La questione che tratteremo, riguarda il caso in cui un soggetto affetto da ritardo mentale possa compiere atti sessuali validi. Prenderemo in considerazione, per rispondere, a tale questione la recente Sentenza della Suprema Corte di Cassazione, numero 18513 del 5 maggio 2015, la quale ha ritenuto che “trarre esclusivamente dalle modalità con cui è stato consumato l’atto sessuale la prova dell’induzione abusiva all’atto stesso sconta il rischio, che la stessa norma vuole evitare, che si possa identificare la condotta di induzione (mediante abuso della condizione di inferiorità fisica o psichica) con l’atto sessuale che ne è il risultato, con la conseguenza di impoverire l’indagine in ordine alla minorata capacità del partner ad autodeterminarsi all’atto sessuale e di svalutare, in ultima analisi, ogni aspetto che possa concorrere a ricostruire in modo approfondito la dinamica che precede l’azione e a comprendere se davvero abuso v’è stato.”
Dal punto di vista giurisprudenziale, che è ciò che più rileva in questa sede, quando si discute del ritardo mentale, si fa spesso il confronto tra disturbo di personalità e imputabilità.
Ciò discende anche da recenti interventi giurisprudenziali. Infatti, la Suprema Corte di Cassazione ha evidenziato che “anche i disturbi della personalità, che non sempre sono inquadrabili nel ristretto novero delle malattie mentali, possono rientrare nel concetto di ” infermità”, purché siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere o di volere, escludendola o scemandola grandemente, e a condizione che sussista un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa, per effetto del quale il fatto di reato sia ritenuto causalmente determinato dal disturbo mentale. Ne consegue che nessun rilievo, ai fini dell’imputabilità, deve essere dato ad altre anomalie caratteriali o alterazioni e disarmonie della personalità che non presentino i caratteri sopra indicati, nonché agli stati emotivi e passionali, salvo che questi ultimi non si inseriscano, eccezionalmente, in un quadro più ampio di “infermità”. Non può pertanto affermarsi in termini assolutistici che il disturbo di personalità ex sé sia inidoneo ad integrare l’ipotesi della incapacità di intendere e di volere: l’esclusione di tale status, se non accompagnata da una vera propria patologia o infermità, abbisogna di una specificazione in merito alla portata di quella infermità che non necessariamente deve consistere in una patologia di tipo mentale o intellettivo – cognitivo, potendo discendere anche da altre forme morbose che possono incidere sul piano della capacità di intendere e di volere. Ne deriva la necessità, per il giudice di merito, laddove investito di una questione che involge comunque un disturbo caratteriale o relazionale di una determinata persona imputata (o imputabile) di accertare funditus se tale anomalia abbia un qualche collegamento con una situazione di malattia tale da compromettere la capacità intellettiva e volitiva del soggetto: esigenza tanto più insopprimibile, se riscontrata da dati clinici ricavabili ex actis o, comunque, da elementi tali da determinare una necessità di approfondimento specifico.1”
L’articolo 97 del codice penale, richiama l’imputabilità di “chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, non aveva compiuto i quattordici anni” seppur ciò, stando ad alcune tesi giurisprudenziali, “non esclude necessariamente la sua maturità psichica ed intellettiva.2”
Il successivo articolo 98 del codice penale, stabilisce invece che “è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto aveva compiuto i quattordici anni, ma non ancora i diciotto, se aveva capacità d’intendere e di volere”, tralasciando il conteggio dell’eventuale pena.
Alla luce di quanto esposto, va rilevato come la Sentenza della Suprema Corte di Cassazione, dalla quale ha preso spunto il nostro discorso, ha sostenuto che, “la consapevolezza dello stato di inferiorità psichica non esaurisce le condizioni che la norma prevede per la punibilità della condotta descritta dall’articolo 609 bis c.p., comma 2, n. 1, essendo necessario che a tale consapevolezza si accompagni l’abuso della minorata condizione per indurre la persona offesa al compimento di atti sessuali frutto di un consenso viziato.3”
L’articolo 609 bis del codice penale, richiamato dalla sentenza, prevede – lo si riporta per chiarezza espositiva – che “chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da cinque a dieci anni. Alla stessa pena soggiace chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali 1) abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto; 2) traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra persona. Nei casi di minore gravità la pena è diminuita in misura non eccedente i due terzi.”
Nel caso di specie al quale la Sentenza della Corte di Cassazione numero 1815 del 2015 si riferisce, emerge il riscontro da parte di medici, di un lieve ritardo mentale nella vittima.
Alla stregua di ciò la Cassazione, ha ritenuto di rifarsi al principio di diritto secondo cui, “ in tema di atti sessuali commessi con persona in stato di inferiorità fisica o psichica, perchè sussista il reato di cui all’articolo 609 c.p., comma 2, n. 1, e’ necessario accertare che: 1) la condizione di inferiorità sussista al momento del fatto; 2) il consenso all’atto sia viziato dalla condizione di inferiorità; 3) il vizio sia accertato caso per caso e non può essere presunto, né desunto esclusivamente dalla condizione patologica in cui si trovi la persona quando non sia di per sé tale da escludere radicalmente, in base ad un accertamento se necessario fondato su basi scientifiche, la capacità stessa di autodeterminarsi; 4) il consenso sia frutto dell’induzione; 5) l’induzione, a sua volta, sia stata posta in essere al fine di sfruttare la (e approfittare della) condizione di inferiorità per carpire un consenso che altrimenti non sarebbe stato dato; 6) l’induzione e la sua natura abusiva non si identifichino con l’atto sessuale, ma lo precedono”, pertanto, ha annullato l’ordinanza impugnata, disponendo il rinvio al Tribunale di Padova, che riesaminando il caso, dovrà prendere il considerazione tale principio di diritto.
Il 26 ed il 27 GIUGNO 2015, il Polo Psicodinamiche di Prato ospiterà il CORSO DI CRIMINOLOGIA:
“I CRIMINI VIOLENTI CONTRO LE DONNE” a cura del Prof. Vinicio Serino.
Dalle culture pre-agricole dell’area mediterranea risalenti all’8000AC ai giorni d’oggi, sembra essere la struttura societaria e l’organizzazione dei ruoli sessuali a delineare una modalità in cui predomina la cura parentale, come salvaguardia di una specie, rispetto ad una in cui prevale l’aggressività e la violenza come forma di protezione del gruppo.
Le società primitive, ossia i primi aggregati di Sapiens sapiens, manifestavano una divisione dei compiti per il controllo degli spazi e l’acquisizione delle risorse indispensabili alla vita. Si trattava di “società acquisitive”, composte da popolazioni di cacciatori-raccoglitori “che traevano le risorse direttamente dall’ambiente, muovendosi sul territorio, senza praticare forme di agricoltura e di allevamento”, ma sfruttando, senza trasformarle, le risorse alimentari, animali o vegetali, rinvenute in natura (Godelier, 1977). In queste società le donne avevano prevalentemente compiti di raccolta di vegetali o di piccoli animali e di cura parentale; gli uomini quelli della caccia, a prede che spesso, potevano diventare predatori. Sarebbe quindi un’etica naturale, un meccanismo biologico affinatosi per evoluzione naturale, ad incanalare ed orientare i comportamenti umani. Essa ha la vocazione della universalità in quanto agisce come una sorta di codice genetico innato che serve, in ogni gruppo sociale, a garantire la copertura dei tre bisogni primordiali: l’alimentazione, la sopravvivenza, la riproduzione della specie e funziona sulla base del principio della cooperazione specifica tra i membri del gruppo: senza il rispetto delle prescrizioni imposte da quel codice e quindi senza una attività cooperante di copertura di quei bisogni, quell’aggregato non potrebbe esistere.
L’etica naturale funziona allora come uno straordinario meccanismo attraverso il quale è possibile avviare e mantenere la cooperazione tra appartenenti allo stesso aggregato sociale. Ogni comportamento indirizzato ad ostacolare la soddisfazione, da parte dei cooperanti, dei bisogni primari è deviante perché crea le condizioni per dissoluzione del gruppo. Sono allora ipotizzabili, in questa prospettiva, delitti naturali, come quelli che impediscono, dice Chiarelli, la perpetuazione “del DNA tipico della specie e la sua variabilità infraspecifica”. Il mancato esercizio della cura parentale; l’inadempimento del dovere di riproduzione; la mancanza di cooperazione nella acquisizione del cibo e nella difesa del gruppo comporterebbero inevitabilmente la fine dell’intero aggregato sociale.
È in queste ancestrali forme di aggregazione, con la conseguente assegnazione dei ruoli, che vanno ricercate le basi stesse della preminenza e talvolta del dominio dell’uomo sulla donna. Una vera e propria gerarchizzazione dei rapporti che comporta la valorizzazione dei compiti affidati ai maschi: in particolare sullo “scarto tecnologico tra uomini e donne”, avendo i primi “il monopolio degli strumenti-armi, della lavorazione delle materie prime; gli uomini hanno il controllo dei mezzi-chiave di produzione (attrezzi, tecniche, terra, capitali, manodopera) e di quelli di difesa e di violenza, da cui deriva il dominio dell’organizzazione simbolica e politica” (Mathieu, 2006). E quindi la subordinazione della donna, entro la quale possono manifestarsi le più diverse forme di violenza.
L’ipotesi antropologica si pone quindi l’obiettivo di ricostruire storicamente il motivo per cui il fenomeno della violenza alle donne nasce, esattamente come lo psicoanalista utilizza la storia di vita del suo paziente per capire il problema che lo affligge oggi.
Il Prof. Serino affronterà un excursus storico per spiegare come tutte le società hanno sempre assegnato ai due sessi due funzioni diverse nel corpo sociale: la riproduzione ed il lavoro (Mathieu, voce sesso in Izard e Bonte, 2006), fino ad arrivare ai giorni d’oggi, alla subordinazione della donna rispetto all’uomo, alla rivoluzione sessuale ed al femminismo, fino alla storia odierna ed agli aspetti morali e giuridici della violenza nel 2015.
L’analisi del “comportamento non verbale” degli esseri umani, oggi assai impiegata in criminologia ed in ambito poliziesco-giudiziario (in specie in alcuni paesi), è in realtà nata nel campo della ricerca psicologica relativa a contesti diagnostico-terapeutici: essa si è rivolta sin dall’inizio all’intento di scoprire le emozioni “non palesi” dei pazienti in psicoterapia, quindi i loro eventuali “meccanismi di difesa”, e di conseguenza è stata applicata anche allo scopo di gestire gli interventi del terapeuta e le sue stesse reazioni emotive al paziente, nonché d’investigare le modalità profonde della relazione psicoterapeutica presa in sé stessa.
Ciò è avvenuto principalmente in ragione del fatto che la nostra specie, in quanto l’unica dotata d’un linguaggio “parlato” altamente simbolico (e dunque capace di veicolare significati e contenuti informativi estremamente complessi), è anche l’unica che presenta, nella sua comunicazione, una vasta e clamorosa discrepanza, ovvero una particolarissima “dissociazione”.
In particolare, la comunicazione umana presenta da un lato degli aspetti di tipo “semantico” relativi, appunto, ai numerosissimi “significati” ed informazioni presenti nelle comunicazioni verbali umane: ora questi significati, di per sé, sono assai sovente astratti e relativamente “neutri”, in quanto riferibili alle caratteristiche del mondo fisico circostante (si pensi agli aspetti matematici), e sono anche concatenati fra loro in rigorose architetture formali di grande pregnanza gerarchica e di grande complessità (si vedano gli aspetti sintattici e logico-formali dei vari costrutti linguistici, in gran parte basati sui concetti di “soggetto”, “predicato” e “complemento oggetto” nonché su quelli di “attività/passività” e di “qualità/relazione”, e soprattutto sulle loro pressoché infinite possibilità di combinazione).
Dall’altro lato, la comunicazione umana presenta degli aspetti di tipo “pragmatico”, cioè relativi all’uso pratico ed immediato che della comunicazione stessa viene fatto nell’ambito della più elementare relazione interindividuale e collettiva (in particolare, in relazione alle sue finalità d’influenzamento, d’intimidazione, di amicizia, di ostilità, di pacificazione, di profferta di alleanza, ecc.), ovvero nell’ambito d’un tipo di comunicazione che in genere, dal punto di vista strutturale, è assai più semplice della prima e si avvale di elementi comunicativi non strettamente e non necessariamente verbali o formalmente codificati in strutture complesse, ma che pure comunicano qualcosa di assai preciso: il tono della voce, l’espressione del viso, la postura corporea, la gestualità, e quant’altro.
Ora, il punto è che questi ultimi elementi (quelli “pragmatici”) sono assai spesso in contrapposizione anche diametrale con i primi (quelli “semantici”), o quanto meno si pongono su piani assai diversi rispetto ad essi, il che genera puntualmente, riguardo all’essere umano, l’impressione d’una singolare “ambiguità” espressiva.
Perciò, nel suo volere andare “al di là delle apparenze” ed investigare più in profondità la relazione medico-paziente, lo studio del “comportamento non verbale” dell’uomo, nato come si è detto in ambito psicoterapeutico, sembra avere ubbidito a queste caratteristiche assolutamente peculiari e “dissociate” della natura umana, ed avere voluto decifrare ciò che fra gli uomini, “al di là delle parole” e dei loro significati, transita di amichevole oppure di ostile, di fiducioso oppure di diffidente, di vitale oppure di mortifero, d’improntato alla sicurezza di sé e degli altri oppure alla paura, ecc.
Per tale insieme di ragioni, un tale studio sembra essere stato singolarmente simile, sin dai suoi esordi, alle cosiddette “terapie del profondo” di natura psico-dinamica, le quali su altri piani sono da esso quanto di più lontano si possa immaginare. In definitiva, quando si parla sul piano teorico della “comunicazione non verbale” fra gli esseri umani, un riferimento prioritario al campo delle psicoterapie (in primo luogo analitiche), più che legittimo, è d’obbligo.
Chiarisco subito che il nostro livello d’analisi,pur partendo dal “comportamento non verbale”, ossia dall’osservazione del “comportamento di superficie” ed in qualche modo “visibile” del paziente, ed in generale da ciò che potremmo chiamare la “semeiotica del comportamento umano” (nella fattispecie, la semeiotica del comportamento di coloro, terapeuta e paziente, che per definizione rappresentano i due soggetti d’ogni prassi psicoterapeutica), si concluderà con la formulazione di alcune ipotesi di carattere generale circa la natura del rapporto fra gli esseri umani, ed in particolare circa la relazione psicoterapeutica vista nei suoi aspetti più profondi e decisivi, ovvero in quei suoi risvolti “strategici” che per definizione non emergono dai livelli comunicativi più palesi, ma che alla fine fanno sì che essa sia veramente “terapeutica” oppure no.
Parlerò quindi, oltre che della “comunicazione non verbale”, anche dell’argomento, in sé ben più arduo, dello “scambio psichico”, a mio avviso di natura biologica e quasi “metabolica”, che fra terapeuta e paziente, così come fra tutti gli altri esseri umani, si svolge a livello inconscio: uno scambio il quale permea di sé quella sfera della relazione terapeutica che comunemente si denota, nel linguaggio psicoanalitico, con i concetti di “transfert” e di “contro-tranfert”. Un tale scambio, infatti, a mio avviso costituisce il meccanismo stesso d’ogni psicoterapia intesa, in senso letterale, come “pratica d’aiuto” condotta attraverso l’azione di una mente su un’altra mente.
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Facciamo per cominciare alcuni classici esempi di “semeiotica del comportamento non verbale” con particolare riferimento al loro possibile uso in terapia, a mo’ d’introduzione all’argomento ed al fine di capire almeno a grandi linee di cosa stiamo parlando.
Per farne uno che può colpire l’immaginario di ciascuno di noi, si è compreso abbastanza presto il motivo d’un frequente fenomeno transferale negativo, in sé enigmatico (per lo meno all’apparenza) ed assolutamente contro-intuitivo: esso concerne il fatto, ormai accertato, che il sorridere troppo frequentemente, da parte del terapeuta, durante una psicoterapia, anziché “mettere a proprio agio” il paziente e “rassicurarlo”, come di solito ci si aspetta che avvenga, può facilmente ostacolare l’instaurazione d’una buona relazione terapeutica con lui. Ora, è sin troppo facile, se solo si riflette un attimo sulle concrete condizioni dell’interazione psicoterapeutica, comprendere il motivo di questo fenomeno apparentemente paradossale: è evidente, infatti, come non sia il sorriso in sé, bensì una qualsivoglia posizione o atteggiamento “fisso” e stereotipato da parte del terapeuta, l’elemento il quale, nel suo denotare nel terapeuta medesimo una scarsa comprensione ed aderenza alla realtà psichica del proprio paziente (necessariamente cangiante di continuo!), o comunque una scarsa vicinanza ai suoi reali vissuti ed alla sua soggettività, insinua in quest’ultimo il dubbio, e progressivamente, la certezza, di non essere compreso. Ad esempio, il sorridere inizialmente ad un ansioso, ad un fobico o ad una persona per qualunque motivo spaventata, può risultare benefico poiché indica comunque l’intuizione d’un suo stato d’animo; tuttavia il farlo troppo spesso, o ancora più il farlo ad un depresso, può rivelare al contrario un’incolmabile distanza empatica e/o una fatale dissonanza emotiva con lui e con la sua sofferenza, così come il farlo ad uno schizofrenico paranoideo può generare in quest’ultimo il sospetto di essere deriso, ecc. Ed è anche facile intuire come un tale atteggiamento “emotivamente dissonante”, paradossalmente realizzantesi tramite un “sorriso” più o meno sterotipato, possa denotare una precisa “difesa” del terapeuta (fatta essenzialmente di negazione e di anestesia emotiva) dall’angoscia che un dato paziente gli trasmette: il sorridere troppo spesso ad un depresso, ad esempio, può denotare un tentativo di negare e/o di allontanarsi dalla sua sofferenza, mentre il sorridere troppo spesso ad un paranoico o ad un “antisociale” può significare negare la paura che si prova nei suoi confronti, ecc.
Altri esempi “classici” di “semeiotica del comportamento non verbale” sono i seguenti, e sono perfettamente noti ad ogni psicoterapeuta che abbia un minimo d’esperienza: il ruotare il busto in una posizione perpendicolare all’interlocutore, oppure l’incrociare le braccia di fronte a lui, denotano di solito una precisa “resistenza” nei confronti della sua persona e di tutto quanto nell’ambito della comunicazione in corso, proviene da essa; l’inarcare le sopracciglia nel porre una domanda denota in chi la pone supponenza e presunzione di conoscere già la risposta; il porre la punta dei piedi in direzione non dell’interlocutore ma della porta indica desiderio di andarsene il più presto possibile; lo schiarirsi la voce, il respirare rumorosamente, il sospirare, denotano spesso impazienza, o addirittura aggressività; il grattarsi la testa, lo sfregarsi il naso, il fare l’atto di cavarsi qualcosa dall’occhio o dall’orecchio, denotano la percezione di qualcosa di molto molesto presente nella comunicazione. Il mettersi in bocca un dito o la punta d’una penna, viceversa, denota un’accettazione più o meno piena, o quanto meno una curiosità ed “apertura”, nei confronti dell’interlocutore e dei contenuti della comunicazione medesima. Ma si potrebbero fare molti altri esempi.
Alcuni comportamenti, poi, specie se psicotici, sono alquanto imprevedibili, e l’unica cosa da fare è usare al loro riguardo una generica “cautela”: personalmente, porto sempre ad esempio la disavventura nella quale incorsi molti anni fa, psichiatra di Manicomio alle prime armi, quando infransi la “tacita regola universale”, valida in qualsiasi tipo di relazione umana non ancora divenuta intima, del mantenimento d’una distanza corporea interpersonale minima e “di sicurezza” con il proprio interlocutore (circa un metro), e la infransi proprio con un paziente psicotico di tipo paranoideo: nella fattispecie, non solo mi avvicinai troppo, ma giunsi a toccarlo amichevolmente con una mano sulla spalla a scopo di rassicurazione; infatti si trattava d’uno schizofrenico apparentemente bonario e benevolo nei miei confronti, il cui pensiero sembrava perennemente vagare “altrove” rispetto alla relazione interpersonale, essendo all’apparenza incentrato principalmente sul sé ed in particolare su tematiche ipocondriache, seppure a carattere delirante; ebbene, ne ricevetti in cambio, all’improvviso e senza alcun segno premonitore, prima un calcio (che riuscii a schivare) e poi uno schiaffo (che presi in pieno).
Alcuni antropologi e studiosi della “comunicazione non verbale” (ad esempio, Edward T. Hall, 1963), sono in proposito molto minuziosi e portati alla classificazione formale: parlano anzitutto di “comunicazione oggettuale” (preferenze, più o meno rivelatrici della personalità d’un soggetto, per oggetti d’uso personale particolari e d’un certo tipo, quali il modello dell’auto, la marca dell’orologio, la tipologia dell’abitazione e degli oggetti di più abituale consumo), e la distinguono dalla “comunicazione non verbale propriamente detta” (modalità comunicativa ottenuta invece attraverso le espressioni più dirette e gestuali del proprio corpo). Poi, per quanto riguarda le forme di “comunicazione non verbale”, essi distinguono fra comunicazione non verbale “statica” (ad esempio il modo di vestirsi e/o di modellare il proprio corpo, ad esempio con i tatuaggi o andando in palestra) e “comunicazione non verbale dinamica” (il modo fisico di atteggiarsi tramite i gesti). Distinguono infine, nell’ambito della “comunicazione non verbale dinamica”, a) la comunicazione cosiddetta “prossemica” (riguardante la gestione degli spazi e delle distanze fisiche fra le persone, le quali in media si aggirano, appunto, attorno ad un metro, ma che a seconda delle circostanze possono allungarsi o accorciarsi fino ad azzerarsi); b) la comunicazione “cinesica” (l’insieme delle comunicazioni gestuali di tipo non verbale quali, come già accennato, il grattarsi il naso o gli occhi o la testa, l’incrociare le braccia davanti al busto, il mettersi di traverso rispetto all’interlocutore, ecc.); c) la comunicazione “para-linguistica” (gli aspetti non verbali delle comunicazioni verbali, quali il tono, il volume, la prosodia ed il ritmo della voce, ma anche i borborigmi intestinali involontari prodotti mentre si parla, il raschiarsi la gola, il calo “involontario” della voce, il sospirare e lo sbuffare mentre si parla); d) la comunicazione “digitale” (tutte le caratteristiche e soprattutto le variazioni che si registrano nel contatto corporeo intenzionale, quali il brusco ed inopinato toccamento, o al contrario l’improvviso sottrarsi ad un contatto fisico magari in precedenza abituale ed accettato); infine, e) la comunicazione “olfattiva” (l’emissione non consciamente intenzionale sia di odori provenienti dalle ghiandole apocrine che di ferormoni ad effetto sub-liminale, emissioni le quali nel loro complesso regolano una buona parte delle interazioni inconsce fra individui). Ora, è evidente, ad esempio, come la cinesica e la para-linguistica siano modalità comunicative solo “indirette”, in quanto concernono atteggiamenti che il soggetto si limita ad assumere più o meno consapevolmente e senza coinvolgere direttamente gli altri (quindi sono assimilabili a delle “comunicazioni pure”), mentre la digitale e l’olfattiva (ed in parte anche la prossemica) rappresentano delle modalità comunicative assai più “dirette”, poiché implicano una qualche forma di “scambio fisico” che in qualche modo “si impone” agli altri, può richiedere più o meno imperiosamente una loro reazione e comunque va ben oltre la semplice “comunicazione”. Ma come abbiamo già detto, non è scopo della nostra trattazione l’addentrarci in un’analisi sistematica di tutte queste forme di “comunicazione non verbale”, e basterà qui avervi fatto questo breve cenno.
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Facciamo, a questo punto, una breve ricognizione storico-critica circa il “linguaggio non verbale”: anzitutto occorre dire che gli studi scientifici sul “comportamento non verbale” nella pratica psicoterapeutica sono tutti relativamente recenti. La ricerca empirica sull’argomento è invece più antica: essa si è basata, per molti anni, soprattutto sui resoconti delle sedute di psicoterapia (i cosiddetti “self report”), reperibili già nelle opere di Sigmund Freud.
Sul finire degli anni Sessanta del Novecento però, a poco a poco, un nuovo approccio cominciò a farsi strada: esso fu aperto dal classico saggio “Pragmatica della comunicazione umana” di Watzlawick, P., Beavin, J.H., Jackson, D.D., pubblicato per la prima volta in italiano, a Roma, da Astrolabio, nel 1971. L’assunto di base, anzi il vero e proprio “paradigma” del libro sopra citato era quello che comunque ci si ponga rispetto agli altri, di fatto, volenti o nolenti, in quanto esseri umani, anzi in quanto esseri viventi che per definizione inter-agiscono, “non possiamo non comunicare in qualche modo fra noi”, per cui le forme concrete di tale comunicazione, in sé essenzialmente “pragmatiche”, possono, anzi debbono, venir “studiate”. L’importanza d’un tale concetto, solo apparentemente banale e scontato, era che esso richiamava l’attenzione sul fatto che la relazione fra tutti gli esseri viventi senza eccezione alcuna (specie ove studiata all’interno di “gruppi”), appare svolgersi nell’ambito d’un “sistema” nel quale avviene comunque un qualche tipo di “scambio comunicativo” avente un valore pratico ed immediato.
Ora, questo “scambio” è universalmente “non verbale”, e se nel caso degli esseri umani esso è anche (ma non solamente!) “verbale”, appare comunque tale da presentare, al di sotto della superficie, numerose e preponderanti forme di comunicazione “alternative” a quella verbale, le quali spesso addirittura la contraddicono: forme che, ad esempio, pur salvaguardando la comunicazione del gruppo nel suo insieme, possono escluderne o sacrificarne alcuni membri, cosiddetti “designati”, i quali ne divengono ad un certo punto i “capri espiatori”. Insomma, questo “scambio comunicativo profondo” di carattere non verbale, per desiderato o non desiderato, sociale o predatorio, “tossico” o “nutritivo” che sia, appare venire assai prima ed andare ben oltre rispetto agli aspetti verbali che caratterizzano “in superficie” l’essere umano.
Gli aspetti “verbali” della comunicazione, poi, a differenza di quelli “non verbali”, ci appaiono sempre e comunque come “volontari” e “coscienti”, oltre che caratterizzati da un’apparentemente assoluta preponderanza della loro parte semantico-informativa e sintattico-grammaticale su quella “pragmatica”, ovvero d’influenzamento degli altri: in questa loro caratteristica (che per definizione ci sembra in qualche modo “impalpabile” e “dissociata” dalla biologia, in quanto tesa a dominare e manipolare i concetti ed i simboli anziché altri esseri viventi) essi ci appaiono quasi fatti apposta per padroneggiare gli aspetti pragmatici medesimi, ovvero per differire nel tempo la loro azione più o meno brutale di condizionamento sugli altri membri del gruppo e “contrattarla” con essi nei modi più sofisticati, più improntati alla reciprocità e più metaforici possibili, nonché talora per occultarla ai loro occhi sotto forme apparentemente opposte: si pensi, a quest’ultimo proposito ai numerosi termini, circonlocuzioni e concetti “piacevoli” usati per designare realtà sommamente “spiacevoli”, o più semplicemente, alla presentazione “ideologica”, retorica ed accattivante di realtà anche molto tragiche e letali, come avviene ad esempio in guerra con la retorica del “patriottismo”.
Per quanto riguarda invece la “comunicazione non verbale”, occorre osservare come essa, in linea generale, sia assai meno “menzognera” di quella verbale, e comunque più aderente ai fondamenti stessi della comunicazione (che sono di natura biologica): ad esempio, anche restando in silenzio, prima o poi si comunica comunque qualcosa ai nostri simili (anzi qualcosa, di solito, di assai importante!), e lo si fa anche con i propri atteggiamenti corporei, poiché essi molto spesso riaffermano gerarchie, rapporti di potere, reazioni emotive profonde, ecc.
In definitiva, si può affermare che tanto più si comunica in forma “veritiera” quanto più si mettono in atto quelle innumerevoli forme di “comunicazione non verbale”, proprie della nostra specie come delle altre, di cui siamo ormai bene a conoscenza ed alle quali abbiamo fatto sopra cenno.
Ancora, con il tempo si è capito che tutte queste forme di “meta-comunicazione”, le quali vanno largamente al di là degli aspetti verbali e vengono mediate sia dalla gestualità corporea che dal silenzio, nonché da alcuni aspetti inconsci, ideologici e/o “sotterranei” della comunicazione verbale stessa, possono essere studiate più agevolmente, rispetto all’ambito della comunicazione duale, in sistemi strutturati collettivi quali il gruppo o la famiglia: in questi ultimi infatti, da un lato i livelli individuali di auto-controllo, proprio perché “diluiti” nel gruppo, fatalmente si allentano; dall’altro, la posizione del terapeuta, in quanto divenuto a sua volta più “esterno” alla “relazione duale”, quindi anche meno “immerso nella relazione terapeutica”, e di conseguenza molto più libero dai suoi condizionamenti (per certi versi più cogenti), diviene sempre di più quella d’un “osservatore del comportamento”. Da ciò l’affermarsi progressivo, per un verso, delle “terapie di gruppo”, per un altro di quella cosiddetta “terapia relazionale-sistemica” altrimenti nota come “terapia familiare”, e soprattutto il crescere della loro importanza in quanto “luoghi privilegiati” e relativamente più “neutrali” per un’osservazione del comportamento non verbale e delle suddette “meta-comunicazioni” nell’ambito delle relazioni umane.
L’altro autore della vera e propria “svolta” che avvenne nell’ambito dello studio della “comunicazione non verbale”, negli anni Sessanta del Novecento, fu Albert Mehrabian. In quegli anni, dunque, questo psicologo statunitense condusse pionieristiche ricerche sull’importanza dei diversi aspetti della comunicazione umana nel far recepire all’interlocutore un determinato messaggio. Il risultato, il quale all’epoca apparve rivoluzionario, fu che la frazione “non verbale” della comunicazione umana (in particolare quella legata al corpo ed alla mimica facciale) risultò avere un’influenza del 55% sul totale, mentre la comunicazione paraverbale e/o paralinguistica (tono, volume, ritmo della voce, ecc.) la aveva del 38%, ed il contenuto verbale di tipo propriamente semantico, ossia legato al significato letterale del messaggio ed al suo contenuto informativo più astratto, solo del 7%. Da questi dati, come si vede, risultava che anche sommando insieme gli aspetti della comunicazione direttamente ed indirettamente legati al linguaggio parlato (aspetti verbali più aspetti para-verbali), essi influivano nel loro insieme sul comportamento umano per non più del 45% del totale, mentre gli aspetti “non verbali” risultavano ancora maggioritari, in quanto influivano sul restante 55%.
Ma v’era di più: proprio come gli studi di natura “relazionale” sopra citati, anche quelli di Mehrabian confermavano come la trasmissione dei contenuti semantici delle informazioni verbali (i quali rappresentano la caratteristica comunicativa precipua e più “vistosa” del linguaggio simbolico umano, quella cui siamo soliti dare la maggiore importanza), rappresentasse nella nostra specie solo una parte minima, ovvero la “punta emersa”, d’un enorme “iceberg comunicativo” la cui parte preponderante (del tutto sommersa rispetto alla nostra “percezione cosciente”) era di natura non verbale, in perfetta analogia con quanto avviene negli animali. Questi studi, peraltro condotti con sufficiente rigore metodologico ed equilibrio, furono però “forzati” e travisati da buona parte delle cosiddette “scuole di Programmazione Neuro-Linguistica” (PNL) nate sulla loro scia: esse, proprio sulla base di tali risultati, presero in molti casi a sostenere, semplicisticamente, che ciò che contava in ogni tipo di comunicazione, assai più che il suo contenuto o la sua stessa finalità effettiva, era il modo in cui la comunicazione medesima veniva “offerta”, quindi in definitiva il suo potere suggestivo (anche a fini commerciali). Da ciò derivò il proliferare d’ogni genere di “urlatori della comunicazione”, di “esperti della comunicazione sub-liminale” nonché di scuole di psicoterapia essenzialmente “suggestive” (ad esempio quelle basate sull’abuso più sfacciato del sorriso, quali certe forme estreme di “Patch-Therapy”, oppure sette mistiche e finalizzate al plagio quali “Scienthology”): scuole che a tutt’oggi imperversano ovunque, malgrado sempre più siano smentite, nella loro efficacia e veridicità, dagli studi più seri esistenti in proposito di “comunicazione non verbale”. E’ infatti ovvio che ciò che alla fine conta davvero, in una comunicazione interpersonale la quale può essere “tossica” o “ al contrario “benefica” per chi la intrattiene, al di là della sua forma più o meno accattivante, è proprio il suo contenuto, in sé biologicamente tutt’altro che “indifferente”: in ragione di ciò, la forma con cui tale contenuto viene “offerto” non può affatto essere considerata in maniera astratta e separata rispetto a quest’ultimo, specie in psicoterapia. In altre parole, l’indubbia dissociazione, esistente nella specie umana, delle forme comunicative verbali da quelle non verbali ed anche l’altrettanto indubbia preponderanza quantitativa delle seconde sulle prime, non possono assolutamente essere confuse con una presunta dissociazione delle forme comunicative prese in sé stesse, e nel loro insieme, dai contenuti biologici da esse veicolati, e neppure con l’onnipotenza d’una non meglio precisata “suggestione”: è infatti una considerazione di puro buon senso il ricordare come le forme comunicative prevalentemente “paradossali”, ovvero fortemente discordanti dai loro contenuti biologici (quali quelle, d’impronta nettamente “patologica” e disfunzionale, dette “doppio messaggio”, indagate ad esempio nella “Pragmatica della comunicazione umana” a proposito delle famiglie degli psicotici, oppure quelle proprie delle sette dedite al plagio), sono alla lunga “patogene”, quindi controproducenti, per qualunque specie, in particolare ai fini della sua vita associata, ed in definitiva incompatibili con la sua stessa sopravvivenza; perciò è ovvio che una tale incompatibilità debba emergere, prima o poi, anche e soprattutto nell’ambito d’una attività che si presume “curativa” quale una psico-terapia.
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Ma vediamo un po’ meglio, adesso, in quali direzioni le ricerche più serie sulla “comunicazione non verbale” si sono nel frattempo sviluppate, nel mentre che questi orientamenti più o meno “ciarlataneschi” dilagavano: ora, occorre dire che in gran parte degli studi della fine degli anni 60 del Novecento, si era indagato prevalentemente sugli aspetti comunicativi legati all’insieme del corpo umano, tralasciando singolarmente il volto. Un orientamento completamente diverso lo si dovette, per la prima volta, a Silvan Tomkins, uno psicologo di Philadelphia il quale indagava le emozioni umane da un punto di vista “innatistico”. I suoi studi, che risalgono al 1965, furono così dirompenti da indurre un altro studioso, Paul Ekman, suo collega di Washington, ad estendere anche lui lo studio del comportamento non verbale (sempre partendo dagli stessi presupposti “innatistici”) proprio alla mimica del volto.
Ekman aveva all’epoca iniziato, per conto della A.R.P.A. (Advanced Research Project Agency), una ricerca sulla “comunicazione non verbale del viso”, anche se in precedenza si era occupato soprattutto di pazienti psichiatrici. Egli per la verità fino ad allora, quanto a quadro teorico di riferimento, si era ispirato in prevalenza a studiosi di approccio “culturalista” quali l’antropologa Margareth Mead o lo studioso della comunicazione Gregory Bateson (appartenente a quella stessa “Scuola di Palo Alto”, o “scuola relazionale-sistemica”, di cui facevano parte anche gli autori della “Pragmatica della comunicazione”): questi autori sostenevano che sia il “linguaggio parlato” sia il “linguaggio non verbale”, in particolare quello del viso, erano costituiti da elementi “appresi” nel corso dello sviluppo, tutti quanti identificabili nella loro origine e sviluppo, tramite un approccio antropologico di tipo appunto “culturalista”, nell’ambito dell’ambiente circostante, quindi della famiglia, dell’educazione ricevuta e della cultura d’appartenenza di ciascun soggetto. Silvan Tomkins, invece, riprendendo i classici concetti già espressi a suo tempo, fin dal secolo XIX, da Charles Darwin (il quale riteneva che le espressioni facciali legate alle emozioni fossero innate e universali in tutto il regno animale ed anche nell’uomo), aveva per primo, almeno per quanto riguarda il “linguaggio non verbale”, sostenuto il contrario.
Del resto, anche il grande linguista d’approccio “strutturalista” Noam Chomski, da tempo, per quanto riguarda lo stesso “linguaggio verbale”, andava sostenendo tesi analoghe, ovvero l’esatto contrario di quanto affermato anche a tale proposito dall’approccio “culturalista”: egli affermava infatti, sia contro le concezioni ambientalistiche e culturaliste del linguaggio, sia contro il “gradualismo adattivo” proprio d’un certo “darwinismo ortodosso” (quello, per intendersi, di Richard Dawkins, Steven Pinker e Daniel Dennett), che il linguaggio parlato è una proprietà della mente umana “emersa” all’improvviso, quale “struttura formale innata” del cervello, e non già il risultato d’una lenta evoluzione ed interazione della specie con l’ambiente, tanto meno faticosamente raggiunto tramite l’esperienza individuale /o di gruppo, ovvero con modalità lamarckiane e “per tentativi ed errori”. Una tale concezione strutturalistico-formale, peraltro, è stata recentemente sostenuta, anche sul piano dell’evoluzione più generale di tutti gli esseri viventi, dagli studiosi della recente corrente di pensiero evoluzionistico detta “Evo-Devo”, l’acronimo di “Evolution-Development” (Evoluzione-Sviluppo), della quale un importante esponente italiano è lo studioso di biologia del linguaggio Massimo Piattelli-Palmarini. Ora, secondo l’ipotesi “Evo-Devo”, nel mutare delle specie e nel loro acquisire nuovi e complessi tratti, non tutto si ridurrebbe ad “evoluzione per selezione ambientale”, come vogliono gli evoluzionisti cosiddetti “adattamentisti”, “gradualisti” e “darwiniani ortodossi”, poiché una parte cospicua di tali tratti deriverebbe o da fattori puramente casuali ed improvvisamente “emergenti” senza un motivo preciso, dalla struttura precedente (è il caso del numero sempre dispari delle paia di zampe delle oltre tremila specie di chilopodi impropriamente detti “centopiedi”); oppure deriverebbe da fattori che sono gli unici a permettere lo “sviluppo strutturale intrinseco” d’una determinata forma vivente, ovvero i soli a presentare una loro “intrinseca compatibilità formale” con la struttura biologica complessiva all’interno della quale si trovano inseriti. In base a ciò, essendo le caratteristiche “formali” di alcuni tratti le uniche ad essere “intrinsecamente possibili” all’interno d’un determinato quadro di riferimento “strutturale” che sia valido per quei tratti, esse sarebbero anche le sole a far sì che una tale struttura vivente, concretamente, “si regga in piedi” e risulti fisicamente possibile (e ciò a prescindere da ogni eventuale “pressione selettiva ambientale”). Ebbene, il linguaggio, con la sua complessità e con la sua dipendenza stretta, nella sua componente verbale, da certe strutture anatomiche (ad esempio, la particolare conformazione del laringe e del faringe), farebbe parte appunto di questa categoria di tratti “strutturalmente obbligati ad assumere una data forma”, delineata da “Evo-Devo”: tratti in parte “emersi” per puro caso, in parte strutturatisi in forme altamente differenziate nonché “obbligate” dalla loro stessa conformazione intrinseca, ed in ogni caso in larga misura “innate” ed indipendenti dall’ambiente.
Le ricerche che seguirono quelle di Thomkins videro dunque Ekman ed altri psicologi e ricercatori suoi contemporanei sostenere (sulla scia per un verso del Darwin “innatista” che si contrapponeva a Lamarck, e per un altro del Chomski “strutturalista” che si contrapponeva ai linguisti d’orientamento “culturalistico-ambientalista”) che anche il “comportamento non verbale” era un comportamento formale altamente “strutturale” e connaturato alla specie. Essi in tal modo stabilirono la natura innata, accanto alle forme espressive verbali (quelle studiate appunto da Chomski), delle stesse espressioni facciali, a loro volta fortemente condizionate in senso “strutturale” dalla conformazione del cranio facciale umano e della muscolatura del viso. Il viso, dunque, in questa prospettiva cominciò ad essere considerato la parte del corpo più in grado di fornire informazioni attendibili e veritiere nell’ambito della “comunicazione non verbale”. Paul Ekman e Wallace Friesen elaborarono di conseguenza un sistema di codificazione delle espressioni facciali il quale consentiva di classificarle ed identificarle in modo analitico e sistematico a prescindere dalle variabili ambientali e/o culturali, ovvero il F.A.C.S. (“Facial Action Coding System”).
Oggi, ormai, lo studio scientifico del “comportamento non verbale” viene posto in una posizione assolutamente centrale nella ricerca sulle interazioni che hanno luogo nell’ambito della “diade” madre-bambino e, in generale, nell’ambito di tutte quelle relazioni umane in cui i soggetti interessati non sono in grado di verbalizzare adeguatamente le proprie emozioni (ad. nell’autismo, nel ritardo mentale, nel sordo-mutismo, ecc.). Inoltre, il F.A.C.S. e la comunicazione non verbale in genere, vengono usati in studi quali quelli sulle espressioni facciali alterate e/o carenti proprie di alcuni forme psicopatologiche (ad esempio, quelle dei pazienti schizofrenici, bipolari e depressi), o nell’analisi del pianto neonatale (“Neo-natal Action Facial Coding System”, o NFACS), oppure nella dinamica interattiva che ha luogo nell’ambito delle sedute di psicoterapia individuali e di gruppo.
In quest’ultimo settore di ricerca, ci sono lavori che hanno analizzato le dinamiche della “diade” paziente-terapeuta (una “diade” perfettamente parallela ed analoga a quella madre-bambino) in una maniera per quanto possibile “oggettiva”, quindi andando ben oltre l’ultra-soggettivo “self-report” d’epoca freudiana. Autori come Jorg Merten e coll. (1996 e 2005), ad esempio, hanno utilizzato il F.A.C.S. comparando le sedute di terapie nelle quali la relazione terapeutica era efficace con altre in cui invece falliva, ed hanno scoperto che il “punto critico” non era la “scuola di pensiero” cui apparteneva il terapeuta, bensì un dato puramente tecnico, contingente ed in sé banale, consistente nella mancata rilevazione, da parte di quest’ultimo, di alcune espressioni facciali del paziente, quindi il mancato adeguamento del terapeuta stesso a ciò che tali espressioni potevano significare. Altri studi hanno mostrato come un terapeuta il quale, al contrario, sia sufficientemente avveduto di questi fenomeni, possa manovrare la propria componente verbale e quella non verbale, in terapia, non solo in linea generale ma anche nell’ambito d’una leggera situazione di conflitto con il paziente, cosa che concorre fra l’altro a spingere quest’ultimo al cambiamento pur preservando la relazione terapeutica con lui.
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In questa sommaria revisione storico-critica del significato della “comunicazione non verbale”, sia nelle psicoterapie che in generale, abbiamo dunque acquisito un concetto: spesso la suddetta comunicazione appare essere, oltre che quantitativamente preponderante, assai più “veritiera”, rispetto alla “comunicazione verbale”, in quanto più aderente a ciò che potremmo definire lo “scambio biologico di base”, in gran parte a carattere innato, che avviene fra esseri umani nell’ambito della loro interazione comunicativa.
Stabilito questo punto, veniamo ora alla parte più centrale del nostro discorso: essa, come già accennato, verte proprio su ciò che si suppone avvenga in profondità nella relazione terapeutica medesima, ossia su ciò che transiterebbe in profondità tra terapeuta e paziente al di là delle espressioni comunicative più palesi (in particolare di quelle verbali, ma non solo), ed esplicherebbe presumibilmente un’azione “curativa”. Ora, l’ipotesi che facciamo in proposito, lo anticipiamo sin da adesso, è quella, del tutto conforme ai postulati “strutturalisti” ed innatistici di Chomski (per quanto riguarda il “linguaggio verbale”) e di Ekman (per quanto riguarda il “linguaggio non verbale”), che anche lo scambio comunicativo profondo ed “inconscio” che intercorre tra paziente e psico-terapeuta ubbidisca, assai più che ad elementi culturali “appresi” e/o di superficie, a delle leggi biologiche a carattere permanente, per lo più innate ed indipendenti dalla cultura e dall’esperienza di volta in volta conseguite dalla nostra specie.
Com’è noto, un’esplorazione pionieristica rivolta non tanto alla “comunicazione non verbale” presa in sé stessa, quanto a quella vita psichica che potremmo definire “collaterale” o sotterranea rispetto alla coscienza, ovvero ai pensieri latenti, nonché alla vita emotiva che, su una precisa base biologica, sta in qualche modo “al di sotto” delle parole, fu quella dell’Inconscio. Quest’esplorazione, nata in realtà assai prima (si veda l’ormai classico saggio “La scoperta dell’inconscio” di Henri F. Ellenberger), ebbe però il suo sviluppo più significativo in Psicologia, com’è noto, con la grandiosa rivoluzione psico-analitica operata da Sigmund Freud oltre cento anni fa. Questa “rivoluzione” nacque sulla base d’una considerazione attenta dell’antropologia e delle scoperte dell’evoluzionismo. Occorre però dire, per amore di precisione, che lo studioso di storia della scienza Frank Sulloway, nel suo saggio “Freud biologo della psiche”, ha sostenuto che il fondatore della Psicoanalisi, assai più che a Charles Darwin, si sarebbe ispirato alle teorie di Ernst Haekel ed al suo cosiddetto “monismo”, ed in particolare al famoso motto di quest’autore “L’Ontogenesi ricapitola la Filogenesi”; quindi, per il tramite d’una tale teoria, in specie nella sua idea del succedersi nello sviluppo psichico delle fasi orale, anale, uretrale e fallica, Freud, per Sulloway, si sarebbe rifatto ad una visione dell’evoluzione che nel complesso era assai più lamarckiana ed “ambientalista” (ossia improntata all’idea di un’incorporazione sistematica ed in qualche modo “finalizzata”, nell’organismo individuale, delle esperienze derivanti dalle sollecitazioni ambientali), che non darwiniana (ovvero volta a quella d’una selezione ambientale delle variazioni che di volta in volta, per puro caso, si producevano fra le specie). Qui ovviamente non è possibile andare oltre un rapido cenno a quest’argomento, straordinariamente vasto, complesso e tale fra l’altro da coincidere solo in parte con il tema che ci siamo dati. Poiché però esso, almeno in alcuni suoi aspetti, investe in pieno quel “rapporto profondo” fra terapeuta e paziente il quale permea di sé, assai più che quella verbale, la “comunicazione non verbale” (e che è pertanto oggetto precipuo del presente discorso), occorrerà pur farvi un cenno. Basterà ricordare brevemente, al riguardo, tre punti:
1) l’esplorazione freudiana dell’inconscio, avviata proprio tramite l’analisi di elementi psichici e/o comportamentali non strettamente verbali quali i sogni o i lapsus, partiva essenzialmente da un’idea: quella che le “forze ancestrali” della biologia (per Freud, essenzialmente quelle aggressive e sessuali), “forze” le quali sarebbero presenti, nella psiche di ciascun essere umano, allo stato inconscio in quanto “represso” dalle proibizioni genitoriali e/o sociali (o più genericamente, dalla “cultura”), condizionassero in senso profondo il comportamento palese degli individui, lo deformassero e lo rendessero, in taluni casi, “patologico”, cioè più o meno discostante sia dalla norma sociale che dalle aspettative dell’individuo stesso. Una tale idea freudiana, dunque, era per definizione “dinamica”, poiché implicava l’ipotesi che tali “istanze psichiche inconsce” (i cosiddetti “derivati dell’inconscio”, un’entità quest’ultima che per definizione non era direttamente conoscibile) fossero comunque di derivazione biologica, e proprio in quanto tali (quindi collocate ben oltre la pura e semplice dimensione “cognitiva”) conservassero una loro incoercibile “forza” a livello mentale, e dovessero di conseguenza trovare comunque un qualche “sfogo”: ciò dapprima nell’ambito intrapsichico, poi nel comportamento esterno. Quest’idea grosso modo “idraulica” della struttura della mente umana condusse a poco a poco il suo autore ad una seconda idea, perfettamente consequenziale alla prima: quella che la “presa di coscienza” dei contenuti inconsci corrispondenti a tali “forze”, ovvero il loro “prender forma” sotto la specie di idee coscienti, ed il loro conseguente “sfogo ideativo” (uno “sfogo” fino ad allora negato dalla censura operata dalla coscienza, nonché dalla repressione istintuale operata dall’Io), fosse di per sé terapeutica: ciò essenzialmente in quanto una tale “presa di coscienza” sarebbe stata in grado di “dirigerle altrove”, aggirando così le barriere della censura ed operando una sorta di “decongestionamento dell’inconscio”. Di più, la “presa di coscienza”, con l’aiuto del terapeuta, avrebbe consentito di “sublimare” tali forze “dinamiche” di derivazione biologico-istintuale, ovvero di trasformarle, rendendole in qualche modo “immateriali” (si veda il significato letterale del termine “sublimazione”) ed indirizzandole a finalità più costruttive e conformi alle aspettative sociali. Ora, nella “vulgata corrente”, specie dei “non addetti ai lavori”, quest’idea di “normalizzazione” del comportamento patologico del paziente tramite la “presa di coscienza”, poi largamente smentita dai fatti, accanto a quella circa la presunta “onnipotenza della sessualità” nelle dinamiche psichiche profonde, è tuttora rimasta come l’emblema stesso della Psicoanalisi. Ma al di là di ciò, il concetto “dinamico” di “presa di coscienza terapeutica”, anche dopo l’affermarsi della cosiddetta “seconda topica” freudiana (quella che alla triade “conscio-inconscio-preconscio” sostituiva l’altra, di carattere più “strutturale”, “Io-Es-Super Io”, e concentrava in gran parte, in quella struttura psichica che era chiamata Es, i contenuti “repressi” e le stesse “forze dinamiche” dell’inconscio, facendoli così divenire ancor più chiaramente delle forze biologiche “compresse” dall’Io e bisognose di “sfogo”), permase effettivamente inalterato, ed anzi diede luogo a quel famoso e super-ottimistico programma terapeutico freudiano, relativo alla “bonifica dell’inconscio”, che suonava più o meno così: per mezzo della terapia psicoanalitica “Là dov’era l’Es (luogo principale delle “pulsioni aggressive e non immediatamente socializzabili risiedenti nell’Inconscio”) sarà l’Io” (struttura che per Freud era per l’organo eccellenza del “rapporto con la realtà”);
2) l’evoluzione successiva della Psicoanalisi freudiana portò tuttavia ad uno sviluppo assai diverso; essa condusse gli psicoanalisti ad incentrare sempre più l’attenzione, in alternativa alla pura e semplice “presa di coscienza”, su un “luogo particolare” che poi era il solo nel quale, come si vide ben presto, una tale “presa di coscienza” nonché “bonifica dell’inconscio” potevano dare un qualche frutto terapeutico: quello della cosiddetta “relazione transferale-controtransferale” che si instaurava fra paziente e terapeuta. Una tale relazione, in un’ottica psicanalitica tradizionale, non era altro che l’insieme delle proiezioni reciproche del paziente sul terapeuta e di quest’ultimo sul paziente, effettuate sulla base delle loro reciproche modalità di “relazione oggettuale” e poi accompagnate dalla loro analisi; quest’ultima poi era effettuata essenzialmente dal terapeuta e/o dal supervisore di quest’ultimo. Ora, questa vera e propria “scoperta clinica”, frutto più che di speculazioni teoriche d’una pluri-decennale esperienza pratica, era d’indubbio valore, poiché concerneva il dato di fatto, fino allora largamente misconosciuto e/o trascurato, che una qualsivoglia psicoterapia del “profondo” non poteva essere solo “cognitiva” e limitata al paziente (come i primi analisti erano inclini a credere), ma doveva necessariamente investire, per l’appunto, il rapporto terapeuta-paziente nei suoi aspetti “inconsci”, “biologici” e “dinamici”, ed insomma in qualcosa che andava, per definizione, ben al di là dei contenuti “verbali” emergenti in terapia. Il limite di questa scoperta, però, fu rappresentato dal fatto che il rapporto terapeuta-paziente veniva visto come un gioco di reciproche proiezioni di immagini infantili e/o ancestrali, a loro volta formatesi tramite lo sviluppo psichico, l’apprendimento e l’interazione ugualmente “oggettuale” fra genitori e figli: insomma, anche il rapporto terapeuta-paziente veniva visto, esattamente come la “presa di coscienza dei contenuti psichici inconsci” risalenti al passato, come un fatto in prevalenza “cognitivo” (si veda in proposito la “teoria delle relazioni oggettuali” inaugurata da Melanie Klein e poi sviluppata da autori come Margareth Mahler, Donald Winnicott, William Fairbairn, Otto Kernberg), mentre gli aspetti più propriamente biologici e “dinamici” di detto scambio restavano ancora una volta in ombra. Comunque sia, in base a questo radicale mutamento di prospettiva le terapie psicoanalitiche si allungarono di molto (dai pochi mesi iniziali a molti anni), e presero ad assomigliare sempre più ad un “addestramento etico” e quasi para-religioso ottenuto proprio tramite il rapporto con il terapeuta: un autentico “percorso di maturazione a due”, volto principalmente a fronteggiare le pulsioni distruttive; si veda, in proposito, la sempre maggiore importanza via via acquistata, in Psicoanalisi, dal concetto freudiano di “Istinto di morte” o “coazione a ripetere”, inteso quale segno di “resistenza al cambiamento”, “scelta colpevole della soluzione più semplice” (o meglio, affine alla “semplicità dell’inorganico”) e “rifiuto della complessità del reale”, da cui deriverebbe la “difficoltà nel guarire”. Il ritmo delle sedute, dunque, crebbe parallelamente a tale evoluzione, giungendo fino a quattro alla settimana, mentre l’”analisi del tranfert” divenne, com’è ovvio, assolutamente centrale non solo per la terapia, ma per la vita stessa del paziente: quest’ultima infatti, a poco a poco, essendo sempre più intesa come un “ri-percorrimento” (ovviamente guidato dall’analista) del proprio tragitto di maturazione infantile, doveva di necessità essere “rivissuta in analisi” nonché “risolta”, nei suoi snodi essenziali, nell’ambito della relazione, spesso conflittuale, con il proprio terapeuta. Su quest’ultimo infatti, come già accennato, il paziente “proiettava” i propri arcaici fantasmi ed i vissuti infantili verso le proprie figure genitoriali (la parola “transfert”, letteralmente, significa proprio “proiezione”), ed il terapeuta doveva fornire adeguate “interpretazioni” di tali proiezioni e convincerne il paziente. Le “resistenze” del paziente a fare tutto ciò, venivano infine liquidate semplicemente con la considerazione che in questo caso prevaleva, in lui, assieme ad un’insolitamente pervicace “fissazione” agli stadi più precoci e pre-genitali dello sviluppo psichico, l’“istinto”, ovvero la “pulsione”, di “morte”. All’inverso, nei casi più favorevoli si supponeva che i “nodi irrisolti” dello sviluppo infantile e del rapporto con i genitori (donde erano derivate le sue famose “fissazioni orali, anali e falliche”, già postulate da Freud), fino ad allora rimasti inconsci ma tali da condizionare in senso patologico sia il comportamento cosciente che la situazione inconscia del paziente, si fossero andati a poco a poco “sciogliendo” grazie all’azione congiunta della “presa di coscienza” e dell’”analisi del transfert”, rendendo possibile quella radicale trasformazione della personalità che era il presupposto della “guarigione”. Non tutto, naturalmente, era così semplice: già lo stesso Freud, per la verità, iniziò sul finire della sua vita a nutrire seri dubbi su questo “ottimismo teorico” coniugato ad una sorta di “massimalismo terapeutico”, ed in “Analisi terminabile ed interminabile” (1937), pose il problema dei limiti intrinseci dell’azione analitica e della frequente necessità di porvi fine pur senza aver raggiunto i risultati per essa “strategici” (il mutamento strutturale della personalità), mentre già nel 1925 aveva ipotizzato che l’importanza della Psicoanalisi sul piano culturale e scientifico oltrepassasse di gran lunga quella terapeutica.
3) E’ in conclusione evidente che un “campo terapeutico” quale quello psicoanalitico, proprio in quanto così ambiziosamente concepito, conteneva un numero di variabili, sia soggettive che oggettive, talmente elevato (il paziente, il terapeuta, i loro rispettivi passati e personalità, la loro interazione umana profonda e la loro relazione terapeutica, il loro rispettivo percorso di maturazione “cognitiva” ed “oggettuale”, il loro giudizio non necessariamente coincidente sull’andamento della terapia, ecc.) da rendere difficilissima una “verifica oggettiva” dei reali progressi terapeutici, ed anche una “falsificazione popperiana”, sul piano scientifico, circa la veridicità degli assunti teorici della Psicoanalisi (cosa ampiamente notata, peraltro, da illustri filosofi della scienza quali appunto Karl Popper, o Adolf Grunbaum). Ancora, questo limite era aggravato dal fatto che l’obiettivo della terapia, con una siffatta ultra-complessa metodica, si spostava necessariamente dai sintomi più o meno specifici d’un determinato disturbo ad una generica, assai più insondabile e scarsamente definibile “maturazione della personalità”, della quale era davvero arduo fornire “evidenze” sia “in positivo” che “a contrario”: se ad esempio si riteneva che un paziente in qualche modo “progredisse”, si supponeva che ciò avvenisse in quanto l’analisi del tranfert gli aveva fatto correttamente rivivere degli “snodi” infantili essenziali, sui quali però non era ovviamente possibile alcuna verifica (tanto meno extra-analitica); se invece “non progrediva”, veniva invocato come causa di ciò, come già accennato, il prevalere in lui dell’“l’istinto di morte”, ovvero d’un qualcosa che corrispondeva ad un concetto ancora meno soggetto a verifiche (o per lo meno, a verifiche scientifiche). Ebbene, a queste aporie di base del pensiero psicoanalitico di derivazione freudiana, derivanti dalla complessità e non verificabilità dell’oggetto della “terapia” analitica, non sembrano certo aver posto rimedio quegli autori più recenti ed alla moda i quali alla Psicoanalisi aderiscono o s’ispirano proprio in chiave “relazionale” (ossia in un’ottica che è la più complessa e la meno verificabile possibile), vuoi dal punto di vista dello studio delle funzioni mentali, vuoi da quello della “teoria dell’attaccamento”: Stephen Mitchell (Psicoanalisi relazionale), Peter Fonagy (“Teoria della mentalizzazione”), Philip Bromberg (Psicoanalisi relazionale), David Wallin (Psicoanalisi relazionale), Allan Shore (“Teoria dell’attaccamento”), o l’ormai classico Wilfred Bion (“Teoria delle funzioni”). Questi autori, infatti, per l’appunto in quanto fatalmente portati ad enfatizzare il ruolo attribuibile, nella terapia e nello stesso sviluppo psichico infantile del paziente, alla “relazione”, non hanno potuto far altro che rendere ancora più evidenti queste difficoltà.
Ora, proprio su una tale colossale “falla d’origine”, anche metodologica, della Psicoanalisi, ovvero di quella che potremmo definire la prima psicoterapia sistematicamente incentrata su elementi psichici “profondi” e soprattutto inerenti la ultra-complessa relazione fra gli uomini, quindi per definizione non immediatamente visibili (e spesso, “non verbali”), si è successivamente innestata, come vedremo, la proposta proveniente da un approccio psicoterapeutico completamente alternativo.
I possibili meccanismi d’azione delle psicoterapie sono stati rivisitati in una prospettiva radicalmente nuova, in particolare, ad opera dell’approccio cognititivo-comportamentale, un orientamento nato negli Stati Uniti intorno alla fine degli anni Sessanta in seguito al lavoro clinico di Aron T. Beck. Quest’orientamento s’imperniava su una radicale rivalutazione del ruolo esercitato, sia nella patogenesi dei disturbi mentali che nella loro terapia, proprio dai pensieri consci: in particolare, Beck si accorse che esisteva un nesso preciso fra alcuni dei pensieri consci che attraversavano la mente dei pazienti e le loro sofferenze, e si rese conto che, entro certi limiti, si potevano correggere le seconde influenzando i primi. In base a ciò, questo metodo s’imperniava su una riflessione del paziente, effettuata sotto la guida del terapeuta, sulle proprie emozioni e pensieri coscienti, nonché su un vero e proprio, sistematico “addestramento” per superarli e/o per prescinderne: insomma, esso rappresentava un metodo specularmente opposto a quello psicoanalitico, il quale era invece imperniato, come abbiamo visto, sull’esplorazione (“libera” e fondata sulle associazioni mentali del paziente, sui suoi lapsus ed i suoi sogni) di pensieri ed emozioni inconsce del paziente, esplorazione effettuata essenzialmente dal terapeuta in prima persona tramite l’interpretazione. Perciò il nome che Beck diede alla sua metodica fu quello di “Psicoterapia Cognitiva”. Oggi s’intende il modello terapeutico originario di Beck come “Terapia Cognitiva Standard”, in quanto la sua successiva denominazione di “Terapia Cognitivo-Comportamentale” fa riferimento all’innesto, sul suddetto “modello standard” di tipo cognitivo, di tecniche di derivazione behaviorista, ovvero appartenenti all’indirizzo comportamentista inaugurato da John Watson già agli inizi del Novecento (tecniche in gran parte basate sul cosiddetto “condizionamento operante” di Burnus Skinner). La terapia cognitivo-comportamentale fa poi riferimento anche all’acquisizione, da parte della Psicoanalisi, delle più recenti scoperte sulla psico-biologia dello sviluppo animale ed umano, e di quelle inerenti le cosiddette “tematiche di dipendenza”, quali ad esempio quelle sistematicamente esplorate nella ponderosa opera in tre volumi dello psicoanalista freudiano inglese “dissidente” John Bowlby, intitolata “Attaccamento e Perdita” e scritta fra il 1969 ed il 1980. Occorre anche sottolineare, a proposito di quest’approccio psicoterapeutico, che esso è l’unico, allo stato attuale, ad essere riconosciuto come realmente efficace dalla Psichiatria, in quanto è il solo ad essere stato validato scientificamente ed in base ad “evidenze” circa la sua reale efficacia; occorre però anche dire che, secondo le suddette “evidenze”, l’efficacia della terapia cognitivo-comportamentale, pur essendo reale, si espleta al suo meglio in associazione con le terapie psico-farmacologiche (e queste ultime, viceversa, acquisiscono una maggiore efficacia in associazione con la psicoterapia cognitivo-comportamentale). In Italia, questo approccio si è scisso nei due filoni della “terapia cognitivo-comportamentale” propriamente detta (Giovanni Liotti ed altri), e della cosiddetta terapia “post-razionalista” (Vittorio Guidano).
Nel complesso pur senza addentrarci, anche qui, nei dettagli ma mantenendo uno specifico riferimento al tema principale del nostro discorso, possiamo dire che le terapie cognitivo-comportamentali, sul piano concettuale e teorico, hanno “rivoluzionato” l’approccio psicoanalitico nel senso più letterale del termine, ossia lo hanno “rovesciato di 180 gradi”: 1) laddove, infatti, in Psicoanalisi si parte da contenuti psichici “dinamici” e per definizione non verificabili quali quelli “inconsci”, e si assume che il renderli consci (o più specificamente, il rendere consci i contenuti del transfert) sia la chiave di volta della terapia, in ambito cognitivo-comportamentale si parte da contenuti psichici non già “dinamici” ma ideativi e prettamente “cognitivi”, ed inoltre perfettamente consci (per la precisione, quei pensieri che hanno a che fare con la sofferenza, ad esempio con il lutto, con il distacco e con la perdita); 2) In secondo luogo si assume che su di essi si debba “lavorare per correggerli” e per sostituirli con altri, anziché per farli “emergere alla coscienza”, dal momento che essi, alla coscienza, già per proprio conto sono fin troppo “emersi”; 3) in terzo luogo questo “lavoro terapeutico” deve essere effettuato, più che dalla coppia terapeuta-paziente, dal paziente in prima persona (seppure “addestrato” dal terapeuta a farlo progressivamente sempre più per proprio conto); 4) in quarto luogo, laddove il “contratto psicoterapeutico” iniziale, in Psicoanalisi, è vago ed allo stesso tempo super-ambizioso, o quanto meno complesso e poco verificabile, in ambito cognitivo-comportamentale esso è molto più chiaro e delimitato, poiché si parte da un progetto estremamente circoscritto nel tempo e nello spazio; insomma, laddove in Psicoanalisi si perseguono obbiettivi d’incredibile vastità ed indefinitezza, quali la “maturazione e/o la trasformazione della personalità”, anzi il suo “mutamento strutturale”, nonché il conseguente radicale scioglimento di modi di essere e di comportarsi inveterati in quanto basati sulle esperienze infantili e sull’inconscio (si ricordi l’ambiziosissimo aforisma freudiano “Là dove era l’Es sarà l’Io”), in ambito cognitivo-comportamentale si persegue, al contrario, un obbiettivo estremamente semplice e modesto: eliminare i sintomi; 5) ancora, laddove la verifica dell’efficacia d’una terapia, in Psicoanalisi, è praticamente inesistente e/o affidata esclusivamente al giudizio dell’analista (o al massimo, della coppia analista-paziente), in una terapia cognitivo-comportamentale essa è affidata a degli standard oggettivi relativi ai sintomi (che poi sono le stesse scale di valutazione usate in Psichiatria per giudicare della loro maggiore o minore gravità); 6) laddove la terapia psicoanalitica comporta un fortissimo investimento in termini di tempo e di denaro, nonché una vera e propria “mutazione” nella vita del paziente (come si è detto, il ritmo delle sedute, assai spesso, è pluri-settimanale, vige la cosiddetta “regola dell’astinenza” da particolari comportamenti durante la terapia, e la stessa dura per molti anni), in ambito cognitivo-comportamentale tutto ciò non è richiesto, le terapie hanno un ritmo ed una durata assai più limitati, non vigono “astinenze” che vadano al di là del lavoro sui sintomi, ecc. ecc.
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A questo punto, però, occorre che ci fermiamo un attimo, anzi che facciamo un passo indietro e che ci dedichiamo ad una riflessione d’ordine più generale; dobbiamo infatti ricordarci che il punto fondamentale da cui eravamo partiti è un altro, ben diverso rispetto alle questioni relative all’efficacia delle psicoterapie sui sintomi ed alla verificabilità/falsificabilità dei loro risultati: esso, per la precisione, è quello relativo all’oggetto stesso d’una qualsivoglia “psicoterapia”, oggetto che poi coincide con il suo profondo “modo di funzionare”. E questo “modo profondo di funzionare”, a sua volta, non può essere altro che l’influenza, benefica o non benefica, che una mente può in qualche modo avere, a determinate condizioni, su di un’altra mente.
Ora, posta in tal modo la questione, il discorso, occorre dirlo, cambia profondamente: infatti in Psicoanalisi, o almeno in molti dei suoi sviluppi post-freudiani (ma già nel Freud più tardo!), ogni tipo di sofferenza viene curato, in pratica, proprio attraverso il rapporto terapeuta-paziente e la sua analisi (la cosiddetta “analisi del tranfert”, ossia della proiezione sul terapeuta dei contenuti psichici inconsci del paziente). Perciò di fatto, nell’ambito di questa metodica si lavora davvero, o almeno ci si propone e ci si sforza di lavorare (bisogna dirlo, con una percentuale di successi assai dubbia), su ciò che “transita” o si ritiene “transiti”, a livello profondo, fra paziente e terapeuta, ossia su quello che si presume possa costituire il “meccanismo di base” delle psicoterapie: ciò anche se poi, con il suo mantener fermo anche nell’analisi del transfert, come terapeuticamente strategico, il concetto della “presa di coscienza”, con quel tanto di “smaterializzazione” e “sublimazione” delle forze di derivazione istintuale che tale concetto comporta, la Psicoanalisi finisce anch’essa con il ritenere essenzialmente “cognitivo” un interscambio relazionale il quale, proprio in quanto di natura biologica non può che rimanere, al contrario, in larga misura “inconscio”.
In ambito cognitivo-comportamentale, invece, questo punto (di per sé importantissimo, in quanto investe il modo di interagire degli esseri umani, ma tale da essere giudicato non del tutto a torto come “poco verificabile”), viene messo completamente da parte: il rapporto terapeuta-paziente è praticamente scomparso dall’orizzonte teorico di quest’impostazione (anche se, forse non da quello pratico), e ci si è concentrati invece sui sintomi del paziente e sui suoi differenti “stili” mentali di viverli, di produrli e di eliminarli. Insomma, al fine, senz’altro encomiabile, di rendere la terapia verificabile” sul piano scientifico “, e su quello pratico la più “efficace”, “economica” e “meno auto-referenziale” possibile, si è scelto di concentrarsi sui dati puramente “oggettivi” del percorso terapeutico, ed in particolare su quelli riguardanti il solo paziente (anzi la parte più superficiale e visibile del suo modo di “stare al mondo”): ciò, di fatto, comportandosi come se il rapporto terapeuta-paziente (o ancor meglio, il rapporto fra la personalità del terapeuta e quella del paziente) non esistesse, non avesse alcun ruolo e/o non “pesasse” nella terapia medesima. Oppure, qualora il rapporto terapeuta-paziente, in un’ottica cognitivo-comportamentale, venga preso in considerazione, esso lo è, a parte la questione dei possibili “errori tecnici”, al di fuori di canoni scientifici codificati, quindi “privatamente” e quasi “di soppiatto”.
Ora, mi sembra che quest’ultima caratteristica, pur fatte salve le sopra citate positive qualità della metodica cognitivo-comportamentale (efficacia rispetto all’obiettivo iniziale, brevità, economicità, verificabilità scientifica e “non-autoreferenzialità”), precluda a questo approccio ogni possibilità di comprensione profonda dei meccanismi generali d’azione delle psicoterapie. E’ infatti da osservare che, pur essendo le terapie cognitivo-comportamentali le uniche, come sopra accennato, la cui “efficacia” può dirsi “scientificamente provata”, essa lo è proprio in quanto tali terapie limitano fortemente e volutamente il proprio raggio d’azione ed i propri obbiettivi; d’altro canto, moltissime altre tecniche psicoterapeutiche continuano a prosperare, ed anche se si giungesse ad equipararle tutte quante a forme più o meno ciarlatanesche di “suggestione”, resterebbe pur sempre da spiegare come una tale “suggestione” sia così diffusa e possa in definitiva “funzionare”, almeno in determinati contesti, avvalendosi di profondi e misteriosi meccanismi. Insomma, è ovvio che laddove ci si avvicini con modalità fortemente “riduzionistiche” ad un oggetto così complesso qual è una psicoterapia (o più semplicemente, qual è l’interazione “a scopo d’aiuto” fra due menti), e di conseguenza si limiti all’estremo l’obiettivo strategico di quest’ultima, circoscrivendolo a finalità nettamente delimitate ed immediatamente “misurabili” (e viceversa si escluda “a priori”, dall’indagine teorica, proprio quel campo più complesso e ricco di variabili, ma anche più promettente di sviluppi teorici e conoscitivi, che è il rapporto terapeuta-paziente), si raggiungono certamente dei risultati più “efficaci” e “falsificabili” nel senso delle scienze sperimentali, però ci si allontana irrimediabilmente dalla possibilità d’esplorare in profondità una tale “complessità” e d’influire su di essa.
Esplorare e modificare ciò che è alla base dell’interazione fra gli esseri umani, però, ha da sempre costituito una delle implicazioni e finalità (anche se forse non la principale) d’ogni psicoterapia. Anzi, una tale esplorazione, prima dell’avvento dell’approccio cognitivo-comportamentale, era stata al centro, praticamente, di tutti gli orientamenti psicoterapeutici conosciuti: ad esempio, oltre che dell’approccio psicoanalitico, anche di quello relazionale-sistemico, il quale anzi, come abbiamo visto brevemente sopra, aveva preso ad effettuarla, seppure in polemica con la Psicoanalisi, in una forma sua propria ed originale.
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Concludo questo mio intervento facendo riferimento ad una proposta teorica a mio avviso interessante, cui almeno in parte aderisco, la quale proviene da uno psicoanalista italiano d’estrazione freudiana ma fortemente “eterodosso”, Ignazio Majore: uno studioso che per mezzo secolo ha posto al centro del suo lavoro i meccanismi profondi ( quindi anche quelli “non verbali”) del rapporto terapeuta-paziente, ossia ciò che a livello biologico si presume avvenga, “al di là delle parole”, in una psicoterapia.
Secondo Ignazio Majore, dunque, l’essenza del disturbo mentale, la sua “causa prima”, non è affatto quell’”istinto di morte” di freudiana memoria che tanto spazio ha trovato e trova fra alcune speculazioni teoriche tott’oggi in voga fra gli psicoanalisti: un qualsivoglia essere vivente, infatti, la cui mente ospitasse al proprio interno, in qualità di “istinto” (ovvero di “forza dinamica” organizzata in forma istintuale), qualcosa che per sua stessa natura tende alla morte, all’”entropia” ed al ritorno all’inorganico (laddove ogni tipo d’istinto inclusa l’aggressività, al contrario, si forma in natura per difendere la vita!), sarebbe un assoluto controsenso biologico.
La causa dei disturbi psichici, per Majore, è piuttosto il contatto con quella “morte effettuale” (sia fisica che mentale) che fatalmente proviene, ad ogni essere vivente, sia dall’ambiente che dal proprio stesso organismo, mentre ciò che decide dell’esito dei disturbi mentali è il grado di “reazione vitale” che un dato soggetto può produrre, a livello mentale, nei confronti della morte medesima.
Infatti, essendo le leggi che regolano l’interazione fra esseri umani di natura essenzialmente biologica (com’è ovvio che avvenga in esseri viventi quali noi siamo, a prescindere dal nostro appartenere ad una specie cosciente e dotata di linguaggio), e posto che tali leggi non possono non perseguire, in qualsivoglia specie vivente, l’obiettivo prioritario di consentire la sopravvivenza, Majore ipotizza che ciò che sta alla base delle possibilità di comunicazione reciproca, in senso generale come in senso psicoterapeutico, fra gli esseri umani, sia qualcosa che ha a che fare, anche qui, con la possibilità di fronteggiare, o d’aiutare altri a fronteggiare, la morte: ossia, che la comunicazione inter-umana abbia anch’essa a che fare con quel “problema comune” che costantemente ed in varie forme costituisce l’oggetto prioritario della percezione d’ogni essere vivente (e dell’essere umano in particolare!), anzi il solo che conferisce ad una tale percezione un qualche senso.
Dopo aver formulata quest’ipotesi di base, ed averla correlata con l’osservazione, altrettanto indiscutibile, che l’essere umano è l’unico a “conoscere” la realtà della propria morte in forma cosciente, quindi a “percepirla” di continuo ed anche a “prevederla”, Majore fa due ulteriori ipotesi: 1) quella che quest’ingente presenza della morte nella mente umana possa essere la causa principale dei più svariati disturbi mentali (la realtà delle malattie mentali è presente soprattutto, anche se non solamente, nella specie umana!); 2) quella, conseguente alla prima, che nel rapporto terapeuta-paziente, essenzialmente, al di là delle “parole” proferite da entrambi, ed anche al di là del loro “pensiero cosciente”, agisca la capacità profonda del terapeuta (una capacità essenzialmente “non verbale”!) di sopportare la morte mentale di cui il paziente è “pieno” (e talora, “selettivamente portatore”), e soprattutto di “reagirvi in forma vitale”, fornendo così al paziente stesso un “modello”, per così dire, di “reazione vitale alla morte”: un modello, naturalmente, che quest’ultimo potrà essere in grado di far proprio oppure no.
Di più, Majore ipotizza che nelle terapie molto lunghe si formi a poco a poco, sia nel paziente che nello stesso terapeuta, una sorta di “livello mentale intermedio terapeuta-paziente”, ovvero un autentico “figlio mentale della terapia”, il quale costituisce il fine d’ogni psicoterapia), lo fa in quanto “prende sulle proprie spalle”, in qualche modo (Majore fa l’ipotesi della sessualità, ma se ne potrebbero fare anche altre, forse ancora più plausibili!) il carico di morte mentale di quest’ultimo e lo smaltisce al suo posto, o meglio “gli insegna” a smaltirlo in prima persona dandogli l’esempio di “come si fa”, ebbene, allora questo meccanismo potrebbe rappresentare una spiegazione semplice, elegante e di grande potenza dell’indubbia efficacia, seppure con alcune differenze, di tutte le tecniche psicoterapeutiche: ciò in quanto riporterebbe una tale efficacia ad un’unica “variabile” veramente significativa che va ben oltre i contenuti specifici delle tecniche impiegate, ovvero quella rappresentata dalle rispettive personalità del terapeuta e del paziente. Quest’ipotesi, poi, sembra a maggior ragione degna d’interesse ove si consideri che nella stessa terapia cognitivo-comportamentale si danno frequenti casi d’insuccesso i quali non possono essere sempre ricondotti a puri e semplici “errori tecnici”, e dunque almeno in parte derivano, con ogni evidenza (ed a dispetto della relativa semplicità e meccanicità di questa metodica!) da variabili assai più difficili da valutare: presumibilmente, da quelle inerenti la qualità dell’interazione umana terapeuta-paziente.
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Noi riteniamo assolutamente valida l’ipotesi di Majore che la “malattia” e la “cura” siano da porsi in relazione, rispettivamente, con il contatto e con la “reazione” nei confronti della morte (e più precisamente d’una morte intesa come realtà effettuale, di per sé bruta e “passiva”, e non già, alla maniera freudiana, come “forza attiva interiore” e vagamente intenzionale, ovvero come “istinto” e “pulsione”); tuttavia pensiamo che esistano possibilità complementari o alternative, rispetto all’ipotesi “sessuale”, circa il meccanismo specifico dell’ipotetica “reazione vitale” alla morte che, in terapia come nei più comuni rapporti umani, verrebbe mobilitato: potrebbe trattarsi ad esempio d’un meccanismo basato, assai più che sulla sessualità, sulla socialità.
Aggiungiamo ora che esiste anche la possibilità di specificare meglio ed in maniera più precisa la natura della “morte” di cui parla Majore.
Credo in particolare che una tale “morte” in grado di generare “malattia mentale” non sia nella maggior parte dei casi riferibile al mondo fisico (esterno o interiore che esso sia), bensì a ciò che all’inizio del nostro discorso abbiamo visto essere la effettiva “pragmatica della comunicazione umana”, ossia quella parte della comunicazione medesima (essenzialmente “non verbale”!) presente anche in tutti gli altri animali e che nell’uomo riguarda, in maniera specifica, le relazioni sociali e le loro possibili implicazioni “mortifere”.
Io ritengo, ad esempio, fortemente sospetto, e comunque e bisognoso di spiegazione, il fatto che ogni forma di sofferenza mentale d’interesse psicopatologico, al di là delle motivazioni esplicite, coscienti e “verbali” che spesso il paziente ne da, sia caratterizzata dalla presenza d’una insopprimibile componente persecutoria: ne sono pervasi, ad esempio, gli stati deliranti ed allucinatori schizofrenici, ma anche gli stati maniacali, i disturbi bipolari, le sindromi fobiche ed ossessivo-compulsive, le sindromi anoressico-bulimiche, le psicopatie e sociopatie d’ogni tipo, le perversioni sessuali, i disturbi da attacco di panico, le sindromi ipocondriache, e persino il “mare magnum” delle cosiddette “sindromi depressive” (nelle quali la persecuzione esiste eccome, ma prende la forma della colpa, o al massimo “proviene da dentro” nella forma d’un misterioso “svuotamento di energie”, anch’esso d’origine chiaramente conflittuale). Di più: chiari aspetti persecutori emergono puntualmente persino nelle demenze senili, nelle epilessie psicomotorie, nelle insufficienze mentali, e praticamente in tutte le forme di disturbo mentale su base organica, quasi che quello persecutorio fosse un “pattern di reazione” universalmente presente in quanto “necessario” e finalizzato ad un qualche misterioso scopo.
Ora, alla luce di tutto ciò, l’ipotesi di Majore potrebbe essere modificata come segue: forse la “morte” che intasa di sé, in particolare, la mente umana, e di cui parla così insistentemente quest’autore (morte la quale, concordiamo con lui, non può essere immaginata in senso freudiano, come un assurdo e controproducente “istinto” teso all’auto-distruzione, ovvero come “pulsione di morte” interna, bensì solamente come il risultato d’una serie di attacchi che subiamo sia dall’ambiente che dall’interno dell’organismo, e dalle leggi stesse della vita), proviene semplicemente dall’essere, l’uomo, un soggetto in costante pericolo di predazione da parte dei propri simili: questa condizione ancestrale, peraltro riconfermata costantemente da imponenti fenomeni di violenza di massa che sono rari fra le altre specie, quali la guerra, la schiavitù e lo sfruttamento, lo ha infatti costretto, a differenza di altri animali ugualmente oggetto di predazione, a “rimanere perennemente avvinghiato” al proprio predatore (un predatore così simile a sé stesso) anziché porre in essere, come gli altri animali, solo comportamenti di fuga/immobilizzazione o di attacco, ed alla fine lo ha spinto ad identificarsi mentalmente con lui, oltre che a “prendere coscienza della sua costante ed incombente presenza”; ma ciò ha anche spinto l’uomo ad auto-osservarsi “con sospetto”, quale potenziale predatore egli stesso, quindi ad interiorizzare il predatore medesimo, e conseguentemente a dilatare gli spazi “coscienti” ed adibiti alla “vigilanza antipredatoria” (volta sia all’esterno che all’interno) della propria mente.
L’altro lato della medaglia, però, sarebbe stato, in questo caso, “l’intasarsi di morte” della mente umana nel suo complesso, e la conseguente necessità di relegare questa “morte predatoria in sovrappiù”, in una zona differente dall’apparato percettivo, ovvero in una sorta di suo “serbatoio” (forse l’inconscio?): ciò al semplice fine di consentire a quel vero e proprio “sensore volto verso l’esterno” che è la percezione, di rimanerne “sgombra” e di poter “funzionare”, seppure in forma “dissociata” dal resto della mente, nel suo fondamentale ruolo d’allarme antimortifero volto al mondo fisico, e comunque extra-specifico. Di più: quest’ultimo “tradizionale” aspetto dell’apparato percettivo, proprio in ragione della “nascita dell’inconscio” (una struttura, secondo la nostra ipotesi, via via sempre più adibita a svolgere i compiti, ingenti nella specie umana, dell’allarme antipredatorio ed antipersecutorio volto ai rapporti con membri della propria stessa specie), ha forse potuto specializzarsi in maniera spettacolare sul piano astratto e matematico, logico-informativo e linguistico-semantico, quindi ha potuto affinare in una misura fino ad allora inedita proprio quei compiti di ricerca selettiva, di manipolazione e di neutralizzazione, più che della morte predatoria, della morte intesa nel suo senso più generale (ossia di quella morte che tutti gli esseri viventi debbono affrontate).
Tuttavia, pur ammettendo che l’inconscio abbia reso possibile questo processo evolutivo della mente percettiva in mente “cosciente”, che cosa la ha spinta, in concreto, a questa ulteriore “specializzazione”? Ebbene, noi riteniamo che la mente dell’uomo potrebbe avere imparato a manipolare simbolicamente e per via logico-matematica le “cose” appartenenti al mondo fisico, ossia a padroneggiarle, per analogia, ovvero proprio perché in precedenza aveva dovuto imparare a manipolare simbolicamente e per via linguistica (ossia in un modo molto affine a quello logico-matematico ed astratto), quindi a padroneggiare i maniera efficace, le ultra-complesse relazioni che era costretta ad intrattenere con predatori sommamente “pericolosi” quali quelli che appartenevano alla propria stessa specie.
Ora, una bipartizione conscio/inconscio così concepita (ossia, ove venga vista come una “complicazione casuale di carattere strutturale-formale”, nonché “emersa all’improvviso”, secondo la già illustrata ipotesi evoluzionistica detta “Evo-Devo”, d’una originaria, più semplice e più “primitiva” funzione antipredatoria), potrebbe spiegare, per l’appunto, il “mistero” rappresentato dall’inopinata e sovrabbondante presenza, nella nostra specie, di un’intelligenza simbolica, oltre che di tipo linguistico, anche di tipo logico-matematico ed “astratto”: un tipo d’intelligenza, insomma, altamente complessa, sofisticata e “ridondante” della quale, nelle primitive condizioni di vita dei primi ominidi, non si intravede altrimenti alcuna possibile spiegazione o “necessità”.
Questo passato ancestrale (e questo presente!) di predazione intra-specifica proprio dell’uomo, dunque, da un lato spiegherebbe la suddetta onnipresenza di componenti persecutorie, sia consce che inconsce, nelle “malattie mentali” d’ogni livello e grado; dall’altro spiegherebbe la singolare ipertrofia, presente proprio nell’uomo e solo in lui, ed insieme l’efficacia in funzione “terapeutica” ed antimortifera, di strumenti di “pacificazione” e di “socializzazione” con il proprio avversario che possono ovviamente funzionare solo all’interno d’una stessa specie: la sessualità (l’uomo, per inciso, è il solo animale dotato di sessualità perenne!), il linguaggio simbolico e logico-astratto (l’uomo è l’unico animale “parlante” in senso simbolico), ed infine la socialità in senso lato (l’uomo non solo è un animale iper-sociale, ma è assai più portato degli altri all’accudimento della prole, nonché dedito come nessun altro all’enfatizzazione di tipiche “formazioni reattive” nei confronti della predazione quali la religione e l’amore, la compassione e l’empatia, ecc.).
Se questa modifica e/o integrazione apportata alla teoria di Majore fosse veritiera, si spiegherebbe meglio anche l’efficacia, in psicoterapia, di quella manipolazione più o meno sapiente del rapporto terapeuta-paziente (e della morte che vi transita) la quale ha luogo, classicamente, nell’analisi freudiana del tranfert: in tale manipolazione infatti, a fungere da arma antimortifera decisiva ed in senso lato “terapeutica”, accanto alla sessualità (che gioca peraltro un preciso suo ruolo “difensivo” solo in ambiti clinici molto circoscritti e limitati quali le perversioni), avremmo anche la socialità ed i suoi derivati (ad esempio le varie forme di comunicazione verbale ed extra-verbale); ed infatti è la socialità, il gruppo, il numero, a ben vedere, non la sessualità, l’unico vero presidio antimortifero, ed anche antipredatorio, che tutte le specie viventi hanno in comune, dalla più elementare (e “non sessuata”!) alla più complessa.
Insomma, sarebbe la socialità (in un linguaggio più familiare, la benevola, rassicurante e protettiva “alleanza terapeuta-paziente”), seppure ben nascosta dietro la “tecnica”, l’arma decisiva la quale, al netto di eventuali fattori transferali negativi, renderebbe efficace la maggior parte delle psicoterapie, inclusa la stessa psicoterapia cognitivo-comportamentale con la sua focalizzazione sull’obiettivo limitato del “sintomo”. Quest’ultima, anzi, potrebbe essere più efficace delle altre proprio in quanto, a livello di “non detto”, d’”inconscio” e dunque di “non verbale”, rassicurerebbe il paziente (proprio in ragione della limitatezza dei suoi obiettivi “dichiarati”) di non voler mirare ad una destrutturazione profonda, virtualmente ostile, minacciosa e predatoria (o che può essere percepita come tale!) della sua personalità e delle sue difese, ma di volerle rispettare insieme con la personalità nel suo complesso (elemento, quest’ultimo, che confessiamo di credere non sia molto modificabile in terapia, per lo meno dopo la conclusione dello sviluppo psico-fisico).
Il meccanismo “profondo” delle psicoterapie, pertanto, potrebbe essere semplicemente, da parte del terapeuta, il prendere per lo meno in parte su di sé i fantasmi persecutori del proprio paziente (quelli che per lo più animano il cosiddetto “transfert”), e contemporaneamente il mostrargli che chi lo aiuta non è, a sua volta, un suo “persecutore nascosto”, ma anzi è capace, entro certi limiti, di sopportare la sua aggressività (il che fa parte del cosiddetto “contro-transfert positivo”).
In questo senso, il ruolo del terapeuta appare secondo me assai diverso sia da quella sorta di “attivatore d’una reazione simil-sessuale alla morte” cui pensa Ignazio Majore, sia da quel “ruolo genitoriale” cui pure esso, esteriormente, assomiglia parecchio: tale ruolo, infatti, va ben oltre (e contemporaneamente, resta ben al di qua!) rispetto a quel “ruolo protettivo e d’incentivazione alla maturazione della personalità” che con la funzione genitoriale è connaturato.
Il “ruolo terapeutico”, secondo me, ha a che fare con degli individui che sono letteralmente invasi e dominati dai propri fantasmi persecutori, e contemporaneamente, che sono fuoriusciti in via definitiva dallo sviluppo psico-fisico, quindi sono ormai molto meno capaci di “reagire alla morte” di quanto non lo siano i bambini e gli adolescenti, avendo ormai dato fondo, in gran parte, alle loro potenzialità e risorse strutturali.
I pazienti dunque, più ancora che capaci di “creare nuove strutture mentali”, sono bisognosi di riattivare quelle che già hanno, o meglio quelle “funzioni vicarianti” che già posseggono e che sole sono in grado di sostituire quelle ormai intasate di morte che li hanno portati al “disturbo”; quindi debbono solo essere alleggeriti e messi in condizioni, attraverso l’alleanza terapeutica, di sperimentare, con pazienza e tenacia, siffatte, e già preesistenti, funzioni vicarianti.
Insomma, più che essere condotti a scoprire in sé stessi, in quanto individui, chissà quali tenebrosi ed inaccessibili segreti e cattiverie (come vorrebbe la Psicoanalisi), o viceversa limitarsi a focalizzare il sintomo e la tecnica per affrontarlo (come vorrebbero le terapie cognitivo-comportamentali), i pazienti vanno resi edotti, semplicemente, del loro appartenere alla specie umana: ovvero, ad una “specie combattente” nella quale ogni individuo teme più d’ogni altra cosa il proprio simile e le sue tendenze predatorie, quindi ha imparato a temerle anche in sé stesso, ed ha anche ipertrofizzato la propria sessualità, il proprio linguaggio e la propria mente appositamente allo scopo di fronteggiarle. Da ciò deriva la “sofferenza psichica” ed il “senso di allarme” in tutte le sue forme, le ansie di tipo “panico” e “senza oggetto”, le paure persecutorie anche di tipo delirante (che invece, un oggetto persecutorio lo vedono in qualunque cosa), le fobie (nelle quali l’oggetto persecutorio è spostato su qualcosa di circoscritto e di meno ansiogeno), le depressioni ed i sensi di colpa (in cui l’oggetto persecutorio è divenuto interiore), i rituali ossessivo-compulsivi “tesi a controllare qualcosa d’inquietante e sconosciuto”, i disturbi anoressico-bulimici tesi a manipolare lo scambio metabolico con i propri simili e renderlo meno tossico, le tossicodipendenze tese a stordire il senso del pericolo proveniente dagli altri e da sé stessi, le perversioni sessuali e le psicopatie criminali, tese a padroneggiare il pericolo proveniente dagli altri tramite il piacere, il più delle volte sado-masochistico, e la riduzione dell’altro medesimo (o di sé stessi!) ad oggetto inoffensivo, ecc.
Per fare poi degli esempi di ciò che a mio avviso in terapia, nella pratica, bisognerebbe fare:
1) i pazienti dovrebbero essere aiutati ad accettare l’idea che una certa quota di aggressività, in loro, è sana e vitale e non è da temere, in quanto è in buona parte un’aggressività reattiva a quella altrui (e che comunque, anche l’aggressività “endogena” e non reattiva è un prezioso lascito dello sviluppo della nostra specie, di per sé assolutamente necessario alla nostra sopravvivenza); però contemporaneamente debbono essere aiutati a sperimentare canali diversi, più socialmente accettati e meno distruttivi (o auto-distruttivi!) di quelli loro abituali, al fine di esprimere una tale sacrosanta esigenza d’auto-difesa;
2) debbono venire indotti a sapere d’essere in gran parte “invadibili”, quindi vulnerabili, da parte dell’aggressività altrui, e che a ciò non c’è rimedio (dato che l’uomo è un animale sociale, e da solo non può sopravvivere), se non quello di riconoscere precocemente l’aggressività “degli altri” ed allo stesso tempo accettarne la necessità, quindi mettersi in posizione di evitarla, però in modo consapevole e se possibile senza implicazioni di tipo fobico;
3) debbono venire istruiti del fatto che un certo grado di “dipendenza”, e quindi di sofferenza per le perdite ed i “lutti” di tutti i tipi, ed in particolare nei confronti di coloro sui quali si è investito di affettività e parti delle nostre stesse strutture, è inevitabile e fa parte anche della vita da adulti: quindi tutto ciò non equivale né ad una “malattia”, né ad un “essere rimasti in uno stato infantile”, né ad una totale mancanza di autonomia, ma semplicemente all’essere, il dolore, la sofferenza e la perdita (un dolore, una sofferenza ed una perdita, peraltro, assolutamente “normali”), delle realtà necessarie e connaturate all’uomo;
4) debbono venire a sapere, dal terapeuta, che l’altro lato di quella “dipendenza dagli altri” che è in parte universalmente necessaria, è l’accettare la prospettiva di dover subire da questi “altri” una qualche quota di predazione (quindi di attentato alla nostra autonomia), e che ciò fa parte di quella vera e propria “lotta per la vita e per la morte” nella quale si svolge, a tutti i livelli, l’esistenza associata, ivi inclusa quella familiare; ecc. ecc.
I pazienti, in definitiva, possono essere solo aiutati a “ripulirsi” dalle invasioni predatorie che hanno subito, reali o fantasmatiche che siano, ed a riattivare funzioni di autodifesa che già posseggono (se le posseggono!), non già a “crearne di nuove”. E tale “aiuto”, assai più che dalle “parole”, proviene dalla sensibilità e dal comportamento concreto (e “non verbale”) in terapia, da parte del terapeuta, oltre che, naturalmente, dalle caratteristiche del paziente.
Come si vede, l’indagine sulla singolare dissociazione, presente nell’uomo, fra aspetti “verbali” e “coscienti” della propria comunicazione ed aspetti “non verbali” ed “inconsci”, porta ad affrontare, seppure in via ipotetica, problematiche che scendono assai in profondità nella natura umana.
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Nell’introduzione a Origini. Poesie 1998-2010, edito da Interlinea, che raccoglie il corpus poetico di Giancarlo Pontiggia, Carlo Sini scrive che: «[…] un’autobiografia poetica è sempre, per profonda necessità, anche storia della vita e storia della terra, del nome e del senza nome, del travaglio del tempo e della sua eterna salvezza, storia di questo azzurro del cielo che è insieme quello di sempre come quello di un milione di anni fa», e il destino dell’effimero è «nel suo abbraccio con l’incircoscrivibile circolo del mondo, con la verità del più profondo destino, perché «sempre / la vita ha il suo ritorno»: è proprio così è, ogni volta, una volta per sempre».
La poesia e la lingua di Giancarlo Pontiggia «rovista», come scrive Alessandro Moscè, «nelle immagini opache, nel travaglio della memoria, nei guizzi improvvisi di luce, nella simbologia delle ombre che tengono insieme la vita, ogni vita, e che consegnano un eterno ritorno dove la plasticità delle forme si dissolve rapidamente. In ogni testo, rigoroso nella costruzione e nella rastremazione dei vocaboli, il canto si riproduce nel mezzo di un’atmosfera decadente che sfuma e che accoglie un’eco remota, arcaica (una “brunitura arcaizzante”, scrive Massimo Raffaeli)».
Questa rastremazione è il frutto di una remota e intermittente rivelazione del tempo che diviene labirinto di spasimo e ritrovamento, traccia discosta e segno, ferita, appropriazione. L’insorgenza della memoria, se da un lato si impossessa della più feconda germinazione de presente, dall’altro fronteggia la perdita come muto grumo e celamento.
La poesia deve recuperare questo spigolo di ombre lontane e tempo rifratto, come scrive giustamente Roberta Bertozzi: «Pontiggia sente innanzitutto il bisogno di tracciare un confine di dicibilità, un compito, una direttrice espressiva, anche divergendo dal coevo panorama letterario, diviso in quegli anni fra le prove di un’avanguardia ormai fossilizzata nella sua maniera e l’affermarsi di un minimalismo lirico in bilico tra rinascenza orfica e dettato prosastico […]».
La sua nitidezza è esito aureo di pacatezza, ricerca l’armonia riferente e la trasparenza che colori l’opaca fessura della realtà, in cui l’inserto degli affetti e dei ricordi possa tralucere in tutta la sua estrema verbalità.
Sin dalla sua prima raccolta Con parole remote (1998), la stretta esigenza di un recupero memoriale e di uno scrupolo rammemorativo non si nutre soltanto di una insolvente traccia irrecuperabile ma questa rarità di tempo sfogliato «spuma», come annota ancora Alessandro Moscè, «nell’incalzante ombra: una rifrazione, un’anamorfosi che permette di collocarlo solo in una polverosa esistenza di secoli che si raggruppano indistintamente, tra detto e non detto. Un’esistenza irrelata, con una campionatura che fa dell’uomo una comparsa e niente di più. È appunto il tempo, con le sue visitazioni, che risulta un incubo, ma anche uno sprone alla riflessione negli inserti del discorso indiretto. Il comando delle cose è l’estremo sentire del frammento, il responso della classicità di Pontiggia».
Nell’incipit della prima silloge, la disposizione espressiva ripristina la sua metafisica chiaroscurale, intercetta la sacralità del reale, si innerva nelle pieghe del vivente con sottaciuta sequenza recitativa e umbratile: «Vieni ombra / ombra vieni / ombra ombra / vieni oh vieni, buia / Sali tra i gradini, nel tempo […] con ogni doglia, con tutte le furie / con ciò che nell’ombra si sfoglia / con quel che nell’ombra spuma / Ombra vieni / ombra ombra / vieni ombra / nel vento nel vento / nel greve tormento / vieni oh vieni tra i numeri, nel fuoco / diventa canto roco».
La nominazione dell’ombra appare come una incrociata dissolvenza figurata, ruba tregue come un confine mobile, in una oscillazione di fuoco e di buio avito. La fascinazione di Pontiggia si alimenta costeggiando stanze ombrose e riparate, sente la potenza enigmatica del suo pensiero spaesante che si fa meditazione immaginosa e lucente, come scura crepa.
I confini del tempo dei nomi, i segni che si disegnano, il canto non depauperato e visitato, stabiliscono il loro comando e responso, come un limite e frammento stremato di ombre e fiamme: «con queste parole / e non altre / dette nel cuore di un’estate / compiute, ripetute e celate / sopra la terra e in ogni stagione / restituitemi / salvo e incolume / nel senso che do alle mie parole / in quel senso solitario con cui voglio / che vengano dette, / ascoltate e pensate / e per voi / tra i lari delle stanze e dei giardini / tra gli spigoli del mondo».
Queste spigolature di tempo raccolgono le epifanie azzurre, le porosità fuggenti e infrante dell’essere che appare in tutta la sua vivida incisione e mancata decifrazione: «epifania di azzurro / altissimo e fuggente, quando / un tempo appare, compagno / di più forti memorie, / per voi, nel cuore / di un nuovo giugno / di un anno che si infrange contro / il tempo, il secolo, un tempo / che non è più tempo, mentre / alte ombre s’addensano, scure / ombre ombre, in una stazione / del mondo, nella povere / di un antico responso / io, per voi, anno / dopo anno, su un orlo / di stanze fruscianti».
Commenta Roberta Bertozzi: «Il contatto con questa istanza originaria, con questo nodo «remoto», cioè relativo a un sostrato esistenziale e psichico che è riflesso, contingente manifestazione di una più vasta antecedenza, sarà espresso nei versi sempre nella modalità di un’epifania, codificata da tutto un corollario stabile di immagini. Lo sfarzo ceramico dei mesi estivi, la forza chiarificatrice della luce meridiana, il ritaglio spaziale che si gioca fra l’intrico degli ambienti domestici e lo slargo vertiginoso degli esterni – così come il rilievo cromatico degli elementi, solitamente disposto in serie binaria, in un alternarsi di ombre e azzurrità, di nero e oro – sono i concreti segnali dell’apertura di un varco, dell’ingresso del poeta in una diversa soglia, cui di frequente si accompagna uno stato di smarrimento personale, di soggettivo oblio».
L’ossessività del lessema temporale incela frammenti, li depone in una vasta estremità di orme invisibili, incide il suo silenzio di polvere. E i frammenti d’estate si fanno confini di ombre «nella polvere delle strade che svoltano / contro cieli alti», tutto, pertanto, promana nella visione di un baluginio di spaesamenti e paesaggi che si attestano tra sonno e veglia, tra fiammanti stupori come preghiera antica e increata, come scrive egli stesso su “Poesia e Spiritualità” del 2008: «Le parole della poesia sono sempre remote anche quando ci parlano di qualcosa che è qui, ora, nel tempo del nostro presente: sono remote perché richiedono una forma appartata, una disciplina della distanza, un tempo sospeso – dell’immaginazione e del pensiero – che sia in grado di scolpire verità decisive».
Tutte le forme della realtà vengono determinate dalla nominazione, dall’inno, dalla mimesi lucida che restituisce non solo impatto visivo ma fragranza di percezioni e lievi incrinature, disposte verso una prossimità che è insieme rigenerazione e creazione, segretezza e incrocio, palpebra e solco immemore.
Scrive Paolo Lagazzi: «La lontananza di questa lingua dal folto degli eventi è il modo stesso della sua libertà, della sua passione testimoniale, del suo desiderio di piegarsi verso i doni del passato – i volti di estati defunte, i «legni / di un antico fuoco» – per tradurli, per riportarli a un presente troppo spesso sigillato nella ferocia dell’oblio. Nascendo da un incontro con l’ombra, o con quel po’ di luce che resiste tra le braci di un tempo perduto, declinandosi per timbri filtrati ma non certo spenti, la raccolta è come una pellicola “in negativo” dell’esistenza, capace però di evocarne tutti i colori».
I confini di Pontiggia avvertono la propria finitudine, cercano l’oro e custodia numinosa, un salvo fuoco che risale l’ombra e inchioda la dualità passato-memoria in una sospensione di luci più grandi, in una invocazione deposta «su un’ara remota», dove tradurre «un cielo sconfitto / in rose di versi, in fuochi / solitari».
Massimo Raffaeli, soffermandosi sul flusso delle immagini, nota come: «Il libro di Pontiggia esce illeso dalla duplice ipoteca e trova una sua procedura sintattica, la sua verità, nel limite stretto che gli è dato dalla piena consapevolezza sia di non poter più avallare il decorso di un “io” esemplare sia dalla impossibilità di poter contare su un “tu” (o, tanto meno, su un “noi”), vale a dire su un orizzonte di attesa condiviso. Le parole sono dunque remote, lontane o rimosse, dall’orgoglio dell’autore come dalla certezza di un interlocutore, esse ritmano un flusso trattenendo immagini e figure la cui forza sta proprio nella loro certezza identitaria».
La postura elegiaca del tempo, pertanto, richiama le sue origini irrevocabili, recupera il colmo vuoto del passato in un apice algido che dicibile incerto, il «baluginante nero» di ciò che nell’esistenza brucia, nel battito di «forze» che «premono sul mondo / ed è giugno, è sera, e odoranti / selve di glicine dilagano / sul cotto dei muri; / o se, in un’altra / sera, di settembre aureo, / tra pioppi frondosi, nel succo / di un tempo che pare / fisso, ed è, mentre rosseggiano / le bacche delle traslucide / settembrine / senti / una vita ignota, / che urge; […]».
La sua scena primaria svela le mattine che si disf ano con il sole, la crescita dei meriggi ciechi e le buie ombre (ancora una volta) che indorano di vertigini la materia vivente e le cose e in cui « La fioritura, come l’alba, la ricorrente luce e l’ombra in agguato, conferiscono la caducità, la capitolazione dell’io». (Alessandro Moscè).
Il legno dolce del mondo, come il solstizio d’estate che ricorre nella sua equanime immagine solare, orla l’esultanza e l’esplosione della forma del vivere, in cui persino la nostalgia cede il passo e il potere a una malinconia persa, in un flusso che plasma, prefigurando le origini: «Per una volta ci occorre il miracolo, / la lingua intraducibile, il fuoco / che divampa sull’orlo dei campi / e non straripa; / per una volta sostiamo in un golfo / di more e di foglie, in un sonno / pomeridiano; / siete nel primo minuto, nel gonfio /ramo, alla svolta di un altro tempo, / in un’ansa più lenta, / nel centro».
Ed ecco che la parola si affranca dall’accennato buio, afferma il suo lascito di attriti e splendori, spoglia le «volte trascorrenti» e si attesta in uno sciame di estati accese, luce di meriggi e roghi, per essere argilla di tempo, robinia verdissima e presagio di voli.
Nella via dolorosa e virata di Bosco del tempo, egli raccoglie altezze sperdute e trascendenti: sono fantasmatiche espressioni ricolme che umidificano la memoria, la prendono in tutta la sua trama ordita che diviene immagine speculare di una lucente e rapinosa visione, che dilaga e si espande: «Fin qui gli sciami ronzanti / le volte / porose del cielo che si dilata, si espande / nella sera che brucia, e l’ombra / di azzurre mattine. Ma ora nuvole / basse e ferrigne, e acque / diluvianti, e il tempo / che s’impigra in scure / scure anse, e si dipana lento, / tra le forme del mondo che si cela. / Quanti autunni hai guardato, e quante / foglie incartocciate, che danno / addio ai loro rami, quante, / mentre Orione ruotava intorno / allo zenit, e il mare, freddo, / rumoreggiava?».
Scrive Daniele Piccini: «Il tempo e le sue boscosità, la tradizione e le sue campiture sono affrontate come misteriosi anfratti, in cui ancora può generarsi l’alone di una parola sonante e potente, tuttavia più consciamente immersa nell’agone del mondo e nell’evocazione della vita presente, qui e ora, nella sua fuggente e fiammante presenza».
La «stirpe fuggente dei sogni» si concede alla brevità spaesata e allo sgomento onirico, e di nuovo l’ombra procede nella sua straziata soglia e nella febbre delle verdi foglie dell’infanzia taciuta: «Sotto questo azzurro, vedi, lo stesso / di un milione di anni fa, nell’ombra / che sconfina, ruvida, eguale, non sentivi, / fanciullo dolce, troppo educato, una vertigine / scura, dura, una febbre di verdi foglie / sulla tua fragile (troppo fragile) nuca?»
Commenta Moscè: «Non c’è germe assolutizzante in Pontiggia, ma come riferito, l’ansia di infinito induce a puntare gli occhi in alto e a tremare, fino a che l’“ombroso dove” sposa un certo neo romanticismo, un’inquietudine perturbante nel proseguo del processo poetico. Si rintracciano elementi riconducibili al sehnsucht di derivazione tedesca traducibile come desiderio che sperimenta l’uomo nei confronti dell’infinito e che rivela un malessere struggente, che si rifugia nell’interiorità che supera lo spazio-tempo».
Lo spazio minimo del poeta è tempo raro, fiato dell’essere e domanda oltre il vuoto. Ecco la nudità cosmica del tempo, la lunga estate, il silenzio dell’infanzia: «Eppure un cielo era sempre / cielo / e il nome della notte / notte. S’impaludava, il tempo, / tra canne, vampe, e afrori / di un’estate lunghissima, / inaudita. Taceva, l’infanzia, / come un sito troppo impervio, / ostile. Chi passasse di lì, per caso, / trasecolava, come per una / cima inviolata, o un letto di fiume / disseccato».
Il sigillo del reale ha una lenta precipitosità e sembra sfaldarsi nel tempo della sua ombra buia. E appartengono a questa oscura fecondità i poeti latini amati, scrutatori di un gesto poetico domestico e visionario, che insegue il solitario spazio, richiamato, dell’anima.
Sostiene Alessandro Carrera che: «Nel Bosco del tempo, le sezioni L’infanzia tace e Severa adolescenza, ad esempio, sembrano lottare precisamente contro il più grande avversario del poeta, che è il poeta stesso, la costruzione del suo sé, l’edificio ingombrante edificato con i mattoni del suo passato e dei suoi sentimenti perduti, che dovrebbero morire e non muoiono mai perché la poesia non li lascia sprofondare nella terra, anzi li va a riesumare con picche e con vanghe, colorando la loro esumazione di una illusoria luce dorata».
L’accumulo del tempo repertato ha folgorato l’inazione della precedente silloge in una labirintica e puntuale presentificazione del reale e attraverso una elegiaca chiusura dell’inverno sull’esplosione cromatica dell’estate. La ciclicità dell’anima, pertanto, si dispiega nelle cromature stagionali e nel perenne disvelamento del destino. L’inverno spoglia l’oro ancestrale e radioso, la temporalità diviene «vento fermo, una / clessidra sospesa», il per sempre è mai più, ciò che era prima sarà dopo: «Novembre, con le piogge, era un cielo / grigio, cupo, che fiottava. Sopra / di me una luce stagnava, algida, molle: / un fuoco iroso, strano. Sbattevano, ai vetri, / le ali scure, ansiose / di uno stormo in cammino: tra le stanze / chiuse, senza nome, covavano / i miei pensieri, come, / tra le doghe, un vino / dolcissimo, inaudito».
Annota Massimo Morasso: «Ma c’è un rovello continuo, dentro al tempo, che Pontiggia non si stanca di pungolare – la relazione fra il tempo e la sua assenza, l’apparente opposizione, cioè, fra il tempo che disfa e il tempo, o i tempi, o, forse, meglio, i non-tempi, dell’eterno. Si tratta di un rovello maniacale, però mai sopra le righe. Il piglio compostamente emozionato dell’ispirazione scompagina i termini dell’opposizione, ne attenua la portata dialettica; il richiamo all’infanzia e all’adolescenza non rinvia tanto al “ricordo” come schema della trasformazione del vissuto in oggetto salvifico della reminiscenza, quanto, come sembra, al bisogno di un’incessante drammatica ri-semantizzazione dello spazio».
Come accade nelle soste di questo strano bosco, la poesia frammentata di polvere e di oro disanellato allontana l’antico sogno che si annunciava. Ci sono le foglie che scricchiano e i cuori che ghiacciano: «Per me che sognavo / una parola sola / (una ferma corazza, una beata viola) / solo polvere e frammenti, disanellati / ori. / Non è per voi questo tempo / o troppo quieti, o mesti / nomi: al gelo che si annuncia / scricchiano anche le foglie, / ghiacciano i cuori».
Il clinamen della poesia di Pontiggia oscilla nei trapassi delle stagioni, esprimendo non solo l’angoscia prostrata o l’inquietudine, ma anche la vastità dello sguardo, la sua ricchezza, il giardino che disgela le prigionie e il nuovo insorgere beato della vita.
Dai Canti di Boréa e i regni di luce e di cristallo dell’inverno minerale, «la voce che parla nel Bosco spazia sulle tracce del tempo perduto […] per contemplarlo come un tempo ritrovato, per farcene sentire gli aromi, le ferite e i doni, per rilanciarne verso il cielo dei sogni i segreti e gli arcobaleni, le febbri gloriose e le nevi smemoranti, o anche per risvegliare in esso il sentimento dell’ “altro”, l’incontro con quel regno di fantasmi e visioni, con quel “delirio” che è uno dei semi decisivi dlela poesia”» (Paolo Lagazzi).
Le vie polverose, i miti, l’Arcadia, gli sprofondamenti erratici e ombrosi del sogno (riverberi della vita vissuta) e delle ore frananti, divengono collezioni di bellezza aurorale, mondo infimo e tessuto onirico incarnato «sul quieto rame / del giorno» dove «il cielo / era un liquido sentiero» e il mare corrucciato nella falce della baia.
Le epifanie di Pontiggia trasformano la materia dell’esistente e dell’esistenza in scuro miele, la datità nuda e scarna del reale in una frondosa e incessante vibrazione. Il mondo diviene il punto tutelare e naufragante, affinchè la poesia possa celarsi e diventare «ombra, foglia, buia porta».
L’attimo invocato, distinto e rimpianto, permette prospettive rovesciate e punta lo sguardo, come dice puntualmente Massimo Morasso, «sulla quintessenza della realtà».
Commenta infatti Moscè: « Pontiggia ricerca la conoscenza di portata universale, leopardiana, la comprensione di ciò che è leggibile in un’abitudine, in una fruizione tramandata, in una dedizione alla sensibilità del luogo, degli anni che attraversano l’ambiente domestico per un nuovo cominciamento. La risonanza universale offre dati esterni, un connotato di intimità, una sincronia tra questi livelli e l’identificazione dell’uomo con le vaghe atmosfere, mai consolatorie, che spingono ad elaborare consuntivi provvisori. Il tempo fisso è quasi sempre stordito, infranto. La realtà non è una scena esteriore, ma una foggia scavata, un pathos dolce, disperso, un’esperienza purificata, una luce di passione che si contorna di ombre, di graffiti».
Molti sono gli esempi lucenti, intrisi di luce profetica e visionaria che recano, in modo imperituro, il sigillo di una coltre distillata: «L’aria s’imbruna, allora, / nella sera vermiglia, stormente, / e d’altri / venti, premonitrice, sente / l’anima il suono velato, materna-/ mente operoso. O grembi, o foglie / di un tempo generoso, io m’inoltro / per vie straniere, disusate: siete / il miele che distilla una quieta / pace, e il tempo, forte, che lo affina», o ancora: «Cieli, tempi, cose – ori / ombrosi della mente. Come in un’anfora / scaldata dal sole, tutto / fu veduto in un lampo / da un pertugio di fiamme / sopite. Anche tu, che guardi / dal di fuori: e sei dentro, invece: dentro / la notte che contempli, notte / della sua luce, luce / in cui ti annienti».
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Si celebra oggi la Giornata Nazionale contro la pedofilia e per l’occasione pubblichiamo alcune notizie in merito, prendendo in considerazione il passaggio storico della legislazione in Italia a tutela della pedofilia oltre le pronuncie delle recenti sentenze della Suprema Corte di Cassazione.
Principalmente è doveroso sottolineare che questa giornata è stata istituita con la Legge numero 41 del 2009, che all’articolo 1, afferma: “la Repubblica riconosce il 5 maggio come Giornata nazionale contro la pedofilia e la pedopornografia, quale momento di riflessione per la lotta contro gli abusi sui minori.“
In Italia, la tutela del minore nasce in primis dai principi costituzionali, ex articoli 2, 3, 30, 31, 34 della Costituzione Italiana.
Inoltre si sono susseguite Leggi a tutela del minore, in particolare dell’abuso del minore. Tra queste, va ricordata la Legge numero 66 del 1996 contro la violenza sessuale, come anche l’importantissima Legge numero 269/1998, che ha introdotto nel codice penale le norme a tutela della prostituzione minorile,della pornogrrafia minorile, (articoli 600bis, 600ter, c.p.), che è stata modificata dalla Legge numero 36 del 2006, prevedendo l’inasprimento delle pene.
La recentissima giurisprudenza in materia, ha avuto modo di stabilire come “le nozioni di “produzione” e di “esibizione” contemplate nell’articolo 600 ter c.p., richiedono l’inserimento della condotta in un contesto di organizzazione almeno embrionale e di destinazione, anche potenziale, del materiale pornografico alla successiva fruizione da parte di terzi, deve escludersi che un tale contesto organizzativo e di destinazione possa essere desunto esclusivamente dalla disponibilita’ di uno strumento oggi in possesso di chiunque, quale un computer solo perche’ il computer costituisce (al pari di tanti altri) un mezzo con cui le immagini potrebbero in astratto essere diffuse o condivise, tanto piu’ se il computer e’ privo di programmi di scambio, condivisione o divulgazione di file” (C. Cass., n. 40781 del 2 ottobre 2014), come anche, “i palpeggiamenti, i toccamenti e gli sfregamenti corporei, posti in essere nella prospettiva del reo di soddisfare od eccitare il proprio istinto sessuale, in quanto coinvolgono la corporeita’ della vittima, possono costituire una indebita intrusione nella sfera sessuale di quella” ed in particolare “per il minore, infatti, la prostituzione rappresenta raramente il frutto di una scelta spontanea, essendo prevalentemente determinata da pressioni (o da vere e proprie coercizioni) di fronte alle quali egli non dispone di alcuna valida alternativa, sicche’ l’atto sessuale compiuto dal minore prostituito non puo’ inquadrarsi in un’area di liberta’, area la cui sostanziale inesistenza il “cliente” non puo’ dunque ne’ ignorare, ne’ fingere di non conoscere. Quand’anche, poi, si dovesse riscontrare l’assenza di interventi esterni di condizionamento di tale spazio di liberta’, e’ comunque ragionevole che l’ordinamento vieti l’acquisto di prestazione sessuali presso un soggetto che presuntivamente non ha ancora raggiunto quel livello di maturita’ tale da consentirgli una valutazione davvero consapevole in ordine alle ricadute della mercificazione del proprio corpo sul suo sviluppo psico-fisico; ne consegue che, indipendentemente dal suo atteggiamento psicologico e dalla sua condotta (quand’anche connivente o adescatrice), il minore e’ reputato sempre e comunque una vittima.” (C. Cass., Sezioni Unite Penali, n.16207 del 14 aprile 2014).
In alcuni casi, per il reato di violenza sessuale, procedibile su querela della persona offesa, può procedersi d’ufficio. Lo chiarisce e ribadisce la recentissima Sentenza della Corte di Cassazione, con la sentenza numero 14247 del 9 aprile 2015.
Ciò è possibile, infatti, “ogni qualvolta l’indagine sul reato perseguibile di ufficio comporti necessariamente l’accertamento di quello punibile a querela, in quanto siano investigati fatti commessi l’uno in occasione dell’altro, oppure l’uno per occultare l’altro oppure ancora in uno degli altri collegamenti investigativi indicati nell’art. 371 cod. proc. pen.”
Il caso affrontato dalla Corte di Cassazione riguarda il reato di violenza sessuale esercitato da un medico all’interno della struttura ospedaliera, nei confronti del paziente. A tal proposito, si deve rimarcare, come ha ben fatto la Suprema Corte, che, per la violenza sessuale commessa da un’ incaricato di pubblico servizio, qual è il medico, non è necessario “l’abuso delle funzioni pubblicistiche svolte, essendo sufficiente il semplice collegamento tra le condotte illecite e le predette funzioni” principio questo confermato da precedenti giurisprudenziali (Sez. 3, n. 50299 del 18/09/2014, S., Rv. 261388).
Suprema Corte di Cassazione sezione III sentenza 9 aprile 2015, n. 14247 Ritenuto in fatto
1. M.R. ricorre per cassazione avverso la sentenza del 26 novembre 2013 con la quale la Corte di appello di Torino, in parziale riforma della sentenza emessa dal tribunale della medesima città, ha rideterminato in anni sette e mesi sei di reclusione la pena infintagli per i reati previsti dagli articoli 609 bis, commi 1 e 2, 609 ter, comma 1 n. 3, codice penale perché, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso costringeva mediante abuso di autorità e comunque induceva – in determinati casi ed anche in distinte occasioni R.T. (capo a), D.A. (capo b), Z.M. (capo c), C.A. (capo d), P.O. (capo e), Ca.Fe. (capo f), M.D. (capo g), Po.Ca.An. (capo h) e B.F. (capo i) – a subire atti sessuali anche abusando delle condizioni di inferiorità fisica e psichica al momento del fatto nel quale versavano le persone offese e commettendo i fatti nel corso degli anni (omissis) anche nella rivestita qualità di medico specialista in pneumologia operante presso l’ospedale (omissis) , e quindi quale incaricato di pubblico servizio nell’esercizio delle sue funzioni.
2. Per la cassazione dell’impugnata sentenza M.R. articola, tramite il difensore, tre motivi di gravame, qui enunciati, ai sensi dell’art. 173 disp. att. cod. proc. pen., nei limiti strettamente necessari per la motivazione.
2.1. Con il primo motivo deduce violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b) e c), cod. proc. pen. con riferimento alla violazione e falsa applicazione dell’articolo 609 septies, comma 4 n. 4, codice penale in relazione agli articoli 12 e 371 codice di procedura penale con conseguente improcedibilità per tardività e/o inesistenza della querela relativamente ai capi e), h) ed f), dolendosi del fatto che i giudici del merito hanno erroneamente ritenuto che il ricorrente rivestisse, per le funzioni esercitate all’interno dell’ospedale, la qualità di incaricato di pubblico servizio, laddove detta qualità non è attribuibile al medico che esegua le visite in regime cosiddetto intramoenia con la conseguenza che i reati contestati in relazione alle visite effettuate nei confronti delle parti offese P. , Po. e C. dovevano ritenersi procedibili a querela, nella specie mai presentata. Né poteva ritenersi applicabile al caso di specie l’articolo 12 del codice di procedura penale che non contempla la connessione tra reati a querela tardiva o inesistente e reati perseguibili d’ufficio, posto che la connessione che i giudici del merito hanno ritenuto applicabile è quella “speciale” di cui all’articolo 609 septies, comma 4 n. 4, del codice penale. Detta connessione sussisterebbe però solo per i reati commessi a danno di una stessa parte offesa ed è definita quale “connessione apparente” oppure laddove siano soddisfatti i requisiti di cui all’articolo 371 del codice di procedura penale quale “connessione investigativa”.
2.2. Con il secondo motivo deduce l’inosservanza o erronea applicazione della legge penale nonché la mancanza della motivazione su punti decisivi del giudizio (art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen.) con riferimento alla alla mancata assoluzione ai sensi dell’articolo 530 cpv. codice di procedura penale per i singoli episodi (visite). Sostiene che, in relazione alle visite specificate a pagina 2 del ricorso nei confronti delle parti offese ivi indicate, la condotta, così come ricostruita, non appare “configurare alcuna rilevanza penale, con conseguente richiesta di assoluzione ai sensi dell’articolo 530, secondo comma, codice di procedura penale per i singoli episodi come sopra identificati, assoluzione disattesa dalla Corte di appello con motivazione erronea perché illogica, se non addirittura omessa”.
2.3. Con il terzo motivo denuncia difetto o manifesta illogicità della motivazione quanto al mancato riconoscimento dell’attenuante di cui all’articolo 609 bis, ultimo comma, codice penale per i singoli episodi e del mancato riconoscimento delle attenuanti generiche prevalenti e nella massima espansione (art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen.).
Sostiene che, per gli episodi contestati, si dovesse applicare l’attenuante della minore gravità, “erroneamente disattesa dalla Corte di appello di Torino con motivazione illogica e comunque apparente, con difetto di argomentazioni specifiche in ordine alla medesima censura contenuta nei motivi di appello”.
Considerato in diritto
1. Il ricorso è infondato.
2. Quanto al primo motivo, con logica ed adeguata motivazione, come tale sottratta al sindacato di legittimità, la Corte piemontese è giunta a ritenere che i fatti di cui ai capi e), h) ed f) furono commessi dal ricorrente nella sua qualità di medico ospedaliero, pervenendo a tale conclusione sulla base del fatto, incontroverso e neppure contestato, che, nel caso in esame, le persone offese P. , C. e Po. si fossero rivolte in prima battuta all’imputato, per come emerso da tutte le testimonianze raccolte, perché incardinato presso l’ospedale (OMISSIS) dove le stesse erano state sottoposte alle visite mediche de quibus e senza conoscere lo specialista personalmente, per poi continuare con lui nelle visite di controllo successive. Neanche vi era dubbio che la funzione del M. (di medico ospedaliero e quindi incaricato di pubblico servizio) avesse agevolato la commissione dei reati anche quando egli agiva come medico “intramoenia”, qualifica spesso nemmeno percepita dalle persone offese. Perciò, quanto al medico che operi in regime di “intramoenia”, va ricordato che il rapporto instauratosi tra medico e paziente è di natura pubblicistica quando il secondo si rivolge al primo non per ragioni professionali, che riguardino lo specifico professionista, ma alla struttura ospedaliera nell’ambito della quale il sanitario opera, con la conseguenza che, a tal proposito, questa Corte ha già avuto modo di affermare che è procedibile d’ufficio, ai sensi dell’art. 609-septies, comma quarto, n. 3, cod. pen., il reato di violenza sessuale commesso all’interno della struttura sanitaria ai danni di una paziente da un medico ospedaliero, rimanendo irrilevante che questi, per il rapporto di fiducia instauratosi con la paziente, abbia fissato le visite senza seguire il normale iter burocratico per l’accettazione, in quanto tale circostanza non modifica la natura pubblicistica del rapporto intercorso tra medico e vittima (Sez. 3, n. 28839 del 28/05/2008, Giuliano ed altro, Rv. 241010). Fuori discussione, dunque, che il ricorrente agì nella qualità di medico ospedaliero, va poi ribadito che la procedibilità d’ufficio del delitto di violenza sessuale commesso dall’incaricato di pubblico servizio non richiede l’abuso delle funzioni pubblicistiche svolte, essendo sufficiente il semplice collegamento tra le condotte illecite e le predette funzioni (Sez. 3, n. 50299 del 18/09/2014, S., Rv. 261388). Par altro verso, in ordine alla procedibilità d’ufficio del reato di violenza sessuale, questa Corte ha affermato che, in materia di delitti di violenza sessuale, la procedibilità d’ufficio determinata dalla ipotesi di connessione prevista dall’art. 609 septies, comma quarto, n. 4 cod. pen. si verifica non solo quando vi è connessione in senso processuale (art. 12 cod. proc. pen.), ma anche quando v’è connessione in senso materiale, cioè ogni qualvolta l’indagine sul reato perseguibile di ufficio comporti necessariamente l’accertamento di quello punibile a querela, in quanto siano investigati fatti commessi l’uno in occasione dell’altro, oppure l’uno per occultare l’altro oppure ancora in uno degli altri collegamenti investigativi indicati nell’art. 371 cod. proc. pen. (Sez. 3, n. 2876 del 21/12/2006,(dep. 25/01/2007, P.G. in proc. Crudele, Rv. 236098). Si tratta di un orientamento del tutto condivisibile e recentemente ribadito da questa Sezione (Sez. 3, n. 2856 del 16/10/2013, dep. 22/01/2014, B., Rv. 258583), la quale ha precisato che i reati di violenza sessuale sono procedibili senza necessità di querela anche nell’ipotesi di collegamento investigativo rilevante a norma dell’art. 371, comma secondo, cod. proc. pen. con altra fattispecie procedibile di ufficio sul rilievo che “la ragione della perseguibilità d’ufficio dei delitti contro la libertà sessuale non risiede nel disinteresse dello Stato al perseguimento degli stessi, ma nella necessità di bilanciare l’esigenza del perseguimento dei colpevoli con l’esigenza della riservatezza delle persone offese, data la particolarissima natura di tali reati, in relazione ai molteplici contesti socioculturali nei quali gli stessi possono essere commessi. Tale esigenza viene meno proprio nel caso in cui le indagini su fatti perseguibili d’ufficio abbiano attinto alla riservatezza delle persone offese per connessi reati sessuali, nel caso in cui questi siano stati commessi in occasione degli altri, o per conseguirne o assicurarne al colpevole o ad altri il profitto, il prezzo, il prodotto o l’impunità, ovvero – e questo è il caso più frequente – se la prova di un reato o di una circostanza influisce sulla prova di un altro reato o di un’altra circostanza o se la prova di più reati deriva anche parzialmente dalla stessa fonte”.
Ne consegue che, realizzatasi una delle fattispecie indicate nell’art. 12 o 371 cod. proc. pen., sia del tutto indifferente se i reati stati commessi a danno di una stessa parte offesa o di persone offese diverse.
Consegue l’infondatezza del motivo.
3. Il secondo ed il terzo motivo di gravame sono inammissibili per aspecificità posto che la Corte territoriale ha fornito adeguate risposte (pagg. 21 e 23 della sentenza impugnata) alle doglianze formulate dal ricorrente con i motivi di appello e le ragioni della decisione non sono state oggetto, come si ricava dal tenore letterale dei motivi (v. sub. 2.2 e 2.3. del ritenuto in fatto), di specifica critica come esige l’art. 581, comma 1, lett. c), cod. proc. pen. per il quale ogni impugnazione deve contenere i motivi con l’indicazione “specifica” delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono la richiesta. Nella specie, la Corte territoriale, quanto alla generica richiesta di assoluzione in relazione a talune persone offese, ha spiegato che la doglianza, oltre ad essere connotata da estrema genericità già con i motivi di appello, fosse del tutto priva di fondamento posto che le visite mediche tra il ricorrente e le persone offese altro non erano che occasioni colte dall’imputato per compiere atti sessuali, specificando l’esito degli accertamenti processuali diretti a comprovare tale affermazione, esiti in alcun modo specificamente criticati con il motivo di ricorso.
Quanto poi al mancato riconoscimento della diminuente del fatto di minore gravità, la Corte torinese ha posto in rilievo come il diniego fosse giustificato dall’invasività dei reiterati atti sessuali realizzati dal ricorrente, che aveva più volte infilato le dita nella vagina e nel retto delle persone offese, che non esitava a spaventare dicendo falsamente che era obbligato a effettuare tali manovre per escludere tali patologie, commettendo i fatti alla luce della qualifica rivestita e del contesto pubblico nel quale operava. Rispetto a tali affermazioni e in presenza comunque della concessione della attenuanti generiche, il ricorrente nulla ha specificamente indicato per supportare la richiesta di ribaltamento delle corrette e logiche valutazioni operate dalla Corte d’appello.
Segue il rigetto del ricorso con conseguente condanna al pagamento delle spese processuali e di quelle sostenute nel grado dalle parti civili indicate nel pedissequo dispositivo. P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali ed a quelle sostenute nel grado dalle parti civili C.A. e P.O. liquidate nella complessiva somma di Euro 3.600, Z.M. liquidate in Euro 2.200, ASL di Torino n. 2 liquidate in Euro 3.000 oltre accessori di legge e spese generali, per tutte.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell’art. 52 d.lgs. n. 196 del 2003 in quanto imposto dalla legge.
Silverio Zanobetti Per un’economia perversa Firenze: Clinamen, 2015 pp. 132, euro 9,80 ISBN 978-88-8410-217-1
…Se realmente si troverà un giorno la formula di tutte le nostre voglie e capricci, cioè da cosa dipendano, per quali leggi esattamente si determinino, come esattamente si diffondano, dove tendano nel tal caso e nell’altro, eccetera, eccetera, cioè la vera formula matematica, allora l’uomo, forse, smetterà subito di volere, anzi smetterà sicuramente. Ma che gusto c’è a volere secondo una tabella? E non basta: subito si trasformerà da uomo in puntina d’organetto o qualcosa del genere; perché cos’è l’uomo senza desideri, senza libertà e senza volontà, se non una puntina nel cilindro di un organetto?
F. DOSTOEVSKIJ, Memorie del sottosuolo, 1864
Per un’economia perversa, il primo lavoro firmato da Silverio Zanobetti uscito da poco per Clinamen, si inscrive in quel rango di opere, rare a causa della loro struttura complessa e che richiedono una forma mentis in grado di abbracciare i campi del sapere più diversi senza smarrire la bussola del proprio sentiero intellettuale, caratterizzate da una personalità liminale tra un potente desiderio di contemporaneità – connotato dalla commistione interdisciplinare che si “affresca” in quadri di grande bellezza estetica, di linguaggio e di orizzonti – e un ricorso restauratore e categorizzante alla tradizione filosofica del ‘900, a dichiarare una lunga evidenza di studi approfonditi e chiarificatori. Questo da un punto di vista metodologico.
Ma a farci guidare dal taglio lucido dell’autore, rischiamo di non accorgerci di scivolare dentro la sua storia: l’approccio di Zanobetti all’economia è sia uno studio raffinato, sia una necessità di esprimere il proprio sentire, relativamente ad un conflitto forse più antico, come se il suo cuore di giovane autore fosse intrappolato dalla coazione a spiegare che rapporto possa intercorrere tra l’uomo e l’economia contemporanea, in termini filosofici.
L’autore si domanda che cosa spinga l’uomo a viversi un carattere “mercantile”, come avrebbe detto Erich Fromm, declinato secondo le trame della modernità, che dilagano ben oltre le borse on line, passando dall’empowerment (pensiamo ai manuali di self change) al deep web (in cui, oltre ai file riservati e ai documenti di interesse specifico, si consuma il commercio oscuro delle perversioni agite attraverso la mercificazione del corpo, scenario di emozioni proibite ma soprattutto sadiche e regressive).
La riflessione di Zanobetti si distribuisce in quattro parti: la premessa, e tre capitoli, ciascuno dotato di una sua propria caratura. Il primo, Biopolitica e neoliberalismo; il secondo, Economia simbolica e mercato identitario; il terzo, dedicato a Pierre Klossowski, Economia perversa e moneta vivente.
Ai nostri lettori interesserà molto la cornice psicoanalitica di riferimento. Zanobetti indaga come l’“ideologia neoliberale” si snodi nella vita dell’uomo contemporaneo, attraverso un duplice corno di riflessioni. Da una parte sembra stare l’uomo “psicobiologico”, pulsionale, animato da antichi bisogni che si determinano nella sua atavica “mancanza”, nella sua psicologia desiderante e che lo spingono a porre le cose in relazione sul piano dell’utilità; e dall’altro sta l’uomo filosofico, con il suo richiamo alle cose messe in rapporto con l’esigenza di dare loro un senso, di dare all’azione e al sentire umano una coerenza, una possibilità di uscire dallo scacco degli istinti. Sullo sfondo sta Freud e tutta la psicoanalisi, chiamata a discutere allo stesso tavolo: infatti il termine stesso “pulsionale” o “impulsionale” deriva la sua diffusione da Trieb (pulsione), «processo dinamico consistente in una spinta (carica energetica, fattore di motricità) che fa tendere l’organismo verso una meta. Secondo Freud, una pulsione ha la sua fonte in un eccitamento somatico (stato di tensione); la sua meta è di sopprimere lo stato di tensione che regna nella fonte pulsionale; la pulsione può raggiungere la sua meta nell’oggetto o grazie a esso»1. Zanobetti infatti utilizza il termine proprio nell’accezione biologistica, ad esempio quando dice: «Il lavoro freudiano era stato quello di legare l’economico all’intensità libidinale: Pierre Klossowski è avanzato lungo queste orme fino a postulare un’equivalenza tra economia impulsionale ed economia di mercato» (2015, p. 11).
Ma quali sono i fenomeni psichici che spingono l’uomo contemporaneo dell’Occidente a focalizzarsi sui propri bisogni, sebbene al livello primario, quello della mera sopravvivenza fisica, questi siano già soddisfatti? «Alienazione, ansia, solitudine, paura dei sentimenti profondi, carenza di iniziativa e mancanza di gioia. Questi sintomi hanno assunto il ruolo centrale occupato, al tempo di Freud, dalla repressione sessuale»2, sostiene R. Funk (1992), l’ultimo grande esegeta di Erich Fromm.
Se le pulsioni, nella concezione freudiana, sarebbero sessuali ed aggressive e tutta la teoria elaborata da Freud per spiegare le origini e il funzionamento dello psichismo umano, sembri basata su una progressiva trasformazione delle spinte sessuale o aggressive (sebbene oggi non sia più possibile ricorrere alla teoria freudiana allo stato puro e la psicoanalisi sia evoluta in una direzione relazione e interpersonale), Erich Fromm sostiene che «prima di ogni altra cosa l’uomo è una creatura sociale»3. Prosegue Rainer Funk, riproponendo Fromm: «La psicoanalisi deve studiare la “patologia delle normalità”, quella lieve schizofrenia cronica prodotta dalla società cibernetizzata, tecnologica, … » 4.
Nel libro si riflette sul ruolo dello stato nell’economia, e di come questi due “sistemi” umani siano parzialmente sovrapposti; ma anche di come questa interconnessione influenzi la condotta del singolo e delle masse, ad esempio quando Zanobetti tenta di superare con Baudrillard il pulsionale freudiano allo stato puro della sua concezione, introducendo un costrutto cognitivo, l’attribuzione valoriale: (pp. 40-41)
Abbiamo visto grazie a Freud e Groddeck che la pulsione di morte è interna allo stesso principio di piacere e che il movimento pulsionale tenderebbe al ritorno ad un livello inorganico. Ignorando ciò la “scienza” economica non può che fraintendere gli smarrimenti raccontati da Baudrillard nell’ultimo capitolo di Per una critica dell’economia politica del segno. Baudrillard fa un primo esempio: un gruppo violento durante un’azione di protesta neutralizza il servizio d’ordine di un grande magazzino; i ribelli invitano le persone a prendere tutto ciò che vogliono senza pagare. Ma le persone non sanno cosa prendere, si limitano a rubare qualche oggetto da poco ed escono dal grande magazzino. Altro esempio: alcuni vincitori milionari di una qualche lotteria provano panico di fronte alla disponibilità assoluta di tempo libero. Senza dimenticare i casi di atleti che ad un passo dalla vittoria vengono posseduti dalla nota “paura di vincere”. Questi smarrimenti non possono essere spiegati semplicemente tramite la psicologia del profondo. Nel caso del magazzino, spiega Baudrillard, nel momento in cui si neutralizza il valore di scambio scompare anche il valore d’uso. Svaniscono tutti i bisogni e la razionalità in cui l’uomo, secondo la “scienza economica”, dovrebbe consistere. Quando il valore di scambio viene neutralizzato in un processo di dono e gratuità e di dépense anche il valore d’uso diventa inafferrabile. Questo accade perché ciò che non è mediato dalla competizione nell’ambito della posizione sociale diventa privo di valore. Non c’è appropriazione spontanea dei beni del grande magazzino perché al di fuori della logica del valore l’uomo non ha “bisogno” di niente. Prendere non è mai stato sufficiente per il piacere: occorre ricevere, dare, restituire e distruggere in modo che i consumatori non siano esclusi dalla logica dello scambio simbolico. Questi esempi mostrano una specie di controeconomia misteriosa del rifiuto di vincere, una sofferenza nel godere in cui si esprime la pulsione di morte. Il rifiuto è sempre un rifiuto agli altri, e quindi in quel rifiuto di vincere, nel rifiuto di rubare i beni dei grandi magazzini, vive sottotraccia la virtualità simbolica dello scambio. Il desiderio, scrive Baudrillard, non vuole realizzarsi nella libertà, ma nella regola, non nella trasparenza di un contenuto di valore, ma nella opacità del codice del valore.
Qui sembra tornare in gioco proprio l’inconscio sociale di Erich Fromm. Il socio-analista di Francoforte sostiene5 :
È importante analizzare il moderno consumismo come un atteggiamento, o per meglio dire un tratto caratteriale. Non ha alcuna importanza cosa venga consumato: possiamo consumare cibo, bevande, televisione, libri, sigarette, quadri, musica e sessualità. Nell’atto del consumare, il soggetto assorbe avidamente l’oggetto del suo consumo e al tempo stesso ne viene assorbito. Gli oggetti del consumo perdono la loro qualità concreta, poiché non vengono concupiti in ragione di specifiche e reali realtà umane bensì di una onnipotente bramosia: l’avidità di avere e di usare. L’atteggiamento consumistico è un modo alienato di essere in contatto con il mondo, giacché l’uomo trasforma il mondo in un oggetto della sua avidità invece di interessarsene e di entrare in relazione con esso.
Se volessimo addurre una interpretazione oggettuale, potremmo spiegare come non abbia senso “divorare” un seno che non abbia latte, ma neppure un seno che abbia latte in sovrabbondanza: non stimolerebbe il desiderio di possedere la madre, la fonte di quel nettare pacificatore e gratificante, ed eccitante, immaginifico. Una pulsione senza desiderio sarebbe dunque un drive anti-evolutivo, una motivazione inutile, privata del suo stesso oggetto, poiché non insegnerebbe all’uomo le strategie necessarie al mantenimento del potere nell’ambito delle relazioni primarie e dunque la sua sopravvivenza nell’ambiente e alla madre.
Questo dispositivo di base si trasforma inevitabilmente in una perversione, quando l’uomo dal livello “simbolico” passa, nel suo comportamento, ad un livello “simbolizzato”: quando cioè trasforma ogni atto ed ogni gesto, ogni relazione, in una rappresentazione estrema delle sue pulsioni primarie. Quando costruisce un’economia che diventi un seno semivuoto, per poter sperimentare senza tregua il desiderio di appropriarsene, e creare quindi un sistema dotato di gerarchie asservite a questa potenziale supremazia, alimentando l’ideale di un uomo e di una donna self-made, capaci di organizzarsi per assecondare l’offerta di beni e servizi, secondo una spinta autoaffermativa connotata da una necrofilia sublimata. Questo innesca controrisposte che a loro volta costituiscono la polarizzazione del sistema. Pensiamo ad esempio alla deriva ortoressica cui assistiamo recentemente, senza entrare nella disquisizione etica. Psicoanaliticamente, si potrebbe dire che le nuove organizzazioni filoanimaliste costruiscono nuovi sistemi per dare vita ad un potere nuovo: il disprezzo dell’estrema simbolizzazione perversa che si estrinseca nel Gran Consumo di esseri viventi. Questo disprezzo tuttavia si trasforma in un eccesso di controtendenza, una sorta di apostasia cui segue la conversione, ad esempio, all’ideologia vegana: ma anche in quelle organizzazioni il potere e il desiderio non possono essere rimossi, trovano una loro nuova simbolizzazione, la terra diventa un seno talmente buono da rendere cattivo l’essere umano che intenda appropriarsene, come se la spinta mortale e quella di sopravvivenza si sovrapponessero, ingenerando un senso di colpa di cui il vegano si fa carico trasformandosi in eroe in cerca di espiazione per le colpe dei suoi simili.
In questa ottica, e non solo naturalmente, il libro di Silverio Zanobetti Per un’economia perversa può diventare un terreno per riaprire il confronto dialettico della psicoanalisi con la società: quella società che oggi non è neppure dei consumi di beni e di servizi, ma delle relazioni. Valga a titolo di esempio la questione della “moneta vivente”, elaborata attraverso l’analisi delle opere di Klossowski (Zanobetti, 2015, pp. 111-112):
Per capire come far diventare l’emozione voluttuosa un fattore economico nell’economia perversa di Klossowski è necessario far innanzitutto riferimento a Sade. L’emozione voluttuosa è sadianamente preliminare all’atto della procreazione e viene tenuta indefinitamente in sospeso tramite un prelevamento operato sull’istinto di propagazione. Tale sospensione implica un prelevamento della forza impulsionale che va a formare «la materia di un fantasma che l’emozione interpreta; e il fantasma assume qui il ruolo di oggetto fabbricato» [P. Klossowski, La moneta vivente, pp. 55-56]. Nell’industria ogni fenomeno umano è suscettibile di essere trattato quale materiale sfruttabile, assoggettabile alle variazioni di valore. Questo vale anche per l’emozione voluttuosa e per il suo potere di suggestione. Nel mondo dell’industria artigianale la rappresentazione dell’emozione voluttuosa si celebrava tramite la rarità di un quadro, di un libro o di uno spettacolo i quali regalavano un certo prestigio derivante dalla suggestione che emanavano gli oggetti stessi. Questo tipo di prestigio è quello a cui faceva riferimento Veblen. Ma nel regime industriale si assiste ad un passaggio importante: vengono standardizzati gli strumenti meccanizzati della suggestione. La suggestione, provocata attraverso stereotipi, si fa quasi gratuita in quanto il prototipo stesso è senza prezzo. Allora, scrive Klossowski, sarà la sensazione che si può provare a valere più dell’immagine suggerita. Si crea così la possibilità di uno sfruttamento massivo in quanto «la stereotipia della suggestione permette all’industria di intercettare la genesi dei fantasmi individuali per volgerli verso i suoi fini, per rimuoverli e disperderli nell’interesse stesso delle istituzioni» [P. Klossowski, La moneta vivente, p. 57].
Continua Zanobetti (2015, p. 127):
Cos’è una moneta vivente? Occorre dire che ciò che viene comprata è l’emozione voluttuosa generata dal fantasma impulsionale del compratore. «Il perverso può avere rapporti commerciali solo con quel corpo-simulacro il cui valore dipende dall’intensità del fantasma da cui egli è abitato»[] perché ciò di cui entra in possesso acquistando il corpo è unicamente il corpo in quanto simulacro ed equivalente del fantasma. Klossowski ipotizza che i produttori potrebbero esigere a titolo di pagamento degli oggetti di sensazione, degli esseri viventi. […] Il progresso tecnologico diminuisce la mano d’opera e aumenta il tempo disponibile per la sensazione, ma la sensazione non è certamente gratuita e il tempo guadagnato in questo modo è disponibile solo per altre produzioni. In teoria si può pagare il salario in oggetti viventi di sensazioni se questi diventano valutabili in quanto lavoro fornito; perché questo sia possibile è necessario che l’oggetto vivente costituisca preliminarmente un valore. Ma non vi è comune misura tra la sensazione che questo oggetto vivente procura in se stesso e la quantità di lavoro fornito. Nelle classiche regole economiche di scambio l’oggetto vivente, fonte di sensazione vale il suo costo di mantenimento. Per modificare la classica modalità di scambio non si può semplicemente pensare allo scambio di oggetti inerti rari, bensì ad un oggetto vivente, che procura sensazioni voluttuose e che, o sarà moneta e sopprimerà le funzione neutralizzanti del denaro, o fonderà il valore di scambio a partire dall’emozione procurata. Così come solitamente un attrezzo rappresenta un capitale investito, così nell’economia perversa di Klossowski un oggetto di sensazione diventa un attrezzo fonte vivente di una possibile emozione. A partire da tale emozione può divenire l’oggetto di un investimento. L’attenzione deve andare al fatto che nell’economia perversa klossowskiana non si commercializza la creatura vivente stessa ma l’emozione che provoca in un ipotetico consumatore.
In questo scenario, la relazione analitica può diventare uno degli ultimi baluardi di quella che Erich Fromm descrive come Authentisch leben, la vita autentica, nell’omonima opera mai tradotta in italiano (Freiburg: Herder Verlag, 2000)6.
L’uomo vive e sente come propri sentimenti, emozioni, pensieri. Ma sono proprio suoi o veicolati da fuori, attraverso l’ambiente? Probabilmente egli è autore, inconsapevolmente, di entrambe le cose.
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1 J. Laplanche e J. B. Pontalis, Enciclopedia della psicoanalisi, Laterza, 1993, pp. 458-561. Breve definizione di pulsione in Enciclopedia della psicoanalisi. Pulsione è un concetto sviluppato da Freud per dare una spiegazione dei moventi inconsapevoli che condizionano le condotte umane, in termini di processi inconsci.
La pulsione sarebbe l’eccitazione di tipo somatico che promuove i processi psichici, premendo sull’individuo e spingendolo a sviluppare quei comportamenti che permetterebbero una scarica della tensione provocata dalla spinta pulsionale.
Freud usò il termine Trieb (invece di Istinkt, istinto). Le pulsioni si svilupperebbero in maniera plastica, con un’economia idonea a dare soddisfazione ed a scaricare la carica di energia somatica ed avrebbero una origine biologica.
Nelle lingue neolatine il termine pulsione, non usato nel linguaggio comune, ha mantenuto nell’opinione corrente il connotato biologistico freudiano, nonostante questo non sia più mantenuto tra gli psicoanalisti. Nelle lingue anglosassoni il termine freudiano fu tradotto dapprima con “instinct”, ben presto con “drive” e più recentemente con “motivation”.
2 R. Funk, introduzione a E. Fromm (a cura di R. Funk), L’inconscio sociale: Alienazione idolatria, sadismo. Arnoldo Mondadori, 1992, pp. 5-6.
3 E. Fromm (a cura di R. Funk), L’inconscio sociale: Alienazione idolatria, sadismo. Arnoldo Mondadori, 1992.
4 R. Funk, introduzione a E. Fromm (a cura di R. Funk), L’inconscio sociale, Arnoldo Mondadori, 1992, pp. 5-6.
5 E. Fromm (a cura di R. Funk), L’inconscio sociale: Alienazione idolatria, sadismo. Arnoldo Mondadori, 1992, p. 117-118.
6 E. Fromm and R. Xirau (ed.), The Nature of Man. Readings selected, edited and furnished with at introduction by Erich Fromm and Ramon Xirau (1968b), New York (Macmillan) 1968. – The “Introduction” Erich Fromm appeared for the first time in German GA IX, pp 375-391, and was for the most part in E. Fromm, Authetisch Leben (2000b), Freiburg (Herder Verlag) 2000, pp 29-58, reprinted.
Franco Fortini (1917-1994) ha concretato, nel suo gorgo poetico, un profondo e difettivo abitato neorealistico, che appare come una «limpida esperienza civile, una mai sopita interrogazione del futuro effettuata in chiave etica, una ricerca di senso condotta non tanto nel riposo della natura, piuttosto nel mare aperto delle idee o nell’incalzare dei fatti della Storia» (Giuseppe Lupo).
Egli, pertanto,come scrive Matteo Marchesini «con le sue allegorie composte e atroci, propone un’arte retorica straniante ma nitida, ricca di stratificazioni ma priva di aloni, e raggelata da un rigoroso scavo razionale: cioè una poesia che esige un difficile esercizio di intelligenza ostinandosi a tenere acrobaticamente insieme marxismo e alta cultura, mentre le loro sorti si separavano in modo irreparabile».
L’interrogazione del tempo si innerva pienamente nel processo letterario, in cui l’indagine e l’analisi sociale si rivolgono, partendo da un minimo tessuto individuale, a una lotta radicale, come afferma Raboni e alla necessità dell’inno e della lamentazione assurti a valori e ideali compositi e a coscienze congiunte.
Scrive Edoardo Esposito: «Eppure non si può negare che, della poesia e del proprio stesso percorso attraverso la poesia, Fortini tendesse di fatto a privilegiare i momenti che più esplicitamente la collegavano al versante della riflessione critica ed eventualmente della denuncia politica, e a svalutare quanto invece permanesse sul più intimo piano della confessione, dell’elegia, e diciamo pure della consolazione».
Già nella prima raccolta Foglio di via (1946), la vitalità del registro espressivo e la sperimentazione fanno i conti con una nuova esegesi della realtà, ammainata nel disincanto: «Il passato vi è reinterpretato», annota Luca Lenzini, «alla luce dell’esperienza e della consapevolezza della posta in gioco nel conflitto (nonché dei limiti del proprio bagaglio culturale): la guerra, le sofferenze inflitte alla popolazione, gli incontri con i propri simili di ogni condizione e fede, l’abisso che separa chi comanda e chi combatte e muore: tutto questo, insieme alla solidarietà e agli ideali che si fanno azione, e al ripensamento della stessa storia della nazione a partire dai suoi contraddittori fondamenti, forma il nucleo drammatico e incalzante intorno al quale coagulano i fermenti intellettuali ed etici del libro d’esordio».
Le tre sezioni del libro si aprono ai richiami elegiaci e striduli di un assedio linguistico, in cui la parola proclamava la sua profonda densità e il suo fondo evocativo, in cui l’elegia lucente e dissolta congeda la bufera dei mormorii.
L’isolamento, la spettrale compagnia della morte, il viaggio-paesaggio risultano essere lo stigma di un io aperto che si imbatte nella sua vittimologia carnefice, nei segni feriti della Storia, nella scarsezza dolorosa di una poesia «spezzata fra l’esasperata vergogna del proprio status e la certezza – o cattiva coscienza – che mai come oggi» divengono gli strumenti per una diminuzione della “normalità infernale” della profezia rivolta al passato, al disperso cammino verso la ricerca della verità, laddove l’assolutezza e l’universalità si appropriano della sua pagina in modo progressivo.
Scrive Franco Gallo:
«Dunque la poesia è vergogna di sé. La vergogna, peraltro, è duplice. Come attività dispendiosa e lussuosa in un mondo pervaso da altri e più concreti bisogni, la poesia avvalla la diseguaglianza tra gli uomini che ne è condizione di possibilità e di esercizio. Come atto profondamente ricco di consapevolezza e di esperienza (carattere che mai Fortini le nega), è inoltre esercizio di libertà, ma a scapito di ben diversi atti di liberazione concreta che incalzano la coscienza morale. Mai la libertà della poesia (si badi bene: reale rasserenamento, autentica emancipazione) dovrebbe esercitarsi in mancanza della libertà dal bisogno dei nostri simili; mai la via soggettiva alla felicità ed all’autorealizzazione, incarnata dall’arte e sempre possibile, dovrebbe essere percorsa mentre la libertà fondamentale dal bisogno è negata a tanti di noi. Fortini rifiuta tuttavia di fare di questa condizione il segno di una deficienza strutturale ed incontrovertibile della poesia, di scorgervi una “legge catastrofica”. […] Fortini va pertanto in cerca di una poesia pensosamente distruttrice, capace di celebrare il distacco luttuoso dalla tradizione (Fortini liquida sia le identità del poeta che le funzioni della scrittura consegnateci dall’esperienza letteraria moderna) come un gesto di liberazione tanto necessario quanto enorme. Permanente è il richiamo di Fortini alla vera natura della poesia, realizzatasi in tempi lontani nella misura classica, come contemplazione della natura distaccata dal dolore, propria di un’umanità privilegiata. Questo, e non altro, sembra essere l’unico importo possibile della pratica poetica ed insieme il suo limite strutturale: poter cogliere la pienezza della natura, e reinserirvi l’uomo e la sua vicenda solo per perderne la concretezza soggettiva e storica; individuare le costanti della condizione umana, al prezzo di storicizzarle e farle oggetto di una sapienza consolatrice, tanto presente nell’ultimo Fortini, ma, io credo, nella forma ironica della denuncia della sua impotenza a dire l’uomo reale, il tu di fronte a ciascuno che è soggetto di una domanda concreta e non caso dell’universale essenza umana».
La melodia rotta del tempo si svuota nella registrazione di una omologazione imminente, come profezia indicibile, come svalutazione di forze. Fortini sente l’esigenza di una parola che sia impegno intellettuale, rendicontazione del disequilibrio tragico del vivente e della sua anarchia, e infine sia ritorsione e superamento. È un fallimento e una insufficienza che portano, inevitabilmente, al frammento come strada percorribile, pur con tutta la sua ossimorica insicurezza: «Dunque nulla di nuovo da questa altezza / Dove ancora un poco senza guardare si parla / E nei capelli il vento cala la sera. / Dunque nessun cammino per discendere / Se non questo del nord dove il sole non tocca / E sono d’acqua i rami degli alberi. / Dunque fra poco senza parole la bocca. / E questa sera saremo in fondo alla valle / dove le feste han spento tutte le lampade. / Dove una folla tace e gli amici non riconoscono».
L’esito di una irreversibilità di sfondi, in cui l’«accento è quello del dovere e della necessità, non consente diversioni e scandisce un appello ultimativo, scolpito a vista nella scoscesa parete della storia di tutti» (Luca Lenzini).
La realtà storica, come accade in Italia 1942, Varsavia 1944 («E dopo verranno da te ancora una volta / a contarti a insegnarti a mentirti / e dopo verranno uomini senza cuore / a urlare forte libertà e giustizia / Ma tu ricorda popolo ucciso mio / libertà è quella che i santi scolpiscono sempre / per i deserti delle caverne in se stessi / statua d’Adamo, faticosamente»), Per un compagno ucciso, Valdossola: 16 ottobre 1944, Coro di deportati (Quando il ghiaccio striderà / dentro le rive verdi e romperanno / … Noi saremo lontani / Vorremmo tornare e guardare / carezzare il trifoglio dei prati / gli stipiti della casa nuova / piangere di pietà / dove passò nostra madre / invece saremo lontani), condensa il singhiozzo cancellato della realtà «tessuta di plebi» nel «vano nome antico», e la parola si fa pupilla di figli, laddove «la gemma s’aprirà / E la fonte parlerà come una volta. / Splenderai pietra sepolta / Nostro antico cuore umano / scheggia cruda legge nuda / All’occhio del cielo lontano».
La pena in piena di Fortini si sofferma sulla liberazione e sulla consolazione disillusa, invoca la conquista territoriale dell’esistenza come origine di stagioni perdute e passato epico-sacrale irrevocabile, in cui il suo soggiorno inquieto intreccia la forza del radicalismo, la sua inascoltata testimonianza, il suo antagonismo rivoluzionario palingenetico: «Dove ricercheremo noi le corone di fiori / le musiche dei violini e le fiaccole delle sere /… Ma il più distrutto destino è libertà. / Odora eterna la rosa sepolta. / Dove splendeva la nostra fedele letizia / altri ritroverà le corone di fiori».
«Essere fedeli alla rivoluzione», scrive Massimo Onofri, «significava anche giustificare la volontà di non essere capiti nel presente alienato per essere finalmente compresi nel futuro liberato […] Sicchè la domanda resta ineludibile: implosa l’idea stessa di rivoluzione, cosa potrebbe restare oggi di Fortini? […] il futuro della rivoluzione, sempre procrastinabile, e fissato nel suo eterno non-essere, consiste esattamente in quella luce, algida e inesorabile, che ci permette di vedere più lucidamente il presente per quel che è, gelido e livido, irredimibile e tristo».
La sua metrica si fa netta, l’espressività è vinta dalla disciplinata altezza oratoria: «La mano ha perduto la mano e la fronte è caduta. / Il cuore ha lasciato il cuore inerte. Passano / Sulla neve, ripassano, le sentinelle. / Lasciaci gli occhi, sonno, e il loro male nel buio / Finchè non cresca il giorno a riscuotere i visi / E a riconoscere i morti quel giorno non gridi / E fiamma e pianto invada la mano gelata».
La sua «gioia avvenire» richiama il suo stesso limite-scompenso, la sua miseria dove la «scuola della gioia è piena di pianto e sangue / Ma anche di eternità / E dalle bocche sparite dei santi / Come le siepi del marzo brillano le verità».
In Poesia ed errore (1959), la declinazione archetipica dell’errore si origina nel tarlo «che rode e corrompe la stoffa dei versi, genera macchie e ambiguità, confonde le piste del poeta che è obbligato a diventare complice o servo o traditore delle macchinazioni del potere, ad accettare e contemporaneamente a rifiutare le seduzioni che sono del suo status intellettuale, a comprendere di avere esigui margini di manovra se non obbedire alla condizione di «servo non inutile» (Deducant te angeli) o farsi «astuto come colomba» (dal titolo di un celebre capitolo di Verifica dei poteri, 1965)» (Giuseppe Lupo).
La figurale attrattiva biblica condensa il suo permeabile sostrato in una emancipazione di origini che diviene esito esule e autobiografia di generazione, nata da un’incertezza.
L’io tocca i suoi frammenti spaesati ed «è come se negli anni Cinquanta, venendo meno lo scenario storico del conflitto, con il suo portato d’immagini apocalittiche e l’avvento d’un tempo in cui scelta e destino si confrontavano direttamente, nella forma di un indifferibile aut aut, la poesia di Fortini subisse uno spaesamento, uno smottamento tanto profondo da essere “retroattivo”. L’accento epico che accompagnava il percorso dell’emancipazione […] mancava ora di appoggio nella dimensione e che gli era propria, la storia in atto; il tempo che la poesia aveva dinanzi si rivelava per il deserto di un differimento» (Luca Lenzini): «Se tu vorrai sapere / chi nei miei giorni sono stato, questo / di me ti potrò dire. / A una sorte mi posso assomigliare / che ho veduta nei campi: / l’uva che ai ricchi giorni di vendemmia / fu trovata immatura / ed i vendemmiatori non la colsero / e che poi nella vigna / smagrita dalle pene dell’inverno / non giunta alla dolcezza / non compiuta la macerano i venti».
La spoglia declinazione fortiniana proclama la sua endiadi che restituisce la gioia e il dolore intemporali, e l’affinamento poetico vive il dosso dello strazio, le stagioni risvegliate dell’inverno nei passi del sole («Mi risveglio dal sonno, è una notte d’inverno, / lontani sono i sogni, il libro è caduto, / non vengono i rumori sul vento della città») e la sua traversata, che restituisce le vicinanze e le pause, la città (Firenze) frusciata e sospesa, come stupefazione rievocata e segreta che scaglia e agghiaccia i suoi destini generali: «come nelle soffitte / alla quiete di un pomeriggio / perde un volume erbari vizzi, resti / di delicate vacanze, / o scorre dalla palma la sete d’una veste / che le danze animarono / guarderemo cadere dalla mente / e dalla mano / le serate che furono avvilite / e le spoglie di polvere» e «Stanche ma belle ancora / con noi le rivedremo / e a quelle ancora noi confideremo / le voci vagabonde, le vesti esili / (senza pena né fede / rispondendo al sorriso) / altri passi, altri moti».
La negazione esposta, come sostiene Luca Lenzini, imbeve il reperto immaginale di una pronta secchezza, in cui l’enunciazione, seguendo le linee di Brecht, promuove il suo gesto segnico in una stanza incisa («Scrivi mi dico, odia / chi con dolcezza guida al niente / gli uomini e le donne che con te si accompagnano / e credono di non sapere. Fra quelli dei nemici / scrivi anche il tuo nome. Il temporale / è sparito con enfasi. La natura / per imitare le battaglie è troppo debole. La poesia non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi»), in un margine libero («È tutto chiaro ormai, / le parole dei libri diventare / tutte vere. Tutti gli altri lo sanno. / T’hanno detto di fare due passi avanti / in mezzo al cortile d’acqua e vento, / di lumi gialli prima dell’alba») e in un ordine rovesciato: «Al vecchio che gira la macina / una vena si spezza nella pupilla / e il serpe è vicino alla culla. / Confuso nella paglia e nella polvere / è il sandalo di un profeta ridicolo», oppure, «Anche i morti non tornano più in sogno. / Chi ricordava confonde gli amici e i nemici / Quando all’orfano dici: «ho conosciuto tuo padre», / va via senza rispondere».
La negazione afferma il suo piano-sequenza in un primo riassunto di altri tempi, la solitudine del pianto superbo, la veduta che comprende le tempeste, perché, afferma ancora Luca Lenzini, «coinvolge il passato, incluso quello del poeta-profeta; ma, a sua volta, prelude alla contemplazione del paesaggio: un paesaggio non riconducibile a precise coordinate storico-geografiche, ma senza dubbio calato nel presente e delineato nello sguardo protratto […] di un io accomunato alla «gente» che quel paesaggio ha modificato, opera collettiva in cui si misura la presenza del Moderno in seno alla natura»: «Le notti lunghe di primavera le passo ormai / con moglie e figlio. Fragili alle tempie i capelli. / Vedo in sogno imprecise lacrime di una madre. / Sulle mura hanno mutato le grandi bandiere imperiali. / Vite di amici diventano spettri, non resisto a vederle. / In ira contro siepi di spade cerco una piccola poesia. / Non lamentarsi. Chino il capo. Non si può scrivere più. / Come acqua la luna illumina la mia veste oscura» (Dopo una strage).
L’innervamento nella sfera biologica della componente animale (serpente) dilata, simbolicamente, il processo dell’io in una meditazione sulla violenza latente, sull’accumulo di negazione e di disincanto che promette annullamento, ma rischiara di sfarzo politico «il buon uso dell’amore».
Scrive infatti Andrea Zanzotto: «Esiste in lui un rapporto mai venuto meno con quel momento della formazione dell’io in cui le parole […] si iscrivono nell’esperienza come violentissimo “fatto proprio”».
Se da un lato la passione dell’io pronuncia la sua sferzata elegia e la sua rivisitazione perduta, dall’altro, come accade in Questo muro (1973) la sua piena maturità scandisce le contorsioni allegoriche delle dilatazioni del presente, con cui egli ha il suo smisurato dialogo e «il lettore di questa poesia rimbalza dunque perigliosa mente fra una perturbante de-realizzazione del presente, ridotto a una serie di icone, e la lontananza di un futuro invocato con tanta più forza quanto è meno certo che si realizzi; in un certo senso solo il passato è vero, perché i valori allegorici e figurali che l’uomo vi ha accumulato lungo la fatica della storia, gli permettono di non morire» (P.V. Mengaldo).
I tagli sanguinosi, l’ordine e il disordine, il recupero dell’unità, attestano la retroguardia fortiniana in una condizione di staticità, in cui l’allegoria e la parabola, come annota Mengaldo, diramano vasti territori (rapporto vecchi-giovani, sconfitta-speranza, natura minimale), in cui egli sa che l’unica forza «è la gioia brevissima / la certezza sensibile che viene dopo tutto», attraverso un fitto rimando che diviene «ponte di passaggio fra un passato che dev’essere faticosamente recuperato coi suoi irrinunciabili valori simbolici («il passato stanchissimo») e un futuro verso il quale il presente si protende imperfettamente e che imperfettamente rappresenta»: «I furgoni dei rifiuti li chiudono a buio. / Il macellaio ritira dal marmo la carne. / Scampanano le gole dalle moli. / Lungo le vasche degli orti / il labbro delle lumache si stacca. / Si abbatte la fatica dei misteri inutili. / La quercia dal capo di gloria non sarà più. / Il ragazzo che profetava mentì. / Questo teatro è di spiriti accaniti che ti tengono le vesti ti baciano e tu li calpesti».
Scrive ancora Mengaldo: «Come sempre, anche Questo muro sta, e così vuole significare, in presenza della storia, ma per dirne soprattutto la trascendenza e la compiuta peccaminosità. Cresce anche il peso dell’autobiografia, ma come detta in paradosso, obliqua, cifrata. così la politicità, consustanziale a Fortini, si fa sempre più implicita, a volte quasi un rumore di fondo. La violenza storica è tanto più devastante quanto più la Storia è un Dio nascosto. Sono modi personali coi quali Fortini esprime la contraddizione, tipica di tutta la poesia moderna, fra continuità e discontinuità, detto e non detto, incarnazione e virtualità del significato. Ma queste contraddizioni in lui tanto più si esplicitano – o all’inverso si celano – in quanto alla chiusura in apparenza autosufficiente del testo corrisponde una specie di tangenza dei significati, che vi scorrono sopra piuttosto che incarnarvisi. E nessun messaggio,secondo Fortini, può significare per sé solo».
In Paesaggio con serpente (1984), che fa riferimento a Poussin, l’improbabile passaggio della cortina dell’io proteso verso il futuro, lo rapporta alla delusione di chi annota il registro storico degli avvenimenti e si interroga sul ruolo dell’intellettuale e della scrittura, che, come scrive Erminia Passannanti «[…] si emancipa da un universo di utopie, avendo ormai imparato a riconoscere i limiti che tale ambizione comporta – poeta polifonico, in cui coabitano singolarità e pluralità, quale adunanza di corpi e voci alleate o anche avverse, prese in un dialogo ostinato, proprio perché, per sua natura, il testo è sempre «sociale», «per sua origine quanto per sua destinazione, implicita o esplicita».
La delusione si appropria del suo cono d’ombra, vive l’urto della storia e dell’epoche buie e contorte, che racchiudono la loro stanza vivente e la palingenesi del tempo in una vitalità fatale: «La parola è questa: esiste la primavera, / la perfezione congiunta all’imperfetto. / Il fianco della barca asciutta beve / l’olio della vernice, il ragno trotta. / Diremo più tardi quello che deve essere detto. / per ora guardate la bella curva dell’oleandro, / i lampi della magnolia».
Una biscia, che corre tra l’erba alla sera, viene attaccata in volo da un animale volante. Fortini compone la sua allegoria, in uno iato scindibile di ordine e disordine: è il suo scorcio sulla realtà attraverso un atto comunicativo che riporta il testo al suo contesto che non dissotterra l’altrove, ma compone la sua coscienza precisa, in cui la peculiare condizione hegeliana dell’ uno «che in sé si separa e contraddice» si fissa, «finchè non sia più uno. E poi ritorni a esserlo, e ti porti via».
La necessità vitale dell’ordine scoperchia la sua scaturigine nella rappresentazione delle immagini, in cui lo «spettrale manierismo» abbraccia la luce obliqua dell’io, l’assenza interlocutiva e il gesto, dove tutto «si svela materiale e insieme irreale, concreto e mentale» (Luca Lenzini).
La condizione di Fortini, pertanto, celebra il mondo immaginale del ricordo in un contesto collettivo e doloroso, sollecitato da toni di puro espressionismo, attraverso lo sguardo dicotomico sulla compattezza del reale (e delle sue distanze) che «è là ma non vede una storia / Di sé o di altri. Non sa più chi sia / l’ostinato che a notte annera carte / coi segni di una lingua non più sua / e replica il suo errore. / È niente? È qualche cosa? / Una risposta a queste domande è dovuta. / La forza di luglio era grande. / Quando è passata, è passata l’estate. / Però l’estate non è tutto».
È la poesia distante che prende le distanze, «un ragionamento fatto in presenza di un sogno» che contrappone le forze e mette in scena il duro rapporto tra la antica primordialità e il rifiuto della mente, dove la poesia crea strade, indica percorribilità smosse che riscattano e salvano, finendo per mettere a fuoco il dramma dell’umanità tragica.
La contemporaneità percorsa da Fortini si afferma nel disagio impudente delle forze oppositive, concentra la scrittura in una meditata riflessione sulle soglie diamante: «La luna come cammina cammina / così ghiacciata. E senza la più piccola / ipotesi di sopravvivenza. Come è chiaro / che inutilmente il reale è simbolico. / Ma qualcosa ci distrarrà. Ci sarà caro / pensare a lepri in fuga sulla brina / e il gelo diabolico a picco e nel nero / la cristiana coperta sul capo».
Commenta Passannanti: «Non c’è modo più forte di attirare l’attenzione del lettore che presentagli dinanzi i segni residui della lotta tra il bene ed il male. Fortini, di conseguenza, ricorre alla simbologia del serpente così come emerge nelle arti figurative, laddove il rettile biblico non rappresenta solo la negatività del male primordiale come tentazione e caduta, ma anche, per contrasto, il suo magnetismo e fascino fuori dal ventre della Madre Terra».
Nel trauma della storia si riflette il suo ospizio ingrato, il suo dramma pastorale, l’oscura argomentazione del suo flusso poetico che risulta monologo esule e anelito di rivolta che abita la sua intima ferita tra Tasso, Shakespeare, Gongora, Milton, Poussin. Composita solvantur (1994) è l’ultima raccolta di Fortini e raccoglie testi scritti e risistemati tra il 1984 e il 1993, poco prima di morire. È il crinale sospeso su un tempo, segnato da forti eventi storici: la caduta del Muro, la guerra del Golfo, la caduta dell’Urss.
L’espulsione del poeta dalla storia rappresenta la sua traccia perseguita, ne sente tutta la cruda propulsione: «si dissolva ciò che è composto, il disordine succeda all’ordine». È alchimia, geografia di una biografia senile che avverte su di sé tutta la perdita e l’oltranza di un emblema allusivo: «E mai non era nostra / la schiuma dello stagno / o il ruvido lentischio, nulla avevamo compreso, / non il sentiero, non il paese chiuso / dove non c’era anima viva / e tocca invano ai selci il passo / del segnato da Dio» o ancora: «Sopra questa pietra / posso ora fermarmi. Dico alcune parole / nello spazio vuoto preciso./ Le grandi storie / tentennano in sonno, vacillano / nelle teche i crani / dei poeti sovrani. / L’enigma verde ride la sua promessa».
L’epifania enigmatica della realtà avverte la sua condizione anti-storica e il vulnus della relegazione violenta, come un desolato grido o totalizzante abbandono all’assedio del dolore. Ma qui, pur non diminuendo le forti istanze indignate, la datità scarna ed essenziale di Fortini apre il suo spazio di dilemmi, abbozza una speranza, pronuncia rinunce, aumenta i suoi confini sfalsati e, infine, scioglie i suoi grumi: «La volta del cielo / piano si contrae, piano. La fiamma soave / illumina a lungo la sera, / le classi inesorabili dei pini, / le fila liquide che marzo / giù tra i sassi divide».
Scrive Mario Benedetti: «È messo dunque in campo un forte dubbio circa la consistenza della realtà e la legittimità della letteratura. Ma in ciò stesso si manifesta quel sentimento ultimo delle cose che caratterizza la raccolta: la caparbia, ultima conferma del loro appartenerci, nel sapere di essere completamente vincolati a questa terra, soli di fronte a un cielo, «dove il celeste posa in sè», che non si sa né si può interrogare. Emerge la resistenza di un uomo di fronte alla malattia e alla morte, alla privazione del futuro, della possibilità di cercare ancora nella storia, di modificarsi. […] È lo stare terminale della vita in una società […] Misurarsi con il limite invalicabile della morte, della fine significa venire ai ferri corti con il senso del nostro rapporto con la realtà, approdare alla testimonianza estrema dell’indissolubilità del vincolo che ad essa ci lega: ogni cosa si risolve in noi, ci appartiene, per il poco (ma è tutto) che può valere questa appartenenza. Il poeta si apre così all’esperienza della pietas».
La disattenta sconfitta della storia, la pietà per tutta l’esistenza vivente, il contatto minimo ed essenziale con le cose e il legame con le ultimità ambientano la sua ultima resistenza, fino proteggere la verità: «Ma prossima è la morte e a una immortale / Vita, chiusa la falsa, apre le porte, / Vita di vita e morte della morte. / Chi gli agi fugge per amar naufragi? / A chi, più del riposo, il viaggio piace / E il lungo errare è più dolce del porto?».
FORTINI F., Tutte le poesie, a cura di Luca Lenzini, Mondadori, Milano 2014, pp.952, euro 22.
FORTINI F., Tutte le poesie, a cura di Luca Lenzini, Mondadori, Milano 2014.
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MORBIATO G., Composita solvantur di Franco Fortini (http://www.academia.edu/8665769/Composita_solvantur_di_Franco_Fortini)
ONOFRI M, L’utopia di Fortini ci serve ancora, in “Avvenire”, 27 novembre 2014
PASSANNANTI E., Senso e semiotica in «Paesaggio con serpente» (1984) di Franco Fortini
(http://www.ospiteingrato.org/senso-e-semiotica-in-paesaggio-con-serpente-1984-di-franco-fortini/)
il Prof. Massimo Cotroneo, docente del corso di Ipnosi Ericksoniana si racconta agli studenti della Scuola di Psicoterapia Erich Fromm
Intervista di Sara Ginanneschi, Ufficio Stampa Polo Psicodinamiche, – al Prof. Massimo Cotroneo, Psicologo, Psicoterapeuta, Docente di Ipnosi Ericksoniana
Roma, 3 aprile 2015
Il 15 ed il 16 Maggio 2015, la Scuola Di Psicoterapia Erich Fromm, ospiterà il corso di tecniche avanzate di Ipnosi Ericksoniana. L’approccio centrato sulla combinazione della psicoanalisi neofreudiana di Fromm con i più recenti sviluppi della psicoterapia, della clinica, della psicopatologia e della psicologia della salute è da sempre l’obiettivo primario della Scuola Erich Fromm; si tratta di una forma di terapia che vuole indagare, in primis, l’area della relazione paziente-terapeuta che nell’indagine dell’inconscio è collaborante e paritetica (center-to-center come la definiva lo stesso Fromm) per consentire al paziente di prendersi cura del proprio sviluppo favorendo il processo di autorealizzazione del Sé.
Analogo fine e simile approccio è quello dell’Ipnosi Ericksoniana, ma di cosa si tratta e come si distingue da altre forme di ipnosi? L’abbiamo chiesto al docente del corso, il Prof. Massimo Cotroneo che ci spiega come abbia incontrato l’ipnosi clinica la prima volta e perché ha poi deciso di renderla parte integrante della propria pratica professionale.
L’ipnosi è una tecnica che promette di accedere alla dimensione inconscia del paziente. Seppur nota (e controversa) fin dai tempi di Franz Anton Mesmer (1734-1815), è nel 1954 che nella XIV edizione dell’Enciclopedia Britannica, venne pubblicata una delle prime definizioni di ipnosi su base scientifica a cura di Milton H. Erickson. Egli definiva l’ipnosi come un tipo di comportamento complesso ed insolito, ma del tutto normale e che in condizioni opportune può essere sviluppato potenzialmente da chiunque. In tale “stato” o “condizione” psicologica e neuro-fisiologica, le persone funzionerebbero in un modo speciale, pensando, agendo e comportandosi come farebbero in un normale stato di coscienza ma, grazie alla focalizzazione dell’attenzione favorita dalla riduzione delle distrazioni, anche meglio.
Fra i pregiudizi diffusi sull’ipnosi vi è quello secondo cui essa consentirebbe all'”ipnotista” il controllo della mente dell'”ipnotizzato” il quale si troverebbe in un totale stato di perdita di coscienza. Questa idea, che corrisponde all’immagine più romanzesca e mediatica dell’ipnosi è del tutto fuorviante, soprattutto nella formulazione clinica di Erickson, in quanto, già a partire dal rapporto terapeuta-paziente l’ipnosi clinica ridefinisce completamente il rapporto terapeuta-paziente: non più asimmetrico, ma assecondato ad una relazione di reciproco rispetto e collaborazione.
E proprio questo, è uno degli aspetti che agli inizi del 2000 ha affascinato il Prof. Cotroneo, che dice:
“mi colpì profondamente il lavoro clinico di quell’uomo, così come la sua storia e la straordinarie capacità che aveva di aiutare i pazienti. Milton veniva da una storia personale di profonda sofferenza fisica dovuta ad un attacco di poliomielite da adolescente che mise in pericolo la sua vita ma egli seppe volgere e trasformare questa sconvolgente esperienza di malattia in risorse di grande valore per i pazienti attraverso ciò che ne imparò personalmente. Le prime interessanti idee sul rapporto tra mente, corpo e le risorse psichiche utilizzabili vennero da lui maturate proprio in questo difficile frangente.
Prof. Cotroneo, in che modo le teorie di questo autore l’hanno spinta ad approfondire le sue conoscenze?
“Il primo libro che mi avvicinò al modello ericksoniano” risponde “fu ‘La mia voce ti accompagnerà’, testo straordinario che narra di un approccio apparentemente magico alla psicoterapia in quanto ad efficacia. Ciò che mi apparve davvero speciale, in particolare, fu la capacità di Milton di ottenere risultati davvero rilevanti trasformare la vecchia ipnosi in qualcosa di rivoluzionario, al servizio della salute mentale. La tecnica ericksoniana, infatti, ribalta l’antico modello ipnotico asimmetrico restituendo al paziente la sua unicità, adattando la terapia al paziente e non viceversa, ritagliando cioè le tecniche sulle specifiche caratteristiche di questo. L’assunto di base, infatti, è l’osservazione minuziosa di come la persona si muove nel mondo, utilizzare le sue caratteristiche e modalità di interagire come chiavi di accesso al suo mondo interiore e relazionale. Se un paziente entrasse nello studio di psicoterapia iniziando a camminare senza sedersi, dice il padre della nuova ipnosi, piuttosto che suggerirgli il comportamento sociale atteso potremmo camminare nella stanza con lui introducendogli la presenza della poltrona dove più tardi si siederà (caso clinico raccontato dallo stesso Erickson). Le tecniche di utilizzazione, per l’appunto, sono quelle tecniche che riprendono i comportamenti del paziente utilizzandoli sapientemente; tale scambio, tuttavia, avviene attraverso uno speciale stato di attenzione che viene evocata nel paziente per creare i presupposti di un significativo imprinting emotivo. Lo stato della trance indotta, dunque, serve per dissociare e riorientare in nuove catene associative più funzionali e utili ai processi mentali ed emotivi del soggetto.”
Il Prof. Cotroneo, a Maggio sarà docente del corso di tecniche avanzate di Ipnosi Ericksoniana, ma che aspettative aveva da discente, durante gli anni di formazione e come ha integrato queste nuove conoscenze con la propria pratica clinica?
“Come spesso accade”, risponde, “la formazione è una fase avvincente e di grande stimolo per il lavoro che avverrà successivamente, ma, al contempo povera di quell’esperienza clinica che verrà poi creando i presupposti per mettere a frutto e affinare le competenze psicoterapeutiche acquisite. In altri termini, l’esperienza ti aiuta ad esprimere le tue caratteristiche e sviluppare il tuo modo di fare terapia, giacché l’unicità del paziente è complementare all’unicità del terapeuta. Ognuno deve trovare il proprio modo di fare psicoterapia, ossia di esprimere in essa l’apprendimento di modelli e tecniche calati sulla propria personalità.”
E le aspettative maturate durante gli anni di formazione, sono state poi ripagate pienamente?
Massimo Cotroneo replica: “Mi consenta di risponderle con una domanda provocatoria. Lei ritiene che gli allievi in formazione di psicoterapia siano solitamente soddisfatti? Non di rado gli allievi in formazione terminano con un senso di insoddisfazione mentre altri si ritengono maggiormente contenti. Cosa differenzia gli uni dagli altri? Al di là di ragionevoli argomentazioni sul piano sostanziale ed organizzativo, possiamo individuare nelle forti aspettative individuali una delega che mai è pienamente soddisfatta. Le aspettative vanno integrate nell’essere proattivi, nella propria ricerca personale, questo ritengo sia essenziale.”
E allora, certi che “sostanzialmente ed organizzativamente” questo corso in tecniche avanzate di ipnosi ericksoniana sia valido, cosa ha dato a lei l’ipnosi clinica, fin dalle prime applicazioni in ambito clinico da farla ritenere soddisfatto della sua formazione?
“L’ipnosi ericksoniana ha delle enormi potenzialità e applicazioni pratiche.” Incalza il Prof. Cotroneo, “In primo luogo, offre l’opportunità di attivare le risorse mentali, l’immaginazione e differenti prospettive sperimentate come fossero reali. La possibilità di realizzare una ‘realtà inventata’ per così dire, consente di lavorare in modo efficace sulle emozioni, sui correlati fisiologici e mentali. Questa opportunità, naturalmente, può essere sperimentata in modo diretto con procedure di autoipnosi che possono essere di grande aiuto nelle esperienze personali oltre che cliniche. Tali esperienze consentono di lavorare tanto su esperienze pregresse quanto su esperienze future, attraverso la rappresentazione mentale che può anticiparle riducendo l’entità della tensione conseguente alla prestazione sportiva per esempio. Mi è capitato in ambito clinico, ad esempio, di utilizzare tali procedure per ridimensionare l’entità di un distacco affettivo antico, o per interrompere dipendenze come per esempio nel tabagismo.”
Quello che ogni professionista in continua formazione si aspetta non è solo di acquisire nuove tecniche, pratiche o modi di pensare, di inquadrare un problema, una situazione e di intervenirvi, ma soprattutto di integrare ogni nuovo apprendimento con i precedenti. E Massimo Cotroneo? Ha mai cambiato il suo modo di utilizzare l’ipnosi ericksoniana?
“Come si sente spesso dire ‘l’esperienza insegna’ e per me il detto non fa eccezione.” Dice Cotroneo. “La pratica clinica, l’osservazione, la velocità nel riconoscere le informazioni centrali, la sensibilità clinica e così via, possono aumentare nel tempo incrementando le proprie competenze e la personale efficacia terapeutica. Notoriamente la qualità del rapporto terapeutico è un elemento centrale nell’efficacia della psicoterapia e trasversale ai diversi approcci clinici. Nel tempo le mie modalità di approccio sono divenute maggiormente elastiche adattandosi al paziente, spesso direttive e talvolta impattanti. Adattare la terapia al cliente significa utilizzare le sue chiavi di accesso, il suo modo di rapportarsi. Se un paziente arriva nello studio del clinico con atteggiamento sprezzante e di sfida, utilizzeremo queste modalità per avere efficacia terapeutica, viceversa perderemmo la presa sul soggetto. Utilizzare lo stesso modo del paziente gli consente di rispecchiarsi in noi e riconoscersi per poi seguirci come guida autorevole.”
Cosa devono aspettarsi dunque al corso di tecniche avanzate d’ipnosi ericksoniana il 15 e 16 Maggio?
Il Prof. Cotroneo risponde: “L’esperienza clinica pone di fronte ad una grossa eterogeneità di pazienti e ad una necessità di aumentare gli strumenti clinici a propria disposizione. L’integrazione di altre tecniche può consentire di acquisire strumenti efficaci in ambito clinico che possono essere integrati nel proprio approccio psicoterapeutico. Apprendere tecniche di base ed evolute d’ipnosi ericksoniana consente di incrementare ed integrare nel proprio modello utilissimi strumenti pratici d’intervento. Sperimentare personalmente il valore e l’utilità della trance indotta dalle procedure ipnotiche può essere, a mio avviso, un’occasione molto interessante di ampliamento formativo attraverso un corso fortemente esperienziale.”
Per informazioni ed iscrizioni al corso Tecniche Avanzate in Ipnosi Ericksoniana il 15 e 16 Maggio, scrivi a: segreteria@polopsicodinamiche.com oppure TEL. 0574.603222
Sottrarre il telefonino all’ex fidanzata equivale a rapina. E’ quanto ha stabilito la Suprema Corte di Cassazione con la Sentenza numero 11467 del 20 marzo 2015.
Chiarisce la Suprema Corte nella Sentenza in commento che “l’agente voleva ricavare dall’impossessamento del telefono cellulare della sua ex fidanzata. L’instaurazione di una relazione sentimentale fra due persone appartiene alla sfera della libertà e rientra nel diritto inviolabile all’autodeterminazione fondato sull’art. 2 della Costituzione, dal momento che non può darsi una piena ed effettiva garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo (e della donna) senza che sia rispettata la sua libertà di autodeterminazione. La libertà di autodeterminazione nella sfera sessuale comporta la libertà di intraprendere relazioni sentimentali e di porvi termine.”
Perquisire il telefono della ex fidanzata alla ricerca di messaggi è un atteggiamento che, secondo la Corte di Cassazione, “assume i caratteri dell’ingiustizia manifesta proprio perché, violando il diritto alla riservatezza, tende a comprimere la libertà di autodeterminazione della donna e si pone in prosecuzione ideale con il reato di tentata violenza privata, avente ad oggetto il tentativo di costringere la sua ex fidanzata a riallacciare il rapporto di fidanzamento dalla stessa troncato. Non può dubitarsi, pertanto, delrequisito dell’ingiustizia del profitto (solo morale) perseguito dall’agente mediante l’impossessamento del telefono della sua ex fidanzata.”
Ecco perché deve desumersi il principio per cui, “nel delitto di rapina il profitto può concretarsi in qualsiasi utilità, anche solo morale, in qualsiasi soddisfazione o godimento che l’agente si riprometta di ritrarre, anche non immediatamente, dalla propria azione, purché questa sia attuata impossessandosi con violenza o minaccia della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene.” Ciò viene sostenuto alla Corte di Cassazione, richiamando l’orientamento maggioritario in Giurisprudenza (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 7778 del 14/02/1990 Ud. (dep. 31/05/1990) Rv. 184507; Sez. 2, Sentenza n. 12800 del 06/03/2009 Ud. (dep. 23/03/2009) Rv. 243953).
Secondo la Suprema Corte di Cassazione, ”anche il fine di ottenere “un bacio” dalla parte offesa, in cambio della restituzione del monile sottratto, integra quell’utilità, anche solo morale, che qualifica il dolo specifico del reato di rapina, distinguendolo dalla violenza privata.”(Cass. Sez. 2, Sentenza n. 49265 del 07/12/2012 Ud. (dep. 19/12/2012 ) Rv. 253848)
Suprema Corte di Cassazione sezione II sentenza 19 marzo 2015, n. 11467 Ritenuto in fatto
1. Con sentenza in data 20/11/2012, la Corte di appello di Bari confermava la sentenza del Gup presso il Tribunale di Barletta, in data 16/10/2006, che aveva condannato C.P. alla pena di anni due, mesi due di reclusione ed Euro.600,00 di multa per il reati di tentata violenza privata (capo A), violazione di domicilio e lesioni personali (capo B) e rapina (capo C).
2. La Corte territoriale respingeva le censure mosse con l’atto d’appello, e confermava le statuizioni del primo giudice, ritenendo accertata la penale responsabilità dell’imputato in ordine ai reati a lui ascritti ed equa la pena inflitta.
3. Avverso tale sentenza propone ricorso l’imputato per mezzo del suo difensore di fiducia, sollevando quattro motivi di gravame con i quali deduce:
3.1 con riferimento al delitto di rapina, violazione di legge, contestando la sussistenza del dolo specifico non potendosi considerare “ingiusto” il profitto morale a cui mirava l’agente che si impossessò del telefonino della sua ex fidanzata al solo fine di far conoscere al padre di costei i messaggi che la stessa riceveva da un altro uomo. Eccepisce, inoltre, che in sede cautelare il Tribunale del riesame aveva escluso il reato di rapina reputando insussistente il requisito dell’ingiustizia del profitto.
3.2 con riferimento al capo B), violazione di norme processuali, avendo la persona offesa dichiarato di voler rimettere la querela, determinando così l’estinzione del reato di lesioni personali.
3.3 sempre con riferimento al capo B), manifesta illogicità della motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza del reato di cui all’art. 614 cod. pen..
3.4 con riferimento al capo A), mancanza e manifesta illogicità della motivazione in quanto l’affermazione di responsabilità per il reato di tentata violenza privata sarebbe del tutto apodittica. Considerato in diritto
1. Il ricorso è inammissibile in quanto basato su motivi non consentiti nel giudizio di legittimità.
2. È manifestamente infondato il primo motivo di ricorso in punto di insussistenza del dolo specifico per il delitto di rapina, sotto il profilo dell’assenza del requisito dell’ingiustizia del profitto. Secondo un indirizzo consolidato e risalente di questa Corte, nel delitto di rapina il profitto può concretarsi in qualsiasi utilità, anche solo morale, in qualsiasi soddisfazione o godimento che l’agente si riprometta di ritrarre, anche non immediatamente, dalla propria azione, purché questa sia attuata impossessandosi con violenza o minaccia della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 7778 del 14/02/1990 Ud. (dep. 31/05/1990) Rv. 184507; Sez. 2, Sentenza n. 12800 del 06/03/2009 Ud. (dep. 23/03/2009) Rv. 243953). Pertanto la Corte ha ritenuto che anche il fine di ottenere “un bacio” dalla parte offesa, in cambio della restituzione del monile sottratto, integra quell’utilità, anche solo morale, che qualifica il dolo specifico del reato di rapina, distinguendolo dalla violenza privata (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 49265 del 07/12/2012 Ud. (dep. 19/12/2012 ) Rv. 253848). Nel caso di specie il ricorrente riconosce di aver agito per perseguire un’utilità di carattere morale (non patrimoniale), sottraendo il telefono cellulare alla ex fidanzata, ma contesta il carattere “ingiusto” di tale utilità, osservando che l’azione dell’imputato è stata finalizzata esclusivamente a dimostrare al padre della sua (ex) fidanzata, attraverso i messaggini telefonici, i tradimenti perpetrati dalla figlia, e, dunque, l’esistenza di una relazione con un altro uomo “sicché l’intento del prevenuto è stato quello non già di conseguire un profitto ingiusto, bensì di dimostrare al genitore della sua ragazza l’ingiustizia e la scorrettezza del comportamento tenuto dalla figlia”.
3. Orbene, a parere del Collegio, proprio tale riconosciuta finalità integra pienamente il requisito dell’ingiustizia del profitto morale che l’agente voleva ricavare dall’impossessamento del telefono cellulare della sua ex fidanzata. L’instaurazione di una relazione sentimentale fra due persone appartiene alla sfera della libertà e rientra nel diritto inviolabile all’autodeterminazione fondato sull’art. 2 della Costituzione, dal momento che non può darsi una piena ed effettiva garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo (e della donna) senza che sia rispettata la sua libertà di autodeterminazione. La libertà di autodeterminazione nella sfera sessuale comporta la libertà di intraprendere relazioni sentimentali e di porvi termine. Nel caso di specie la pretesa dell’agente di “perquisire” il telefono della ex fidanzata alla ricerca di messaggi – dal suo punto di vista – compromettenti, assume i caratteri dell’ingiustizia manifesta proprio perché, violando il diritto alla riservatezza, tende a comprimere la libertà di autodeterminazione della donna e si pone in prosecuzione ideale con il reato di tentata violenza privata, di cui al capo A), avente ad oggetto il tentativo del C. di costringere la sua ex fidanzata a riallacciare il rapporto di fidanzamento dalla stessa troncato. Non può dubitarsi, pertanto, del requisito dell’ingiustizia del profitto (solo morale) perseguito dall’agente mediante l’impossessamento del telefono della sua ex fidanzata.
4. Di conseguenza può essere formulato il seguente principio di diritto: “nel delitto di rapina sussiste l’ingiustizia del profitto quando l’agente, impossessandosi della cosa altrui (nella specie un telefono cellulare), persegua esclusivamente un’utilità morale, consistente nel prendere cognizione dei messaggi che la persona offesa abbia ricevuto da altro soggetto, trattandosi di finalità antigiuridica in quanto, violando il diritto alla riservatezza, incide sul bene primario dell’autodeterminazione della persona nella sfera delle relazioni umane”.
5. È manifestamente infondata l’eccezione di estinzione del reato di lesioni personali per remissione di querela, sollevata con il secondo motivo di ricorso, essendo il reato perseguibile d’ufficio in quanto aggravato ex art. 61, n.2 cod. pen..
6. Ugualmente inammissibili sono le censure sollevate con il terzo e quarto motivo, poiché si risolvono in censure generiche, al limite dell’aspecificità e non scalfiscono la solidità della motivazione che ha giustificato le conclusioni assunte dalla Corte territoriale in punto di sussistenza del reato di violazione di domicilio e del tentativo di violenza privata.
7. Ai sensi dell’articolo 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, l’imputato che lo ha proposto deve essere condannato al pagamento delle spese del procedimento, nonché – ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – al pagamento a favore della Cassa delle ammende di una somma che, alla luce del dictum della Corte costituzionale nella sentenza n. 186 del 2000, si stima equo determinare in Euro 1.000,00 (mille/00). P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro mille alla Cassa delle ammende.