Il ritardo mentale e gli atti sessuali

image

di Emanuele Mascolo

… Rubrica di Giurisprudenza

5 giugno 2015

La questione che tratteremo, riguarda il caso in cui un soggetto affetto da ritardo mentale possa compiere atti sessuali validi. Prenderemo in considerazione, per rispondere, a tale questione la recente Sentenza della Suprema Corte di Cassazione, numero 18513 del 5 maggio 2015, la quale ha ritenuto che “trarre esclusivamente dalle modalità con cui è stato consumato l’atto sessuale la prova dell’induzione abusiva all’atto stesso sconta il rischio, che la stessa norma vuole evitare, che si possa identificare la condotta di induzione (mediante abuso della condizione di inferiorità fisica o psichica) con l’atto sessuale che ne è il risultato, con la conseguenza di impoverire l’indagine in ordine alla minorata capacità del partner ad autodeterminarsi all’atto sessuale e di svalutare, in ultima analisi, ogni aspetto che possa concorrere a ricostruire in modo approfondito la dinamica che precede l’azione e a comprendere se davvero abuso v’è stato.”
Dal punto di vista giurisprudenziale, che è ciò che più rileva in questa sede, quando si discute del ritardo mentale, si fa spesso il confronto tra disturbo di personalità e imputabilità.
Ciò discende anche da recenti interventi giurisprudenziali. Infatti, la Suprema Corte di Cassazione ha evidenziato che “anche i disturbi della personalità, che non sempre sono inquadrabili nel ristretto novero delle malattie mentali, possono rientrare nel concetto di ” infermità”, purché siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere o di volere, escludendola o scemandola grandemente, e a condizione che sussista un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa, per effetto del quale il fatto di reato sia ritenuto causalmente determinato dal disturbo mentale. Ne consegue che nessun rilievo, ai fini dell’imputabilità, deve essere dato ad altre anomalie caratteriali o alterazioni e disarmonie della personalità che non presentino i caratteri sopra indicati, nonché agli stati emotivi e passionali, salvo che questi ultimi non si inseriscano, eccezionalmente, in un quadro più ampio di “infermità”. Non può pertanto affermarsi in termini assolutistici che il disturbo di personalità ex sé sia inidoneo ad integrare l’ipotesi della incapacità di intendere e di volere: l’esclusione di tale status, se non accompagnata da una vera propria patologia o infermità, abbisogna di una specificazione in merito alla portata di quella infermità che non necessariamente deve consistere in una patologia di tipo mentale o intellettivo – cognitivo, potendo discendere anche da altre forme morbose che possono incidere sul piano della capacità di intendere e di volere. Ne deriva la necessità, per il giudice di merito, laddove investito di una questione che involge comunque un disturbo caratteriale o relazionale di una determinata persona imputata (o imputabile) di accertare funditus se tale anomalia abbia un qualche collegamento con una situazione di malattia tale da compromettere la capacità intellettiva e volitiva del soggetto: esigenza tanto più insopprimibile, se riscontrata da dati clinici ricavabili ex actis o, comunque, da elementi tali da determinare una necessità di approfondimento specifico.1”
L’articolo 97 del codice penale, richiama l’imputabilità di “chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, non aveva compiuto i quattordici anni” seppur ciò, stando ad alcune tesi giurisprudenziali, “non esclude necessariamente la sua maturità psichica ed intellettiva.2”
Il successivo articolo 98 del codice penale, stabilisce invece che “è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto aveva compiuto i quattordici anni, ma non ancora i diciotto, se aveva capacità d’intendere e di volere”, tralasciando il conteggio dell’eventuale pena.
Alla luce di quanto esposto, va rilevato come la Sentenza della Suprema Corte di Cassazione, dalla quale ha preso spunto il nostro discorso, ha sostenuto che, “la consapevolezza dello stato di inferiorità psichica non esaurisce le condizioni che la norma prevede per la punibilità della condotta descritta dall’articolo 609 bis c.p., comma 2, n. 1, essendo necessario che a tale consapevolezza si accompagni l’abuso della minorata condizione per indurre la persona offesa al compimento di atti sessuali frutto di un consenso viziato.3”
L’articolo 609 bis del codice penale, richiamato dalla sentenza, prevede – lo si riporta per chiarezza espositiva – che “chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da cinque a dieci anni.
Alla stessa pena soggiace chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali
1) abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto;
2) traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra persona.
Nei casi di minore gravità la pena è diminuita in misura non eccedente i due terzi.
Nel caso di specie al quale la Sentenza della Corte di Cassazione numero 1815 del 2015 si riferisce, emerge il riscontro da parte di medici, di un lieve ritardo mentale nella vittima.
Alla stregua di ciò la Cassazione, ha ritenuto di rifarsi al principio di diritto secondo cui, “ in tema di atti sessuali commessi con persona in stato di inferiorità fisica o psichica, perchè sussista il reato di cui all’articolo 609 c.p., comma 2, n. 1, e’ necessario accertare che: 1) la condizione di inferiorità sussista al momento del fatto; 2) il consenso all’atto sia viziato dalla condizione di inferiorità; 3) il vizio sia accertato caso per caso e non può essere presunto, né desunto esclusivamente dalla condizione patologica in cui si trovi la persona quando non sia di per sé tale da escludere radicalmente, in base ad un accertamento se necessario fondato su basi scientifiche, la capacità stessa di autodeterminarsi; 4) il consenso sia frutto dell’induzione; 5) l’induzione, a sua volta, sia stata posta in essere al fine di sfruttare la (e approfittare della) condizione di inferiorità per carpire un consenso che altrimenti non sarebbe stato dato; 6) l’induzione e la sua natura abusiva non si identifichino con l’atto sessuale, ma lo precedono”, pertanto, ha annullato l’ordinanza impugnata, disponendo il rinvio al Tribunale di Padova, che riesaminando il caso, dovrà prendere il considerazione tale principio di diritto.

_____________________________________________________________________________

1 Cass. Sez. Un. n. 9163/2005, Raso, Rv. 230317
2 Cass. n. 15523/1989; Cass. n. 49863/2009.
3 C. Cass., n.18513/2015.

I crimini violenti contro le donne: una lettura antropologica

a cura di Sara Ginanneschi 26 maggio 2015

CRIMINOLOGIA-26-27-giugno-2015-loc.-e-programma_Pagina_1-800x1035Il 26 ed il 27 GIUGNO 2015, il Polo Psicodinamiche di Prato ospiterà il CORSO DI CRIMINOLOGIA:
“I CRIMINI VIOLENTI CONTRO LE DONNE” a cura del Prof. Vinicio Serino.

Dalle culture pre-agricole dell’area mediterranea risalenti all’8000AC ai giorni d’oggi, sembra essere la struttura societaria e l’organizzazione dei ruoli sessuali a delineare una modalità in cui predomina la cura parentale, come salvaguardia di una specie, rispetto ad una in cui prevale l’aggressività e la violenza come forma di protezione del gruppo.
Le società primitive, ossia i primi aggregati di Sapiens sapiens, manifestavano una divisione dei compiti per il controllo degli spazi e l’acquisizione delle risorse indispensabili alla vita. Si trattava di “società acquisitive”, composte da popolazioni di cacciatori-raccoglitori “che traevano le risorse direttamente dall’ambiente, muovendosi sul territorio, senza praticare forme di agricoltura e di allevamento”, ma sfruttando, senza trasformarle, le risorse alimentari, animali o vegetali, rinvenute in natura (Godelier, 1977). In queste società le donne avevano prevalentemente compiti di  raccolta di vegetali o di piccoli animali e di cura parentale; gli uomini quelli della caccia, a prede che spesso, potevano diventare predatori. Sarebbe quindi un’etica naturale, un meccanismo biologico affinatosi per evoluzione naturale, ad incanalare ed orientare i comportamenti umani. Essa ha la vocazione della universalità in quanto agisce come una sorta di codice genetico innato che serve, in ogni gruppo sociale, a garantire la copertura dei tre bisogni primordiali: l’alimentazione, la sopravvivenza, la riproduzione della specie e funziona sulla base del principio della cooperazione specifica tra i membri del gruppo: senza il rispetto delle prescrizioni imposte da quel codice e quindi senza una attività cooperante di copertura di quei bisogni, quell’aggregato non potrebbe esistere.
L’etica naturale funziona allora come uno straordinario meccanismo attraverso il quale è possibile avviare e mantenere la cooperazione tra appartenenti allo stesso aggregato sociale. Ogni comportamento indirizzato ad ostacolare la soddisfazione, da parte dei cooperanti, dei bisogni primari è deviante perché crea le condizioni per dissoluzione del gruppo. Sono allora ipotizzabili, in questa prospettiva, delitti naturali, come quelli che impediscono, dice Chiarelli, la perpetuazione “del DNA tipico della specie e la sua variabilità infraspecifica”. Il mancato esercizio della cura parentale; l’inadempimento del dovere di riproduzione; la mancanza di cooperazione nella acquisizione del cibo e nella difesa del gruppo comporterebbero inevitabilmente la fine dell’intero aggregato sociale.
È in queste ancestrali forme di aggregazione, con la conseguente assegnazione dei ruoli, che vanno ricercate le basi stesse della preminenza e talvolta del dominio dell’uomo sulla donna. Una vera e propria gerarchizzazione dei rapporti che comporta la valorizzazione dei compiti affidati ai maschi: in particolare sullo “scarto tecnologico tra uomini e donne”, avendo i primi “il monopolio degli strumenti-armi, della lavorazione delle materie prime; gli uomini hanno il controllo dei mezzi-chiave di produzione (attrezzi, tecniche, terra, capitali, manodopera) e di quelli di difesa e di violenza, da cui deriva il dominio dell’organizzazione simbolica e politica” (Mathieu, 2006). E quindi la subordinazione della donna, entro la quale possono manifestarsi le più diverse forme di violenza.
L’ipotesi antropologica si pone quindi l’obiettivo di ricostruire storicamente il motivo per cui il fenomeno della violenza alle donne nasce, esattamente come lo psicoanalista utilizza la storia di vita del suo paziente per capire il problema che lo affligge oggi.
Il Prof. Serino affronterà un excursus storico per spiegare come tutte le società hanno sempre assegnato ai due sessi due funzioni diverse nel corpo sociale: la riproduzione ed il lavoro (Mathieu, voce sesso in Izard e Bonte, 2006), fino ad arrivare ai giorni d’oggi, alla subordinazione della donna rispetto all’uomo, alla rivoluzione sessuale ed al femminismo, fino alla storia odierna ed agli aspetti morali e giuridici della violenza nel 2015.

Le origini di Giancarlo Pontiggia

di Andrea Galgano 7 maggio 2015

leggi in pdf LE ORIGINI DI GIANCARLO PONTIGGIA

giancarlo-pontiggia-1-300x225Nell’introduzione a Origini. Poesie 1998-2010, edito da Interlinea, che raccoglie il corpus poetico di Giancarlo Pontiggia, Carlo Sini scrive che: «[…] un’autobiografia poetica è sempre, per profonda necessità, anche storia della vita e storia della terra, del nome e del senza nome, del travaglio del tempo e della sua eterna salvezza, storia di questo azzurro del cielo che è insieme quello di sempre come quello di un milione di anni fa», e il destino dell’effimero è «nel suo abbraccio con l’incircoscrivibile circolo del mondo, con la verità del più profondo destino, perché «sempre / la vita ha il suo ritorno»: è proprio così è, ogni volta, una volta per sempre».
La poesia e la lingua di Giancarlo Pontiggia «rovista», come scrive Alessandro Moscè, «nelle immagini opache, nel travaglio della memoria, nei guizzi improvvisi di luce, nella simbologia delle ombre che tengono insieme la vita, ogni vita, e che consegnano un eterno ritorno dove la plasticità delle forme si dissolve rapidamente. In ogni testo, rigoroso nella costruzione e nella rastremazione dei vocaboli, il canto si riproduce nel mezzo di un’atmosfera decadente che sfuma e che accoglie un’eco remota, arcaica (una “brunitura arcaizzante”, scrive Massimo Raffaeli)».
Questa rastremazione è il frutto di una remota e intermittente rivelazione del tempo che diviene labirinto di spasimo e ritrovamento, traccia discosta e segno, ferita, appropriazione. L’insorgenza della memoria, se da un lato si impossessa della più feconda germinazione de presente, dall’altro fronteggia la perdita come muto grumo e celamento.
La poesia deve recuperare questo spigolo di ombre lontane e tempo rifratto, come scrive giustamente Roberta Bertozzi: «Pontiggia sente innanzitutto il bisogno di tracciare un confine di dicibilità, un compito, una direttrice espressiva, anche divergendo dal coevo panorama letterario, diviso in quegli anni fra le prove di un’avanguardia ormai fossilizzata nella sua maniera e l’affermarsi di un minimalismo lirico in bilico tra rinascenza orfica e dettato prosastico […]».
La sua nitidezza è esito aureo di pacatezza, ricerca l’armonia riferente e la trasparenza che colori l’opaca fessura della realtà, in cui l’inserto degli affetti e dei ricordi possa tralucere in tutta la sua estrema verbalità.
Sin dalla sua prima raccolta Con parole remote (1998), la stretta esigenza di un recupero memoriale e di uno scrupolo rammemorativo non si nutre soltanto di una insolvente traccia irrecuperabile ma questa rarità di tempo sfogliato «spuma», come annota ancora Alessandro Moscè, «nell’incalzante ombra: una rifrazione, un’anamorfosi che permette di collocarlo solo in una polverosa esistenza di secoli che si raggruppano indistintamente, tra detto e non detto. Un’esistenza irrelata, con una campionatura che fa dell’uomo una comparsa e niente di più. È appunto il tempo, con le sue visitazioni, che risulta un incubo, ma anche uno sprone alla riflessione negli inserti del discorso indiretto. Il comando delle cose è l’estremo sentire del frammento, il responso della classicità di Pontiggia».
Nell’incipit della prima silloge, la disposizione espressiva ripristina la sua metafisica chiaroscurale, intercetta la sacralità del reale, si innerva nelle pieghe del vivente con sottaciuta sequenza recitativa e umbratile: «Vieni ombra / ombra vieni / ombra ombra / vieni oh vieni, buia / Sali tra i gradini, nel tempo […] con ogni doglia, con tutte le furie / con ciò che nell’ombra si sfoglia / con quel che nell’ombra spuma / Ombra vieni / ombra ombra / vieni ombra / nel vento nel vento / nel greve tormento / vieni oh vieni tra i numeri, nel fuoco / diventa canto roco».
La nominazione dell’ombra appare come una incrociata dissolvenza figurata, ruba tregue come un confine mobile, in una oscillazione di fuoco e di buio avito. La fascinazione di Pontiggia si alimenta costeggiando stanze ombrose e riparate, sente la potenza enigmatica del suo pensiero spaesante che si fa meditazione immaginosa e lucente, come scura crepa.
I confini del tempo dei nomi, i segni che si disegnano, il canto non depauperato e visitato, stabiliscono il loro comando e responso, come un limite e frammento stremato di ombre e fiamme: «con queste parole / e non altre / dette nel cuore di un’estate / compiute, ripetute e celate / sopra la terra e in ogni stagione / restituitemi / salvo e incolume / nel senso che do alle mie parole / in quel senso solitario con cui voglio / che vengano dette, / ascoltate e pensate / e per voi / tra i lari delle stanze e dei giardini / tra gli spigoli del mondo».
Queste spigolature di tempo raccolgono le epifanie azzurre, le porosità fuggenti e infrante dell’essere che appare in tutta la sua vivida incisione e mancata decifrazione: «epifania di azzurro / altissimo e fuggente, quando / un tempo appare, compagno / di più forti memorie, / per voi, nel cuore / di un nuovo giugno / di un anno che si infrange contro / il tempo, il secolo, un tempo / che non è più tempo, mentre / alte ombre s’addensano, scure / ombre ombre, in una stazione / del mondo, nella povere / di un antico responso / io, per voi, anno / dopo anno, su un orlo / di stanze fruscianti».
Commenta Roberta Bertozzi: «Il contatto con questa istanza originaria, con questo nodo «remoto», cioè relativo a un sostrato esistenziale e psichico che è riflesso, contingente manifestazione di una più vasta antecedenza, sarà espresso nei versi sempre nella modalità di un’epifania, codificata da tutto un corollario stabile di immagini. Lo sfarzo ceramico dei mesi estivi, la forza chiarificatrice della luce meridiana, il ritaglio spaziale che si gioca fra l’intrico degli ambienti domestici e lo slargo vertiginoso degli esterni – così come il rilievo cromatico degli elementi, solitamente disposto in serie binaria, in un alternarsi di ombre e azzurrità, di nero e oro – sono i concreti segnali dell’apertura di un varco, dell’ingresso del poeta in una diversa soglia, cui di frequente si accompagna uno stato di smarrimento personale, di soggettivo oblio».
L’ossessività del lessema temporale incela frammenti, li depone in una vasta estremità di orme invisibili, incide il suo silenzio di polvere. E i frammenti d’estate si fanno confini di ombre «nella polvere delle strade che svoltano / contro cieli alti», tutto, pertanto, promana nella visione di un baluginio di spaesamenti e paesaggi che si attestano tra sonno e veglia, tra fiammanti stupori come preghiera antica e increata, come scrive egli stesso su “Poesia e Spiritualità” del 2008: «Le parole della poesia sono sempre remote anche quando ci parlano di qualcosa che è qui, ora, nel tempo del nostro presente: sono remote perché richiedono una forma appartata, una disciplina della distanza, un tempo sospeso – dell’immaginazione e del pensiero – che sia in grado di scolpire verità decisive».
Tutte le forme della realtà vengono determinate dalla nominazione, dall’inno, dalla mimesi lucida che restituisce non solo impatto visivo ma fragranza di percezioni e lievi incrinature, disposte verso una prossimità che è insieme rigenerazione e creazione, segretezza e incrocio, palpebra e solco immemore.
Scrive Paolo Lagazzi: «La lontananza di questa lingua dal folto degli eventi è il modo stesso della sua libertà, della sua passione testimoniale, del suo desiderio di piegarsi verso i doni del passato – i volti di estati defunte, i «legni / di un antico fuoco» – per tradurli, per riportarli a un presente troppo spesso sigillato nella ferocia dell’oblio. Nascendo da un incontro con l’ombra, o con quel po’ di luce che resiste tra le braci di un tempo perduto, declinandosi per timbri filtrati ma non certo spenti, la raccolta è come una pellicola “in negativo” dell’esistenza, capace però di evocarne tutti i colori».
I confini di Pontiggia avvertono la propria finitudine, cercano l’oro e custodia numinosa, un salvo fuoco che risale l’ombra e inchioda la dualità passato-memoria in una sospensione di luci più grandi, in una invocazione deposta «su un’ara remota», dove tradurre «un cielo sconfitto / in rose di versi, in fuochi / solitari».
Massimo Raffaeli, soffermandosi sul flusso delle immagini, nota come: «Il libro di Pontiggia esce illeso dalla duplice ipoteca e trova una sua procedura sintattica, la sua verità, nel limite stretto che gli è dato dalla piena consapevolezza sia di non poter più avallare il decorso di un “io” esemplare sia dalla impossibilità di poter contare su un “tu” (o, tanto meno, su un “noi”), vale a dire su un orizzonte di attesa condiviso. Le parole sono dunque remote, lontane o rimosse, dall’orgoglio dell’autore come dalla certezza di un interlocutore, esse ritmano un flusso trattenendo immagini e figure la cui forza sta proprio nella loro certezza identitaria».
La postura elegiaca del tempo, pertanto, richiama le sue origini irrevocabili, recupera il colmo vuoto del passato in un apice algido che dicibile incerto, il «baluginante nero» di ciò che nell’esistenza brucia, nel battito di «forze» che «premono sul mondo / ed è giugno, è sera, e odoranti / selve di glicine dilagano / sul cotto dei muri; / o se, in un’altra / sera, di settembre aureo, / tra pioppi frondosi, nel succo / di un tempo che pare / fisso, ed è, mentre rosseggiano / le bacche delle traslucide / settembrine / senti / una vita ignota, / che urge; […]».
La sua scena primaria svela le mattine che si disf ano con il sole, la crescita dei meriggi ciechi e le buie ombre (ancora una volta) che indorano di vertigini la materia vivente e le cose e in cui « La fioritura, come l’alba, la ricorrente luce e l’ombra in agguato, conferiscono la caducità, la capitolazione dell’io». (Alessandro Moscè).
Il legno dolce del mondo, come il solstizio d’estate che ricorre nella sua equanime immagine solare, orla l’esultanza e l’esplosione della forma del vivere, in cui persino la nostalgia cede il passo e il potere a una malinconia persa, in un flusso che plasma, prefigurando le origini: «Per una volta ci occorre il miracolo, / la lingua intraducibile, il fuoco / che divampa sull’orlo dei campi / e non straripa; / per una volta sostiamo in un golfo / di more e di foglie, in un sonno / pomeridiano; / siete nel primo minuto, nel gonfio /ramo, alla svolta di un altro tempo, / in un’ansa più lenta, / nel centro».
Ed ecco che la parola si affranca dall’accennato buio, afferma il suo lascito di attriti e splendori, spoglia le «volte trascorrenti» e si attesta in uno sciame di estati accese, luce di meriggi e roghi, per essere argilla di tempo, robinia verdissima e presagio di voli.
Nella via dolorosa e virata di Bosco del tempo, egli raccoglie altezze sperdute e trascendenti: sono fantasmatiche espressioni ricolme che umidificano la memoria, la prendono in tutta la sua trama ordita che diviene immagine speculare di una lucente e rapinosa visione, che dilaga e si espande: «Fin qui gli sciami ronzanti / le volte / porose del cielo che si dilata, si espande / nella sera che brucia, e l’ombra / di azzurre mattine. Ma ora nuvole / basse e ferrigne, e acque / diluvianti, e il tempo / che s’impigra in scure / scure anse, e si dipana lento, / tra le forme del mondo che si cela. / Quanti autunni hai guardato, e quante / foglie incartocciate, che danno / addio ai loro rami, quante, / mentre Orione ruotava intorno / allo zenit, e il mare, freddo, / rumoreggiava?».
Scrive Daniele Piccini: «Il tempo e le sue boscosità, la tradizione e le sue campiture sono affrontate come misteriosi anfratti, in cui ancora può generarsi l’alone di una parola sonante e potente, tuttavia più consciamente immersa nell’agone del mondo e nell’evocazione della vita presente, qui e ora, nella sua fuggente e fiammante presenza».
La «stirpe fuggente dei sogni» si concede alla brevità spaesata e allo sgomento onirico, e di nuovo l’ombra procede nella sua straziata soglia e nella febbre delle verdi foglie dell’infanzia taciuta: «Sotto questo azzurro, vedi, lo stesso / di un milione di anni fa, nell’ombra / che sconfina, ruvida, eguale, non sentivi, / fanciullo dolce, troppo educato, una vertigine / scura, dura, una febbre di verdi foglie / sulla tua fragile (troppo fragile) nuca?»
Commenta Moscè: «Non c’è germe assolutizzante in Pontiggia, ma come riferito, l’ansia di infinito induce a puntare gli occhi in alto e a tremare, fino a che l’“ombroso dove” sposa un certo neo romanticismo, un’inquietudine perturbante nel proseguo del processo poetico. Si rintracciano elementi riconducibili al sehnsucht di derivazione tedesca traducibile come desiderio che sperimenta l’uomo nei confronti dell’infinito e che rivela un malessere struggente, che si rifugia nell’interiorità che supera lo spazio-tempo».
Lo spazio minimo del poeta è tempo raro, fiato dell’essere e domanda oltre il vuoto. Ecco la nudità cosmica del tempo, la lunga estate, il silenzio dell’infanzia: «Eppure un cielo era sempre / cielo / e il nome della notte / notte. S’impaludava, il tempo, / tra canne, vampe, e afrori / di un’estate lunghissima, / inaudita. Taceva, l’infanzia, / come un sito troppo impervio, / ostile. Chi passasse di lì, per caso, / trasecolava, come per una / cima inviolata, o un letto di fiume / disseccato».
Il sigillo del reale ha una lenta precipitosità e sembra sfaldarsi nel tempo della sua ombra buia. E appartengono a questa oscura fecondità i poeti latini amati, scrutatori di un gesto poetico domestico e visionario, che insegue il solitario spazio, richiamato, dell’anima.
Sostiene Alessandro Carrera che: «Nel Bosco del tempo, le sezioni L’infanzia tace e Severa adolescenza, ad esempio, sembrano lottare precisamente contro il più grande avversario del poeta, che è il poeta stesso, la costruzione del suo sé, l’edificio ingombrante edificato con i mattoni del suo passato e dei suoi sentimenti perduti, che dovrebbero morire e non muoiono mai perché la poesia non li lascia sprofondare nella terra, anzi li va a riesumare con picche e con vanghe, colorando la loro esumazione di una illusoria luce dorata».
L’accumulo del tempo repertato ha folgorato l’inazione della precedente silloge in una labirintica e puntuale presentificazione del reale e attraverso una elegiaca chiusura dell’inverno sull’esplosione cromatica dell’estate. La ciclicità dell’anima, pertanto, si dispiega nelle cromature stagionali e nel perenne disvelamento del destino. L’inverno spoglia l’oro ancestrale e radioso, la temporalità diviene «vento fermo, una / clessidra sospesa», il per sempre è mai più, ciò che era prima sarà dopo: «Novembre, con le piogge, era un cielo / grigio, cupo, che fiottava. Sopra / di me una luce stagnava, algida, molle: / un fuoco iroso, strano. Sbattevano, ai vetri, / le ali scure, ansiose / di uno stormo in cammino: tra le stanze / chiuse, senza nome, covavano / i miei pensieri, come, / tra le doghe, un vino / dolcissimo, inaudito».
Annota Massimo Morasso: «Ma c’è un rovello continuo, dentro al tempo, che Pontiggia non si stanca di pungolare – la relazione fra il tempo e la sua assenza, l’apparente opposizione, cioè, fra il tempo che disfa e il tempo, o i tempi, o, forse, meglio, i non-tempi, dell’eterno. Si tratta di un rovello maniacale, però mai sopra le righe. Il piglio compostamente emozionato dell’ispirazione scompagina i termini dell’opposizione, ne attenua la portata dialettica; il richiamo all’infanzia e all’adolescenza non rinvia tanto al “ricordo” come schema della trasformazione del vissuto in oggetto salvifico della reminiscenza, quanto, come sembra, al bisogno di un’incessante drammatica ri-semantizzazione dello spazio».
Come accade nelle soste di questo strano bosco, la poesia frammentata di polvere e di oro disanellato allontana l’antico sogno che si annunciava. Ci sono le foglie che scricchiano e i cuori che ghiacciano: «Per me che sognavo / una parola sola / (una ferma corazza, una beata viola) / solo polvere e frammenti, disanellati / ori. / Non è per voi questo tempo / o troppo quieti, o mesti / nomi: al gelo che si annuncia / scricchiano anche le foglie, / ghiacciano i cuori».
Il clinamen della poesia di Pontiggia oscilla nei trapassi delle stagioni, esprimendo non solo l’angoscia prostrata o l’inquietudine, ma anche la vastità dello sguardo, la sua ricchezza, il giardino che disgela le prigionie e il nuovo insorgere beato della vita.
Dai Canti di Boréa e i regni di luce e di cristallo dell’inverno minerale, «la voce che parla nel Bosco spazia sulle tracce del tempo perduto […] per contemplarlo come un tempo ritrovato, per farcene sentire gli aromi, le ferite e i doni, per rilanciarne verso il cielo dei sogni i segreti e gli arcobaleni, le febbri gloriose e le nevi smemoranti, o anche per risvegliare in esso il sentimento dell’ “altro”, l’incontro con quel regno di fantasmi e visioni, con quel “delirio” che è uno dei semi decisivi dlela poesia”» (Paolo Lagazzi).
Le vie polverose, i miti, l’Arcadia, gli sprofondamenti erratici e ombrosi del sogno (riverberi della vita vissuta) e delle ore frananti, divengono collezioni di bellezza aurorale, mondo infimo e tessuto onirico incarnato «sul quieto rame / del giorno» dove «il cielo / era un liquido sentiero» e il mare corrucciato nella falce della baia.
Le epifanie di Pontiggia trasformano la materia dell’esistente e dell’esistenza in scuro miele, la datità nuda e scarna del reale in una frondosa e incessante vibrazione. Il mondo diviene il punto tutelare e naufragante, affinchè la poesia possa celarsi e diventare «ombra, foglia, buia porta».
L’attimo invocato, distinto e rimpianto, permette prospettive rovesciate e punta lo sguardo, come dice puntualmente Massimo Morasso, «sulla quintessenza della realtà».
Commenta infatti Moscè: « Pontiggia ricerca la conoscenza di portata universale, leopardiana, la comprensione di ciò che è leggibile in un’abitudine, in una fruizione tramandata, in una dedizione alla sensibilità del luogo, degli anni che attraversano l’ambiente domestico per un nuovo cominciamento. La risonanza universale offre dati esterni, un connotato di intimità, una sincronia tra questi livelli e l’identificazione dell’uomo con le vaghe atmosfere, mai consolatorie, che spingono ad elaborare consuntivi provvisori. Il tempo fisso è quasi sempre stordito, infranto. La realtà non è una scena esteriore, ma una foggia scavata, un pathos dolce, disperso, un’esperienza purificata, una luce di passione che si contorna di ombre, di graffiti».
Molti sono gli esempi lucenti, intrisi di luce profetica e visionaria che recano, in modo imperituro, il sigillo di una coltre distillata: «L’aria s’imbruna, allora, / nella sera vermiglia, stormente, / e d’altri / venti, premonitrice, sente / l’anima il suono velato, materna-/ mente operoso. O grembi, o foglie / di un tempo generoso, io m’inoltro / per vie straniere, disusate: siete / il miele che distilla una quieta / pace, e il tempo, forte, che lo affina», o ancora: «Cieli, tempi, cose – ori / ombrosi della mente. Come in un’anfora / scaldata dal sole, tutto / fu veduto in un lampo / da un pertugio di fiamme / sopite. Anche tu, che guardi / dal di fuori: e sei dentro, invece: dentro / la notte che contempli, notte / della sua luce, luce / in cui ti annienti».

Pontiggia-Origini-180GIANCARLO PONTIGGIA, Origini. Poesie 1998-2010, Interlinea, Novara 2015, euro 24.

PONTIGGIA G., Origini. Poesie 1998-2010, con un saggio di Carlo Sini, Interlinea, Novara 2015.
BERTOZZI M, L’età dei nomi infelici. Note sulla poesia di Giancarlo Pontiggia, in “claDestino”, 3-4, 2013.
CARRERA A., Giancarlo Pontiggia – «Bosco del tempo», in “Gradiva”, 33 (2008), Spring.
FILIA F., In compagnia della Musa. La scrittura di Giancarlo Pontiggia, in “Poetarum silva”, 13 ottobre 2014.
ID., Origini. Intervista a Giancarlo Pontiggia, in “Poetarum silva”, 24 aprile 2015.
GARAVELLI B., Giancarlo Pontiggia e la voce forgiata fuori dal tempo, in “Avvenire”, 7 agosto 2005.
GARDINI N., Con parole remote, in «Poesia», 117, maggio 1998.
LAGAZZI P., La stanchezza del mondo. Ombre e bagliori dalle terre della poesia, Moretti & Vitali, Bergamo 2014.
ID., Forme della leggerezza, Archinto, Milano 2010.
LECCHINI S., I fantasmi della libertà. Scrittori fra invenzione e destino, Moretti & Vitali, Bergamo 2006.
LOI F., Natura e uomo riuniti nella poesia, in “Il Sole24ore”, 8 gennaio 2006.
MARANGONI M., Giancarlo Pontiggia e la lingua della poesia, in “clanDestino”, 4, 2013.
MOSCÈ A., Il tempo delle ombre di Giancarlo Pontiggia (http://poesia.blog.rainews.it/2015/04/04/il-tempo-delle-ombre-di-giancarlo-pontiggia/).
MUSSAPI R., Dono ed esercizio, in “Avvenire”, 13 luglio 2014.
PICCINI D., La letteratura come desiderio, Moretti & Vitali, Bergamo 2008.
RONDONI D., Con parole remote, in “clanDestino”, 3, autunno 1998.
ROSSANI O., Nel bosco fitto dei ricordi dove i versi della tradizione possono inventare una vita, in “Corriere della Sera”, 30 ottobre 2005.
ROSSI P., «Lo stadio di Nemea. Discorsi sulla poesia», in “Avvenire”, 13 agosto 2014.
SCARDANELLI F., Giancarlo Pontiggia, il nostro “greco”, in “Il Domenicale”, 21 gennaio 2006.

5 MAGGIO: GIORNATA NAZIONALE CONTRO LA PEDOFILIA

2787166674

di Emanuele Mascolo

… Rubrica di Giurisprudenza

5 maggio 2015

Si celebra oggi la Giornata Nazionale contro la pedofilia e per l’occasione pubblichiamo alcune notizie in merito, prendendo in considerazione il passaggio storico della legislazione in Italia a tutela della pedofilia oltre le pronuncie delle recenti sentenze della Suprema Corte di Cassazione.

Principalmente è doveroso sottolineare che questa giornata è stata istituita con la Legge numero 41 del 2009, che all’articolo 1, afferma: “la Repubblica riconosce il 5 maggio come Giornata nazionale contro la pedofilia e la pedopornografia, quale momento di riflessione per la lotta contro gli abusi sui minori.
In Italia, la tutela del minore nasce in primis dai principi costituzionali, ex articoli 2, 3, 30, 31, 34 della Costituzione Italiana.
Inoltre si sono susseguite Leggi a tutela del minore, in particolare dell’abuso del minore. Tra queste, va ricordata la Legge numero 66 del 1996 contro la violenza sessuale, come anche l’importantissima Legge numero 269/1998, che ha introdotto nel codice penale le norme a tutela della prostituzione minorile,della pornogrrafia minorile, (articoli 600bis, 600ter, c.p.), che è stata modificata dalla Legge numero 36 del 2006, prevedendo l’inasprimento delle pene.
La recentissima giurisprudenza in materia, ha avuto modo di stabilire come “le nozioni di “produzione” e di “esibizione” contemplate nell’articolo 600 ter c.p., richiedono l’inserimento della condotta in un contesto di organizzazione almeno embrionale e di destinazione, anche potenziale, del materiale pornografico alla successiva fruizione da parte di terzi, deve escludersi che un tale contesto organizzativo e di destinazione possa essere desunto esclusivamente dalla disponibilita’ di uno strumento oggi in possesso di chiunque, quale un computer solo perche’ il computer costituisce (al pari di tanti altri) un mezzo con cui le immagini potrebbero in astratto essere diffuse o condivise, tanto piu’ se il computer e’ privo di programmi di scambio, condivisione o divulgazione di file” (C. Cass., n. 40781 del 2 ottobre 2014), come anche, “i palpeggiamenti, i toccamenti e gli sfregamenti corporei, posti in essere nella prospettiva del reo di soddisfare od eccitare il proprio istinto sessuale, in quanto coinvolgono la corporeita’ della vittima, possono costituire una indebita intrusione nella sfera sessuale di quella” ed in particolare “per il minore, infatti, la prostituzione rappresenta raramente il frutto di una scelta spontanea, essendo prevalentemente determinata da pressioni (o da vere e proprie coercizioni) di fronte alle quali egli non dispone di alcuna valida alternativa, sicche’ l’atto sessuale compiuto dal minore prostituito non puo’ inquadrarsi in un’area di liberta’, area la cui sostanziale inesistenza il “cliente” non puo’ dunque ne’ ignorare, ne’ fingere di non conoscere. Quand’anche, poi, si dovesse riscontrare l’assenza di interventi esterni di condizionamento di tale spazio di liberta’, e’ comunque ragionevole che l’ordinamento vieti l’acquisto di prestazione sessuali presso un soggetto che presuntivamente non ha ancora raggiunto quel livello di maturita’ tale da consentirgli una valutazione davvero consapevole in ordine alle ricadute della mercificazione del proprio corpo sul suo sviluppo psico-fisico; ne consegue che, indipendentemente dal suo atteggiamento psicologico e dalla sua condotta (quand’anche connivente o adescatrice), il minore e’ reputato sempre e comunque una vittima.” (C. Cass., Sezioni Unite Penali, n.16207 del 14 aprile 2014).

Quando il reato di violenza sessuale è procedibile d’ufficio?

violenza-sessuale-universita-evidenza-1

di Emanuele Mascolo

… Rubrica di Giurisprudenza

23 aprile 2015

In alcuni casi, per il reato di violenza sessuale, procedibile su querela della persona offesa, può procedersi d’ufficio. Lo chiarisce e ribadisce la recentissima Sentenza della Corte di Cassazione, con la sentenza numero 14247 del 9 aprile 2015.
Ciò è possibile, infatti, “ogni qualvolta l’indagine sul reato perseguibile di ufficio comporti necessariamente l’accertamento di quello punibile a querela, in quanto siano investigati fatti commessi l’uno in occasione dell’altro, oppure l’uno per occultare l’altro oppure ancora in uno degli altri collegamenti investigativi indicati nell’art. 371 cod. proc. pen.”
Il caso affrontato dalla Corte di Cassazione riguarda il reato di violenza sessuale esercitato da un medico all’interno della struttura ospedaliera, nei confronti del paziente. A tal proposito, si deve rimarcare, come ha ben fatto la Suprema Corte, che, per la violenza sessuale commessa da un’ incaricato di pubblico servizio, qual è il medico, non è necessario “l’abuso delle funzioni pubblicistiche svolte, essendo sufficiente il semplice collegamento tra le condotte illecite e le predette funzioni” principio questo confermato da precedenti giurisprudenziali (Sez. 3, n. 50299 del 18/09/2014, S., Rv. 261388).

Suprema Corte di Cassazione
sezione III
sentenza 9 aprile 2015, n. 14247
Ritenuto in fatto

1. M.R. ricorre per cassazione avverso la sentenza del 26 novembre 2013 con la quale la Corte di appello di Torino, in parziale riforma della sentenza emessa dal tribunale della medesima città, ha rideterminato in anni sette e mesi sei di reclusione la pena infintagli per i reati previsti dagli articoli 609 bis, commi 1 e 2, 609 ter, comma 1 n. 3, codice penale perché, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso costringeva mediante abuso di autorità e comunque induceva – in determinati casi ed anche in distinte occasioni R.T. (capo a), D.A. (capo b), Z.M. (capo c), C.A. (capo d), P.O. (capo e), Ca.Fe. (capo f), M.D. (capo g), Po.Ca.An. (capo h) e B.F. (capo i) – a subire atti sessuali anche abusando delle condizioni di inferiorità fisica e psichica al momento del fatto nel quale versavano le persone offese e commettendo i fatti nel corso degli anni (omissis) anche nella rivestita qualità di medico specialista in pneumologia operante presso l’ospedale (omissis) , e quindi quale incaricato di pubblico servizio nell’esercizio delle sue funzioni.
2. Per la cassazione dell’impugnata sentenza M.R. articola, tramite il difensore, tre motivi di gravame, qui enunciati, ai sensi dell’art. 173 disp. att. cod. proc. pen., nei limiti strettamente necessari per la motivazione.
2.1. Con il primo motivo deduce violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b) e c), cod. proc. pen. con riferimento alla violazione e falsa applicazione dell’articolo 609 septies, comma 4 n. 4, codice penale in relazione agli articoli 12 e 371 codice di procedura penale con conseguente improcedibilità per tardività e/o inesistenza della querela relativamente ai capi e), h) ed f), dolendosi del fatto che i giudici del merito hanno erroneamente ritenuto che il ricorrente rivestisse, per le funzioni esercitate all’interno dell’ospedale, la qualità di incaricato di pubblico servizio, laddove detta qualità non è attribuibile al medico che esegua le visite in regime cosiddetto intramoenia con la conseguenza che i reati contestati in relazione alle visite effettuate nei confronti delle parti offese P. , Po. e C. dovevano ritenersi procedibili a querela, nella specie mai presentata. Né poteva ritenersi applicabile al caso di specie l’articolo 12 del codice di procedura penale che non contempla la connessione tra reati a querela tardiva o inesistente e reati perseguibili d’ufficio, posto che la connessione che i giudici del merito hanno ritenuto applicabile è quella “speciale” di cui all’articolo 609 septies, comma 4 n. 4, del codice penale. Detta connessione sussisterebbe però solo per i reati commessi a danno di una stessa parte offesa ed è definita quale “connessione apparente” oppure laddove siano soddisfatti i requisiti di cui all’articolo 371 del codice di procedura penale quale “connessione investigativa”.
2.2. Con il secondo motivo deduce l’inosservanza o erronea applicazione della legge penale nonché la mancanza della motivazione su punti decisivi del giudizio (art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen.) con riferimento alla alla mancata assoluzione ai sensi dell’articolo 530 cpv. codice di procedura penale per i singoli episodi (visite). Sostiene che, in relazione alle visite specificate a pagina 2 del ricorso nei confronti delle parti offese ivi indicate, la condotta, così come ricostruita, non appare “configurare alcuna rilevanza penale, con conseguente richiesta di assoluzione ai sensi dell’articolo 530, secondo comma, codice di procedura penale per i singoli episodi come sopra identificati, assoluzione disattesa dalla Corte di appello con motivazione erronea perché illogica, se non addirittura omessa”.
2.3. Con il terzo motivo denuncia difetto o manifesta illogicità della motivazione quanto al mancato riconoscimento dell’attenuante di cui all’articolo 609 bis, ultimo comma, codice penale per i singoli episodi e del mancato riconoscimento delle attenuanti generiche prevalenti e nella massima espansione (art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen.).
Sostiene che, per gli episodi contestati, si dovesse applicare l’attenuante della minore gravità, “erroneamente disattesa dalla Corte di appello di Torino con motivazione illogica e comunque apparente, con difetto di argomentazioni specifiche in ordine alla medesima censura contenuta nei motivi di appello”.

Considerato in diritto

1. Il ricorso è infondato.
2. Quanto al primo motivo, con logica ed adeguata motivazione, come tale sottratta al sindacato di legittimità, la Corte piemontese è giunta a ritenere che i fatti di cui ai capi e), h) ed f) furono commessi dal ricorrente nella sua qualità di medico ospedaliero, pervenendo a tale conclusione sulla base del fatto, incontroverso e neppure contestato, che, nel caso in esame, le persone offese P. , C. e Po. si fossero rivolte in prima battuta all’imputato, per come emerso da tutte le testimonianze raccolte, perché incardinato presso l’ospedale (OMISSIS) dove le stesse erano state sottoposte alle visite mediche de quibus e senza conoscere lo specialista personalmente, per poi continuare con lui nelle visite di controllo successive. Neanche vi era dubbio che la funzione del M. (di medico ospedaliero e quindi incaricato di pubblico servizio) avesse agevolato la commissione dei reati anche quando egli agiva come medico “intramoenia”, qualifica spesso nemmeno percepita dalle persone offese. Perciò, quanto al medico che operi in regime di “intramoenia”, va ricordato che il rapporto instauratosi tra medico e paziente è di natura pubblicistica quando il secondo si rivolge al primo non per ragioni professionali, che riguardino lo specifico professionista, ma alla struttura ospedaliera nell’ambito della quale il sanitario opera, con la conseguenza che, a tal proposito, questa Corte ha già avuto modo di affermare che è procedibile d’ufficio, ai sensi dell’art. 609-septies, comma quarto, n. 3, cod. pen., il reato di violenza sessuale commesso all’interno della struttura sanitaria ai danni di una paziente da un medico ospedaliero, rimanendo irrilevante che questi, per il rapporto di fiducia instauratosi con la paziente, abbia fissato le visite senza seguire il normale iter burocratico per l’accettazione, in quanto tale circostanza non modifica la natura pubblicistica del rapporto intercorso tra medico e vittima (Sez. 3, n. 28839 del 28/05/2008, Giuliano ed altro, Rv. 241010). Fuori discussione, dunque, che il ricorrente agì nella qualità di medico ospedaliero, va poi ribadito che la procedibilità d’ufficio del delitto di violenza sessuale commesso dall’incaricato di pubblico servizio non richiede l’abuso delle funzioni pubblicistiche svolte, essendo sufficiente il semplice collegamento tra le condotte illecite e le predette funzioni (Sez. 3, n. 50299 del 18/09/2014, S., Rv. 261388). Par altro verso, in ordine alla procedibilità d’ufficio del reato di violenza sessuale, questa Corte ha affermato che, in materia di delitti di violenza sessuale, la procedibilità d’ufficio determinata dalla ipotesi di connessione prevista dall’art. 609 septies, comma quarto, n. 4 cod. pen. si verifica non solo quando vi è connessione in senso processuale (art. 12 cod. proc. pen.), ma anche quando v’è connessione in senso materiale, cioè ogni qualvolta l’indagine sul reato perseguibile di ufficio comporti necessariamente l’accertamento di quello punibile a querela, in quanto siano investigati fatti commessi l’uno in occasione dell’altro, oppure l’uno per occultare l’altro oppure ancora in uno degli altri collegamenti investigativi indicati nell’art. 371 cod. proc. pen. (Sez. 3, n. 2876 del 21/12/2006,(dep. 25/01/2007, P.G. in proc. Crudele, Rv. 236098). Si tratta di un orientamento del tutto condivisibile e recentemente ribadito da questa Sezione (Sez. 3, n. 2856 del 16/10/2013, dep. 22/01/2014, B., Rv. 258583), la quale ha precisato che i reati di violenza sessuale sono procedibili senza necessità di querela anche nell’ipotesi di collegamento investigativo rilevante a norma dell’art. 371, comma secondo, cod. proc. pen. con altra fattispecie procedibile di ufficio sul rilievo che “la ragione della perseguibilità d’ufficio dei delitti contro la libertà sessuale non risiede nel disinteresse dello Stato al perseguimento degli stessi, ma nella necessità di bilanciare l’esigenza del perseguimento dei colpevoli con l’esigenza della riservatezza delle persone offese, data la particolarissima natura di tali reati, in relazione ai molteplici contesti socioculturali nei quali gli stessi possono essere commessi. Tale esigenza viene meno proprio nel caso in cui le indagini su fatti perseguibili d’ufficio abbiano attinto alla riservatezza delle persone offese per connessi reati sessuali, nel caso in cui questi siano stati commessi in occasione degli altri, o per conseguirne o assicurarne al colpevole o ad altri il profitto, il prezzo, il prodotto o l’impunità, ovvero – e questo è il caso più frequente – se la prova di un reato o di una circostanza influisce sulla prova di un altro reato o di un’altra circostanza o se la prova di più reati deriva anche parzialmente dalla stessa fonte”.
Ne consegue che, realizzatasi una delle fattispecie indicate nell’art. 12 o 371 cod. proc. pen., sia del tutto indifferente se i reati stati commessi a danno di una stessa parte offesa o di persone offese diverse.
Consegue l’infondatezza del motivo.
3. Il secondo ed il terzo motivo di gravame sono inammissibili per aspecificità posto che la Corte territoriale ha fornito adeguate risposte (pagg. 21 e 23 della sentenza impugnata) alle doglianze formulate dal ricorrente con i motivi di appello e le ragioni della decisione non sono state oggetto, come si ricava dal tenore letterale dei motivi (v. sub. 2.2 e 2.3. del ritenuto in fatto), di specifica critica come esige l’art. 581, comma 1, lett. c), cod. proc. pen. per il quale ogni impugnazione deve contenere i motivi con l’indicazione “specifica” delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono la richiesta. Nella specie, la Corte territoriale, quanto alla generica richiesta di assoluzione in relazione a talune persone offese, ha spiegato che la doglianza, oltre ad essere connotata da estrema genericità già con i motivi di appello, fosse del tutto priva di fondamento posto che le visite mediche tra il ricorrente e le persone offese altro non erano che occasioni colte dall’imputato per compiere atti sessuali, specificando l’esito degli accertamenti processuali diretti a comprovare tale affermazione, esiti in alcun modo specificamente criticati con il motivo di ricorso.
Quanto poi al mancato riconoscimento della diminuente del fatto di minore gravità, la Corte torinese ha posto in rilievo come il diniego fosse giustificato dall’invasività dei reiterati atti sessuali realizzati dal ricorrente, che aveva più volte infilato le dita nella vagina e nel retto delle persone offese, che non esitava a spaventare dicendo falsamente che era obbligato a effettuare tali manovre per escludere tali patologie, commettendo i fatti alla luce della qualifica rivestita e del contesto pubblico nel quale operava. Rispetto a tali affermazioni e in presenza comunque della concessione della attenuanti generiche, il ricorrente nulla ha specificamente indicato per supportare la richiesta di ribaltamento delle corrette e logiche valutazioni operate dalla Corte d’appello.
Segue il rigetto del ricorso con conseguente condanna al pagamento delle spese processuali e di quelle sostenute nel grado dalle parti civili indicate nel pedissequo dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali ed a quelle sostenute nel grado dalle parti civili C.A. e P.O. liquidate nella complessiva somma di Euro 3.600, Z.M. liquidate in Euro 2.200, ASL di Torino n. 2 liquidate in Euro 3.000 oltre accessori di legge e spese generali, per tutte.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell’art. 52 d.lgs. n. 196 del 2003 in quanto imposto dalla legge.

L’inconscio sociale dell’economia

di Irene Battaglini 12 aprile 2015

leggi in pdf recensione a Silverio Zanobetti, Per un’economia perversa

9788884102171Silverio Zanobetti
Per un’economia perversa
Firenze: Clinamen, 2015
pp. 132, euro 9,80
ISBN 978-88-8410-217-1

 

 

 

 

…Se realmente si troverà un giorno la formula di tutte le nostre voglie e capricci, cioè da cosa dipendano, per quali leggi esattamente si determinino, come esattamente si diffondano, dove tendano nel tal caso e nell’altro, eccetera, eccetera, cioè la vera formula matematica, allora l’uomo, forse, smetterà subito di volere, anzi smetterà sicuramente. Ma che gusto c’è a volere secondo una tabella? E non basta: subito si trasformerà da uomo in puntina d’organetto o qualcosa del genere; perché cos’è l’uomo senza desideri, senza libertà e senza volontà, se non una puntina nel cilindro di un organetto?
F. DOSTOEVSKIJ, Memorie del sottosuolo, 1864

Per un’economia perversa, il primo lavoro firmato da Silverio Zanobetti uscito da poco per Clinamen, si inscrive in quel rango di opere, rare a causa della loro struttura complessa e che richiedono una forma mentis in grado di abbracciare i campi del sapere più diversi senza smarrire la bussola del proprio sentiero intellettuale, caratterizzate da una personalità liminale tra un potente desiderio di contemporaneità – connotato dalla commistione interdisciplinare che si “affresca” in quadri di grande bellezza estetica, di linguaggio e di orizzonti – e un ricorso restauratore e categorizzante alla tradizione filosofica del ‘900, a dichiarare una lunga evidenza di studi approfonditi e chiarificatori. Questo da un punto di vista metodologico.
Ma a farci guidare dal taglio lucido dell’autore, rischiamo di non accorgerci di scivolare dentro la sua storia: l’approccio di Zanobetti all’economia è sia uno studio raffinato, sia una necessità di esprimere il proprio sentire, relativamente ad un conflitto forse più antico, come se il suo cuore di giovane autore fosse intrappolato dalla coazione a spiegare che rapporto possa intercorrere tra l’uomo e l’economia contemporanea, in termini filosofici.
L’autore si domanda che cosa spinga l’uomo a viversi un carattere “mercantile”, come avrebbe detto Erich Fromm, declinato secondo le trame della modernità, che dilagano ben oltre le borse on line, passando dall’empowerment (pensiamo ai manuali di self change) al deep web (in cui, oltre ai file riservati e ai documenti di interesse specifico, si consuma il commercio oscuro delle perversioni agite attraverso la mercificazione del corpo, scenario di emozioni proibite ma soprattutto sadiche e regressive).
La riflessione di Zanobetti si distribuisce in quattro parti: la premessa, e tre capitoli, ciascuno dotato di una sua propria caratura. Il primo, Biopolitica e neoliberalismo; il secondo, Economia simbolica e mercato identitario; il terzo, dedicato a Pierre Klossowski, Economia perversa e moneta vivente.
Ai nostri lettori interesserà molto la cornice psicoanalitica di riferimento. Zanobetti indaga come l’“ideologia neoliberale” si snodi nella vita dell’uomo contemporaneo, attraverso un duplice corno di riflessioni. Da una parte sembra stare l’uomo “psicobiologico”, pulsionale, animato da antichi bisogni che si determinano nella sua atavica “mancanza”, nella sua psicologia desiderante e che lo spingono a porre le cose in relazione sul piano dell’utilità; e dall’altro sta l’uomo filosofico, con il suo richiamo alle cose messe in rapporto con l’esigenza di dare loro un senso, di dare all’azione e al sentire umano una coerenza, una possibilità di uscire dallo scacco degli istinti. Sullo sfondo sta Freud e tutta la psicoanalisi, chiamata a discutere allo stesso tavolo: infatti il termine stesso “pulsionale” o “impulsionale” deriva la sua diffusione da Trieb (pulsione), «processo dinamico consistente in una spinta (carica energetica, fattore di motricità) che fa tendere l’organismo verso una meta. Secondo Freud, una pulsione ha la sua fonte in un eccitamento somatico (stato di tensione); la sua meta è di sopprimere lo stato di tensione che regna nella fonte pulsionale; la pulsione può raggiungere la sua meta nell’oggetto o grazie a esso»1. Zanobetti infatti utilizza il termine proprio nell’accezione biologistica, ad esempio quando dice: «Il lavoro freudiano era stato quello di legare l’economico all’intensità libidinale: Pierre Klossowski è avanzato lungo queste orme fino a postulare un’equivalenza tra economia impulsionale ed economia di mercato» (2015, p. 11).
Ma quali sono i fenomeni psichici che spingono l’uomo contemporaneo dell’Occidente a focalizzarsi sui propri bisogni, sebbene al livello primario, quello della mera sopravvivenza fisica, questi siano già soddisfatti? «Alienazione, ansia, solitudine, paura dei sentimenti profondi, carenza di iniziativa e mancanza di gioia. Questi sintomi hanno assunto il ruolo centrale occupato, al tempo di Freud, dalla repressione sessuale»2, sostiene R. Funk (1992), l’ultimo grande esegeta di Erich Fromm.
Se le pulsioni, nella concezione freudiana, sarebbero sessuali ed aggressive e tutta la teoria elaborata da Freud per spiegare le origini e il funzionamento dello psichismo umano, sembri basata su una progressiva trasformazione delle spinte sessuale o aggressive (sebbene oggi non sia più possibile ricorrere alla teoria freudiana allo stato puro e la psicoanalisi sia evoluta in una direzione relazione e interpersonale), Erich Fromm sostiene che «prima di ogni altra cosa l’uomo è una creatura sociale»3. Prosegue Rainer Funk, riproponendo Fromm: «La psicoanalisi deve studiare la “patologia delle normalità”, quella lieve schizofrenia cronica prodotta dalla società cibernetizzata, tecnologica, … » 4.
Nel libro si riflette sul ruolo dello stato nell’economia, e di come questi due “sistemi” umani siano parzialmente sovrapposti; ma anche di come questa interconnessione influenzi la condotta del singolo e delle masse, ad esempio quando Zanobetti tenta di superare con Baudrillard il pulsionale freudiano allo stato puro della sua concezione, introducendo un costrutto cognitivo, l’attribuzione valoriale: (pp. 40-41)

Abbiamo visto grazie a Freud e Groddeck che la pulsione di morte è interna allo stesso principio di piacere e che il movimento pulsionale tenderebbe al ritorno ad un livello inorganico. Ignorando ciò la “scienza” economica non può che fraintendere gli smarrimenti raccontati da Baudrillard nell’ultimo capitolo di Per una critica dell’economia politica del segno. Baudrillard fa un primo esempio: un gruppo violento durante un’azione di protesta neutralizza il servizio d’ordine di un grande magazzino; i ribelli invitano le persone a prendere tutto ciò che vogliono senza pagare. Ma le persone non sanno cosa prendere, si limitano a rubare qualche oggetto da poco ed escono dal grande magazzino. Altro esempio: alcuni vincitori milionari di una qualche lotteria provano panico di fronte alla disponibilità assoluta di tempo libero. Senza dimenticare i casi di atleti che ad un passo dalla vittoria vengono posseduti dalla nota “paura di vincere”. Questi smarrimenti non possono essere spiegati semplicemente tramite la psicologia del profondo. Nel caso del magazzino, spiega Baudrillard, nel momento in cui si neutralizza il valore di scambio scompare anche il valore d’uso. Svaniscono tutti i bisogni e la razionalità in cui l’uomo, secondo la “scienza economica”, dovrebbe consistere. Quando il valore di scambio viene neutralizzato in un processo di dono e gratuità e di dépense anche il valore d’uso diventa inafferrabile. Questo accade perché ciò che non è mediato dalla competizione nell’ambito della posizione sociale diventa privo di valore. Non c’è appropriazione spontanea dei beni del grande magazzino perché al di fuori della logica del valore l’uomo non ha “bisogno” di niente. Prendere non è mai stato sufficiente per il piacere: occorre ricevere, dare, restituire e distruggere in modo che i consumatori non siano esclusi dalla logica dello scambio simbolico. Questi esempi mostrano una specie di controeconomia misteriosa del rifiuto di vincere, una sofferenza nel godere in cui si esprime la pulsione di morte. Il rifiuto è sempre un rifiuto agli altri, e quindi in quel rifiuto di vincere, nel rifiuto di rubare i beni dei grandi magazzini, vive sottotraccia la virtualità simbolica dello scambio. Il desiderio, scrive Baudrillard, non vuole realizzarsi nella libertà, ma nella regola, non nella trasparenza di un contenuto di valore, ma nella opacità del codice del valore.

Qui sembra tornare in gioco proprio l’inconscio sociale di Erich Fromm. Il socio-analista di Francoforte sostiene5 :

È importante analizzare il moderno consumismo come un atteggiamento, o per meglio dire un tratto caratteriale. Non ha alcuna importanza cosa venga consumato: possiamo consumare cibo, bevande, televisione, libri, sigarette, quadri, musica e sessualità. Nell’atto del consumare, il soggetto assorbe avidamente l’oggetto del suo consumo e al tempo stesso ne viene assorbito. Gli oggetti del consumo perdono la loro qualità concreta, poiché non vengono concupiti in ragione di specifiche e reali realtà umane bensì di una onnipotente bramosia: l’avidità di avere e di usare. L’atteggiamento consumistico è un modo alienato di essere in contatto con il mondo, giacché l’uomo trasforma il mondo in un oggetto della sua avidità invece di interessarsene e di entrare in relazione con esso.

Se volessimo addurre una interpretazione oggettuale, potremmo spiegare come non abbia senso “divorare” un seno che non abbia latte, ma neppure un seno che abbia latte in sovrabbondanza: non stimolerebbe il desiderio di possedere la madre, la fonte di quel nettare pacificatore e gratificante, ed eccitante, immaginifico. Una pulsione senza desiderio sarebbe dunque un drive anti-evolutivo, una motivazione inutile, privata del suo stesso oggetto, poiché non insegnerebbe all’uomo le strategie necessarie al mantenimento del potere nell’ambito delle relazioni primarie e dunque la sua sopravvivenza nell’ambiente e alla madre.
Questo dispositivo di base si trasforma inevitabilmente in una perversione, quando l’uomo dal livello “simbolico” passa, nel suo comportamento, ad un livello “simbolizzato”: quando cioè trasforma ogni atto ed ogni gesto, ogni relazione, in una rappresentazione estrema delle sue pulsioni primarie. Quando costruisce un’economia che diventi un seno semivuoto, per poter sperimentare senza tregua il desiderio di appropriarsene, e creare quindi un sistema dotato di gerarchie asservite a questa potenziale supremazia, alimentando l’ideale di un uomo e di una donna self-made, capaci di organizzarsi per assecondare l’offerta di beni e servizi, secondo una spinta autoaffermativa connotata da una necrofilia sublimata. Questo innesca controrisposte che a loro volta costituiscono la polarizzazione del sistema. Pensiamo ad esempio alla deriva ortoressica cui assistiamo recentemente, senza entrare nella disquisizione etica. Psicoanaliticamente, si potrebbe dire che le nuove organizzazioni filoanimaliste costruiscono nuovi sistemi per dare vita ad un potere nuovo: il disprezzo dell’estrema simbolizzazione perversa che si estrinseca nel Gran Consumo di esseri viventi. Questo disprezzo tuttavia si trasforma in un eccesso di controtendenza, una sorta di apostasia cui segue la conversione, ad esempio, all’ideologia vegana: ma anche in quelle organizzazioni il potere e il desiderio non possono essere rimossi, trovano una loro nuova simbolizzazione, la terra diventa un seno talmente buono da rendere cattivo l’essere umano che intenda appropriarsene, come se la spinta mortale e quella di sopravvivenza si sovrapponessero, ingenerando un senso di colpa di cui il vegano si fa carico trasformandosi in eroe in cerca di espiazione per le colpe dei suoi simili.
In questa ottica, e non solo naturalmente, il libro di Silverio Zanobetti Per un’economia perversa può diventare un terreno per riaprire il confronto dialettico della psicoanalisi con la società: quella società che oggi non è neppure dei consumi di beni e di servizi, ma delle relazioni. Valga a titolo di esempio la questione della “moneta vivente”, elaborata attraverso l’analisi delle opere di Klossowski (Zanobetti, 2015, pp. 111-112):

Per capire come far diventare l’emozione voluttuosa un fattore economico nell’economia perversa di Klossowski è necessario far innanzitutto riferimento a Sade. L’emozione voluttuosa è sadianamente preliminare all’atto della procreazione e viene tenuta indefinitamente in sospeso tramite un prelevamento operato sull’istinto di propagazione. Tale sospensione implica un prelevamento della forza impulsionale che va a formare «la materia di un fantasma che l’emozione interpreta; e il fantasma assume qui il ruolo di oggetto fabbricato» [P. Klossowski, La moneta vivente, pp. 55-56]. Nell’industria ogni fenomeno umano è suscettibile di essere trattato quale materiale sfruttabile, assoggettabile alle variazioni di valore. Questo vale anche per l’emozione voluttuosa e per il suo potere di suggestione. Nel mondo dell’industria artigianale la rappresentazione dell’emozione voluttuosa si celebrava tramite la rarità di un quadro, di un libro o di uno spettacolo i quali regalavano un certo prestigio derivante dalla suggestione che emanavano gli oggetti stessi. Questo tipo di prestigio è quello a cui faceva riferimento Veblen. Ma nel regime industriale si assiste ad un passaggio importante: vengono standardizzati gli strumenti meccanizzati della suggestione. La suggestione, provocata attraverso stereotipi, si fa quasi gratuita in quanto il prototipo stesso è senza prezzo. Allora, scrive Klossowski, sarà la sensazione che si può provare a valere più dell’immagine suggerita. Si crea così la possibilità di uno sfruttamento massivo in quanto «la stereotipia della suggestione permette all’industria di intercettare la genesi dei fantasmi individuali per volgerli verso i suoi fini, per rimuoverli e disperderli nell’interesse stesso delle istituzioni» [P. Klossowski, La moneta vivente, p. 57].

Continua Zanobetti (2015, p. 127):

Cos’è una moneta vivente? Occorre dire che ciò che viene comprata è l’emozione voluttuosa generata dal fantasma impulsionale del compratore. «Il perverso può avere rapporti commerciali solo con quel corpo-simulacro il cui valore dipende dall’intensità del fantasma da cui egli è abitato»[] perché ciò di cui entra in possesso acquistando il corpo è unicamente il corpo in quanto simulacro ed equivalente del fantasma. Klossowski ipotizza che i produttori potrebbero esigere a titolo di pagamento degli oggetti di sensazione, degli esseri viventi. […] Il progresso tecnologico diminuisce la mano d’opera e aumenta il tempo disponibile per la sensazione, ma la sensazione non è certamente gratuita e il tempo guadagnato in questo modo è disponibile solo per altre produzioni. In teoria si può pagare il salario in oggetti viventi di sensazioni se questi diventano valutabili in quanto lavoro fornito; perché questo sia possibile è necessario che l’oggetto vivente costituisca preliminarmente un valore. Ma non vi è comune misura tra la sensazione che questo oggetto vivente procura in se stesso e la quantità di lavoro fornito. Nelle classiche regole economiche di scambio l’oggetto vivente, fonte di sensazione vale il suo costo di mantenimento. Per modificare la classica modalità di scambio non si può semplicemente pensare allo scambio di oggetti inerti rari, bensì ad un oggetto vivente, che procura sensazioni voluttuose e che, o sarà moneta e sopprimerà le funzione neutralizzanti del denaro, o fonderà il valore di scambio a partire dall’emozione procurata. Così come solitamente un attrezzo rappresenta un capitale investito, così nell’economia perversa di Klossowski un oggetto di sensazione diventa un attrezzo fonte vivente di una possibile emozione. A partire da tale emozione può divenire l’oggetto di un investimento. L’attenzione deve andare al fatto che nell’economia perversa klossowskiana non si commercializza la creatura vivente stessa ma l’emozione che provoca in un ipotetico consumatore.

In questo scenario, la relazione analitica può diventare uno degli ultimi baluardi di quella che Erich Fromm descrive come Authentisch leben, la vita autentica, nell’omonima opera mai tradotta in italiano (Freiburg: Herder Verlag, 2000)6.
L’uomo vive e sente come propri sentimenti, emozioni, pensieri. Ma sono proprio suoi o veicolati da fuori, attraverso l’ambiente? Probabilmente egli è autore, inconsapevolmente, di entrambe le cose.
___________________________________________________________________________

1 J. Laplanche e J. B. Pontalis, Enciclopedia della psicoanalisi, Laterza, 1993, pp. 458-561. Breve definizione di pulsione in Enciclopedia della psicoanalisi. Pulsione è un concetto sviluppato da Freud per dare una spiegazione dei moventi inconsapevoli che condizionano le condotte umane, in termini di processi inconsci.
La pulsione sarebbe l’eccitazione di tipo somatico che promuove i processi psichici, premendo sull’individuo e spingendolo a sviluppare quei comportamenti che permetterebbero una scarica della tensione provocata dalla spinta pulsionale.
Freud usò il termine Trieb (invece di Istinkt, istinto). Le pulsioni si svilupperebbero in maniera plastica, con un’economia idonea a dare soddisfazione ed a scaricare la carica di energia somatica ed avrebbero una origine biologica.
Nelle lingue neolatine il termine pulsione, non usato nel linguaggio comune, ha mantenuto nell’opinione corrente il connotato biologistico freudiano, nonostante questo non sia più mantenuto tra gli psicoanalisti. Nelle lingue anglosassoni il termine freudiano fu tradotto dapprima con “instinct”, ben presto con “drive” e più recentemente con “motivation”.

2 R. Funk, introduzione a E. Fromm (a cura di R. Funk), L’inconscio sociale: Alienazione idolatria, sadismo. Arnoldo Mondadori, 1992, pp. 5-6.

3 E. Fromm (a cura di R. Funk), L’inconscio sociale: Alienazione idolatria, sadismo. Arnoldo Mondadori, 1992.

4 R. Funk, introduzione a E. Fromm (a cura di R. Funk), L’inconscio sociale, Arnoldo Mondadori, 1992, pp. 5-6.

5 E. Fromm (a cura di R. Funk), L’inconscio sociale: Alienazione idolatria, sadismo. Arnoldo Mondadori, 1992, p. 117-118.

6 E. Fromm and R. Xirau (ed.), The Nature of Man. Readings selected, edited and furnished with at introduction by Erich Fromm and Ramon Xirau (1968b), New York (Macmillan) 1968. – The “Introduction” Erich Fromm appeared for the first time in German GA IX, pp 375-391, and was for the most part in E. Fromm, Authetisch Leben (2000b), Freiburg (Herder Verlag) 2000, pp 29-58, reprinted.

La verde promessa di Franco Fortini

di Andrea Galgano 8 aprile 2015

leggi in pdf  LA VERDE PROMESSA DI FRANCO FORTINI

Franco20FortiniFranco Fortini (1917-1994) ha concretato, nel suo gorgo poetico, un profondo e difettivo abitato neorealistico, che appare come una «limpida esperienza civile, una mai sopita interrogazione del futuro effettuata in chiave etica, una ricerca di senso condotta non tanto nel riposo della natura, piuttosto nel mare aperto delle idee o nell’incalzare dei fatti della Storia» (Giuseppe Lupo).
Egli, pertanto,come scrive Matteo Marchesini «con le sue allegorie composte e atroci, propone un’arte retorica straniante ma nitida, ricca di stratificazioni ma priva di aloni, e raggelata da un rigoroso scavo razionale: cioè una poesia che esige un difficile esercizio di intelligenza ostinandosi a tenere acrobaticamente insieme marxismo e alta cultura, mentre le loro sorti si separavano in modo irreparabile».
L’interrogazione del tempo si innerva pienamente nel processo letterario, in cui l’indagine e l’analisi sociale si rivolgono, partendo da un minimo tessuto individuale, a una lotta radicale, come afferma Raboni e alla necessità dell’inno e della lamentazione assurti a valori e ideali compositi e a coscienze congiunte.
Scrive Edoardo Esposito: «Eppure non si può negare che, della poesia e del proprio stesso percorso attraverso la poesia, Fortini tendesse di fatto a privilegiare i momenti che più esplicitamente la collegavano al versante della riflessione critica ed eventualmente della denuncia politica, e a svalutare quanto invece permanesse sul più intimo piano della confessione, dell’elegia, e diciamo pure della consolazione».
Già nella prima raccolta Foglio di via (1946), la vitalità del registro espressivo e la sperimentazione fanno i conti con una nuova esegesi della realtà, ammainata nel disincanto: «Il passato vi è reinterpretato», annota Luca Lenzini, «alla luce dell’esperienza e della consapevolezza della posta in gioco nel conflitto (nonché dei limiti del proprio bagaglio culturale): la guerra, le sofferenze inflitte alla popolazione, gli incontri con i propri simili di ogni condizione e fede, l’abisso che separa chi comanda e chi combatte e muore: tutto questo, insieme alla solidarietà e agli ideali che si fanno azione, e al ripensamento della stessa storia della nazione a partire dai suoi contraddittori fondamenti, forma il nucleo drammatico e incalzante intorno al quale coagulano i fermenti intellettuali ed etici del libro d’esordio».
Le tre sezioni del libro si aprono ai richiami elegiaci e striduli di un assedio linguistico, in cui la parola proclamava la sua profonda densità e il suo fondo evocativo, in cui l’elegia lucente e dissolta congeda la bufera dei mormorii.
L’isolamento, la spettrale compagnia della morte, il viaggio-paesaggio risultano essere lo stigma di un io aperto che si imbatte nella sua vittimologia carnefice, nei segni feriti della Storia, nella scarsezza dolorosa di una poesia «spezzata fra l’esasperata vergogna del proprio status e la certezza – o cattiva coscienza – che mai come oggi» divengono gli strumenti per una diminuzione della “normalità infernale” della profezia rivolta al passato, al disperso cammino verso la ricerca della verità, laddove l’assolutezza e l’universalità si appropriano della sua pagina in modo progressivo.
Scrive Franco Gallo:

«Dunque la poesia è vergogna di sé. La vergogna, peraltro, è duplice. Come attività dispendiosa e lussuosa in un mondo pervaso da altri e più concreti bisogni, la poesia avvalla la diseguaglianza tra gli uomini che ne è condizione di possibilità e di esercizio. Come atto profondamente ricco di consapevolezza e di esperienza (carattere che mai Fortini le nega), è inoltre esercizio di libertà, ma a scapito di ben diversi atti di liberazione concreta che incalzano la coscienza morale. Mai la libertà della poesia (si badi bene: reale rasserenamento, autentica emancipazione) dovrebbe esercitarsi in mancanza della libertà dal bisogno dei nostri simili; mai la via soggettiva alla felicità ed all’autorealizzazione, incarnata dall’arte e sempre possibile, dovrebbe essere percorsa mentre la libertà fondamentale dal bisogno è negata a tanti di noi. Fortini rifiuta tuttavia di fare di questa condizione il segno di una deficienza strutturale ed incontrovertibile della poesia, di scorgervi una “legge catastrofica”. […] Fortini va pertanto in cerca di una poesia pensosamente distruttrice, capace di celebrare il distacco luttuoso dalla tradizione (Fortini liquida sia le identità del poeta che le funzioni della scrittura consegnateci dall’esperienza letteraria moderna) come un gesto di liberazione tanto necessario quanto enorme. Permanente è il richiamo di Fortini alla vera natura della poesia, realizzatasi in tempi lontani nella misura classica, come contemplazione della natura distaccata dal dolore, propria di un’umanità privilegiata. Questo, e non altro, sembra essere l’unico importo possibile della pratica poetica ed insieme il suo limite strutturale: poter cogliere la pienezza della natura, e reinserirvi l’uomo e la sua vicenda solo per perderne la concretezza soggettiva e storica; individuare le costanti della condizione umana, al prezzo di storicizzarle e farle oggetto di una sapienza consolatrice, tanto presente nell’ultimo Fortini, ma, io credo, nella forma ironica della denuncia della sua impotenza a dire l’uomo reale, il tu di fronte a ciascuno che è soggetto di una domanda concreta e non caso dell’universale essenza umana».

La melodia rotta del tempo si svuota nella registrazione di una omologazione imminente, come profezia indicibile, come svalutazione di forze. Fortini sente l’esigenza di una parola che sia impegno intellettuale, rendicontazione del disequilibrio tragico del vivente e della sua anarchia, e infine sia ritorsione e superamento. È un fallimento e una insufficienza che portano, inevitabilmente, al frammento come strada percorribile, pur con tutta la sua ossimorica insicurezza: «Dunque nulla di nuovo da questa altezza / Dove ancora un poco senza guardare si parla / E nei capelli il vento cala la sera. / Dunque nessun cammino per discendere / Se non questo del nord dove il sole non tocca / E sono d’acqua i rami degli alberi. / Dunque fra poco senza parole la bocca. / E questa sera saremo in fondo alla valle / dove le feste han spento tutte le lampade. / Dove una folla tace e gli amici non riconoscono».
L’esito di una irreversibilità di sfondi, in cui l’«accento è quello del dovere e della necessità, non consente diversioni e scandisce un appello ultimativo, scolpito a vista nella scoscesa parete della storia di tutti» (Luca Lenzini).
La realtà storica, come accade in Italia 1942, Varsavia 1944 («E dopo verranno da te ancora una volta / a contarti a insegnarti a mentirti / e dopo verranno uomini senza cuore / a urlare forte libertà e giustizia / Ma tu ricorda popolo ucciso mio / libertà è quella che i santi scolpiscono sempre / per i deserti delle caverne in se stessi / statua d’Adamo, faticosamente»), Per un compagno ucciso, Valdossola: 16 ottobre 1944, Coro di deportati (Quando il ghiaccio striderà / dentro le rive verdi e romperanno / … Noi saremo lontani / Vorremmo tornare e guardare / carezzare il trifoglio dei prati / gli stipiti della casa nuova / piangere di pietà / dove passò nostra madre / invece saremo lontani), condensa il singhiozzo cancellato della realtà «tessuta di plebi» nel «vano nome antico», e la parola si fa pupilla di figli, laddove «la gemma s’aprirà / E la fonte parlerà come una volta. / Splenderai pietra sepolta / Nostro antico cuore umano / scheggia cruda legge nuda / All’occhio del cielo lontano».
La pena in piena di Fortini si sofferma sulla liberazione e sulla consolazione disillusa, invoca la conquista territoriale dell’esistenza come origine di stagioni perdute e passato epico-sacrale irrevocabile, in cui il suo soggiorno inquieto intreccia la forza del radicalismo, la sua inascoltata testimonianza, il suo antagonismo rivoluzionario palingenetico: «Dove ricercheremo noi le corone di fiori / le musiche dei violini e le fiaccole delle sere /… Ma il più distrutto destino è libertà. / Odora eterna la rosa sepolta. / Dove splendeva la nostra fedele letizia / altri ritroverà le corone di fiori».
«Essere fedeli alla rivoluzione», scrive Massimo Onofri, «significava anche giustificare la volontà di non essere capiti nel presente alienato per essere finalmente compresi nel futuro liberato […] Sicchè la domanda resta ineludibile: implosa l’idea stessa di rivoluzione, cosa potrebbe restare oggi di Fortini? […] il futuro della rivoluzione, sempre procrastinabile, e fissato nel suo eterno non-essere, consiste esattamente in quella luce, algida e inesorabile, che ci permette di vedere più lucidamente il presente per quel che è, gelido e livido, irredimibile e tristo».
La sua metrica si fa netta, l’espressività è vinta dalla disciplinata altezza oratoria: «La mano ha perduto la mano e la fronte è caduta. / Il cuore ha lasciato il cuore inerte. Passano / Sulla neve, ripassano, le sentinelle. / Lasciaci gli occhi, sonno, e il loro male nel buio / Finchè non cresca il giorno a riscuotere i visi / E a riconoscere i morti quel giorno non gridi / E fiamma e pianto invada la mano gelata».
La sua «gioia avvenire» richiama il suo stesso limite-scompenso, la sua miseria dove la «scuola della gioia è piena di pianto e sangue / Ma anche di eternità / E dalle bocche sparite dei santi / Come le siepi del marzo brillano le verità».
In Poesia ed errore (1959), la declinazione archetipica dell’errore si origina nel tarlo «che rode e corrompe la stoffa dei versi, genera macchie e ambiguità, confonde le piste del poeta che è obbligato a diventare complice o servo o traditore delle macchinazioni del potere, ad accettare e contemporaneamente a rifiutare le seduzioni che sono del suo status intellettuale, a comprendere di avere esigui margini di manovra se non obbedire alla condizione di «servo non inutile» (Deducant te angeli) o farsi «astuto come colomba» (dal titolo di un celebre capitolo di Verifica dei poteri, 1965)» (Giuseppe Lupo).
La figurale attrattiva biblica condensa il suo permeabile sostrato in una emancipazione di origini che diviene esito esule e autobiografia di generazione, nata da un’incertezza.
L’io tocca i suoi frammenti spaesati ed «è come se negli anni Cinquanta, venendo meno lo scenario storico del conflitto, con il suo portato d’immagini apocalittiche e l’avvento d’un tempo in cui scelta e destino si confrontavano direttamente, nella forma di un indifferibile aut aut, la poesia di Fortini subisse uno spaesamento, uno smottamento tanto profondo da essere “retroattivo”. L’accento epico che accompagnava il percorso dell’emancipazione […] mancava ora di appoggio nella dimensione e che gli era propria, la storia in atto; il tempo che la poesia aveva dinanzi si rivelava per il deserto di un differimento» (Luca Lenzini): «Se tu vorrai sapere / chi nei miei giorni sono stato, questo / di me ti potrò dire. / A una sorte mi posso assomigliare / che ho veduta nei campi: / l’uva che ai ricchi giorni di vendemmia / fu trovata immatura / ed i vendemmiatori non la colsero / e che poi nella vigna / smagrita dalle pene dell’inverno / non giunta alla dolcezza / non compiuta la macerano i venti».
La spoglia declinazione fortiniana proclama la sua endiadi che restituisce la gioia e il dolore intemporali, e l’affinamento poetico vive il dosso dello strazio, le stagioni risvegliate dell’inverno nei passi del sole («Mi risveglio dal sonno, è una notte d’inverno, / lontani sono i sogni, il libro è caduto, / non vengono i rumori sul vento della città») e la sua traversata, che restituisce le vicinanze e le pause, la città (Firenze) frusciata e sospesa, come stupefazione rievocata e segreta che scaglia e agghiaccia i suoi destini generali: «come nelle soffitte / alla quiete di un pomeriggio / perde un volume erbari vizzi, resti / di delicate vacanze, / o scorre dalla palma la sete d’una veste / che le danze animarono / guarderemo cadere dalla mente / e dalla mano / le serate che furono avvilite / e le spoglie di polvere» e «Stanche ma belle ancora / con noi le rivedremo / e a quelle ancora noi confideremo / le voci vagabonde, le vesti esili / (senza pena né fede / rispondendo al sorriso) / altri passi, altri moti».
La negazione esposta, come sostiene Luca Lenzini, imbeve il reperto immaginale di una pronta secchezza, in cui l’enunciazione, seguendo le linee di Brecht, promuove il suo gesto segnico in una stanza incisa («Scrivi mi dico, odia / chi con dolcezza guida al niente / gli uomini e le donne che con te si accompagnano / e credono di non sapere. Fra quelli dei nemici / scrivi anche il tuo nome. Il temporale / è sparito con enfasi. La natura / per imitare le battaglie è troppo debole. La poesia non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi»), in un margine libero («È tutto chiaro ormai, / le parole dei libri diventare / tutte vere. Tutti gli altri lo sanno. / T’hanno detto di fare due passi avanti / in mezzo al cortile d’acqua e vento, / di lumi gialli prima dell’alba») e in un ordine rovesciato: «Al vecchio che gira la macina / una vena si spezza nella pupilla / e il serpe è vicino alla culla. / Confuso nella paglia e nella polvere / è il sandalo di un profeta ridicolo», oppure, «Anche i morti non tornano più in sogno. / Chi ricordava confonde gli amici e i nemici / Quando all’orfano dici: «ho conosciuto tuo padre», / va via senza rispondere».
La negazione afferma il suo piano-sequenza in un primo riassunto di altri tempi, la solitudine del pianto superbo, la veduta che comprende le tempeste, perché, afferma ancora Luca Lenzini, «coinvolge il passato, incluso quello del poeta-profeta; ma, a sua volta, prelude alla contemplazione del paesaggio: un paesaggio non riconducibile a precise coordinate storico-geografiche, ma senza dubbio calato nel presente e delineato nello sguardo protratto […] di un io accomunato alla «gente» che quel paesaggio ha modificato, opera collettiva in cui si misura la presenza del Moderno in seno alla natura»: «Le notti lunghe di primavera le passo ormai / con moglie e figlio. Fragili alle tempie i capelli. / Vedo in sogno imprecise lacrime di una madre. / Sulle mura hanno mutato le grandi bandiere imperiali. / Vite di amici diventano spettri, non resisto a vederle. / In ira contro siepi di spade cerco una piccola poesia. / Non lamentarsi. Chino il capo. Non si può scrivere più. / Come acqua la luna illumina la mia veste oscura» (Dopo una strage).
L’innervamento nella sfera biologica della componente animale (serpente) dilata, simbolicamente, il processo dell’io in una meditazione sulla violenza latente, sull’accumulo di negazione e di disincanto che promette annullamento, ma rischiara di sfarzo politico «il buon uso dell’amore».
Scrive infatti Andrea Zanzotto: «Esiste in lui un rapporto mai venuto meno con quel momento della formazione dell’io in cui le parole […] si iscrivono nell’esperienza come violentissimo “fatto proprio”».
Se da un lato la passione dell’io pronuncia la sua sferzata elegia e la sua rivisitazione perduta, dall’altro, come accade in Questo muro (1973) la sua piena maturità scandisce le contorsioni allegoriche delle dilatazioni del presente, con cui egli ha il suo smisurato dialogo e «il lettore di questa poesia rimbalza dunque perigliosa mente fra una perturbante de-realizzazione del presente, ridotto a una serie di icone, e la lontananza di un futuro invocato con tanta più forza quanto è meno certo che si realizzi; in un certo senso solo il passato è vero, perché i valori allegorici e figurali che l’uomo vi ha accumulato lungo la fatica della storia, gli permettono di non morire» (P.V. Mengaldo).
I tagli sanguinosi, l’ordine e il disordine, il recupero dell’unità, attestano la retroguardia fortiniana in una condizione di staticità, in cui l’allegoria e la parabola, come annota Mengaldo, diramano vasti territori (rapporto vecchi-giovani, sconfitta-speranza, natura minimale), in cui egli sa che l’unica forza «è la gioia brevissima / la certezza sensibile che viene dopo tutto», attraverso un fitto rimando che diviene «ponte di passaggio fra un passato che dev’essere faticosamente recuperato coi suoi irrinunciabili valori simbolici («il passato stanchissimo») e un futuro verso il quale il presente si protende imperfettamente e che imperfettamente rappresenta»: «I furgoni dei rifiuti li chiudono a buio. / Il macellaio ritira dal marmo la carne. / Scampanano le gole dalle moli. / Lungo le vasche degli orti / il labbro delle lumache si stacca. / Si abbatte la fatica dei misteri inutili. / La quercia dal capo di gloria non sarà più. / Il ragazzo che profetava mentì. / Questo teatro è di spiriti accaniti che ti tengono le vesti ti baciano e tu li calpesti».
Scrive ancora Mengaldo: «Come sempre, anche Questo muro sta, e così vuole significare, in presenza della storia, ma per dirne soprattutto la trascendenza e la compiuta peccaminosità. Cresce anche il peso dell’autobiografia, ma come detta in paradosso, obliqua, cifrata. così la politicità, consustanziale a Fortini, si fa sempre più implicita, a volte quasi un rumore di fondo. La violenza storica è tanto più devastante quanto più la Storia è un Dio nascosto. Sono modi personali coi quali Fortini esprime la contraddizione, tipica di tutta la poesia moderna, fra continuità e discontinuità, detto e non detto, incarnazione e virtualità del significato. Ma queste contraddizioni in lui tanto più si esplicitano – o all’inverso si celano – in quanto alla chiusura in apparenza autosufficiente del testo corrisponde una specie di tangenza dei significati, che vi scorrono sopra piuttosto che incarnarvisi. E nessun messaggio,secondo Fortini, può significare per sé solo».
In Paesaggio con serpente (1984), che fa riferimento a Poussin, l’improbabile passaggio della cortina dell’io proteso verso il futuro, lo rapporta alla delusione di chi annota il registro storico degli avvenimenti e si interroga sul ruolo dell’intellettuale e della scrittura, che, come scrive Erminia Passannanti «[…] si emancipa da un universo di utopie, avendo ormai imparato a riconoscere i limiti che tale ambizione comporta – poeta polifonico, in cui coabitano singolarità e pluralità, quale adunanza di corpi e voci alleate o anche avverse, prese in un dialogo ostinato, proprio perché, per sua natura, il testo è sempre «sociale», «per sua origine quanto per sua destinazione, implicita o esplicita».
La delusione si appropria del suo cono d’ombra, vive l’urto della storia e dell’epoche buie e contorte, che racchiudono la loro stanza vivente e la palingenesi del tempo in una vitalità fatale: «La parola è questa: esiste la primavera, / la perfezione congiunta all’imperfetto. / Il fianco della barca asciutta beve / l’olio della vernice, il ragno trotta. / Diremo più tardi quello che deve essere detto. / per ora guardate la bella curva dell’oleandro, / i lampi della magnolia».
Una biscia, che corre tra l’erba alla sera, viene attaccata in volo da un animale volante. Fortini compone la sua allegoria, in uno iato scindibile di ordine e disordine: è il suo scorcio sulla realtà attraverso un atto comunicativo che riporta il testo al suo contesto che non dissotterra l’altrove, ma compone la sua coscienza precisa, in cui la peculiare condizione hegeliana dell’ uno «che in sé si separa e contraddice» si fissa, «finchè non sia più uno. E poi ritorni a esserlo, e ti porti via».
La necessità vitale dell’ordine scoperchia la sua scaturigine nella rappresentazione delle immagini, in cui lo «spettrale manierismo» abbraccia la luce obliqua dell’io, l’assenza interlocutiva e il gesto, dove tutto «si svela materiale e insieme irreale, concreto e mentale» (Luca Lenzini).
La condizione di Fortini, pertanto, celebra il mondo immaginale del ricordo in un contesto collettivo e doloroso, sollecitato da toni di puro espressionismo, attraverso lo sguardo dicotomico sulla compattezza del reale (e delle sue distanze) che «è là ma non vede una storia / Di sé o di altri. Non sa più chi sia / l’ostinato che a notte annera carte / coi segni di una lingua non più sua / e replica il suo errore. / È niente? È qualche cosa? / Una risposta a queste domande è dovuta. / La forza di luglio era grande. / Quando è passata, è passata l’estate. / Però l’estate non è tutto».
È la poesia distante che prende le distanze, «un ragionamento fatto in presenza di un sogno» che contrappone le forze e mette in scena il duro rapporto tra la antica primordialità e il rifiuto della mente, dove la poesia crea strade, indica percorribilità smosse che riscattano e salvano, finendo per mettere a fuoco il dramma dell’umanità tragica.
La contemporaneità percorsa da Fortini si afferma nel disagio impudente delle forze oppositive, concentra la scrittura in una meditata riflessione sulle soglie diamante: «La luna come cammina cammina / così ghiacciata. E senza la più piccola / ipotesi di sopravvivenza. Come è chiaro / che inutilmente il reale è simbolico. / Ma qualcosa ci distrarrà. Ci sarà caro / pensare a lepri in fuga sulla brina / e il gelo diabolico a picco e nel nero / la cristiana coperta sul capo».
Commenta Passannanti: «Non c’è modo più forte di attirare l’attenzione del lettore che presentagli dinanzi i segni residui della lotta tra il bene ed il male. Fortini, di conseguenza, ricorre alla simbologia del serpente così come emerge nelle arti figurative, laddove il rettile biblico non rappresenta solo la negatività del male primordiale come tentazione e caduta, ma anche, per contrasto, il suo magnetismo e fascino fuori dal ventre della Madre Terra».
Nel trauma della storia si riflette il suo ospizio ingrato, il suo dramma pastorale, l’oscura argomentazione del suo flusso poetico che risulta monologo esule e anelito di rivolta che abita la sua intima ferita tra Tasso, Shakespeare, Gongora, Milton, Poussin.
Composita solvantur (1994) è l’ultima raccolta di Fortini e raccoglie testi scritti e risistemati tra il 1984 e il 1993, poco prima di morire. È il crinale sospeso su un tempo, segnato da forti eventi storici: la caduta del Muro, la guerra del Golfo, la caduta dell’Urss.
L’espulsione del poeta dalla storia rappresenta la sua traccia perseguita, ne sente tutta la cruda propulsione: «si dissolva ciò che è composto, il disordine succeda all’ordine». È alchimia, geografia di una biografia senile che avverte su di sé tutta la perdita e l’oltranza di un emblema allusivo: «E mai non era nostra / la schiuma dello stagno / o il ruvido lentischio, nulla avevamo compreso, / non il sentiero, non il paese chiuso / dove non c’era anima viva / e tocca invano ai selci il passo / del segnato da Dio» o ancora: «Sopra questa pietra / posso ora fermarmi. Dico alcune parole / nello spazio vuoto preciso./ Le grandi storie / tentennano in sonno, vacillano / nelle teche i crani / dei poeti sovrani. / L’enigma verde ride la sua promessa».
L’epifania enigmatica della realtà avverte la sua condizione anti-storica e il vulnus della relegazione violenta, come un desolato grido o totalizzante abbandono all’assedio del dolore. Ma qui, pur non diminuendo le forti istanze indignate, la datità scarna ed essenziale di Fortini apre il suo spazio di dilemmi, abbozza una speranza, pronuncia rinunce, aumenta i suoi confini sfalsati e, infine, scioglie i suoi grumi: «La volta del cielo / piano si contrae, piano. La fiamma soave / illumina a lungo la sera, / le classi inesorabili dei pini, / le fila liquide che marzo / giù tra i sassi divide».
Scrive Mario Benedetti: «È messo dunque in campo un forte dubbio circa la consistenza della realtà e la legittimità della letteratura. Ma in ciò stesso si manifesta quel sentimento ultimo delle cose che caratterizza la raccolta: la caparbia, ultima conferma del loro appartenerci, nel sapere di essere completamente vincolati a questa terra, soli di fronte a un cielo, «dove il celeste posa in sè», che non si sa né si può interrogare. Emerge la resistenza di un uomo di fronte alla malattia e alla morte, alla privazione del futuro, della possibilità di cercare ancora nella storia, di modificarsi. […] È lo stare terminale della vita in una società […] Misurarsi con il limite invalicabile della morte, della fine significa venire ai ferri corti con il senso del nostro rapporto con la realtà, approdare alla testimonianza estrema dell’indissolubilità del vincolo che ad essa ci lega: ogni cosa si risolve in noi, ci appartiene, per il poco (ma è tutto) che può valere questa appartenenza. Il poeta si apre così all’esperienza della pietas».
La disattenta sconfitta della storia, la pietà per tutta l’esistenza vivente, il contatto minimo ed essenziale con le cose e il legame con le ultimità ambientano la sua ultima resistenza, fino proteggere la verità: «Ma prossima è la morte e a una immortale / Vita, chiusa la falsa, apre le porte, / Vita di vita e morte della morte. / Chi gli agi fugge per amar naufragi? / A chi, più del riposo, il viaggio piace / E il lungo errare è più dolce del porto?».

3Dnn+9_8B_gra_9788804644125-tutte-le-poesie_originalFORTINI F., Tutte le poesie, a cura di Luca Lenzini, Mondadori, Milano 2014, pp.952, euro 22.

FORTINI F., Tutte le poesie, a cura di Luca Lenzini, Mondadori, Milano 2014.
ID., “Cos’è la poesia”, RAI Educational, 1993
A.A.V.V., Dieci inverni senza Fortini. 1994-2004, Atti delle giornate di studio nel decennale della scomparsa: Siena 14-16 ottobre 2004; Catania 9-10 dicembre 2004, a cura di L. Lenzini, E.Nencini e F. Rappazzo, Quodlibet, Macerata 2006.
(a cura di) GIOVANNETTI P., «Se tu vorrai sapere…». Cinque lezioni su Franco Fortini, Punto Rosso, Milano 2005.
BENEDETTI M., Franco Fortini, Composita solvantur, in «Poesia», luglio-agosto 1994.
BERARDINELLI A., Franco Fortini, La Nuova Italia, Firenze 1973.
BOLLATI G., Intermittenze del ricordo. Immagini di cultura italiana, a cura di Rosa Tamborrino, Edizioni Fondazione Torino Musei, Torino 2006.
ESPOSITO E., «La poesia secondo Fortini», RiLUnE, n. 2, 2005, p. 87-92.
GALLO F., La poesia di Franco Fortini tra necessità ed impotenza del dire (http://www.correnti.org/Interventi/fortini.htm)
GARBOLI C., Un poeta contro, “La Repubblica”, 29 novembre 1994
LENZINI L., Un’antica promessa. Studi su Franco Fortini, Quodlibet, Macerata 2013.
ID., Il poeta di nome Fortini, Manni, Lecce 1999.
LUPORINI R., La lotta mentale: per un profilo di Franco Fortini, Editori Riuniti, Roma 1986.
LUPO G., Epica contemporanea, in «Il Sole24ore», 16 novembre 2014.
MARCHESINI M., Versi alle ideologie, in “Il Sole24ore”, 29 settembre 2013
MENGALDO P.V., Introduzione alle Poesie Scelte, Mondadori, Milano 1974.
ID., «Questo muro» di Franco Fortini, in Letteratura Italiana Einaudi. Le Opere Vol. IV.II, a cura di Alberto Asor Rosa, Einaudi, Torino 1996.
MINORE R., La promessa della notte: conversazioni con i poeti italiani, Donzelli, Roma 2011.
MORBIATO G., Composita solvantur di Franco Fortini (http://www.academia.edu/8665769/Composita_solvantur_di_Franco_Fortini)
ONOFRI M, L’utopia di Fortini ci serve ancora, in “Avvenire”, 27 novembre 2014
PASSANNANTI E., Senso e semiotica in «Paesaggio con serpente» (1984) di Franco Fortini
(http://www.ospiteingrato.org/senso-e-semiotica-in-paesaggio-con-serpente-1984-di-franco-fortini/)

Sottrarre il telefonino all’ex fidanzata equivale a rapina

sms-message-text-700x352di Emanuele Mascolo

… Rubrica di Giurisprudenza

31 marzo 2015

Sottrarre il telefonino all’ex fidanzata equivale a rapina. E’ quanto ha stabilito la Suprema Corte di Cassazione con la Sentenza numero 11467 del 20 marzo 2015.
Chiarisce la Suprema Corte nella Sentenza in commento che “l’agente voleva ricavare dall’impossessamento del telefono cellulare della sua ex fidanzata. L’instaurazione di una relazione sentimentale fra due persone appartiene alla sfera della libertà e rientra nel diritto inviolabile all’autodeterminazione fondato sull’art. 2 della Costituzione, dal momento che non può darsi una piena ed effettiva garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo (e della donna) senza che sia rispettata la sua libertà di autodeterminazione. La libertà di autodeterminazione nella sfera sessuale comporta la libertà di intraprendere relazioni sentimentali e di porvi termine.”
Perquisire il telefono della ex fidanzata alla ricerca di messaggi è un atteggiamento che, secondo la Corte di Cassazione, “assume i caratteri dell’ingiustizia manifesta proprio perché, violando il diritto alla riservatezza, tende a comprimere la libertà di autodeterminazione della donna e si pone in prosecuzione ideale con il reato di tentata violenza privata, avente ad oggetto il tentativo di costringere la sua ex fidanzata a riallacciare il rapporto di fidanzamento dalla stessa troncato. Non può dubitarsi, pertanto, del requisito dell’ingiustizia del profitto (solo morale) perseguito dall’agente mediante l’impossessamento del telefono della sua ex fidanzata.”
Ecco perché deve desumersi il principio per cui, “nel delitto di rapina il profitto può concretarsi in qualsiasi utilità, anche solo morale, in qualsiasi soddisfazione o godimento che l’agente si riprometta di ritrarre, anche non immediatamente, dalla propria azione, purché questa sia attuata impossessandosi con violenza o minaccia della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene.” Ciò viene sostenuto alla Corte di Cassazione, richiamando l’orientamento maggioritario in Giurisprudenza (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 7778 del 14/02/1990 Ud. (dep. 31/05/1990) Rv. 184507; Sez. 2, Sentenza n. 12800 del 06/03/2009 Ud. (dep. 23/03/2009) Rv. 243953).
Secondo la Suprema Corte di Cassazione, ”anche il fine di ottenere “un bacio” dalla parte offesa, in cambio della restituzione del monile sottratto, integra quell’utilità, anche solo morale, che qualifica il dolo specifico del reato di rapina, distinguendolo dalla violenza privata.”(Cass. Sez. 2, Sentenza n. 49265 del 07/12/2012 Ud. (dep. 19/12/2012 ) Rv. 253848)

Suprema Corte di Cassazione
sezione II
sentenza 19 marzo 2015, n. 11467
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza in data 20/11/2012, la Corte di appello di Bari confermava la sentenza del Gup presso il Tribunale di Barletta, in data 16/10/2006, che aveva condannato C.P. alla pena di anni due, mesi due di reclusione ed Euro.600,00 di multa per il reati di tentata violenza privata (capo A), violazione di domicilio e lesioni personali (capo B) e rapina (capo C).
2. La Corte territoriale respingeva le censure mosse con l’atto d’appello, e confermava le statuizioni del primo giudice, ritenendo accertata la penale responsabilità dell’imputato in ordine ai reati a lui ascritti ed equa la pena inflitta.
3. Avverso tale sentenza propone ricorso l’imputato per mezzo del suo difensore di fiducia, sollevando quattro motivi di gravame con i quali deduce:
3.1 con riferimento al delitto di rapina, violazione di legge, contestando la sussistenza del dolo specifico non potendosi considerare “ingiusto” il profitto morale a cui mirava l’agente che si impossessò del telefonino della sua ex fidanzata al solo fine di far conoscere al padre di costei i messaggi che la stessa riceveva da un altro uomo. Eccepisce, inoltre, che in sede cautelare il Tribunale del riesame aveva escluso il reato di rapina reputando insussistente il requisito dell’ingiustizia del profitto.
3.2 con riferimento al capo B), violazione di norme processuali, avendo la persona offesa dichiarato di voler rimettere la querela, determinando così l’estinzione del reato di lesioni personali.
3.3 sempre con riferimento al capo B), manifesta illogicità della motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza del reato di cui all’art. 614 cod. pen..
3.4 con riferimento al capo A), mancanza e manifesta illogicità della motivazione in quanto l’affermazione di responsabilità per il reato di tentata violenza privata sarebbe del tutto apodittica.
Considerato in diritto
1. Il ricorso è inammissibile in quanto basato su motivi non consentiti nel giudizio di legittimità.
2. È manifestamente infondato il primo motivo di ricorso in punto di insussistenza del dolo specifico per il delitto di rapina, sotto il profilo dell’assenza del requisito dell’ingiustizia del profitto. Secondo un indirizzo consolidato e risalente di questa Corte, nel delitto di rapina il profitto può concretarsi in qualsiasi utilità, anche solo morale, in qualsiasi soddisfazione o godimento che l’agente si riprometta di ritrarre, anche non immediatamente, dalla propria azione, purché questa sia attuata impossessandosi con violenza o minaccia della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 7778 del 14/02/1990 Ud. (dep. 31/05/1990) Rv. 184507; Sez. 2, Sentenza n. 12800 del 06/03/2009 Ud. (dep. 23/03/2009) Rv. 243953). Pertanto la Corte ha ritenuto che anche il fine di ottenere “un bacio” dalla parte offesa, in cambio della restituzione del monile sottratto, integra quell’utilità, anche solo morale, che qualifica il dolo specifico del reato di rapina, distinguendolo dalla violenza privata (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 49265 del 07/12/2012 Ud. (dep. 19/12/2012 ) Rv. 253848). Nel caso di specie il ricorrente riconosce di aver agito per perseguire un’utilità di carattere morale (non patrimoniale), sottraendo il telefono cellulare alla ex fidanzata, ma contesta il carattere “ingiusto” di tale utilità, osservando che l’azione dell’imputato è stata finalizzata esclusivamente a dimostrare al padre della sua (ex) fidanzata, attraverso i messaggini telefonici, i tradimenti perpetrati dalla figlia, e, dunque, l’esistenza di una relazione con un altro uomo “sicché l’intento del prevenuto è stato quello non già di conseguire un profitto ingiusto, bensì di dimostrare al genitore della sua ragazza l’ingiustizia e la scorrettezza del comportamento tenuto dalla figlia”.
3. Orbene, a parere del Collegio, proprio tale riconosciuta finalità integra pienamente il requisito dell’ingiustizia del profitto morale che l’agente voleva ricavare dall’impossessamento del telefono cellulare della sua ex fidanzata. L’instaurazione di una relazione sentimentale fra due persone appartiene alla sfera della libertà e rientra nel diritto inviolabile all’autodeterminazione fondato sull’art. 2 della Costituzione, dal momento che non può darsi una piena ed effettiva garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo (e della donna) senza che sia rispettata la sua libertà di autodeterminazione. La libertà di autodeterminazione nella sfera sessuale comporta la libertà di intraprendere relazioni sentimentali e di porvi termine. Nel caso di specie la pretesa dell’agente di “perquisire” il telefono della ex fidanzata alla ricerca di messaggi – dal suo punto di vista – compromettenti, assume i caratteri dell’ingiustizia manifesta proprio perché, violando il diritto alla riservatezza, tende a comprimere la libertà di autodeterminazione della donna e si pone in prosecuzione ideale con il reato di tentata violenza privata, di cui al capo A), avente ad oggetto il tentativo del C. di costringere la sua ex fidanzata a riallacciare il rapporto di fidanzamento dalla stessa troncato. Non può dubitarsi, pertanto, del requisito dell’ingiustizia del profitto (solo morale) perseguito dall’agente mediante l’impossessamento del telefono della sua ex fidanzata.
4. Di conseguenza può essere formulato il seguente principio di diritto: “nel delitto di rapina sussiste l’ingiustizia del profitto quando l’agente, impossessandosi della cosa altrui (nella specie un telefono cellulare), persegua esclusivamente un’utilità morale, consistente nel prendere cognizione dei messaggi che la persona offesa abbia ricevuto da altro soggetto, trattandosi di finalità antigiuridica in quanto, violando il diritto alla riservatezza, incide sul bene primario dell’autodeterminazione della persona nella sfera delle relazioni umane”.
5. È manifestamente infondata l’eccezione di estinzione del reato di lesioni personali per remissione di querela, sollevata con il secondo motivo di ricorso, essendo il reato perseguibile d’ufficio in quanto aggravato ex art. 61, n.2 cod. pen..
6. Ugualmente inammissibili sono le censure sollevate con il terzo e quarto motivo, poiché si risolvono in censure generiche, al limite dell’aspecificità e non scalfiscono la solidità della motivazione che ha giustificato le conclusioni assunte dalla Corte territoriale in punto di sussistenza del reato di violazione di domicilio e del tentativo di violenza privata.
7. Ai sensi dell’articolo 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, l’imputato che lo ha proposto deve essere condannato al pagamento delle spese del procedimento, nonché – ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – al pagamento a favore della Cassa delle ammende di una somma che, alla luce del dictum della Corte costituzionale nella sentenza n. 186 del 2000, si stima equo determinare in Euro 1.000,00 (mille/00).
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro mille alla Cassa delle ammende.

a cura di Andrea Galgano e Irene Battaglini