri lucenti / infinitamente dolci, / continuiamo a baciarci. / L’aroma indefinibile / della vita / aggrediva il tempo. / Avevamo affittato / il castello dell’amore eterno, / a scadenza fissa / e senza cedimento».

La raccolta postuma di Beatrice Viggiani, 41[1], edita da Universosud, riporta un tempo inedito, un’alterità ultima, viva come la coltre del linguaggio, che sembra sospendersi, abbracciando le linfe che sostengono il suo habitus poematico, la sua spaesante potenza di inizi, il ritorno delle cose.

Lo Pomo scrive:

«[…] superando gli steccati del provincialismo poetico, non ha dimenticato le radici culturali della sua terra d’origine, la Basilicata, ma le ha sparse come cenere al vento dovunque è andata e lei stessa si è confusa con il vento, trasportando in esso il senso profondo dell’appartenenza senza incorrere nella retorica della ghettizzazione territoriale mal sopportata da quelli che sono stati definiti i poeti della diaspora, proprio perché nel volersi e – nella maggio parte dei casi – doversi allontanare dalla Basilicata, senza dimenticare le fonti dell’ispirazione, non sono stati sopraffatti dallo stucchevole rito della celebrazione a tutti i costi».[2] (p.7).

Giampaolo D’Andrea, nella postfazione, ricorda:

«La nostra poetessa, vissuta e formatasi tra Napoli e la Basilicata, a Potenza, tra la fine degli anni 50 e i primi anni 60, stabilì un rapporto intenso con gli artisti, gli scrittori e i poeti che si ritrovavano, abitualmente, nella piccola libreria Riviello (nel tratto finale della centralissima via Pretoria prossimo a Portasalza) a parlare di cultura e di politica, a leggere Scotellaro, Levi e Olivetti, a sognare, a progettare, a cominciare a scrivere e pubblicare, come capitò anche a lei già nel’62, a quattro mani con Tuccino Riviello».[3]

Beatrice Viggiani insegue l’oltre-confine dell’arte, come rivela in quella intervista di identità e rilievo, concessa a Leonardo Pisani, nell’occasione della riedizione di 53, scritto con Vito Riviello, a cura di Giulia Ughetta e Maria Isabel Gouverneur. Nella sua sproporzionata lontananza, sente le radici dell’appartenenza e delle origini (o meglio del sogno delle origini), e se di diaspora si tratta, essa diviene l’inizio di uno spostamento di suono, una torsione delle possibilità linguistiche, che partendo dalla perfetta fusione di idioma e realtà, lessico e dinamica narrativa, tendono a offrire il sorgivo dischiudersi dello sguardo:

«Napoli non si afferra dal cielo / e nemmeno dalla terra. / Napoli eccentrica obliqua / marina, / disfandosi. / Napoli non si sa. / Napoli piena di spettri ufficiosi / leggeri come morti. / Napoli di promesse e addii / di tiepidi tegoli / di argille rosse e gialle. / Napoli azzurra e scintillante / che ride alto / anche sulla sua agonia, / Napoli dove i fratelli ci sfioravamo i piedi nudi, / e quando passava il pipistrello, / zittivamo».

In poesia non esistono le periferie, i margini, i non-luoghi: tutta la realtà è segno, a volte riconosciuto e incontrato, altre volte come un acquerello appena accennato. Il segno dell’esistenza di Beatrice Viggiani è il “problema” dell’esistenza, o meglio, dell’essere, della fine e dell’inizio, del mondo come violenta dolcezza, il tragico lirico e la passione vivificante.

Le sue volute si concedono cromature oniriche, la lingua è leggera (riportando il senso, caro a Valéry, di disposizione e dimora: «Abito il linguaggio / perché / la lingua è leggera / e non pesa come la carne»), dove il paesaggio consegna una disposizione e una rapina di silenzio, il bilico di una trasparenza: l’amore, la luce vettoriale, la frattura indefinibile dell’anima, le stagioni partorienti della pioggia.

E poi le città, che in Beatrice Viggiani, diventano quello che Milosz chiamava «fodera del mondo», le illusioni di un possibile dissetamento:

«In città incandescenti / seppellimmo ghiacci. / Ci prese un lungo tempo, / quasi una vita. / e adesso che ci siamo perduti, / pietre preziose, / sappiamo che non ci siamo avuti, / spine e rose. / Né stavamo / al fondo della casa, / che sarebbe bastato attraversarla / per incontrarci, / né per strade. / Sopra tutto nutrimmo l’illusione / che tanta acqua / ci avrebbe dissetati».

In questa poesia, luminosa e umbratile, l’assetto dei segni lascia immensità duali, case di cedro e sandalo, dove emergerà l’eterno delle totalità degradate di «fucine, giardini, peccati», lo stupore della sproporzione, la terra promessa, il domicilio di nubi e pietre: «Solo una ragnatela di sguardi / difende Villammare / dalla perfezione della luce / in questo tratto di costa / lontana da ogni vilezza / nei cieli affocati / del Mediterraneo. / La dolcezza dell’estate / s’intrufola in caverne / svelate da grotte marine / nei giorni trasparenti / mentre turchesi inattesi / affiorano in mare».

Il posizionamento della controra è una visione in cui la labilità di ogni passaggio e paesaggio in transito copre gli anni e le stagioni («Alla controra deserta e ardente / la costa crespa di cespugli e ibiscus / tra una curva e l’altra / tra una collina e un torrente»), concede il profumo-respiro degli oleandri e dei gelsomini e il cuore è nomade, come Maratea e la sua aperta reticenza di roccia e di mare.

E le sue figure ieratiche, come accadrà nel ritratto di Zietta, sussurro di occhi e terre nuove: «Mentre il cielo ride / vibra nell’aria / un pulviscolo di vuoto / e la realtà / tende a saltare sui sogni / nei ricchi sciali / di mangianza / ventiscata dalla brezza marina / profumata di oleandri e gelsomini».

La ricchezza visiva delle sue tensioni si ammanta nei dettagli, nei segnali della realtà, nelle speranze sognate, dove la superficie delle cose, che assomiglia a un viaggio di orizzonti spaesati, riporta domande elementari, in cui lo splendore venezuelano, che ha assaporato dal 1969 al 2005, ha riposi fosforescenti «di spiaggia calda di destino»: «le tue tempie ondulate / di uccelli e palme / sono diventate le mie tempie, / Venezuela». Anche il bacio dell’amore è nitente nei suoi bagliori chiari.

Beatrice Viggiani ha disegnato l’essere, la nostalgia, il tradimento e il rimpianto, scoprendo la sorvegliata tenerezza di uno scialacquio visionario, una incipiente voluttà di tocco convesso e dedizione al reale.

[1] Viggiani B., 41, Editrice Universosud, Potenza 2022.

[2] Lo Pomo O., Versi nel vento, in Viggiani B., cit.

[3] D’Andrea G., Un’anima, due patrie, in Viggiani B., cit., pp.152-153.

I veleni e lo champagne di Dorothy Parker

di Andrea Galgano  19 agosto  2022

Dorothy Parker

La poesia di Dorothy Parker (1893-1967), ora pubblicata da De Piante Editore, con un testo dal titolo Veleni & Champagne. Poesie dell’età del jazz (1926-1931)[1], a cura di Silvio Raffo, è un suolo di confine, in cui l’ironia, la sfrontatezza, l’assertività umbratile, la piccola linfa di superficie approfondiscono un’istanza libertaria, un riflesso teso, una favola perfida.

Daniele Piccini scrive:

«[…] le poesie sono probabilmente destinate a durare più a lungo dei suoi celebri racconti, pubblicati sulle riviste alla moda dell’epoca, prima di essere raccolti in volume. Questi ultimi, i racconti, descrivono con occhio vigile e acuto un mondo, una società, con le sue fittizie virtù, le sue falsità, i suoi rituali. (…) Ma le poesie sono più straziate e sincere: il punto di osservazione si sposta all’interno, verso il cuore della scrittrice, che non è più personaggio mondano, maschera, leggenda, ma creatura vulnerabile, bisognosa d’amore, un amore sempre contraddetto e faticoso, pieno di tradimenti e delusioni. Da dove potesse venire la fame di affetto che queste poesie denotano forse lo può suggerire (ma è una risposa di per sé parziale e dubbia) la biografia di Dorothy Parker (Parker è il cognome del primo marito, sempre mantenuto in seguito: lei era nata Rothschild), che perse la madre a soli cinque anni ed ebbe un rapporto difficile con la matrigna e il padre».[2]

Se l’Algonquin Hotel rappresenta una vertigine di vuoto nei Roaring Twenties, un luogo di impudente voluttà, poggiato in bilico, tra gossip, la finta e sgargiante promessa delle paillettes, la ricchezza allegra e audace, ma anche il collante del cinema, dello spettacolo, come aveva ben evidenziato Francis Scott Fitzgerald, raffigura, soprattutto, l’illusione oscura, l’irraggiungibilità scheggiata che si impone come orizzonte sottile e fragile desiderio messi a nudo: «Tu non sai quanto pesa questo cuore / sospeso al collo – rozza pietra incisa / delle tre date: nata, morta, sposa. / Me la ritrovo addosso a ogni amore / chi se la prende?) che mi grava il petto – / e ora a questo, e ora a quel signore / cerco di offrire l’aborrito oggetto».

Dorothy Parker abita questo punto di fuga dissacrante alla Round Table. È il suo spazio di sguardo sfrangiato e illeso senza ipocrisie, sorpreso tra l’orfanità materna e l’ostilità, la critica mordace e il fulmine della beffa, il classico lambito e l’avamposto caustico.

Ma attraverso la sua impetuosa collezione di prospettive, il suo grido acuto, la sua torsione, evidenziata dalla totale assenza di filtri, come si poteva leggere su “Vanity Fair” e poi sul “New Yorker”, è più della sua agrodolce austerità, che non rilascia tempi dolci o edulcorati, bensì elabora un corpo a corpo, una sensazione di contrasto, un rilievo attonito in frantumi[3]:

«La Gioia fu con me per una notte – / era giovane, bella, senza freno – / con la luce del giorno se ne andò / e mi lasciò dov’ero. / Venne da me il Dolore / e giacque sul mio seno; / con me per tutto il giorno camminò, / e mi conobbe appieno. / Non sarò mai una moglie, / e nubile nemmeno. / Così, per ora, vivo con l’Orgoglio – / un freddo concubino. / Sordo e cieco dev’essere. Altrimenti / come potrebbe ancora tollerare / che ogni giorno il Dolore / torni con me a flirtare?».

Il suo rilievo è, innanzitutto, il duro pugno della vita: i matrimoni finiti o la perdita materna hanno sfibrato e alimentato la sua arguzia sottile, lambendo il fallimento e avvolgendo il suo essere di una sproporzione, legando i colpi della vita alle sue rasoiate, la malinconia alla pura allegria delle cose, il cuore all’illusione, l’osservazione alla sinestesia del centro dell’essere, la purezza alla morte: «L’amore m’ha piantata / in asso, ma pazienza; / potrò anche farne senza, / e non sarò la prima. / La gioia è dileguata? / Di nuovo non c’è niente; / continuerò il cammino – / e non sarò la prima. / Preparatemi la bara, / ora sì che sono in lutto: / il mio odio è morto tutto, / e che cosa mi rimane?».

O ancora:

«So d’esser stata felice a te accanto; / ma ciò ch’è stato è stato, e così sia. Non giova a nulla struggersi nel pianto – / chi lieto visse, sfida l’agonia. / Non farò versi per un cuore infranto; / tu che sei un uomo sdegni le mie lacrime; / se la mia fede ti volessi offrire / ne avresti una paura da non dire. / Ma è questa d’ogni donna la mania: / un dono dopo l’altro dare, dare / la più dolce per lei delle emozioni. / A te che non hai chiesto promesse né canzoni / regalo la mia assenza per l’intera vita mia; / per dopo, nulla ti posso giurare».

Scrivere dell’allegria è un talento essenziale (qui diventa un gioco leggero e crudele, «di un’abissale, tragica solitudine»[4], come afferma Silvio Raffo) e pur non amando i suoi testi di poesia o i suoi racconti (che trovava sciatti e disordinati), Dorothy Parker è autrice di concetto-mondo. Il concetto, la resa verbale, la frase o il verso divengono l’indizio del mondo: «Con l’Amore al mio fianco ero senza parole; / lui sbadigliava, e decise di andare; / ora ho il Dolore appeso ai lacci del grembiule, / e non smetto un istante di parlare».

Non porgendo alcuna linea di lirismo, la sua traccia poetica diventa lama sottesa, qualcosa che assomiglia a un dito in aria, che non lascia fili sospesi, per dirla alla W.S.Maugham, ma che attraverso la forma ordinata, il lato ridicolo e grottesco dell’esistere, la chiarezza e l’incanto, sente la concentrazione del colore e del dolore, l’appartenenza poetica a Edna St Vincent Millay e la sua frivolezza diviene una fecondità arguta e acuminata, riunita per sorprendere, togliere il superfluo del fiato nel teatro della grazia, come sottolinea Fernanda Pivano: «E quando te ne vai non c’è foglia né fiore, / né mare notturno che canti, né uccelli d’argento nel sole; / io posso solo, attonita, dar forma al mio dolore / in piccole parole».

Ogni stoccata, ogni categoria di spirito, ogni tensione diventano viva ebbrezza, un tempo sfrangiato, irraggiungibilità sperata, dannazione e dilapidazione, sguardo verso la società, non depennando, ma con un fumo di sogno in piedi: «Su terra dolce, giovane, gremita di mortelle, / a lungo noi giacemmo, a Maggio appena nato; / nelle sue tracce il salice la luna avviluppava, / la rosa in boccio rugiada stillava. / E ora giaccio su franose zolle, / muore l’anno e coi suoi morti sto pregando di morire; / il gambo della rosa è nero e secco, / il salice dal capo scuote il vento».

 

[1] Parker D. Veleni & Champagne. Poesie dell’età del jazz (1926-1931), a cura di Silvio Raffo, De Piante Editore, Busto Arsizio (Mi) 2022.

[2] Piccini D., Dorothy Parker canta il jazz di Catullo, in “Corriere della sera – La Lettura”, 7 agosto 2022.

[3] Camprincoli A., Dorothy Parker. La poetessa che sciolse il dolore nello champagne, in “Libero”, 10 agosto 2022.

[4] Raffo s., «Questa vita ti giuro non è stata idea mia», in Parker D., cit., p.15.

Parker D. Veleni & Champagne. Poesie dell’età del jazz (1926-1931), a cura di Silvio Raffo, De Piante Editore, Busto Arsizio (Mi) 2022, pp. 170, Euro 16.

L’amore di Manuel Vilas

di Andrea Galgano  31 maggio   2022

L’amore di Manuel Vilas

Amor[1] di Manuel Vilas è un’antologia di poesie, uscita per Guanda, nel 2021, che unisce vent’anni di testi da El cielo del 2000 fino agli ultimi anni, passando per Resurrección (2005), Gran Vilas (2012) o El hundimiento (2015).

L’ironia, l’autoparodia, la colloquiale intimità, gli amori franti, la lingua della scrittura che insegue i ritiri del mare e le mandorle nere dell’oceano, le epoche remote e scomparse, le donne come avamposto infinito, concentrano e ispessiscono la sua coltre di silenzio, la critica feroce, i viaggi di tempesta, il sangue nuvoloso dell’estate, e ancora gli abbandoni feroci e le periferie isteriche dell’anima, nel deposito della memoria.

Dove scorrono istantanee di sogno e ricordo, Ezra Pound e Venezia con il maturo sole del cielo:

«Tutta la notte a sognarti, ho passato la notte intera / a sognare di baciarti nel cortile di una chiesa vicino al mare. / Quanto sono stato innamorato di te, e non te l’ho mai detto. / Lo intuivi? Lo desideravi? Lo supplicavi? / Avevi sei anni più di me, eri più esperta della vita, / non uscivi di testa come me, ma eri moderata e prudente, / anche se piena di amore dentro, amore per me, / per me, che ero un tipo del tutto smarrito, e quello sì / si notava a prima vista, e come mi ricordo delle tue mani / e del tuo sorriso, tutti gli amanti si ricordano delle stesse cose, / solo che io non sono mai entrato nel tuo letto, sono anni che immagino / come si doveva stare nel tuo letto, un giorno me l’hai mostrato / ma niente di più. E adesso mi sveglio e ho sognato che ti baciavo, / e sono le dieci del mattino di un’estate monumentale / e sto già bevendo un gin, così,a  digiuno, ed esco / sul terrazzo della mia stanza e vedo i turisti stendersi / sulla sabbia, e penso che potresti essere qui con me, / quanto sono stato innamorato di te e quanto lo sei stata anche tu, / e quanto abbiamo fatto male a non esserci rotolati mille volte / in mille letti […]».

La vita vissuta è un lungo racconto di righe e sogni, innocenze velate e rumori di esistenza, gioie spezzate e solitudini marchiate nell’oscurità,  come una conchiglia di mare ascesa al cielo o l’inesauribile tremore della passione svelata e smodata, allo stesso tempo (Storia di una cameriera).

La vertigine prosastica di Vilas qui raggiunge un acme di bellezza rarefatta. Sembra non esservi posto per la lirica, eppure emerge una fantasmatizzazione raddensata e o-scena, una sete impudica, un’estate pagana:

«A volte mi innamoravo di qualche donna appena intravista / al tavolo di un ristorante, una donna con un vestito bianco, / sui trent’anni, forse trentacinque, altre volte / mi rifugiavo nei musei dell’arte, rimanevo per ore / intere / davanti alle tele di Delacroix, o andavo nei cimiteri / in cui avevano seppellito i poeti del secolo passato, / sempre solo, sempre desiderando di essere ancora più solo, / sognando / una solitudine più dura, più grande, e con lei una perfezione impossibile».

E poi il candore umbratile della luce, il suo mistero, il nitore della fine dell’intimità, i suoi vestiti sparsi, la bocca e il sesso, l’altrove lontano e la paziente oscurità.

In McDonald’s, la grande scena di vita quotidiana a Saragozza si oppone alla gioia spezzata, al melting pot, il tacco dello stivale sopra la pozza di un gelato alla crema disfatto («Una crema bianca, spezzata. / Arde il sole senza tempo, bolle la mano sporca»), noi «Da McDonald’s, lì, siamo lì. / Carne abbondante per tre euro», e come commenta Luigi Sepe Cicala, «Siamo dunque chiamati ad una scelta esegetica: Vilas sta davvero tessendo le lodi di McDonald’s o ci vuole suggerire che siamo noi consumatori, in fondo, ad accettare di farci ‘carne da macello’, di essere ‘spolpati’, sfruttati e soverchiati dalle multinazionali in cambio di prezzi stracciati?».[2]

L’elegia postmoderna[3] della sua macchina pronta a essere demolita, « si lancia in una parodia dell’uomo della classe media, affezionato agli oggetti più che alle persone, parodia in cui il poeta, negli ultimi versi, sembra parafrasare le parole di uno spot pubblicitario[4]», le strade illuminate, il bacio al mondo buono, lo stupore innocente per la realtà, che pur impastandosi con il limite delle cose, le ama, le possiede, le vive, solcano il suo amore, come intitola il testo che dà il nome al libro, che guarda alla falsa finzione della società borghese e al suo tornaconto.

Laddove sembra esserci parodia, dissacrazione lirica, sgomento ironico vi è solo uno sguardo di disincanto o illusione sul mondo, la povera umanità, la piccola gloria e l’infimo combattimento con la morte.

Ci sono testi selvaggi, prose ritorte, liriche spezzate come uno specchio in disordine, parodie sofisticate, solitudine che rammemora, hotel decadenti.

L’invincibile purezza, il patteggiamento con l’abisso, il ricordo frantumato, il corpo-altro, sembrano crollare, ritorcersi, annullarsi, ma poi la nudità dell’essere, il porgersi senza filtri, i dettagli distratti, le prime e terze persone, sono il segno vero dell’anima attorcigliata che ama, si dispera, lotta contro il vuoto generale di tutte le cose, il terrore, la propria genesi che cerca salvezza o, forse meglio, redenzione dei baci come le rose.

Vilas M., Amor, Guanda, Milano 2021, pp. 240, Euro 19.

Vilas M., Amor, Guanda, Milano 2021.

Sepe Cicala L., L’amore fra le righe di Manuel Vilas, (www.rivistaclandestino.com/lamore-fra-le-righe-di-manuel-vilas/), 24 maggio 2022.

[1] Vilas M., Amor, Guanda, Milano 2021.

[2] Sepe Cicala L., L’amore fra le righe di Manuel Vilas, (www.rivistaclandestino.com/lamore-fra-le-righe-di-manuel-vilas/), 24 maggio 2022.

[3] Id., cit.

[4] Id., cit.

Alessandro Moscè e le case dai tetti rossi

di Andrea Galgano  28 aprile  2022

leggi in Pdf Alessandro Moscè e le case dai tetti rossi

Con Le case dai tetti rossi[1], edito da Fandango, Alessandro Moscè (1969) ci consegna un mondo sepolto, in occasione della vendita della casa di nonna Altera e nonno Ernesto, ritornando alla grande struttura dell’ex ospedale psichiatrico di Ancona, un complesso di palazzine verdi e tetti rossi «color del sangue», che venne riconvertito dopo la legge Basaglia del 1978, che avrebbe cambiato lo studio e lo sguardo sulla realtà psichiatrica, portando, nel 1981, alla trasformazione, dapprima, in una struttura di assistenza e poi, successivamente, in un centro riabilitativo e sanitario, ed accoglieva

«i barboni, i malnutriti, gli ubriaconi, chi era tornato dalla guerra frastornato, con una pallottola conficcata da qualche parte, chi non riusciva ad alzarsi dal letto, chi era nato straccu, stanco, chi aveva una deformazione fisica e chi era figlio di genitori strani, spostati, con il diavolo in corpo, il diaolo. Ci finivano gli epilettici che cadevano a terra. Si pensava che le convulsioni fossero una malattia mentale ereditata, che il malocchio avesse consumato cuore e anima del paziente, non solo  il cervello. Questi erano i segnati da Dio, di cui bisognava diffidare. I fori de testa, gli schizofrenici, conservava vano lo sguardo fisso, l’orbita degli occhi sproporzionata e le braccia lungo un corpo filiforme o lievitato. Nessuno sembrava avere una linea normale, tutti avevano un fisico allungato, striminzito, ingrassato a dismisura. Negli anni Sessanta ai piani di sopra del manicomio risiedevano i violenti, gli incontrollabili, gli psicotici».[2] .

Il romanzo di Moscè, dunque, entra in quei sipari di cancelli, riportando la scena all’infanzia, quando era solito guardare quei matti al di là delle inferriate:

«Non ho mai dimenticato i racconti sventurati, le volte che mi sono avvicinato a quel luogo malfamato con il figlio del giardiniere, il mio amico Luca, il timore di superare il cancello, i rimproveri di mia madre quando fissavo i degenti appoggiati al cancello, le strattonate, le raccomandazioni di girare al largo se fossi uscito solo per comprare i fumetti incellofanati, a poco prezzo[3]».

Recuperando alcune cartelle cliniche degli anni Settanta e Ottanta, il suo sguardo tenta di riappropriarsi dell’umano spogliato, allontanato e condotto ai margini del vivere, spesso deriso, ricostruendo la soglia di una frattura di una quotidianità e di confini inconfessabili e invalicabili, recuperando il bagliore denudato delle esistenze invisibili:

«L’impianto seguiva i padiglioni che comunicavano, di arcata in arcata, per mezzo dei porticati. All’ingresso, dopo la portineria, due stabili erano riservati agli ospiti benestanti. A destra la palazzina confinava con la farmacia, il pronto soccorso e la cucina. I villini presentavano prospetti in laterizio a pasta gialla con cornicioni implementati in stucco dipinto. I porticati avevano gli archi a sesto ribassato da coperture di legno con manto tagliato in coppi. Nel mezzo c’era il villino della direzione affidata al professor Guido Lazzari e, attiguo, lo stanzone dei medicinali. Gli uomini e le donne, separati da una rete metallica che divideva gli stabili, erano tenuti in custodia da suore e infermiere».[4]

Le diagnosi, le cure, le camicie di forza, l’elettroshock, i bagni gelidi, l’isolamento, la figura compassionevole e carismatica del dottor Lazzari, «un signore di mezz’età con la fronte alta e spaziosa e pochi capelli in testa, con il riporto sul capo che partiva da sinistra. Indossava sempre giacca e cravatta. Un uomo serio, acuto, rivoluzionario nel senso migliore del termine», coadiuvato dai medici, da suor Germana e dal giardiniere Arduino, che dona fiori e piante medicinali, creano un mondo nel mondo, tolgono invisibilità, donano e porgono limpidità a ciò che è stato percosso, segregato, evitato, guidando il manicomio in un percorso di umanità che, dalla reclusione «conducesse all’autodeterminazione di molti pazienti, nonostante la paura per il diverso[5]».

Nazzareno che crede di essere speciale e nella sua andatura da clown spera di vedere la Signora, come Bernadette, e soffia bolle di sapone tra i padiglioni, Adele che ricorda solo Mussolini o Franca che vede uomini in processione in divisa nazista e il brusio allucinatorio nella sua testa la rendeva vittima di complotti.

E poi ancora il paziente di Osimo, Sebastiano, l’uomo-giraffa, che sostiene che la notte lo rincorrono i colori e poi, liquefacendosi, gli si incollavano addosso, Marta, i deliri mistici di Anacleto, Giordano e la maglia del Napoli, quando non colleziona bottoni, Carlo il pirata.

Moscè scrive un romanzo, affidando i suoi occhi a un intenso caleidoscopio, unendo i sipari familiari alle figure che si muovono sulla scena del romanzo, con asciuttezza dolce, come prima di lui aveva fatto Mario Tobino, con Le libere donne di Magliano o Per le antiche scale.

La frontiera di due mondi, di due epoche, di due condizioni si toccano nel ricordo, nel recupero di quella comprensione e compassione, di quella indulgenza di chi si pone raccontando per non perdere, di chi offre il nome per renderlo unico e irripetibile e, in definitiva, per affidarlo all’eternità che ha il sapore del taglio di luce.

 

Moscè A., Le case dai tetti rossi, Fandango, Roma 2022.

[1] Moscè A., Le case dai tetti rossi, Fandango, Roma 2022.

[2] ID., cit., pp.13-14.

[3] Id.,cit., p.8

[4] ID., cit., p.11.

[5] ID., cit., p.28.

Vicki Feaver. La liberazione dell’istante

di Andrea Galgano  22 marzo  2022

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Il mondo di Vicki Feaver è un’esplosione esplorata di pienezza. Lo è nella sua poesia, La fanciulla senza mani, ispirata alla fiaba dei fratelli Grimm e alla fiaba russa, per cui una fanciulla senza mani, appunto, tagliate dal padre, ricrescono, quando protende le braccia in un fiume per salvare la sua bambina che rischiava di annegare.

Ora che La fanciulla senza mani e altre poesie[1], viene pubblicata da Interno Poesia, a cura di Giorgia Sensi, questo mondo, in cui scrittura e opera restano intrecciate, restituendo un profumo saliente e puro di desiderio e fertilità.

La sapidità ricolma è una raffigurazione feconda, in cui il respiro germoglia e stringe il tormento e il recupero dei detriti, del pianto, di ciò che fatica ad emergere:

«Non i fiori che gli uomini danno alle donne – / fresie dal profumo delicato, / rose rosse altezzose, garofani / dai colori degli abiti delle damigelle di nozze, / fiori quasi senza linfa, / che si seccano e sbiadiscono – ma fiori / che appassiscono sullo stelo / tagliato, foglie che anneriscono / come bruciate dagli enzimi / del nostro fiato, / che marciscono viscide / e dobbiamo raschiare via dall’orlo / del vaso; fiori che esplodono / da gemme chiuse, che si irradiano / come il sole che illuminava / il sentiero della montagna di Tracia, / che noi intrecciavamo ai capelli, / calpestavamo nella foga del ballo, / che ci ricordano che siamo assassine, / capaci di strappare via dalle spalle / la testa degli uomini; fiori che ancora / portiamo in casa di nascosto e con vergogna, / e ci strofiniamo braccia e seno e gambe / con le calde frange arancio, / l’odore del desiderio».

Giorgia Sensi scrive:

«Benchè Vicki Feaver avesse deciso di voler diventare poeta fin da bambina, il suo percorso creativo non è stato immediato né facile. Lei stessa confessa, in una intervista diventata ormai celebre, che nelle prime poesie aveva cercato di reprimere i suoi sentimenti più forti, la sua aggressività, fino a quando un giorno sentì i suoi studenti descriverla come “such a nice woman”, una signora molto carina, molto a modo. Da allora si è coraggiosamente liberata dalle proprie inibizioni, non ha nascosto il lato oscuro di sé, creando o ricreando figure femminili memorabili, donne in cui convivono emozioni estreme, contrastanti, donne consapevoli del proprio potere, capaci di amare e uccidere, di uccidere in nome dell’amore».[2]

La dimensione favolistica, sensuale e deistica («perché nelle sue fantasie / le ragazze si svestono – scoprendo il collo e / le spalle bianche, i seni dai capezzoli scuri e rosati, / il nido scuro tra le gambe – / tra le canne, sotto la luce giallo-grigia / dei salici»), il tempo della quotidianità lucente, proteso alla sensibile voluttà e ripreso nel semplice gesto dello stirare («E ora ho ripreso a stirare: spruzzo / scure gocce d’acqua sulla seta / sgualcita, m’introduco nelle maniche, giro intorno / ai bottoni, respiro l’odore caldo dolce / che il metallo rovente produce sul tessuto fresco / di bucato, finché l’azzurro della camicetta / asciutta non è lucido, levigato, / una forma lieve, spaziosa in cui infilare / braccia, petto, polmoni, cuore») o della gelatina di mele selvatiche, che riproduce lo stesso processo creativo e di idee, molto prima della scrittura o della narrazione e si riappropria del colore del fuoco, che sembrava perduto.

La domesticità scrutata da Vicki Feaver imprime l’incisione del particolare, la profondità sacrale del rito antico e presente, come un nido, un canto o un giorno in palestra, la crepa scomparsa e riapparsa, i riflessi di una natura viva, che nasce in ogni istante come un letto di foglie o un dono di fiato, la violenza e la passione del mito (Giuditta e Oloferne), fino al desiderio di approdo, prima di ogni gettatezza:

«Così alla fine feci rotta / per le acque turbolente / oltre la baia; / e per tutta la notte – / livida, gemente – / navigai. / E ora, in questa calma mattinata, / guardo giù in un bacino vitreo, / dove sfrecciano le parole / venate d’oro e d’argento / e galleggiano / morti dalla bocca spalancata / e dove i detriti / sono così familiari – / oggetti che una volta possedevo / gettati qui / da un oceano premuroso / per rendere accogliente l’approdo».

In The Book of Blood, Feaver riscrive alcune fiabe, come quella del principe ranocchio o del sogno di infanzia, vermiglio scarlatto, di Cappuccetto Rosso, di Cenerentola che si rotola nella cenere, della superficie del sole che tocca passato e presente, della vendetta di Medea, di Blodeuwedd, donna di fiori che uccide il marito e viene trasformata in uccello notturno che vaga, del sangue raggrumato della memoria.

La memoria stessa diventa un tempo arioso di pienezza, le cose si vedono per la prima volta, appartengono al suo mondo che diviene universale, a volte spezzato o franto, altre volte una marea che rovescia la terra piatta o le farfalle blu dei baci a mezz’aria.

In I Want! I want!, tratto da un’incisione di William Blake, la narrazione si svolge nella parabola esistenziale prima e vitale poi di Vicki: il triciclo, la casa con un pergolato di rose, il sogno delle streghe, l’amore per le cose ferite, la fusione dei legami e i conflitti familiari, l’ombra e il ghiaccio, fino al bruciore dei baci feroci del tempo di donna, la sopravvivenza e il dolore, come una preghiera inascoltata.

Una creaturalità fragile e solenne, un tempio di bellezza visitata:

«hanno profumato la cucina / per tutto il periodo natalizio / fino a Capodanno. / Sopravvissute agli odori / e vapori dell’arrosto, / hanno dischiuso i petali / dall’intenso rosso rubino / di vecchi sipari di velluto / per rivelare un labirinto / di ombrosi crepacci. / I petali si arricciano / e scuriscono ai bordi ora, / ma lo spettacolo non è ancora finito. / Come attrici attempate, / che recitano finché non schiattano, / una esibisce una vena vagante / di giallo canarino, un’altra / un cespuglio di stami dorati» (Le rose che mi hai dato).

Feaver V., La fanciulla senza mani e altre poesie, a cura di Giorgia Sensi, Interno Poesia, Latiano (Br) 2022, pp. 188, Euro 15.

[1] Feaver V., La fanciulla senza mani e altre poesie, a cura di Giorgia Sensi, Interno Poesia, Latiano (Br) 2022.

[2] Sensi G., Prefazione, in Feaver V., cit., p. 6.

Claudio Damiani Prima di nascere – Nota

di Andrea Galgano  15 febbraio  2022

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Prima di nascere di Claudio Damiani[1], appena edito da Fazi, è l’esito di un contrasto  di una pre-nascenza e di una co-nascenza. Nella domanda sull’essere e sul nulla, nell’approvvigionamento essenziale del respiro, nella vertigine mai opaca del tempo e nella sospensione, la poesia di Damiani conosce questa dimensione del sangue e del sospiro e si appropria, dunque, di questo interstizio di esplorazione[2] tra cielo e terra:

 

«Quando ero piccolo, quattro-cinque anni, / mi immaginavo prima di nascere / come sospeso nel cielo ( non so se qualcuno mi aveva detto / queste cose, o me l’ero immaginato io), / mi sembrava incredibile non essere esistito prima / e mi sembrava incredibile pure di essere esistito, / non capivo dove potevo stare, così in alto nel cielo, / dove potevo poggiare i piedi».

Si confronta con lo stupore esile delle cose, con i contrasti e con la paura, con gli ossimori esiziali del vivere e diviene poesia della misura e del colloquio, e, come aggiunge Davide Rondoni,

«del nitore, del debito oraziano e cinese, il poeta delle ariose e commoventi poesie sul fico, sull’infanzia, sull’Elba, sul Soratte, sui ragazzini a scuola, sugli “eroi” del feriale, ecco, questo poeta ha per così dire raccolto, quasi “costretto” tutte queste cose e voci e figure, le ha convocate, quasi citate in giudizio dinanzi al tribunale del tempo e della morte. E soprattutto ha citato in giudizio se stesso, la sua personale vicenda o guerra. Nudamente, spudoratamente. Con la sincerità di sempre, ma ancor più resa estrema, cordiale ma anche puntuta, dal confronto con il tema dei temi, la morte, appunto, e la sua ombra, ovvero la speranza – e viceversa».[3]

Vi è l’attesa e la minaccia, la saggezza di voltarsi dall’altra parte[4], che non è appena un disinteresse nichilistico ma semplicemente una deviazione, una feriale quanto magmatica sproporzione di sguardo.

Questo disarmo è un lievito di aria fresca che entra nel sangue, il corpo che si mischia alle nuvole che avvolgono la dimora del tempo abitabile, come archetipi di infanzia, nella vastità ampia del futuro e nell’interezza di un abbandono epifanico:

«Le farfalle mi venivano incontro / erano quelle piccole azzurre / della mia infanzia che volevamo acchiappare / ma anche cavolaie che volavano a coppie tra i cespugli / e farfalle notturne che mi facevano paura / tra i gradini della scala di casa, / mi venivano incontro e io le accarezzavo / e le baciavo, era come se volassi / nello spazio e mi venivano incontro / corpi celesti, asteroidi, comete / e io li sfioravo e li accarezzavo / e in ognuno abitavo / per qualche tempo, poi ritornavano le farfalle azzurre / e tutte le altre e si diradavano, / si vedeva che andavano in un luogo / come un centro di raccolta / forse andavano a riposare, a mangiare non so, / e io restavo solo / in un cielo completamente vuoto, / completamente solo».

E poi ancora, in quella ampia attesa cerca la risposta alle domande che non si riescono a dimenticare, non si accartoccia mai sul nulla, sulla finitudine e sul limite, bensì si appropria di un tempo che è di luce ed è incombente:

«Sto qui in attesa che il tempo passi / poi finirà e sarà come staccare / l’interruttore, come tagliare le vene / e non si sa cosa succederà / staremo al buio, o alla luce / o non staremo, non saremo niente / (anche se sembra impossibile che questo possa accadere, / da ricerche accreditate sembra che il nulla non possa esistere) / perché sappiamo tanto, abbiamo tanta scienza / ma di noi non sappiamo niente, / e con la scienza, con la tecnologia / ancor più stride la nostra mortalità / e precarietà, come se più la allontanassimo / la morte, più diventasse incombente / e insopportabile. Noi nati alla morte, / noi morituri ti salutiamo, o Cesare, / sfiliamo rigidi davanti al giorno / e nella mano abbiamo la medaglietta / e la stringiamo, col nostro numero inciso».

E se il dato della nascita non fosse che una volontà, una scelta come un piccolo passo («Se fossimo noi che abbiamo scelto di vivere / e di morire, come se qualcuno / ci avesse mandato in missione, / estratti a sorte, / o se ci fossimo fatti avanti, / avessimo fatto un passo, un piccolo passo…»), un’adesione al vivere, quando «con una spinta abbiamo bucato il mondo»?

L’emersione della poesia di Damiani è una conca di abissi, che fronteggiano anche la memoria, il niente (ancor prima del nulla), ma esplorano e vivono la percezione della natura e lo splendore lieve e dolce.

Un orizzonte esile, un fiancheggiamento di alberi, animali, fiumi, che esplodono di grazia nell’antichità ma si rivestono del tempo presente, del deposito del tempo presente.

L’universo nello sguardo, la prosa-mantra, la traccia del “quasi nulla”, lo scrutare lieve che sfida le tempeste e la lontananza, il fuoco e le fiamme invisibili dell’abisso che tiene sospesi, perché nella cifra di ogni tremore[5], «Il mistero è così fitto / e noi così fragili / che non ci sono speranze / o meglio, possono esserci solo speranze, / la speranza è la nostra scienza»:

«La polvere guardo nell’aria / e questa polvere sopra il tavolo / non la tolgo, la lascio, / voglio stare accanto a lei / e dei fili che sono per terra / non li levo, e le orme / delle scarpe, le lascio / e questa mosca anche lascio, morta / e questa cosa che era caduta per terra / e non so più dov’è / non so più che era. / E mi deposito anch’io / mi lascio andare sul letto, / lascio che l’aria mi circondi / come un ciottolo che la corrente trascina, / e che niente mi salvi».

La linea agostiniana[6] e rabdomantica trova la fecondità nel tremito fisso della carezza e della domanda, il nitore puro del cielo e il grande trapezio del mistero che avvolge il tempo:

«Pensa se fosse così: / che noi, mentre stiamo facendo una cosa / comunissima, tipo portare una cosa / sopra un tavolo, oppure cercarla / e ecco aprirsi una porta, e nella stanza / ci sono tutti! È una stanza immensa / e ti salutano gioiosi e applaudono / come un compleanno a sorpresa / e dicono: «Hai visto? Sei contento? / Come stai? Come ti senti?» / e tu lo senti che è stata come uno scherzo la vita / o un brutto sogno, oppure è stata / come una guerra sotto i bombardamenti / e ogni giorno c’erano le sirene, / o c’erano stati giorni belli anche, / di sole, di luce, di silenzio / tu camminavi da solo / in mezzo alle piante amiche»

 

[1] Damiani C., Prima di nascere, Fazi, Roma 2022.

[2] Guidi S., Punte di fiamma invisibili, in “L’Osservatore Romano”, 3 febbraio 2022.

[3] Rondoni D., Claudio trema. Su Claudio Damiani, “Prima di nascere”, in «Clandestino – Rivista», (www.rivistaclandestino.com/claudio-trema-su-claudio-damiani-prima-di-nascere/?fbclid=IwAR2_ZSRHZ3dIa4Vva2nUpKf-dIKUGuzBdzxmLLGWmkgCxn_XEmtx4H9pS0A), 7 febbraio 2022.

[4] Langone C., Il poeta Claudio Damiani ci insegna la saggezza del voltarsi dall’altra parte, in “Il Foglio”, 9 febbraio 2022.

[5] Minore R., Un classico travestito da contemporaneo, in “Il Messaggero”, 13 febbraio 2022.

[6] Affinati E., La poesia «dantesca» di Damiani, in “Roma Sette”, inserto di “Avvenire”, 13 febbraio 2022.

Damiani C., Prima di nascere, Fazi, Roma 2022, pp. 152, Euro 18.

 Damiani C., Prima di nascere, Fazi, Roma 2022.

Affinati E., La poesia «dantesca» di Damiani, in “Roma Sette”, inserto di “Avvenire”, 13 febbraio 2022.

Guidi S., Punte di fiamma invisibili, in “L’Osservatore Romano”, 3 febbraio 2022.

Langone C., Il poeta Claudio Damiani ci insegna la saggezza del voltarsi dall’altra parte, in “Il Foglio”, 9 febbraio 2022.

Minore R., Un classico travestito da contemporaneo, in “Il Messaggero”, 13 febbraio 2022.

Rondoni D., Claudio trema. Su Claudio Damiani, “Prima di nascere”, in «Clandestino – Rivista», (www.rivistaclandestino.com/claudio-trema-su-claudio-damiani-prima-di-nascere/?fbclid=IwAR2_ZSRHZ3dIa4Vva2nUpKf-dIKUGuzBdzxmLLGWmkgCxn_XEmtx4H9pS0A), 7 febbraio 2022.

Il piazzale senza nome di Luigia Sorrentino

di Andrea Galgano  1 febbraio  2021

leggi in Pdf Il piazzale senza nome di Luigia Sorrentino

Il nuovo lavoro di Luigia Sorrentino, Piazzale senza nome[1] (Pordenonelegge – Samuele Editore 2021) è il recupero di una recisione, una vitalità disperata che, partendo dalla perdita della cara figura paterna, approda a una sofferta ferita che è vertigine e pulsazione, offerta e sacrificio, illuminazione sacrale e orientamento di piega numinosa.

Partendo dall’esergo plutarchesco, sulla morte da vecchi come approdo e da giovani come perdita e naufragio («noi che non eravamo mai stati del tutto / vivi all’amore, / eravamo caduti sul ciglio della strada / nella polvere / conoscemmo con cura il perdersi»), la sua poesia custodisce questa sacralità che lotta contro l’oblio, che si appropria di una dilatazione per farsi visione e viso, necessità di ricordo e testimonianza di incontro: «su tutto il giardino neve / dilatata / silenzio armato nelle pupille / neve, tutta nel sangue / narici oltraggiate / bianco e nero / l’incedere violento / del battito cardiaco / si chiude su di sé / nella luminosa potenza / avviene l’incontro» (Nel secolo che hai lasciato 1).

E ancora nella luce che geme, nella bellezza disperata, nell’enigma misterioso della vita e della morte, la lingua resta attonita e ferma nel cristallo antico dello stupore, come un avamposto di bellezza, un “quasi” nulla che è pura fertilità umana: «geme la luce / tanto più densa e oscura / oscuro marcire oscuro / assorti nella pietà gli occhi prendevano / il cristallo antico dello stupore / il cranio stretto fra le mani / povero e antico resto / bellezza disperata / chiamata a scendere / neve affamata ha consumato / il sacro giardino / nel secolo che hai lasciato».

Il cuore giovane che soffoca, grida, vive la sua linea parallela e la fecondità umbratile di una semenza felice e maledetta, dove il microcosmo del dolore singolare è lacerazione universale, ciò che resta non sono solo macerie o rovine, addii impossibili e carico infinito («lente le mani raccoglievano i capelli / sulla nuca / mentre la pioggia ricadeva / sui loro volti / uno alla bocca dell’altro beveva / la lentezza / sollevati nelle braccia / la sostanza liquida caduta / dalla bocca sul marciapiede / accasciata sulle spalle / la processione disumana / la beata, sfiorata giovinezza»), ma è la bellezza che non vuole morire, che non decide di scomparire:

«[…] Sotto la notturna volta della scala comunale è scomparso il ragazzo che infilzava lucertole trapassandole da parte a parte con il fil di ferro. Da poco si è accasciato sul terreno, in mezzo al groviglio di arbusti spinosi e rami secchi. Una striscia di cielo lo guarda. Nella testa della capra suona il ritmo assordante di una musica persecutoria. All’alba spalancherà gli occhi senza nessun ricordo. La morte da giovani arriva all’improvviso, carica di violenza. Lo smembramento è totale. Su tutto domina l’ebbrezza gridata da un cuore felice e maledetto» (Morti parallele).

La vitalità ombrata di questi testi raffigura una resistenza umana estremamente commossa, dove neve e sangue si uniscono, come se restituissero non una lotta impari ma un agone, in cui l’amore e il suo mistero accompagnano le tensioni dell’io, la sua vertigine, il proclama della sua indocilità dionisiaca: «la forza che uccide / in un colpo solo / è sommaria, rapidissima / occhi azzurri strappati dalle orbite / – vi divoreranno / il coltello posato a due centimetri / dal lago / dal sangue / dalla carne strappata / – vi insultano – / la capra geme sul tavolo / la gravità, oscura forma, / la preda».

In questa oscurità materica, in questa esiliata luce giovane («la notte si era accasciata / la giovinezza / l’avevamo trascorsa / nel peso della sua immortale rovina / noi che non eravamo mai stati / del tutto vivi all’amore / c’eravamo concessi al freddo / stretto nelle narici, nelle vene / avevamo perduto tutte le parole / la forza di una generazione»), nella sillaba muta di ogni sventura e nella preda edace del tempo, discesa come fame e consumazione nevosa, come afferma Mario Famularo, vi è non già una poesia introflessa «ma assolutamente attenta ed esposta all’altro da sé, essenziale alla comprensione dell’aspetto più autentico dell’esistere, al lato più tremendo e sacro dell’esperire il mondo[2]»: « il silenzio delle lamiere nascose / l’assalto in una notte di febbraio / i denti sul braccio fino all’osso / la testa contro il finestrino / – tu sei niente, nessuno – / e non so quando / tutto il nascosto ci travolse / senza emettere un lamento / gelò la fronte il respiro / della cenere». (Piazzale senza nome)

La carne strappata del dolore, nella sfinitezza della finitudine percossa («lui è uno di fonte al quale / ci si copre la faccia / crollato nel profilo / sfinito, brace predata dall’ambra / gola automatica / neve deglutita piano piano / vedo cose che altri non vedono / ha rinunciato / l’insofferenza della mano / percuote la sua ora»), nelle giovani vite tagliate e nel corteo di torture, il respiro sembra precipitare e abbandonarsi, ma è «nella calma materna» che «corre tutta la vita»:  «aveva oltrepassato il confine / restituita la voce / all’universo / la sorgente di luce non era più / visibile / era tramontata fra gli alberi / la notte bianchissima discesa / fino in fondo, guerriera / nel suo sangue la neve / il freddo polare nelle pupille / allagate / perdute per sempre».

La trasparenza bianca del dolore, raffigurato in immagini di abbandono, insulto, disprezzo tormentato, lascia impronte, si consegna alla fertilità di ciò che non muore, nonostante la rosa intorpidita e muta, la totalità della sofferenza, le palpebre socchiuse, l’indifferenza: «dal vetro vede la strada / una lingua umida / limacciosa / spalancata negli occhi / ha fame di notte / l’odore della pioggia senza peso / ha investito il corpo nascosto / l’odore viene dal basso / la suola delle scarpe / non ha consumato / la sconosciuta profondità / del vedere».

La poesia di Luigia Sorrentino scava nelle vene, non rilascia segni di nichilismo o di rassegnazione, narra l’esondazione tenebrosa delle ferite, mantenendo la forza di ciò che è senza fine, la parola amata, la linea dell’orizzonte femminile, la voce dell’universo e la grazia del padre: «la gioia del fiorire / ebbe inizio in te / la pienezza riempiva i frutti / l’imperioso fare ci ha traditi / – siamo stati traditi / dagli organi vitali – / la durata non ci tocca più / svuota le nostre vene / la giardiniera inghirlandata / ci arresta tra soste d’amore / guardandoti il volto distende / l’impronta della morte è svanita».

O, infine, in una sacrale accoglienza di bellezza custodita, il tremendum ha una pausa di dolcezza arresa e ci rimette una grazia rarefatta: «corpo affermato / dalla terra emanava / odore di fresie selvatiche / prepara lo stelo del fiore / un cammino di polvere / accudisce l’arcaico / rito dell’acqua / la pulizia con la spugna / alla fragile tomba / baciava la sua vita adorata / il male riempito / pulsava nelle soste del tempo / il suo cuore, l’oceano».

[1] Sorrentino L., Piazzale senza nome, Samuele Editore, Fanna (Pn) 2021.

[2] Famularo M., Piazzale senza nome di Luigia sorrentino, (www.laboratoripoesia.it/piazzale-senza-nome-luigia-sorrentino/).

Sorrentino L., Piazzale senza nome, Samuele Editore, Fanna (Pn) 2021, pp. 102, Euro 13.

Sorrentino L., Piazzale senza nome, Samuele Editore, Fanna (Pn) 2021.

Famularo M., Piazzale senza nome di Luigia Sorrentino, (www.laboratoripoesia.it/piazzale-senza-nome-luigia-sorrentino/).

Grace Paley: l’attenzione nascosta

di Andrea Galgano  25 gennaio  2021

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L’anima di Grace Paley (1922-2007) è un’urgenza di domanda. Lo è nella esatta puntualità dei suoi racconti, nella registrazione puntuale dei dettagli del mondo, nella narrazione, solo apparentemente semplice (e quindi, chiara e trasparente) delle sue raffigurazioni.

La raccolta dei suoi testi di poesia, ora riuniti in volume, dal titolo Volevo scrivere una poesia, invece ho fatto una torta[1], tradotto da Paolo Cognetti e Isabella Zani, per l’editore Sur, ha segnato gli anni più tardi della sua vita, toccata dalle vertiginose bellezze autunnali del Vermont, dove viveva con il marito fino alla morte, avvenuta nel 2007.

Nella prefazione, Paolo Cognetti racconta l’estremità di due poli identitari che comunicano tra loro, l’anima versatile dei racconti, in perfetta linea di congiunzione con Hemingway, Carver e Bukowski, ambientati nel Bronx, a New York, dove il fulcro popolare, le frontiere di passaggio dell’immigrazione erano la cifra e la firma di una umanità in lotta, e il tempismo lirico e sagace del gesto poetico:

«Con Bukowski, Grace Paley ha piuttosto in comune il carattere: l’esuberanza, l’anticonformismo, l’ironia, l’idea della scrittura come luogo di libertà, l’insofferenza a ogni tipo di autorità sulla pagina e nella vita, e anche l’orecchio che le permetteva di registrare la musica del mondo. Le piaceva definirsi una story-listener, ascoltatrice di storie: prima ascoltare e poi riferire, era la sua idea del lavoro di scrittore. E con ciò fare della scrittura un atto politico, perché riferire è un dar voce a chi non ce l’ha: agli ebrei, alle donne, ai bambini, ai migranti – ai dimenticati e agli sconfitti delle guerre del nostro tempo. E infine agli sconfitti della guerra tra noi e il pianeta, che sono gli alberi e gli animali. […] Grace Paley non poteva scindere il suo lavoro di scrittrice dall’impegno politico, ma se sulla pagina era una compositrice raffinata, musicale, una jazzista della lingua inglese, per strada era una combattente che non si tirava indietro davanti alla violenza del potere […]».[2]

Roberto Galaverni scrive:

«Paley è stata quel che si dice una scrittrice civilmente impegnata, una protagonista della controcultura newyorchese che ha costantemente avuto nel proprio mirino il militarismo, la discriminazione razziale e quella sessuale, nei confronti delle donne anzitutto; ma poi anche l’avidità, la mancanza di idee, di coscienza politica, di partecipazione comunitaria, di prese di posizione forti e consapevoli. […] Per un temperamento simile la lettura non poteva certo consistere in un rifugio o in un mondo a parte. Al contrario, l’esercizio della scrittura risulta sempre subordinato alle necessità dell’esistenza, pubblica o privata senza particolari differenze. Anche per questo ha scritto poco: l’impegno diretto nella e per la vita aveva comunque la precedenza sulle pur amate parole».[3]

Il garbo, l’ironia, l’azione necessaria della scrittura, il travaglio e la dolenza, il discorso e la passione, la cura per la realtà e per l’umano, l’interesse vitale sono le linee del suo orizzonte, celebrano il dettaglio universale per farsi battito puro e secco della forza tenuta da un avamposto, senza bisogno di fuga. Un allarme contro ogni scomparsa, piccole avvertenze quotidiane che vivono e intessono le dinamiche esistenziali, anche nei decentramenti e negli spaesamenti della lingua:

«Un giorno nella vita della mia famiglia / io sono entrata nella lingua inglese / le d e le t fra i denti   il fischio delle s / Allungavo le i / mi perdevo in qualche r  / le infilavo / dove non erano richieste / spesso piazzavo una preposizione / alla fine della frase / questo per guardarmi da / un’inflessione risentita / Con mia grande sorpresa gli estranei mi capivano / ho continuato a parlare   / ero sfrontata   / dicevo / ovunque vada trovo verbi che non combinano niente / sono anni che certi nomi comuni non vengono più chiamati / col loro nome proprio / devo fare una domanda triste / le leggi dell’entropia agiranno a dispetto del rigore? / esiste una letteratura che canti la scomparsa / delle lingue madri?».

Le fragilità degli avvisi, il cuore umano in tutta la sua contrastata pulsazione, il limite e la precarietà di ogni finitudine, la voce di ciò che non si sente, l’arguzia a servizio di una parola che è dettato e spazio, sono il tempo dell’umano, lo consegnano all’umano, vissuto dal treno, dal gesto vissuto e dal dialogo, appena gridato o sussurrato:

«Che diceva la poesia quel giorno / stavamo parlando  parlando / diceva  sta’ buona   lasciami / l’ultima parola  senza quella / hai a stento un pensiero  / Ai tempi / avevo le tasche piene / di ottime pietre / ma non ero / senza peccato  che cosa / potevo fare se non passi pesanti  pesanti / Un giorno ho smesso di reggere le battute / riuscivo a farle con la facilità di sempre / ma mi chiedevo perché l’altra persona rideva / non era anche lei nei guai / come il resto del mondo? / La vita è due sogni / il tuo e quello di chi ami / a colazione  una fatica ascoltare / una pena raccontare  qualcuno / piange  chi ha fatto il caffè / e tutto è perduto».

La forza di Grace Paley è questa attenzione nascosta, dove le immagini, i richiami, la memoria e il conflitto, la sintonia naturale custodiscono un ponte di sollievo, ciò che raduna i bisbigli di madre, ciò che non si tacita e dove persino una parola, come stormire, è arrivata tardi ma non ha oblio, non conosce l’oblio, è solo un ritardo di affrancamento: «è una parola meravigliosa / ho tentato di usarla ma non ci sono riuscita / mi è squillata davanti in una poesia di Jane Cooper / adesso vivo tra gli alberi  le fronde / i rametti e le foglie  / soffia un vento leggero / ma la parola stormire mi è arrivata troppo tardi» (LA PAROLA STORMIRE).

Già il titolo della raccolta, che è l’incipit di uno dei testi, richiama l’essenzialità della procedura e del gesto poetico, la non-canonizzazione dell’aura poetica, il gradiente arguto e intelligente del dire, dove le pause sono respiri e sillabe dilatate, dove il paradosso è il modo per innervare gli ossimori del mondo, i dolori, i traumi e le inibizioni del corpo che cambia («la carne incontra l’anima / e sussurra   tu»), le latitudini autunnali della meraviglia del Vermont, la sua benevolenza visibile.

«Non volevo dipendere dall’autunno / volevo perdermelo per una volta   saltare / a un’altra latitudine dove non era così / famoso  volevo mostrare che la bellezza / si può trattenere nel respiro così come respiriamo / dolore e tradimento   non sempre devono / accadere nell’attimo presente / Guardate  eccolo là  il nostro celebre / dorato autunno del Vermont color del vino  verde / come l’estate per cominciare e poi il sole / mattutino tira su la bruma dal freddo fiume notturno / gli aceri addolciscono  / senti un certo / battito accelerato  una vampata   in te che vivi quella / fedele campagna  in fiamme  in tremante / attesa del suo lungo inverno  nessuno dovrebbe  / esser costretto a sopportare tanta bellezza motivata dalla / morte / ogni singolo anno  / questo corpo stagionato sa / che insopportabile».

Tutta la poesia di Grace Paley è un indizio visibile, come avviene in Lettura dei giornali all’edicola di paese, dove l’ironia compensa le notizie lette e scabre e vi è «la retorica asciutta e la logica paradossale di chi sa destrutturare i luoghi comuni, con lo stesso riverbero lirico entro una natura antropomorfizzata[4]».

L’addensarsi del tempo, i cambiamenti, la cooperazione naturale («perché la luna estiva è bassa / ad abbagliare i campi in ombra e / fa talmente luce alla finestra  è / la legge naturale come anche un bambino / capirebbe della luna dell’amore della notte»), la vita lieve, la morte e la bufera che infuria, segnano le sue buone stelle, come l’ultima bellezza di uno sguardo d’amore, nella luce spoglia:

«Volevo portarle un calice / o magari un bicchiere d’amore / o d’acqua fresca  volevo sedermi / accanto a lei mentre riposava / dopo una lunga giornata  volevo ingiungere / encomiare  ammonire dicendo non / fare così  ma certo  perfetto  provaci / volevo aiutarla a invecchiare  volevo / dire parole ultime  / le parole famose  / per l’illuminazione definitiva / volevo / dirgliele adesso  casomai fossi / placida in sonno quando l’ultimo sonno colpisce / o disordinata dalla vecchiaia  volevo / portarle un bicchier d’acqua fresca / volevo spiegarle che  la stanchezza è / normale  anzi perfino opportuna / alla fine del giorno».

[1] Paley G., Volevo scrivere una poesia, invece ho fatto una torta, prefazione di Paolo Cognetti, sur Edizioni, Roma 2022.

[2] Cognetti P., prefazione, in Paley G., cit., pp. 6-8.

[3] Galaverni R., La seconda stagione dell’ardente Grace Paley, in “La Lettura – Corriere della Sera”, 16 gennaio 2022. 

[4] Tolusso Mary B.,  se ami stare al mondo fai come l’acero anche mezzo secco si slancia vero il sole, “TuttoLibri – La Stampa”, 15 gennaio 2022.  

Paley G., Volevo scrivere una poesia, invece ho fatto una torta, prefazione di Paolo Cognetti, sur Edizioni, Roma 2022, pp.130, Euro 14,00.

Antonietta Gnerre: il nome dell’eternità

di Andrea Galgano  22 dicembre 2021

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La nuova raccolta di Antonietta Gnerre, Quello che non so di me[1], edita da Interno Poesia, custodisce vigore e impercettibilità. Non solo per la forza immaginifica e vertiginosa del verso, ma, in particolar modo, per una sorta di vitalità esistenziale incandescente, che risolleva termini e fissità, panismo e tensione metafisica.

È una leggibilità del tempo, una fenomenologia linguistica che si innerva nella Natura e la abbraccia sia attraverso la ponderale finitudine (le cicatrici, i sogni non infilati più tra le stelle, i segni provvisori, le ombre luminose dell’Irpinia che somigliano all’universo) sia attraverso uno sconfinamento di suono, come una eco di amore.

Ago di pino in un solco, benedizione di nascite appena ricolme, nome che salva dalla morte:

«Se ho pianto è perché sono stata al buio / con un peso  / capovolto di assenze. / La nave inclinata nella sua rotta,  / i sogni non infilati / più tra le stelle. / Se ho pianto è perché le preghiere  / rientravano e uscivano  / da una linea / sottile di menzogne.  / Il giorno soffocato nelle sponde dei pini,  / dopo una mareggiata, / acceso solo dalla luna. / Se ho pianto è perché da ragazzina / ho giurato / che avrei guardato in silenzio / la bellezza dei germogli svanire / davanti ai miei occhi».

Alessandro Zaccuri, nella prefazione scrive:

«Le poesie di Antonietta Gnerre seguono il percorso inverso. Si aprono con versi che già annunciano quanto verrà dopo, come in una mise en abyme anticipata ma non precipitosa. Viene in mente lo specchio che nei Coniugi Arnolfini di Jan van Eyck riassume e nello stesso tempo capovolge l’intera scena. La contiene e, contenendola, la interpreta. «Quello che non so di me / è superiore alla piog­gia» […] Quelli ap­pena citati sono i versi iniziali di una poesia che, con studiata consapevolezza, si incontra ben oltre la metà della raccolta, in una sezione posta sotto l’emblema arcano e affascinante del muscovite, il cristallo dall’a­spetto tagliente che ben simboleggia l’affilato desiderio di precisione senza il quale nessuna avventura poetica potrebbe essere intrapresa. L’equivalente minerale del­la ginestra leopardiana, in un certo senso […]».[2]

Il nome della poesia è un grido davanti all’Eterno, terra che si rivolge verso l’alto, parola di sangue e centro esatto del cielo, come nei volti cari e amati, nella tutela dei numi e nella fronda “sfrondata” del tempo, come avviene in questo omaggio a Pasolini, prossimo e venturo: «[…]Sono una madre. Madre di un figlio e di figli mai nati./ Come te ho avvertito la mia croce umana. / Mi asciugo le lacrime con i resti delle mie mani. / Il mio sguardo fissa un solo punto. Gli ospedali sono / fatti di pareti / che sembrano fili di nuvole che soffrono il cielo».

Il nome del nome. Gnerre vive di questa nominazione, come un gemito di sogno e promessa («Quello che mi piace del tuo nome / è ciò che non è stato nei secoli. / Da bambino ti svegliava / quando non sapevi parlare. / Quando non conoscevi i numeri. / Lo ascoltavi in silenzio / prima di aprire gli occhi, / prima che lo smalto di una nuvola / diventasse grigio. / Lo so: hai bisogno di saperti in questo nome. / Di indossarlo come fosse seta, / straccio, riparo momentaneo»), il cielo abbassato sopra la pelle, la nascita e l’indumento dei sogni e la voce che si sporge sulla luce o, anche, il volo di una preghiera sommessa e lucente, come il bacio verso tutte le foglie che si sono viste cadere:

«Se ora riuscissi a dire piano il verbo che più hai amato, / a non smettere di pronunciarlo nei pensieri, / azzererei gli alfabeti i colori i rumori. / Gli anni vissuti. / Con la punta delle dita sfiderei il tempo  / – dalle tarme di una coperta –  / per vedere quei continenti distanti / che sognavo da bambina. / Se ora riuscissi a declinarlo piano il verbo del perdono, / vicino al muro della tua casa di Polla, / ferma accanto al grano, alla rosa./ Con le spalle verso la terra, / con gli occhi fissi sul cipresso che non c’è più, / ascolteresti la mia voce nella tua luce».

Il transito della vita, l’irenismo[3], la scomposizione memoriale e temporale, il contemporaneo avvenimento del qui e ora custodiscono la scena del mondo, dove la parola, la poesia che misura i nomi, il lessico familiare e intimo aprono il segreto che forma l’universo, lo scandiscono, lo sillabano, ne fanno, insomma, un respiro che si prolunga, che tocca gli apici diurni di ogni sostanza:

«C’era il respiro dei campi / accanto a te. Talvolta sfiorava / la pietra ferita. / La rifrazione della luce  / che creava i fiori. / Forse era un giorno d’autunno / quando lo hai udito per l’ultima volta. / Scintillava nell’erba impermeabile. / Eri bambina, contavi i tigli / sussurravi alle foglie: / sono foglia anche io. / Di notte lo immaginavi vicino al letto / a proteggerti dalla cera della vita, / che cadeva sul portone. / Un colpo d’aria scriveva la tua storia. / Quella che leggono i vivi fino a cadere / nei punti invisibili dei corpi».

E la salentina Pescoluse ne diviene il cosmo unico:

«Il pavimento forma un verso. / E qui, dove invento una casa nella tua, / poggio le mani sui muri ancora caldi / dell’ultima estate. / Le poggio per misurare chi siamo. / Gli ulivi ci attendono nascosti. / Ora, ad esempio, anche loro stanno fissando / le formiche che trasportano un chicco di grano. / Il verso si completa con la luce che arriva / dalle persiane / tra i nomi delle formiche che ci osservano».

E poi il sigillo delle nuvole come anime materne, le pareti del silenzio, gli anni raccolti prima di dormire come un eliso esilio, i ricordi e l’odore del pane, la goccia che somma il tempo, i colori lontani, la veglia e i fili, la muscovite e i suoi disegni.

L’eternità è un ramo di foglia innocente:

«Quello che non so di me / è superiore alla pioggia. / Si rifiuta di cadere. / È una bellezza che resiste  / al buio dei temporali. / È una piccola follia / che si ferma sopra le curve / della massa informe delle strade. / Quello che non so di me / conta gli anni dei fiumi, / tutte le mani che hanno lavato / le lenzuola. E le cose ferme a terra /tra gli abbracci delle piante. / C’è remissione nel naufragio dei miei occhi. / C’è supplica nel prestare attenzione / alle cose che mi mancheranno».

 

 

Gnerre A., Quello che non so di me, prefazione di Alessandro Zaccuri, Interno Poesia, Latiano (Br) 2021, pp.92, Euro 11.

Gnerre A., Quello che non so di me, prefazione di Alessandro Zaccuri, Interno Poesia, Latiano (Br) 2021.

Blanco G., Antonietta Gnerre, Quello che non so di me, (leggeretutti.eu/antonietta-gnerre-quello-che-non-so-di-me/), 7 aprile 2021.

Guarracino V., Poesia, Gnerre tra tempo, storia e identità, in “Avvenire”, 20 agosto 2021.

[1] Gnerre A., Quello che non so di me, prefazione di Alessandro Zaccuri, Interno Poesia, Latiano (Br) 2021.

[2] Zaccuri A., prefazione, in Gnerre A., cit., p.5.

[3] Blanco G., Antonietta Gnerre, Quello che non so di me, (leggeretutti.eu/antonietta-gnerre-quello-che-non-so-di-me/), 7 aprile 2021.