L’orlo di Sylvia Plath

di Andrea Galgano                                                                          Prato, 17 marzo 2013

POESIA CONTEMPORANEA

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L’orlo di Sylvia Plath / Poesia di Luigia Sorrentino, poesia.blog.rainews.it/

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L’11 febbraio 1963, Sylvia Plath (1932-1963) decise di togliersi la vita. Nata in un distretto di Boston da genitori immigrati tedeschi, perse il padre, un professore di biologia e entomologo per embolia a soli otto anni e già nel 1953, prima di laurearsi brillantemente con una tesi su Dostoevskij e dopo una eccezionale carriera scolastica, era stata sottoposta a un ciclo di elettroshock dopo aver tentato il suicidio.

In seguito descrisse questa crisi nel romanzo La campana di vetro (1953) sotto lo pseudonimo di Victoria Lucas, la cui protagonista, Ester Greenwood, straordinaria studentessa, non ancora ventenne, dello Smith College fa praticantato, a New York presso una rivista di moda femminile. Nel corso della narrazione si scopre che Esther ha una madre vedova e una storia d’amore agli sgoccioli con Buddy, diplomato a Yale e futuro medico.

Lo scontro tra l’afa newyorkese, nonostante la scintillante promessa di vita e la convenzione sociale, rivela il dramma di una mancata integrazione sociale e di un margine di esistenza.

Dopo la laurea, Sylvia ottenne una borsa di studio Fulbright per l’Università di Cambridge, continuando a scrivere poesia e a pubblicare presso giornali e riviste. A Cambridge conobbe il poeta Ted Hughes, che sposò nel 1956, andando a vivere successivamente negli Stati Uniti (insegnò allo Smith College e poi conobbe Robert Lowell), ma dal quale dovette separarsi, dopo che venne a sapere che lui era innamorato di un’amica comune, Assia Wevill, e dopo la nascita del secondo figlio. Sylvia ritornò a Londra con i suoi due figli e affittò lì un appartamento.

L’11 febbraio del ’63 Sylvia Plath si tolse la vita. Mise la testa nel forno a gas di casa, dopo aver scritto la sua ultima poesia Orlo, morendo all’età di trent’anni.

La tragedia e il dramma della sua esistenza, sulla quale è appena uscita un’interessante monografia, presso Castelvecchi, di Linda Wagner-Martin dal titolo Sylvia Plath, ha portato spesso l’attenzione della critica alla lettura della sua opera, in chiave sostanzialmente autobiografica, divenendo persino una figura di culto.

Il vortice fisso del suo grido, il suo bruciante percorso interiore, la frattura con la realtà, affermata, negata e colta appieno, con la sua sanguinante frattura e lacerata suggestione, avverte il dramma e lo spaesamento di un’autonomia, senza cercare riferimenti, seppur presenti e accesi, alla sua vita privata.

È necessario leggere la sua opera, non solo come zampillio fluttuante di estasi, entusiasmo e lacerazione di vita, ma prestando attenzione alla parola scritta, alla sua imponente forza espressiva che si intesse sì di vissuto e esperienza tragica, ma che porta con sé la corrosione di una sproporzione, di una domanda, di un parto espressivo.

La descrisse bene Giovanni Giudici: “L’altro equivoco è quello indotto dalla coincidenza fra taluni aspetti della biografia plathiana (il caparbio impegno contro le difficoltà di un’affermazione prima universitaria e poi letteraria, la lucida coscienza di una distorta interpretazione della femminilità nel quadro del costume vigente e le quotidiane frustrazioni della donna che deve conciliare lo scriver versi con le sue incombenze domestiche e di madre) e i corrispondenti temi dei vari movimenti di liberazione femminile; equivoco che forse avrà fatto andare a ruba il disco delle poesie dette dalla voce dell’autrice, ma che nello stesso tempo ha rischiato e forse rischia tutt’ora di umiliarne la statura al livello della più scontata confessional poetry…”

Come scrive in un lucidissimo articolo apparso il 15 marzo 2013 su «Avvenire», Maurizio Cucchi: “E i testi di Sylvia Plath ci coinvolgono anche se, paradossalmente, ci estraniamo dalla vicenda umana da cui sono sgorgati. E per almeno due ragioni. La prima è nella grande disciplina stilistica, nel rigore della scrittura che in lei si evidenzia fin dalle prove giovanili, e che ne sorregge sempre la tenuta. La seconda è nella potente visionarietà, nella concretezza densissima della sua parola e delle immagini che sa produrre, come un vero e proprio inarrestabile gettito di figure e situazioni”.

Seamus Heaney scrive che Sylvia Plath è “un poeta che crebbe fino al punto di permettersi l’identificazione con l’oracolo e si concesse come veicolo di possessione; un poeta che cercò e trovò uno stile di discorso immediato, animato dai toni di una voce che parla con concitazione e spontaneità; un poeta governato dalla immaginazione auditiva al punto che il suo congedo dalla vita consistette nell’annullare il sé in parole ed echi”: «Anni dopo/ le incontro per strada – / parole aride e senza cavaliere, / battito di zoccoli incessante. / Mentre/ dal fondo dello stagno stelle fisse/ governano una vita».

La libertà e la perentorietà di questi versi permettono, come ha giustamente notato Judith Kroll, una totale identificazione dell’io autobiografico. Ma la rarefazione non concede l’ordine e la classificazione di maniera, restituendo allo sguardo una dilatazione e un passo, che partendo dallo spazio interiore, dilata la sua luce, il suo solco e lo sfogo crudo e febbrile, come lei stessa scrive in questa lettera: «Ogni mattina, quando il sonnifero smette di fare effetto, sono in piedi verso le 5, nello studio col caffè, e scrivo come una pazza: sono arrivata a una poesia al giorno prima di colazione. Tutte poesie da libro. Roba incredibile, come se la vita della casalinga mi avesse soffocata».

La sferzata febbrile nasconde margini di cicatrice. Una poesia data, rapida, fulminea. Essa colora lo sfondo di un’immagine metamorfica ed estrema, con la potenza associativa di elementi vicini, stridenti, persino estremi.

L’impulso poetico di Sylvia Plath è una rabbiosa consapevolezza di tenebra, una confidenza di euforia che soffre e che tenta, senza esitazione, di mettersi in ascolto del mondo, percependolo fisicamente e coniugando la versatile potenza espressiva con la realizzazione, estrema, beffarda e sognante di sé. Il sé che può divenire clausura, come cifra personale e tremore nascosto, espresso in  un trasloco aggressivo, come annota Joyce Carol Oates: “A Sylvia Plath non piacevano gli altri; come molti perseguitati, si identificava in modo perverso con i suoi persecutori, anziché con loro che, al pari di lei, erano vittime. Ma non le piacevano gli altri perché fondamentalmente non credeva che esistessero; era razionalmente consapevole della loro esistenza, è ovvio, in quanto avevano il potere di farle del male, ma non credeva che esistessero nella stessa forma in cui esisteva lei, ovvero come individui in carne e ossa, capaci di soffrire”.

L’intonazione, come sibilo di stanze, «litania di sogni, di indicazioni e imperativi», presente in The Colossus, accenna il fervido immaginale di un antico suono lucido di ordine, come annota nei suoi Diari: « La scrittura è un rito religioso: è un ordine, una riforma, una rieducazione al riamore per gli altri e per il mondo come sono e come potrebbero essere. Una creazione che non svanisce come una giornata alla macchina da scrivere o in cattedra. La scrittura resta: va sola per il mondo. Tutti la leggono, vi reagiscono come si reagisce a una persona, a una filosofia, a una religione, a un fiore: può piacergli o meno. Può aiutarli o meno. La scrittura prova delle emozioni per dare intensità alla vita: offri di più, indaghi, chiedi, guardi, impari e modelli: ottieni di più: mostri, risposte, colore, forma e sapere. All’inizio è un atto gratuito. Se ti fa guadagnare tanto meglio. […] La cosa peggiore, peggiore di tutte, sarebbe vivere senza scrittura. E allora, come vivere con i mali minori e sminuirli ancora?»

Esiste sempre un orlo di chiusure al suo passaggio, a quel diluvio ondivago di parole che toccano, febbrilmente, il piano poetico, abitato da un grido e da un bisogno forte di amore, di salvezza che raccolga il pulsare ondoso e ventoso della risacca.

I suoi passaggi non temono cambiamenti di rotta dalla viscosità fangosa e torbida, il suo cielo si apre a un disperato tentativo di muoversi dal limbo escluso e staccato, al tempo dell’attesa, all’esplorazione di una identità vitale che distolga l’io dalla confusione scivolosa della distruzione  e della morte.

Si leggano i primi versi di Olmo che delineano un destino di sogno e di visione: «Conosco il fondo, dice. Lo conosco con la mia grossa radice: / è quello di cui tu hai paura./ Io non ne ho paura: ci sono stata».

Il fondo di Sylvia Plath è un intaglio di ombre, come l’eco nero finale e profondo di un passaggio da combattere, ed è respiro di una preveggenza libera: «Ho un buon io, che ama i cieli, le colline, le idee, i piatti saporiti, i colori brillanti. Il mio demone vorrebbe ucciderlo», perché «E io / sono la freccia, // la rugiada che vola/ suicida, fatta una con lo slancio/ dentro l’occhio/ scarlatto, il crogiolo del mattino».

L’accesso ai suoi luoghi rappresentano il battito e il respiro di un movimento libero e intenso, di una voce di ombra che interviene, raccoglie i vetri, racchiude la più profonda sofferenza, per tramutarla nell’ascolto di un esilio estraneo: «è il mare che senti in me, / le sue insoddisfazioni?/ o la voce del nulla, che era la tua pazzia?// L’amore è un’ombra./ Come lo insegui con menzogne e pianti. / Ascolta: ecco i suoi zoccoli: se n’è andato, come un cavallo».

L’intreccio fantastico si accompagna alla coscienza che si esprime, alla voce che si trasforma, all’intensificarsi di una vertigine di tramonti: «Ho patito l’atrocità dei tramonti./ Bruciati fino alla radice/ i miei filamenti rossi ardono ritti, una mano di fili di ferro».

Robert Lowell, nella prefazione ad Ariel, scrive: “è straziante, riandando al passato, capire che il segreto dell’ultima irresistibile fiammata di Sylvia Plath è nascosto nella discrezione, nel garbo estremo della sua penosa timidezza. Non è mai stata una mia allieva, ma per due mesi circa, sette anni fa, seguì il mio corso di poesia alla Boston University. La rivedo, opaca contro il cielo luminoso di una finestra priva di qualsiasi panorama (…) In queste poesie, scritte negli ultimi mesi della sua vita e spesso tumultuosamente composte in ragione di due o tre al giorno, Sylvia Plath diviene se stessa, diviene un’entità immaginaria, appena creata, non un individuo, nè una donna, nè certo un’altra ‘poetessa’, ma una di quelle grandi eroine classiche, più che reali, ipnotiche. (…) Tutto in queste poesie è personale, una confessione profondamente sentita, ma in lei il modo di sentire è una controllata allucinazione, l’autobiografia di una febbre. Brucia dall’ansia di muoversi, per una passeggiata, una cavalcata, un viaggio, il volo dell’ape regina, costretta ad avanzare dal battito ansante del suo cuore. Il titolo Ariel evoca il personaggio shakespeariano, lo spiritello adorabile ma curiosamente agghiacciante nella sua ambiguità virile, ma per la verità Ariel è qui il cavallo dell’autrice. Pericolosa, più potente dell’uomo, efficiente come una macchina grazie ad un duro allenamento, lei stessa ricorda un cavallo da corsa, che galoppa senza sosta tendendo spasmodicamente il collo, superando uno dopo l’altro ostacoli di morte. (….) Ma quanto vi è in lei di più eroico non è la sua forza, piuttosto la disperata semplicità del suo controllo, la sua mano d’acciaio dal tocco modesto, femminile”.

L’enigma e il naufragio colpiscono come un ricordo, “suono e senso si alzano come una marea dalla lingua per trascinare l’espressione individuale su una corrente più forte e profonda di quanto l’individuo potesse prevedere” (Seamus Heaney), il limite di un’assolutezza che si spinge fino all’estremo per tentare l’abbandono del ritrovo, per percorrere il cuore di Dio, visto solo idealmente, per ritrovare l’impolverata figura paterna e compiere il corpo, renderlo reliquia, traboccare in un fondale di rivelazioni: «C’è qualcosa che mi sta aspettando. Forse un giorno avrò una rivelazione improvvisa e potrò vedere l’altra faccia di questo enorme, grottesco scherzo. E allora riderò. E saprò cos’è la vita». Nel tentativo beffardo e consolatorio, il tocco del dono e della mediazione con la realtà risulta mancante. Intravvede solo squarci di divino nella quotidianità come un attracco forte e sicuro, che però la uccide e la soffoca.

La radice di questa assenza si rintraccia nell’infanzia, Sylvia sente il richiamo fragile della vita, ma non ha l’equilibrio per poterla affrontare adeguatamente.

L’intensità del rapporto con la figura paterna, morta quando lei aveva otto anni, ha significato il bisogno inesausto di avere un ‘porto’ di riferimento grande, forte e capace di salvarla.

I sentimenti che oscillano da una frustrazione, alla sottomissione filiale fino a una nostalgica contemplazione, lasciano lo spazio al disincanto rassegnato: «Di notte mi accoccolo nella cornucopia/ del tuo orecchio sinistro, al riparo dal vento,//E conto le stelle rosse e
quelle color prugna./Il sole sorge da sotto la colonna della tua lingua./Le mie ore sono sposate all’ombra./Non tendo più l’orecchio per sentire il raschio di una chiglia/ sulle pietre nude dell’approdo.». Se suo marito Ted Hughes ha sostituito la figura paterna come presenza maschile, il terrore dei suoi tradimenti rappresenta la eco di un fratturato rapporto familiare.

Anche Dio traspare da un’ossessione (non bastando l’ateismo dichiarato), e la propulsione di una domanda si distende verso Colui che ricerca e trova, poi perde, come descrive in Mistica:«L’aria è un mulino di uncini – / domande senza risposta, / luccicanti e ubriache come mosche/ il cui bacio punge insopportabilmente/ nei fetidi ventri d’aria nera sotto i pini d’estate. // Ricordo/ l’odore morto del sole sugli chalet di legno/ la rigidità delle vele, i lunghi sudari di sale./ quando si è visto Dio, qual è il rimedio? Quando si è stati afferrati e sollevati// senza che una sola parte sia tralasciata, /non un dito, non un capello, e usati, / usati fino in fondo, nelle conflagrazioni del sole, nelle macchie/che si allungano da antiche cattedrali/ qual è il rimedio?».

Come scrive in un bellissimo raffronto tra la Plath e Anne Sexton, Loredana Buccoliero: “La domanda è se dopo l’estasi si possa solo ricorrere a deboli rituali, incapaci di ricrearla, o alla memoria incapace di rievocarla: in ogni caso l’immediatezza dell’esperienza e la sua verità svaniscono e l’unione statica con Dio scema nella tenerezza.  Negli ultimi mesi della sua vita Sylvia è completamente sola, abbandonata, costretta alla vita domestica, «gli dei», bestemmia, «conoscono soltanto destinazioni». (…) Ted Hughes racconta che diverse volte nelle ultime due o tre settimane di vita dice cose come: «Ho visto Dio che continua a raccogliermi da terra» e «Sono piena di Dio». Ma in Years il Dio della Plath è vuoto, amnesia, indifferenza e lei non ha più parole da rivolgergli”.

La spasmodica ricerca di un amore protettivo e senza limiti, di un’accettazione e di un abbraccio sempiterni, quando si interrompono e terminano il dialogo, lasciano serpeggiare la consueta e intima necessità di morte.

Quando incontra l’amore, il Colosso della sua vita, nelle fattezze di Ted Hughes, tutto sembra dare risposta al bisogno ineffabile e inesausto di compimento. Si sbriciolerà tutto presto, dimostrando la debolezza di un tradimento.

Sylvia canta lo strazio di un abbandono che somma ferite e apre cicatrici mai risposte, toccando la verità dell’esistere, il limite e il conflitto: «Il significato cola dalle molecole/ I camini della città respirano, la finestra suda,/ i bambini saltano nei loro lettini./ Il sole fiorisce, è un geranio.// Il cuore non si è arrestato». Il significato deve colare dalle molecole, solo così anche il sole può fiorire.

Dal suo trauma e dalla sua notte fiorisce ed emerge il vincolo furente della sua poesia, «una specie di miracolo ambulante». Il desiderio di rinascita, espresso nella ricolma Lady Lazarus, afferma o meglio sembra affermare, nel suo messaggio estremo un groviglio di resurrezione e una membrana di aiuto. Quando si tolse la vita sigillò porte e si lasciò morire nel forno a gas, dopo aver preparato pane e burro e due tazze di latte da lasciare sul comodino nella camera dei bambini, affermando l’infinitesimo baluginio di una continuazione e di un respiro verso un approdo che abbia il volto di pace e di guida di mani.