Morte, buone morti, cattive morti nel Medioevo di Siena

di Vinicio Serino                                       11 novembre 2013

Antropologia

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Normalità della morte e vita brevis

“La prima scoperta dell’uomo è la morte. Non la morte astratta del Medioevo, passaggio verso l’al di là. Ma la morte incarnata: il Medioevo volgendo al suo termine inciampa nel cadavere” (Le Goff, 1981). Ciò avviene proprio quando, nel così detto “Autunno del Medioevo”, si è ormai formata una società proto-borghese e proto-capitalista, molto incline alle cose del mondo e quindi intrinsecamente umanista. Una società nella quale, pur nella consapevolezza di una dimensione spirituale post mortem, cresce comunque il rimpianto per la vita. Che si manifesta appunto quando si è consapevoli di lasciare in questa (già) valle di lacrime, molte cose/persone, che hanno dato piacere e godimento, come sembra suggerire, con la forza espressiva della propria potente pittura, Ambrogio Lorenzetti. Quando, nel suo “Effetti del Buon Governo in città” descrive uno spazio pieno di uomini e di donne impegnati nelle attività più disparate – ci sono calzolai, muratori, filatrici, persino un magister con la sua classe – al cospetto dei quali nove fanciulle (allusione alle Muse) danzano leggiadramente al tempo battuto, con un tamburello, dalla decima (madonna Armonia?).

E ciò nonostante che “la durata della vita sia comunque bassa – specie se limitata alle aspettative del nostro tempo – tanto che di rado supera i trenta anni per le donne, mentre a malapena tocca i quarantacinque per gli uomini. Pochi i vecchi i quali, superati i quarantacinque anni di età, durante i quali si è già verificata una rigorosissima selezione naturale, hanno una qualche speranza di vita più lunga ….Un quarantenne, dunque, nel Medio-evo è già ben oltre la maturità, un cinquantenne è un vecchio” (Gatto, 2003). Anche a Siena questa è la norma per la concomitanza di una serie di eventi capaci di produrre rilevanti selezioni quali morti infantili, guerre, pestilenze, dissenterie, carestie e cambi climatici (Turrini,  2003).

La morte è (anche)immagine

Un nuovo modo di intendere la morte si percepisce, a partire dal secondo decennio del XIV secolo, attraverso il forte intensificarsi della sua iconografia (Gianni, 2003). Il che è sociologicamente spiegabile con la nostalgia per una vita che, almeno per le classi più elevate, le stesse che “commettono” le immagini, merita comunque di essere vissuta. Lo sapeva bene Cecco Angiolieri quando scriveva: “tre cose solamente mi so’in grado, /le quali posso non ben ben fornire: ciò è la donna, la taverna e ‘l dado; /queste mi fanno ‘l cuor lieto sentire.”

D’altra parte, già a partire del XIII, questa gaudente filosofia della vita anima gran parte dei Carmina burana, una serie di composizioni, verosimilmente tutte cantate contenute nel c.d. Codex Latinus Monacensis proveniente dal convento di Benediktbeuern (l’antica Bura Sancti Benedicti, nei pressi di Bad Tölz in Baviera), dove molto presenti sono le tematiche amorose, bacchiche, conviviali e satiriche. Erano opera dei “Clerici vagantes” o goliardi, dal nome del loro mitico capostipite, Golia, che si spostavano da una città all’altra. Forse il più noto tra questi carmina è quello dedicato alla Fortuna, “imperatrix mundi”, cangiante come la luna che cresce o cala …

L’idea della morte ed i suoi tanti volti

Quello espresso da Cecco e, almeno in parte, dai Clerici vagantes, era un ideale “di “basso godere”, che certo mal si conciliava col misticismo di Bernardo di Chiaravalle o la profondità di sapere di Bonaventura di Bagnoregio, il Doctor Seraphicus. Eppure l’idea dissacrante di vivere nel mondo e per il modo era sempre più diffusa nella Res publica Christiana, dopo il transito del temibilissimo anno Mille: Mille e non più Mille. Ma l’idea della morte – molto spesso l’ossessione della morte – era pur sempre presente e, con l’ annus horribilis 1348, l’anno della terribile pandemia di peste, le rappresentazioni iconografiche di quell’inevitabile evento si intensificheranno, mentre al senso del rimpianto per i piaceri perduti si aggiungerà l’orrore per la tremenda, collettiva moria.

Questo “rimpianto” per i piaceri perduti con la fine della vita spiega, probabilmente, non solo il senso di “horror” che emana dalle raffigurazioni della morte ma anche la quantità di “declinazioni” di questo horror. La morte è uno scheletro, il che ci illumina su come sarà il nostro corpo “dopo”, secondo il modello allegorico del “Contrasto tra tre vivi e tre morti” forse rappresentato, per la prima volta, nel  Cattedrale di Santa Maria Assunta, ad Atri, in Abruzzo, a metà del XIII secolo. I tre gentiluomini, che si apprestano alla caccia col falcone, incontrano tre scheletri che li rimproverano per la loro spensieratezza e li ammoniscono sulla ineluttabilità della morte.

Nei “Documenti d’Amore” di Francesco da Barberino (a. 1314), la morte è un mostro villoso, con tre facce e quattro braccia che, con due archi, lancia le sue micidiali frecce, tre per ciascun arco. In mezzo,  una donna colpita da due saette  sta per cadere: dietro a essa è Amore alato, diviso in lungo per metà e mentre la metà sinistra è intera, la destra è spezzata in più parti. E’ evidente – ma difficilmente interpretabile – il significato allegorico della rappresentazione che, per alcuni, sarebbe un’allusione alla celebre Setta iniziatica dei Fedeli d’ Amore di cui avrebbe fatto parte anche Dante (Valli, 1994). Per altro il messaggio potrebbe anche essere inteso che mors non amor omnia vincit

La morte è anche una danzatrice che guida un singolare ballo nel quale si uniscono scheletri con i diversi rappresentanti della articolata società basso medievale, contadini, artigiani, prelati e cavalieri: è questa la danza macabra, denominazione che, forse, serve a rievocare il sacrificio dei sette fratelli Maccabei, giustiziati insieme alla loro madre sotto il regno di Antioco Epifane per aver osservato la propria fede nel Signore. Ma che potrebbe anche rimandare alla parola siriaca maqabreu, seppellitore, a sua volta da connettere con maqbar, cimitero. La più antica rappresentazione iconografica della penisola, risalente al 1485, si trova nell’Oratorio dei Disciplinati di Clusone, nel bergamasco.

Nel territorio della Repubblica di Siena la  morte è “cattiva morte”, come nell’opera di Biagio di Goro Ghezzi nella Chiesa di san Michele Arcangelo in Paganico. E’ effigiata come una donna terribile (una strega ?), a cavallo di un destriero nero, montato a pelo; porta, legata alla cintura, la terribile falce, mentre dal suo arco micidiale lancia una acuminata freccia. Sopra di lei Cristo che ammonisce: “ O tu che leggi pon chura ai colpi di chostei/c hocise me che so signior di lei”.  Persino il Figlio di Dio ha dovuto soggiacere alla tremenda legge di quella orribile creatura …

Nella stessa Chiesa, Goro ha rappresentato San Michele nella sua funzione di pesatore delle anime secondo una impostazione simbolica che rammenta la psicostasia egizia. Alla destra dell’Arcangelo (la sinistra per chi guarda) la Vergine intercede per le anime del Purgatorio, essendo ormai stata fissata la tripartizione dei mondi dell’al di là (ved. Infra). Alla sinistra dell’Arcangelo un demone (o una diavolessa) emaciato e con le ali di pipistrello, accoglie, nel suo regno tenebroso, l’anima (nuda) di una  giovane donna.

Morte, ritualità della morte e mondi del post mortem

A partire dal XIII secolo, quando il processo di formazione della nuova società medievale comincia a completarsi, socialmente ed antropologicamente, con il ruolo crescente della borghesia cittadina, in molte città italiane si vanno stabilmente delineando nuove modalità rituali che, tra l’altro, comportano la fine delle “vecchie lamentazioni funebri dell’antichità” e l’avvento di “un complesso cerimoniale religioso, con la conseguenza di messe di suffragio, richieste di indulgenza, accensioni di ceri e anche lasciti di beneficenza per la salvezza dell’anima ” (Turrini, 2003). L’esempio di Siena è, al riguardo, molto illuminante.

Si tratta dunque di un vero e proprio processo di razionalizzazione delle pratiche rituali, accompagnato da precise disposizioni del de cuius sulla destinazione del proprio patrimonio, in perfetta coerenza con le tendenze di una società borghese nella quale, grazie alla crescente formazione di ricchezza mobile – il denaro, sostituto della ricchezza immobile terriera tipica degli antichi feudatari – ci si può anche salvare in articulo mortis, praticando quella che J. Chifffoleau definisce “contabilità dell’anima”.

Ovviamente per il buon Cristiano la morte non è affatto la fine. Ed un aspetto innovativo relativo al “dopo” è dato dalla introduzione di una nuova dimensione, intermedia tra Inferno e Paradiso, il Purgatorio. Già nell’Antico Testamento se ne adombrava l’idea. Lo si ricava dall’episodio, contenuto in Maccabei II, dei soldati di Giuda uccisi in battaglia e trovati in possesso di “cose consacrate agli idoli”. Allora, continua il testo sacro, “ricorsero alla preghiera, supplicando che il peccato commesso fosse pienamente perdonato …. Perché se (Giuda) non avesse avuto ferma fiducia che i caduti sarebbero risuscitati, sarebbe stato superfluo e vano pregare per i morti. Ma se egli considerava la magnifica ricompensa riservata a coloro che si addormentano nella morte con sentimenti di pietà, la sua considerazione era santa e devota. Perciò egli fece offrire il sacrificio espiatorio per i morti, perché fossero assolti dal peccato …” (Maccabei II, XII, 40-46).

Molti secoli dopo Agostino d’Ippona, nel suo “De Civitate Dei”, parlerà di un focus purgatorius, tema  che ritornerà poi con Beda il Venerabile, Bernardo di Chiaravalle, Piero Lombardo, e molti altri. Ma è nel secolo  XIII secolo che, per opera di grandi teologi come Alberto Magno, Tommaso d’Aquino, Bonaventura da Bagnoregio, si forma compiutamente l’idea di un “luogo” dove è temporaneamente possibile la purificazione dei peccati per accedere quindi alla definitiva e beatifica visione di Dio.

Il II° Concilio di Lione del 1274 sanzionerà definitivamente questa importante innovazione della Chiesa affermando solennemente che “le anime sono purificate dopo la morte con pene che lavano”. Il Giubileo del 1300, indetto da papa Bonifacio VIII, poi, svilupperà ulteriormente l’idea del suffragio con la bolla Antiquorum habet fida relatio: ogni cento anni, chiunque visiterà le tombe degli Apostoli, per quindici giorni, godrà della remissione totale di tutte le pene che avrebbe dovuto scontare in terra o in Purgatorio. L’indulgenza vale anche per quelli morti durante il viaggio.   Alla costruzione di questo luogo – non luogo molto avevano contribuito le tante storie di anime che chiedevano preghiere per la propria salute riferite dai viaggiatori nell’al di là, di cui Dante è il più noto …

Per J. Le Goff l’idea di Purgatorio (Le Goff,1982) si afferma in parallelo con l’ascesa della borghesia produttiva, grande manipolatrice e dispensatrice di denaro. Una vera e propria classe intermedia che si pone tra  i chierici ed i nobili cavalieri da una parte e la massa damnationis – in terra – dei contadini e delle miserabili plebi urbane dall’altra. Si viene così formando una nuova visione del mondo secondo la quale, nonostante il peccato, è comunque possibile il riscatto e quindi, la redenzione attraverso la purificazione espiatrice, agevolata dall’azione dei viventi. La Chiesa visibile era l’unica istituzione che, con la forza delle preghiere e della messa, ma anche attraverso le indulgenze – a pagamento … – poteva spingere l’anima verso la beatifica visione dell’Eterno. I ricchi borghesi della Siena del ‘300 – come d’altra parte quelli di molti altri liberi comuni – faranno ampio ricorso a questa (pia) possibilità.

Per l’onore di Giovanni d’Azzo

Per altro la morte era anche occasione di esibizione di ricchezza e di potenza di ceto. Illuminante quanto avviene a Siena nell’anno del Signore 1390, quando Giovanni d’Azzo, nobile e cavaliere, ebbe la sua fastosa cerimonia funebre “… fecelisi grandissimo onore; in prima el suo corpo ebbe duecentodieci doppieri legati nel castello di legname … e arsero mentre che fece tutto l’ufficio. Vestì il Comune quattro cavalli con la balzana e con le bandiere e l’arme del popolo,e anco vi si vestie sessanta uomini a bruno. Fue portato in una bara ad alto coperta d’un bellissimo drappo d’oro; e sopra al corpo uno padiglione di drappo d’oro foderato d’armellino …”I doppieri erano torce di cera, molto utilizzati nelle case dei più abbienti:  E nelle case entrato, fatto pianamente aprir la camera nella qual sapeva che dormiva la giovane, in quella con un gran doppiere acceso innanzi se n’entrò” racconta G. Boccaccio nella novella VI°  della V° giornata. La pelle di armellino, ossia ermellino, diventa di un bianco candido di inverno, simbolicamente rimandando alla idea di purezza … Una delle opere d’arte più famose, opera di Leonardo, “La dama con l’ermellino”, rappresenta appunto una splendida donna, poi identificata con Cecilia Gallerani – la cui famiglia, emigrata a Milano, era di origine senese – dama della corte degli Sforza, amante di Ludovico il Moro. La splendida donna reca in braccio un candido ermellino, forse per alludere all’Ordine dell’Ermellino che il re di Napoli aveva conferito al Duca di Milano.

“ … el detto padiglione” continua la cronaca di quel fastoso funerale,  “portava in quattro stagiuoli cavalieri e grandi cittadini di Siena , e fur vestiti vinti cavagli a bruno con le bandiere di sua arme … e uno uomo armato a cavallo di tutte le sue armi e barbuta , spada nuda e speroni, e altre armadure le quali tutte rimasero al Duomo … Anco a detta sepoltura furono tutti e’ Priori di palazzo e furonvi tutti frati e preti delle regule di Siena e di chiesa parrocchiali; e furo avvisati tra preti e frati e monaci intorno a seicento…” Un corteo funebre degno di un monarca, per il quale le note – e teoricamente severe – disposizioni suntuarie del Comune di Siena non trovarono applicazione: rileva la solennità della cerimonia con l’uomo a cavallo che, coperto di barbuta, cioè dell’elmo, ricorda agli astanti le virtù cavalleresche del defunto.

Honor mortis (e non solo)

Eppure la morte, ossia il trattamento del morto, è sottoposto ad una disciplina molto precisa, a Siena, come in molte altre città comunali. Si tratta di disposizioni oltre che circostanziate anche particolarmente severe,  sostanzialmente motivate da diverse esigenze:

a)     il divieto dell’uso di certi colori come il rosso, il verde e l’azzurro, per le vesti dei partecipanti, con l’imposizione del nero per uniformare, per quanto possibile, la cerimonia di commiato, evitando ostentazioni di ceto che, in ogni città medievale piena di divisioni, di fazioni, di “Monti”, sarebbero potenziali fonti di dissenso verso il (precario) potere costituito;

b)    il divieto di assembramenti, col “contingentamento” del numero dei partecipanti alle esequie, chiara misura di prevenzione di ordine pubblico, altro nervo scoperto nell’ambito delle rissose comunità cittadine del tempo;

c)     il divieto di partecipazione delle donne al corteo funebre in coerenza con una società (almeno relativamente ai tempi) sessuofobica, salvo che non si tratti delle esequie di una defunta, nel qual caso scatta sempre il meccanismo del (rigido) “contingentamento” (Turrini, 2003);

d)    il divieto del “bociarerium”, ossia delle manifestazioni di dolore esteriorizzate, accompagnate da pratiche come la lacerazione delle vesti o lo strappo dei capelli, dal momento che tali forme di disperazione sono incompatibili con la credenza in una vita eterna post mortem.

Il senso di tutte queste prescrizioni va ricercato nell’impegno delle autorità ad assicurare comunque, specie in caso di manifestazioni coinvolgenti più persone, una rassicurante condizione di normalità …

Morte ad omicidi e spie

Una delle espressioni pubbliche della morte è quella relativa alla sua somministrazione come pena per crimini gravissimi. Nelle città medievali – e Siena non costituisce affatto un’eccezione – attiene a reati molto gravi, come l’omicidio considerato ”Horrido e grande peccato”, perché priva dalla dimensione terrena una creatura fatta ad immagine dell’Eterno. Questo tremendo delitto non ha altra pena che quella della decapitazione: “… punisscase in ella pena del capo.” La ratio di questa disposizione sta nella c.d. “legge del contrappasso”: ogni delitto va colpito con una sanzione comminata secondo il principio dell’ analogia, deve cioè essere “coerente” con la colpa commessa. E la pena deve contenere un messaggio, un insegnamento facilmente comprensibile e, al tempo stesso, di forte valenza pedagogica di cui va immediatamente apprezzata la funzione dissuasiva.

La “spiccatura” della testa, dunque, oltre a valere come punizione per il reo esprime anche una propria valenza simbolica in quanto si ritiene che all’interno del cranio  si trovi il principio attivo dell’essere, in coerenza con le credenze proprie delle popolazioni del nord – i Galli, i Celti – che consideravano uccisi i propri nemici solo se ne avevano spiccato la testa. Inoltre, presso quelle popolazioni, si pensava che la  (macabra) acquisizione delle teste mozzate conferisse al vincitore la forza ed il coraggio del guerriero vinto (Chevalier e Gheerbrant, 1989). Notizie in tal senso provengono da Tito Livio quando racconta della cocente sconfitta subita dalle legioni romane guidate da Postumio Albino contro le tribù celtiche dell’Appennino durante la II° Guerra Punica. Qui, nella foresta di Litana, i barbari con uno stratagemma ebbero ragione dei Romani. Lo stesso Postumio cadde e la sua testa tagliata venne portata dai Boi nel loro tempio, considerato lo spazio più sacro. “Ripulita la testa”, racconta Tito Livio, “come è loro costume ornarono il teschio con un cerchio d’oro, e questo era per loro un vaso sacro con cui libare alle solennità e allo stesso tempo una coppa per i pontefici e per i sacerdoti del tempio …” (Tito Livio, Historiae).

La stessa pena della decapitazione viene riservata, nell’anno del Signore 1375, a Nicolò di Tuldo, un giovane gentiluomo perugino accusato di congiura e spionaggio a danno della Repubblica di Siena. Sembra sia stato condannato ingiustamente e che solo grazie a S. Caterina abbia deciso di richiedere il conforto religioso.  In una sua lettera a Frate Raimondo da Capua Caterina descrive le ultime ore di Nicolò che invita la Santa a non abbandonarlo. ” Io sentivo uno giubilo” dice Caterina ”uno odore del sangue suo, e non era senza l’odore del mio, sentendo el timor suo, dissi: ‘Confòrtati, fratello mio dolce, chè tosto giognaremo alle nozze. Tu n’anderai bagnato nel sangue dolce del Figliuolo di Dio, col dolce nome di Gesù, el quale non voglio che t’esca dalla memoria, e io t’aspetterò al luogo della giustizia …’ Poi egli giunse come uno agnello mansueto … Posesi giù con grande mansuetudine; e io gli distesi il collo  … e rammentalli il sangue dell’agnello. La bocca sua non diceva se no Gesù, e, Catarina. E così dicendo ricevetti il capo nella mani mie … Riposto che fu l’anima mia si riposò in pace e in quiete, in tanto odore di sangue, che io non potevo sostenere di levarmi il sangue, che mi era venuto addosso, di lui” (Epistolario, 1940). L’odore del sangue è l’odore della vita che sta finendo e che impregna, indelebile, il corpo della santa.

Dunque nel mondo medievale la testa mozza possiede una vis evocativa straordinaria non solo rappresentativa della supremazia esercitata su qualcuno, ma anche come immagine simbolica ricollegabile all’idea stessa di giustizia. Lo sapeva bene Ambrogio Lorenzetti quando, nel Buon Governo, raffigurava la sua Giustizia , posta accanto alla Temperanza, con una spada nella mano destra, una corona nella sinistra e, appunto,una testa mozza in grembo. A rafforzare ulteriormente il senso del rapporto con la giustizia, ai piedi della virtus un gruppo di cavalieri e di armigeri appiedati recano, al cospetto del Bene Comune, dei malfattori saldamente legati.

Morte ai raptores

Un altro reato particolarmente grave  contemplato – e pesantemente sanzionato – dagli Statuti delle città medievali è la rapina. La figura del raptor è assai spesso presente e talora manifesta aspetti inquietanti. Gregorio VII, l’autore del Dictatus papae, chiama i cavalieri del suo tempo, noti per la loro brutalità, raptores  ossia predoni. E li invita alla conversio: “Nunc fiant Christi milites, qui dudum extiternat raptores”. Mettano dunque le proprie armi e la propria abilità guerriera al servizio di una buona causa – che sarà la liberazione del Sepolcro di Cristo – abbandonando quella malefica, violenta pratica che ha solo una ricompensa, la morte. Da queste parti della Toscana il raptor più noto fu sicuramente Ghino di Tacco, immortalato in una celebre novella di Boccaccio per aver sequestrato l’Abate di Clugny.

Anche per questo delitto la pena prevista è la morte: ma con una variante rispetto all’omicidio. Viene comminata per impiccagione: “…empicchase cum laccio per la gola in elle forche si et in tal forma che moga e l’annima se sepera dal corpo”, è scritto nello Statuto di Radicofani, il nido di Ghino. Molti anni fa, occupandosi della valenza simbolica della impiccagione, uno studioso della grandezza di Furio Jesi evidenziava come e quanto, dal punto di vista della mitologia dell’area mediterranea questa tipologia di pena – talora utilizzata anche in cerimonie iniziatiche in qualche modo connesse col culto degli alberi – andasse ” considerata per la sua capacità di significare il passaggio dalla condizione terrestre all’alterità espressa dall’aria …” (Jesi, 1989)

Per altro, questa di Jesi appare come una interpretazione, dotta, sottile. Mentre, dal punto di vista simbolico, doveva essere più facilmente colta la legge del contrappasso che, appunto, trovava una puntuale applicazione anche nel supplizio riservato al rapinatore. La valenza simbolica del laccio, da questo punto, è esplicita. Chi tiene legato a sé un altro, appunto attraverso un laccio, esercita su di lui un potere. Un potere che ne condiziona lo status. E’ arcinoto il potere che Cristo ha conferito a Pietro, il principe degli Apostoli:”E io dico a te, che tu sei Pietro e sopra questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non prevarranno contro di essa. E a te darò le chiavi del regno dè cieli: e qualunque cosa avrai legata sopra la terra, sarà legata anche nei cieli: e qualunque cosa avrai sciolta sopra la terra, sarà sciolta anche ne’ cieli ” (Matteo, XVI,19).

La corda utilizzata per l’impiccagione aveva un grande valore simbolico, specie per le Compagnie di Giustizia ed in particolare per la loro opera di “conforto”, ossia di assistenza e soccorso spirituale prestato ai condannati a morte, svolta sostanzialmente a partire dal XIV secolo in poi.  Molte di queste confraternite avevano l’usanza di custodire la corda usata per l’impiccagione che veniva bruciata – forse ritualmente – in occasione della ricorrenza del santo patrono. Santi patroni con un background culturale coerente alla funzione dei confortatori, come San Giovanni decollato a Siena; o Santa Maria della Morte a Bologna  (Prosperi, 1982).

E per restare sempre nell’ambito dell’immaginario simbolico come non sottolineare la forma della forca che doveva evocare, negli spettatori, l’idea di un orribile mostro pronto ad ingoiare nelle proprie fauci il condannato? Ancora nel Buon Governo di Lorenzetti c’è l’immagine di un impiccato, che per altro pende da una forca semplicissima, composta da due pali verticali uniti da uno ritto sul quale, appunto è effigiato, con le mani legate e le vesti svolazzanti, il suppliziato. Un angelo, l’angelo della Securitas, dalle belle forme muliebri la sorregge con la mano sinistra, mentre con la destra esibisce un cartiglio dalla scritta quanto mai eloquente. “Senza paura ognuomo franco Camini. E lavorando semini ciascuno. Mentre che tal Comuno. Manterra questa dona i Signoria. Chel alevata arei ogni balia.” Un manifesto esemplare, di facilissima comprensione.

Morte a maliardi, facitrici, streghe

Infine il più grave peccato, quello legato al mondo, oscuro, della magia. Bernardino  degli Albizzeschi nelle sue prediche sul Campo di Siena del 1417 ammonisce: “… el sicondo peccato che discende da la superbia, si è il peccato de li incanti e di indivinamenti, e per questo peccato Iddio manda spesso fragelli a le città” (B. degli Albizzeschi, 1989).  Opera “di quelle indiavolate maledette”: quelle “indiavolate maledette”, prima maliarde o facitrici, dalla fine del XIV secolo saranno sempre più spesso appellate streghe. Strega rimanda al latino striga, al greco striks, e indica il rapace notturno che affonda i propri tremendi artigli nelle carni degli sventurati per dilaniarle senza pietà e succhiarne avidamente il sangue. “E però dico”, continua indomabile Bernardino, “che là dove se ne può trovare niuna che sia incantatrice o maliarda, o incantatori o streghe, fate che tutte siene messe in esterminio per tale modo che se ne perdi il seme; ch’io vi prometto che se non se ne fa un poco di sacrificio a Dio, voi ne vedrete vendetta ancora grandissima sopra a le vostre case, e sopra a la vostra città … Sapete perché io temo più di voi che di niuno altro luogo? Perché mai non fu in luogo né in paese, che tanti e tante ne fussero, quanti ne so’ in questo vescovado.” (XXXV, 88)

La pena per chi si macchia di crimini tanto gravi, allora non può essere che la morte, come attestato dalla vicenda di Marta, moglie di Ranuccio muratore, strega e maliarda, messa al rogo nel 1446  – due anni dopo la morte di  Bernardino –  per ordine dell’inquisitore senese. La tragica vicenda di Marta è ricordata anche da Sigismondo Tizio nelle Historiae, dove racconta che la donna, riconosciuta colpevole di maleficio “veluti ex mulieribus una que se credunt cum Diana et Herodiade noctu equitare, que strige nuncupantur, cum falsa sit omnia in visione, ut comperuimus et legimus, illusiones huiusmodi patiantur, incendio consumpta est”. Diana è la regina delle streghe, che si riunivano, appunto, nella compagnia di Diana; Erodiade o Aradia sua figlia. Il lapidario “incendio consumpta est” costituisce un sigillo ammonitore di quella orribile storia (Ceppari, 1999).

L’episodio più raccapricciante ritrovato tra le carte della Inquisizione senese riguarda un frate aretino, fra Sisto da Verze, al secolo Serafino di Filippo Bazini, eremita agostiniano di ascendenza lombarda, accusato di necromanzia, avendo evocato il demonio. Si tratta per altro di una vicenda che già attiene all’età moderna – essendosi svolta nel 1541 – ma secondo canoni e modalità propri di quello che, convenzionalmente, viene chiamato Medio Evo. L’operazione di magia, magia nera, era stata possibile perché il frate aveva rapito ed ucciso una piccola mendicante che poi aveva smembrato in più parti, conservandone il cuore ed il grasso che, insieme al sangue di due malfattori giustiziati ed all’olio consacrato per la cresima, erano stati utilizzati “per costregnere il diavolo” (Ceppari, 2003).

Il processo fu condotto da un Tribunale laico, i c.d. Otto di Guardia, dopo aver richiesto ed ottenuto “per l’honor di Dio e benessere di questa nostra città” la grazia di godere della autorità necessaria “per mezo delle quale possiamo liberamente dar quel castigo a questo vitioso frate”. Il procedimento, conclusosi nel marzo del 1541, comminò la morte per Frate Sisto, stabilendo che l’esecuzione avvenisse nel Campo di Siena, il centro della città: l’uomo era moribondo, sfinito dagli interrogatori, da almeno due tentativi di suicidio e dal lungo digiuno. Nel centro della Piazza, era pronta la catasta di legna per il rogo. Ma Sisto non morì per il rogo perché fu strozzato dal boia che, dopo il primo, inutile tentativo, riuscì ad appenderlo, fino alla morte, ad una colonna. Assolto il suo compito, il boia appiccò il fuoco alla legna e le fiamme avvolsero quel corpo ormai esanime.Nel rogo furono gettati i libri di magia e la saccuccia che conteneva tutto il complesso armamentario del necromante.  Fin dal 1197 il re Pietro II d’Aragona aveva disposto che, nel suo regno, agli eretici fosse comminata la pena del rogo. Il IV concilio Lateranense (1215, can. 3) avrebbe confermato le precedenti disposizioni  stabilendo che “… gli eretici condannati siano abbandonati alle potestà secolari o ai loro balivi per essere puniti con pene adeguate …” E che “i chierici siano prima degradati della loro dignità …”Perché il rogo e non la decapitazione o l’impiccagione? In omaggio, ancora una volta, alla legge del contrappasso. Colui che, con le sue azioni ed il suo pensiero, aveva infettato l’ecumene doveva essere disperso, affinchè scomparisse ogni traccia della sue “eretica pravità” e fossero così purificati i luoghi dove aveva operato. Consumptus sit …

Preti e liturgie

E’ nota la tripartizione funzionale della società medievale, secondo l’organizzazione della società romana a suo tempo individuata da G. Dumezil  (Dumezil, 1955). Tre sono le componenti di questa società, gli oratores, i bellatores, i laboratores, ossia quelli che pregano, quelli che combattono, quelli che producono. Si tratta di ordini fra loro distinti nell’ambito dei quali il clero esercita la propria supremazia gerarchica. Inizialmente questo dominio compete ai monaci ma, con l’avvento delle città e la decadenza del feudalesimo, passa saldamente nelle mani del clero secolare e, più ancora, quando compaiono, ossia agli inizi del XIII secolo, degli Ordini Mendicanti. L’”organizzazione” dei funerali a Siena – come in qualunque altra città medievale – rispecchia fedelmente questa “egemonia” clericale.

Questa preminenza del clero si sostanzia in almeno tre diversi momenti:

A)    La liturgia, dove è sempre presente – come minimo – un sacerdote che officia la messa, “con intenzioni particolari a seconda che si trattasse di un uomo o di una donna, di un frate o di un canonico” (Corsi, 2003);

B)    Le celebrazioni post mortem, secunda, septima, nona et annualis, che segnava il definitivo distacco del morto e la fine della vedovanza (Turrini, 2003): si trattava cioè di una scansione di tempi sia “magici”, in quanto relativi al definitivo distacco dell’anima dal corpo; sia civili, in quanto la donna riacquisiva la capacità generatrice;

C)    L’ incameramento di (lucrosi) lasciti che servivano ad impinguare i già cospicui patrimoni del clero, tanto più frequenti dopo l’invenzione del Purgatorio.

Mors atra

Si è detto che la durata della vita dell’Uomo medievale è breve, falcidiata, come è da patologie di ogni genere, in larga parte dovute alla assenza di adeguate tutele igieniche e dall’altissima mortalità infantile. La situazione è ulteriormente aggravata dalla diffusione di epidemie che, proprio con la rinascita delle città, con lo sviluppo di  economie mercantili – e quindi scambistiche –  e con rapporti sempre più frequenti col Medio Oriente, espongono l’intero ecumene cristiano al rischio di contagi. Il più terribile di questi, una devastante pandemia di pestilenza colpì Siena – e molte altre città mercantili del bacino occidentale del Mediterraneo – nel 1348. Una malattia terribile, che viaggiava con gli opportunisti alimentari, i topi, sempre a contatto con l’uomo, le cui pulci, attraverso il bacillo Yersinia pestis trasmettevano l’agente patogeno. La pandemia si era scatenata  dopo che, sul finire del secolo XIII, un cambiamento climatico, noto come “piccola glaciazione”, aveva ulteriormente contribuito a spingere i roditori nelle città, alla ricerca di cibo. Era quello il tempo della morte nera, ossia della mors atra (letter. morte atroce) con la quale i cronisti danesi e svedesi del XIV secolo, colpiti dalla straordinaria virulenza del morbo, designavano la peste bubbonica.

Giovanni Villani raccontò nella sua Cronica quanto avvenne in quei tempi spaventosi. “E la detta mortalità fu predetta dinanzi per maestri di strologia, dicendo che quando fu il solstizio vernale, cioè quando il sole entrò nel principio dell’Ariete del mese di marzo passato, l’ascendente che ffu nel detto sostizio fu il segno della Vergine, e ‘l suo signore, cioè il pianeto di Mercurio, si trovò nel segno dell’Ariete nella ottava casa, ch’è casa che significa morte; e se non che il pianeto di Giove, ch’è fortunato e di vita, si ritrovò col detto Mercurio nella detta casa e segno, la mortalità sarebbe stata infinita, se fosse piaciuto a Dio. Ma noi dovemo credere … che Idio promette le dette pestilenze e ll’altre a’ popoli, cittadi e paesi per punizione de’ peccati, e non solamente per corsi di stelle, ma … quando vuole, fa accordare il corso delle stelle al suo giudicio … “(Villani, 1991)

La peste è punizione divina: il suo implacabile arrivo è “annunciato” dagli astri.

E non sonavano Campane, e non si piangeva persona, fusse di che danno si volesse, che quasi ogni persona aspettava la morte; e per sì fatto modo andava la cosa, che la gente non credeva, che nissuno ne rimanesse, e molti huomini credevano, e dicevano: questo è fine Mondo …” “Non si trovava chi seppellisse né per denari né per amicitia et quelli della casa propri li portava meglio che potea a la fossa senza prete, né offitio alcuno, né si sonava la campana. E in molti luoghi in Siena si fè grandi fosse et cupe per la moltitudine su morti … et ognuno gittava in quelle fosse e si cuprivono a suolo a suolo … e anco furo’ di quelli che furo’ sì mal cuperti di terra che li cani ne trainavano et mangiavano di molto corpo per la città, et non era alcuno che piangiesse alcuno morto”. Così Agnolo di Tura detto il Grasso, calzolaio, che nell’orrenda carneficina avrebbe perso cinque figli da lui stesso seppelliti, racconta ai posteri , nella “Cronaca senese”, come la città visse il tragico evento.

Il contagio era giunto a Siena da un’altra repubblica, marinara questa volta, Pisa: colpì la città per sette lunghissimi mesi, dall’aprile all’ottobre del 1348. Quella “grande mortalità, la maggiore e la più oscura, la più horribile” che la città abbia mai visto, avrebbe causato, a detta di Agnolo, il decesso di circa 80.000 buoni cristiani … Il numero è probabilmente esagerato, dal momento che gli storici propendono per circa 50.000 vittime a fronte di una popolazione di circa 80.000 “anime”. Morirono moltissimi artisti – tra i quali i fratelli Ambrogio e Pietro Lorenzetti – e le attività economiche, le relazioni sociali, le pratiche culturali subirono un lungo stop che provocò di fatto, per almeno una generazione, un grave stato di involuzione e di regresso causa prima del ritardo con cui fiorì compiutamente quella che sarebbe stata la straordinaria stagione dell’Umanesimo e del Rinascimento

 Corpi santi

C’è, infine, almeno un altro aspetto di grande rilevanza connesso alla dimensione della morte, ossia il “trattamento” delle reliquie dei santi. “Poiché dal fatto che alcuni espongono le  reliquie dei  santi per venderle, si è spesso presa occasione per detrarre la religione cristiana, perché ciò non  avvenga in futuro, col presente decreto stabiliamo che le reliquie antiche da ora in poi non siano messe in mostra fuori del reliquiario, né siano poste in vendita. Quelle nuove nessuno si azzardi a venerarle, prima che siano state  approvate dall’autorità del  Romano Pontefice. Per l’avvenire i prelati non permettano che chi va nelle loro chiese per venerare le reliquie  sia ingannato con discorsi fantastici o falsi documenti, come si usa fare in moltissimi luoghi per lucro”. Così stabiliva il LXII capitolo del IV Concilio Lateranense tenutosi dall’11 al 30 novembre 1215 per volontà di Innocenzo III, grande teologo e grandissimo giurista, approvatore della Regola di San Francesco e tutore di Federico II. La disposizione impartita faceva intendere bene le preoccupazioni della Chiesa – o almeno della sua parte più consapevole – non solo per il commercio delle reliquie, ma anche per l’uso che se ne faceva: sì che il richiamo a “discorsi fantastici” ovvero a “falsi documenti” fa chiaramente pensare ad un tipo di venerazione che tratta le reliquie stesse come potenti talismani, in grado di proteggere quei devoti cristiani che avevano la possibilità di vederle o, ancora meglio, di toccarle.

“La reliquia è, nella storia del patronato, materia e al tempo stesso segno della protezione elargita dal santo. La continuità del patrocinio ha il suo sigillo materiale nella presenza delle reliquie del santo che la comunità custodisce come un prezioso presidio, garanzia della presenza protettiva e della potenza taumaturgica del suo campione celeste”. Una vera e propria forma di “sacralizzazione del territorio” che, basti pensare al culto barese di San Nicola o a quello veneziano di San Marco, contribuisce alla formazione della identità di un popolo (Niola, 2007). A Siena questo tipo di culto è praticato verso Sant’Ansano, il battista della città, un romano di agiata famiglia (gli Anicii?), che sarebbe approdato sulle sponde dell’Arbia a metà del III° secolo.

Per altro a Siena la devozione cittadina si manifesta non verso uno, ma verso quattro santi diversi. Si tratta dei protettori, Ansano, Crescenzio, Savino e Vittore – tutti santi molto antichi, tutti martiri – il culto dei quali ammonta almeno all’XI secolo, come testimonia la loro collocazione nel presbiterio della cattedrale. Eppure, la “sanzione ufficiale della loro funzione civica sarà, almeno per l’iconografia, solo con la Maestà di Simone Martini del 1315 nel Palazzo pubblico”(Argenziano, 2003). Una operazione non solo devozionale, dal momento che coincide col definitivo impianto di una salda società borghese con forti esigenze identitarie, così sanzionate.

Credenze private e tracce di fede

Nonostante questo “tardivo” riconoscimento civico esistono testimonianze dell’attaccamento dei senesi verso “cadaveri eccellenti” con (presunti) poteri taumaturgici e in qualche modo collegati alla loro città. Così si spiegano  i contrasti con gli aretini per il possesso del corpo di Ansano, il (mitico) battista di Siena fino al 1107 interamente conservato ad Arezzo, e quindi, dopo lunghe trattative, “opportunamente” smembrato: il corpo a Siena e la testa ad Arezzo (Scorza Barcellona, 1991). La “popolarità” del santo era da attribuirsi, verosimilmente, alla sua capacità taumaturgica, che si estrinsecava attraverso l’acqua salutare – per la cute, l’intestino ed i polmoni – sgorgante nel luogo del suo martirio, dal nome evocativo di “Dofana” forse ricalcato sul latino duo fana, o forse riferimento al dio Faunus, spesso connesso a luoghi e sorgenti da cui emanano vapori di zolfo …

La testimonianza più rilevante di culto riservato alle reliquie di santi a Siena è comunque quella della testa e del dito di Caterina Benincasa, la santa dell’Oca. Appena tre anni dopo la sua morte, avvenuta a Roma nel 1380, il fedele Raimondo da Capua aprì il suo sepolcro in Santa Maria sopra Minerva e ne staccò i due resti oggi conservati a Siena, nella basilica di san Domenico. Fece bene perché “del suo corpo” rimasto a Roma “non resta molto”, in quanto “il sepolcro è stato saccheggiato nei secoli per ricavarne reliquie disseminate tra Roma, Firenze, Siena, Salerno” (Cattabiani, 1993). E’ evidente il motivo di questa pratica: si ritiene che, attraverso quelle reliquie, sia possibile ottenere l’intercessione della grazia da parte della Santa. Una vera e propria operazione border line tra fede e magia … 

Domenicani contro

E’ curiosa la circostanza che Caterina, santa legata al Terz’Ordine Domenicano, si sia in qualche modo “formata” nello stesso ambiente di un illustre maestro come l’inglese Riccardo di Knapwell. Magister ad Oxford, autore, nel 1285, della “Quaestio disputata de unitate formae” nella quale si sosteneva una discutibile (per i tempi) tesi antropologica: ossia “il ruolo decisivo dell’anima nella costituzione dell’identità personale.” Giacchè l’anima agisce “come forma” e poiché non è “concepibile un’attività formale senza un supporto materiale … l’anima, oltre ad avere attività intellettuali, identificava il corpo della persona …” (Santi, 2003).

Le conseguenze di queste affermazioni così dissonanti rispetto al comune sentire dell’epoca erano molto pesanti: solo con la forma data dall’anima il corpo era tale e quindi il corpo privo dell’anima non era altro che materia destinata alla putrefazione ed alla dissoluzione. “Ridiculum videtur quod propter solam materiam quae remanet post mortem debeat corpus mortuum tradi sepolturi in loco sacro”. Ossia è ridicolo che per la sola materia che rimane dopo la morte il corpo inanimato sia sepolto in un luogo sacro. E questo valeva anche per i corpi dei santi, giacchè i corpi autentici, quelli animati non sono sulla terra … Erano posizioni riprese da San Tommaso, ma non bastarono a risparmiare Riccardo dalla scomunica …

In fine, la filosofia di Cecco, ovvero inno gioioso alla vita

S’i’ fosse foco, ardere’ il mondo;
s’i’ fosse vento, lo tempestarei;
s’i’ fosse acqua, i’ l’annegherei;
s’i’ fosse Dio, mandereil en profondo;
s’i’ fosse papa, serei allor giocondo,
ché tutti ‘ cristiani embrigarei;
s’i’ fosse ‘mperator, sa’ che farei?
a tutti mozzarei lo capo a tondo.
S’i’ fosse morte, andarei da mio padre;
s’i’ fosse vita, fuggirei da lui:
similemente faria da mi’ madre
.
S’i’ fosse Cecco com’i’ sono e fui,
torrei le donne giovani e leggiadre:
le vecchie e laide lasserei altrui.
 (Cecco Angiolieri, S’i’ fosse foco)

BIBLIOGRAFIA

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